Archivio | aprile, 2020

“Essere prossimi a chi soffre: questa la sfida”: testimonianza dal “COVID 1” di Cona

27 Apr

Giacomo Forini, giovane medico nel “COVID 1” di Cona: “mi colpisce lo sguardo smarrito e spaventato dei pazienti, ma anche l’umanità di tanti miei colleghi verso malati e famigliari”

giacomo forini(Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 1° maggio: leggi l’intero speciale con le testimonianze di medici e infermieri del “COVID 3″ di Cona, di Cecilia Turrini, Sara Frignani, protagonisti dell’emergenza COVID-19 su http://www.lavocediferrara.it )

A cura di Andrea Musacci

“Il vero dramma di questo periodo? Il non poter permettere al paziente e ai suoi parenti di portare l’un l’altro il peso del dolore e della malattia”. Dietro quella “strana armatura” – con la quale deve lavorare, come la chiama lui – si nasconde una riserva inesauribile di umanità. Giacomo Forini, 35 anni, è un medico di servizio nell’Unità Operativa di Pneumologia dell’Ospedale di Cona, dove ora il reparto infetti si chiama “Pneumologia di coorte – COVID 1”. Specializzatosi nel 2018 in malattie dell’apparato respiratorio, ha frequentato Cona anche da specializzando, e dallo scorso agosto è stato assunto a tempo indeterminato. Ma il suo impegno travalica i confini del servizio ospedaliero: è, infatti, stato vicepresidente diocesano del Settore giovani di Azione Cattolica dal 2008 al 2014, mentre dal 2014 al 2020 è stato consigliere diocesano e presidente parrocchiale dell’AC di Porotto, frazione dove vive con la moglie e i due loro figli di 6 e 3 anni (e a giugno arriverà una sorellina…).

Forini, cosa del suo lavoro ordinario è cambiato, se non stravolto, in questo periodo?

Fino alla fine di febbraio l’attività a Cona era assolutamente regolare; guardavamo con molta attenzione e preoccupazione quello che stava accadendo a Codogno e a Vo’ Euganeo, ma eravamo ancora ignari delle dimensioni che avrebbe assunto l’epidemia. C’era in cuor nostro la speranza o l’illusione che il contagio potesse rimanere confinato, senza mai arrivare a Ferrara. Ai primi di marzo però la situazione è via via peggiorata e anche la sanità ferrarese si è preparata rapidamente all’arrivo del virus: sono stati predisposti reparti dedicati esclusivamente ai pazienti sospetti per COVID19 ed altri ai pazienti con malattia accertata. Il mio reparto, la Pneumologia, è stato coinvolto da subito nell’emergenza: dal 10 marzo scorso abbiamo preso in gestione 24 posti letto per pazienti COVID+ con insufficienza respiratoria grave e necessità di effettuare ossigenoterapia ad alti flussi o ventilazione non invasiva, ma abbiamo mantenuto anche la gestione di 16 posti letto per pazienti con patologie respiratorie, ma non affetti dall’infezione virale. Tutti i nostri sforzi si sono quindi concentrati nella gestione di queste degenze, sospendendo completamente l’attività ambulatoriale non urgente e annullando tutte le ferie e i congressi programmati. Ci siamo trovati improvvisamente faccia a faccia con una malattia nuova e sconosciuta, dotata di elevatissima contagiosità e dal comportamento subdolo: pazienti, anche giovani, capaci di diventare instabili nell’arco di poche ore, tanto da necessitare il trasferimento in terapia intensiva. Abbiamo dovuto abituarci a lavorare per tutto il turno coperti da una ‘strana armatura’ fatta di tuta, cuffia, calzari, doppi guanti, visiera e mascherina. Abbiamo imparato le delicate operazioni di vestizione e svestizione e abbiamo preso confidenza con l’uso di nuovi farmaci, utilizzati off label o in via sperimentale per la cura dell’infezione. Ci siamo confrontati, soprattutto i primi giorni, con la paura del contagio e con l’ansia di portare l’infezione nelle nostre famiglie.

Come si sono modificati i rapporti con i colleghi? E come quelli con i pazienti?

