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Brilla famelica l’Attesa Novità che la Scienza ci promette

27 Nov

di Andrea Musacci

(Joaquim Mir, “L’abisso”, 1901)

Il tutto fin da principio è un incubo così lucido. Uno spot pubblicitario con protagonisti tre sperduti giovinastri, così, già nelle viscere della nostra amata città. Si ritrovano – pensate un po’ – per raggiungere una cittadina nemmeno troppo vicina.

Questo mostro sformato, privo di pilota e d’anima, ha larghe e stravaccate postazioni che affondano la terra, fendenti giusto sopra il magma. Ha grandi tavoli accoglienti, longilinei corridoi a dividerli, e connessioni, prese di luce, artifici di rete, virtualità inimmaginate.

È una notte così greve la fuori, lassù insomma, ma questa può essere, per loro tre, per chiunque lo desideri, spazzata via, resa viva dove luce non c’è, dove una cappa di bagliore d’artificio la spezza.

Ah, è così facile scivolare, anche qui, nella tua città, dentro il dolce metrò. Scendi qualche lieve e spazioso gradino, e, come in un sogno, nulla più dell’informe reale puoi vedere: castelli, ciminiere, autostrade, ingorghi, patimenti, nebbiose calure.

In pochi minuti respiri tra le viscere di Milano, o, perché no, di Parigi o New York.

L’inaugurazione, però, di questo nostro bel mondo che ci unisce, restituendocelo, al globo tutto, avviene di giorno, ebbene sì, nella noiosa luminosità. Ma ecco, quale delle sue cento gloriose fermate si è deciso di battezzare? Quella davanti alla storica struttura che in un magnetico e frugale abbraccio, nel suo consumabile, nel nostro consumabile, desiderio, dà forma alle nostre spendibili personalità: il Centro Commerciale Unificato Ferrarese (CCUF).

Lì s’attende, ognuno attende.

Un Assessore infervorato, impettito e stralunato, suda muovendo i piedi mentre li cela, le suole sul volgare suolo, superficie gretta di quell’utero di terra, del buio che fu, ora illuministico vanto dei nostri tecnici dagli sguardi che abbagliano.

“Ma quante transenne, nastri adesivi e divieti!” si lamentano i furiosi, s’indignano nel loro nulla i faziosi. Sono quelli, lo so, che abitano il melmoso rancido acciottolato del centro, che abitano case, chiese e botteghe, insomma le vere fogne, diciamolo! Ma non vedono quel fascio di luce che sprigiona dal cunicolo nostro amato! Oh sì, noi lo vediamo, Assessore, noi sì, loro no, sono ciechi.

Ah, l’Assessore stralunato! La sua stessa valigia quadrata attende al margine della folla l’imbarco ufficiale. E lui in testa ha già il discorso, ricorderà nel vanto suo solito e appiccicoso, “d’aver Innovato, che quelle colonne han sverginato, progressivamente e con l’avvallo della Scienza Nostra Grande, il vetusto suol non più infame che ora accoglie i nostri avi, perché la terra è Innovazione, si è scoperto, la terra profonda è là nel Futuro che ci attende radioso e magnifico. Perché noi teniamo alla nostra storia!, così tanto alle radici che le strappiamo dal loro soffocante lacciuolo. Così ci chiedete voi, così noi vi immergiamo…ehm…vi accontentiamo”.

Persone con enormi buste escono dal CCUF per lenire il triviale insopportabile tarlo del perire affamati, emozionati come bimbi accorrono, impiastrati nel loro appiccicoso innato infastidirsi, diretti verso il Sogno (ah, senza terrore!), s’avvicinano, si tendono, sembra loro di sfiorarlo quando non è, e poi è un attimo, lo ghermiscono o quasi, è un fremito il passo…è nulla.

Tace l’uterino crepaccio, tace l’inutile voragine. Fuori l’infuocata nebbia inghiotte i delusi, li rapisce ingrata.

Così poco s’intravede di quell’infernale vuoto che han sognato. Dove entrare, dove liberarsi, dove scendere, Assessore?

Lo intervisto l’Assessore, nuovamente impettito e sudato, che nega, scuote e zampilla come mai lo vidi scuotersi e zampillare, distratto e impaurito, distaccato e minacciato.

Nega che la valigia quadrata fosse stata in attesa. E allora? È svanito, nulla. Eppure.

Eppure un povero anziano col sorriso furtivo rideva già pensando al fragore dei suoi cari, degli applausi che sarebbero seguiti al suo racconto del metrò, che magico doveva sembrare seppur reale. Si tuffava lui, giovinetto, via il pane, la terra, la polvere e gli sputi, il vino che ama, la carne che consola. Lui si getta lì, nel Grande, nel Nuovo, nel Bello Sempre Atteso. E nulla. Poi nulla.

Risucchiato. Sì, ma dove? Nessuno sa, chiunque tace.

Una bici s’accosta come in una presa insolente, in un’indicibile vacuità, nell’acciottolata via, nel vil rilievo, verticale sì, ma in direzione sbagliata.

Nella vertigine bigotta e antiquata, polverosa di carne, sudore, che meschinità quei corpi mai filtrati, quel sole che bagna come un lago quando c’abbracciamo, noi nudi e fetidi nelle nostre vite cattive.

Persino sui palazzi quella polvere! Nei nostri anfratti sporchi! E quante colpe abbiamo negli occhi, quante preghiere da far affiorare, noi stupidi riluttanti al Libero Potere!

Nel metrò di notte non c’è polvere, né anfratto da scovare, rifugio da lenire, pertugio da godere. Tutto, si dice, scivola brillante e famelico. Ecco perché i nostri tre ragazzi non vogliono riaffiorare, sono ancora laggiù, disperati e mai vergini, alla ricerca di un’anima inodore da poter presto scordare.

(Scritto nel giugno 2015)