Questa esperienza sta riuscendo davvero a tirare fuori il meglio da ciascuno di noi: vedo grande impegno e dedizione da parte di tutti, siano essi medici, infermieri od operatori sanitari. Stiamo riuscendo a lavorare con affiatamento, in squadra, superando le tensioni che inevitabilmente ogni tanto possono crearsi. Ciascuno sta mettendo in campo la propria professionalità, ma anche la propria umanità: ho visto colleghi ed infermieri incoraggiare e consolare pazienti in lacrime, fermarsi ben oltre il proprio turno per dare una mano, comprare a proprie spese giornali o tessere per la tv da donare ai pazienti, portare ottime torte per risollevare il morale della truppa, scrivere per fare gi auguri di Pasqua ad un paziente dimesso con cui si è restati in contatto. Il COVID19 è una malattia terribile perché alla gravità dei quadri clinici che a volte provoca, associa anche un corollario di conseguenze logistiche che portano il paziente ad essere improvvisamente isolato dai propri parenti ed amici, ricoverato in una stanza con le porte chiuse ed in cui il personale entra completamente protetto, tanto che i diversi operatori sono riconoscibili solo dagli occhi e dalla voce. I primi giorni mi aveva infatti colpito moltissimo lo sguardo smarrito e spaventato dei pazienti COVID appena arrivati in reparto o di quelli a cui, per il peggiorare del quadro clinico, eravamo costretti a posizionarli dentro l’ormai tristemente famoso casco per supportare la respirazione.

A livello umano, dunque, che cosa vive come maggiormente drammatico? E come ciò la sta facendo riflettere sulla scelta della propria “missione” di medico?

La malattia, la sofferenza e la morte sono sempre un momento difficile e spesso tragico nella vita delle persone. Come detto, il vero dramma di questa nuova situazione sta nell’associare sofferenza e solitudine, nel non permettere al paziente e ai suoi parenti di poter portare l’un l’altro il peso del dolore e della malattia, nell’impedire la possibilità di accompagnare ed essere accompagnati dai propri cari nelle ultime ore di vita. Ciò che in questi giorni mi ha messo più alla prova è stato proprio questo trovarsi a dover “mediare” tra i pazienti e i loro parenti: gli aggiornamenti da dare al telefono ai parenti sulle condizioni di un malato, il dover comunicare il decesso di una persona cara, l’andare a dare una carezza o un saluto o un pensiero affettuoso a un paziente su esplicita richiesta dei suoi cari. E’ proprio in queste situazioni, però, che credo venga messa a nudo la grande sfida che il coronavirus ci ha messo davanti: saper essere accanto, prossimi, a chi è nella sofferenza e nella difficoltà. E’ ciò che viene chiesto in modo forte ed esplicito in questi giorni a chi, come me, ha scelto il lavoro di medico od infermiere, ma è una richiesta che interpella in modo forte ciascuno, indipendentemente dal proprio lavoro: dobbiamo riuscire a tenerci stretti, anche se il virus spinge per allontanarci e dobbiamo essere attenti a non perdere i più fragili e deboli. La solidarietà e la fratellanza dimostrate dalle persone in questi giorni in tanti piccoli gesti mi fa però guardare al domani con grande speranza.

 

“Io, tra i primi medici volontari nel reparto ‘COVID 3’ di Cona: Facciamo il possibile, ma lì la solitudine è terribile”

20 Apr

Lorenzo Cappellari, 61 anni, medico Chirurgo, è stato tra i primi a offrirsi volontario per affiancare i colleghi in uno dei reparti dedicati ai malati di coronavirus. Ecco la testimonianza di quelle tre settimane indimenticabili: la paura di contagiare pazienti e famigliari, l’impossibilità di rapporti umani pieni, l’affidamento al Signore

DSC_0261

A cura di Andrea Musacci

Quando la Direzione Generale dell’Ospedale di Cona si è rivolta anche al suo reparto di Chirurgia d’Urgenza, per richiedere medici e infermieri che svolgessero tre settimane nei nuovi reparti COVID, il dott. Lorenzo Cappellari non ha impiegato molto a decidere di offrirsi volontario. O meglio, ha voluto prima confrontarsi con Silvia, sua moglie, e con Marcello, loro figlio. E da entrambi, pur nel timore, il sostegno non è mai mancato. Cappellari ha 61 anni, vive a Ferrara, quartiere Quacchio, è impegnato nella sua parrocchia dove, dal 2013, presta servizio anche come accolito. “Quando è scoppiata l’emergenza – spiega a “la Voce” -, all’Ospedale di Cona c’è stata una rivoluzione nell’assetto dei reparti: è stata bloccata la Chirurgia in elezione, e mantenuti invece gli interventi improcrastinabili, ad esempio in oncologia. Come Chirurgia d’Urgenza abbiamo continuato la nostra attività ma c’è stato un calo degli accessi, in particolare per quanto riguarda la traumatologia, evidentemente legato al blocco della circolazione e delle attività lavorative. La Direzione Generale – prosegue Cappellari – ha dunque chiesto anche a noi la disponibilità, per periodi limitati, ad aiutare i colleghi internisti nei nuovi reparti COVID, per non trovarsi impreparati di fronte all’eventuale arrivo di molti pazienti. Richiesta che era nell’aria da giorni, ma è arrivata con estrema urgenza: io mi sono offerto, sono stato tra i primi a rendermi disponibile. Ho chiesto aiuto ogni giorno al Signore, che mi desse la forza e che non contagiassi nessuno, né in ospedale né a casa”.

Dal 21 marzo al 13 aprile Cappellari ha prestato servizio nell’ultimo reparto COVID aperto, il “COVID 3”. Poi si è fermato per due giorni, e da giovedì 16 ha ripreso il suo servizio a Chirurgia d’Urgenza, lasciando il posto ad altri colleghi che vi staranno per altre tre settimane. “La gestione del paziente COVID è complicata”, ci racconta: “mantenere le distanze, toccare il meno possibile malati e oggetti. Senza considerare che vi sono anche pazienti dializzati. E sapendo che se, in un reparto COVID, può entrare poco, praticamente nulla vi può uscire. Anche la nostra vestizione è alquanto complessa, dovendo seguire un iter ben preciso. Ognuno di noi lavora su turni di 6 ore, dalle 8 alle 14 o dalle 14 alle 20. Alla mattina noi medici ci ritroviamo per fare il punto della situazione dei pazienti ricoverati, poi ci rechiamo nelle stanze per visitarli: il giro dei malati viene svolto da due medici, un internista e un altro dei colleghi in affiancamento. L’organizzazione prevede che al di fuori del reparto vi siano altri medici in un ambiente ”pulito” (il cosiddetto open space) in collegamento con i medici dentro al reparto COVID, per la gestione della parte burocratica (cartelle cliniche, richiesta di esami, stampa dei referti, consulenze, materiali, contatti con i parenti, ecc.). Le cartelle cliniche – prosegue – rimangono nell’ambiente ‘pulito’ e vanno aggiornate con i dati che i medici dentro al COVID trasmettono telefonicamente, tramite la rete o via fax ai colleghi che sono fuori. Anche questa parte è resa difficoltosa dalla necessità di evitare ogni possibile contaminazione al di fuori del reparto COVID”.

La stessa svestizione è forse anche più complicata rispetto alla vestizione: ci si cambia completamente, seguendo vari passaggi prestabili, si scende per farsi la doccia e poi si torna su per la riunione conclusiva della mattinata, a favore di coloro che iniziano il turno pomeridiano. “Per quest’ultimo fondamentale passaggio, in realtà, il conteggio delle ore di lavoro, alla fine, non è mai otto ma circa dieci”. Ma l’aspetto maggiormente doloroso di questa drammatica situazione, è quella riguardante l’estrema difficoltà di ogni tipo di rapporto umano. Innanzitutto, tra i pazienti ricoverati e i famigliari: quest’ultimi non sono ammessi nei reparti COVID, ma almeno anche a Cona esiste la possibilità di utilizzare tablet per mettere in contatto i malati con i propri cari. Proprio nelle ultimissime settimane sono state donate alcune decine di questi dispositivi per i reparti COVID. “La solitudine qui è terribile, soprattutto per i ricoverati anziani, quindi che più facilmente si disorientano, soffrono il non aver qualcuno vicino”. È l’isolamento di chi è malato, di chi ha paura, di chi vive gli ultimi giorni, le ultime settimane senza più rapporti, non avendo la vicinanza dei propri cari. È la solitudine di chi muore solo. “Tra noi medici e tra noi e i pazienti – ci spiega Cappellari -, i contatti sono limitatissimi e inevitabilmente poco ‘umani’: si parla il meno possibile, a distanza, non c’è tempo, come prima, coi colleghi per un caffè o per fare due chiacchiere nelle pause. E il paziente di noi medici o infermieri vede a malapena gli occhi, perché il resto è coperto. E magari sono pure intimoriti nel vederci così coperti. Tutto ciò purtroppo li disorienta, soprattutto i più anziani”.

Inoltre, essendoci nei reparti COVID medici e infermieri da diversi reparti, gli stessi rapporti professionali sono stravolti: “io stesso – prosegue – diversi infermieri coi quali ho lavorato in quest’ultime settimane, prima non li conoscevo nemmeno. Anche nei loro occhi, che sono spesso l’unica parte del loro viso ad aver visto, tante volte ho letto tristezza, preoccupazione, anche perché infermieri e OSS sono davvero degli eroi, coloro che stanno a maggior contatto coi pazienti, che si occupano anche delle cure igieniche, stando quindi diverse ore al giorno a contatto con una carica virale davvero imponente”. Per non parlare del rischio di venire in contatto, fuori dal reparto COVID, con un paziente contagiato ma ignaro di esserlo. Una piccola luce di umanità Cappellari è riuscita a donarla, grazie anche al cappellano don Giovanni Pertile: “mi aveva consegnato alcune cartoline con gli auguri del nostro Arcivescovo, e sono riuscito a darne, a Pasqua e il Lunedì dell’Angelo, ad alcuni pazienti e colleghi che lo desideravano: li hanno accolti con grande gioia”.

(Foto: Cappellari insieme a Maria Grazia Cristofori, caposala del reparto COVID 3)

(Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 24 aprile 2020: http://www.lavocediferrara.it)