Archivio | novembre, 2020

Siamo capaci di aprirci all’imprevisto?

30 Nov

Spaventati da un virus che rischia ogni giorno di invadere anche le nostre abitazioni e le nostre quotidianità, ci rifugiamo nella ragnatela di Internet o in quella del lavoro. La risposta, invece, soprattutto in questo tempo di Avvento, la possiamo trovare nella riscoperta di una capacità autentica di contemplazione

«Tutta l’infelicità degli uomini proviene da una cosa sola: dal non sapersene restare tranquilli in una camera»
(Blaise Pascal, “Pensieri”, 139)

di Andrea Musacci
Da molto tempo il nostro immaginario è colonizzato dall’idea che l’imprevisto, l’avventuroso e l’impervio appartengano all’uscita fisica verso luoghi quanto più lontani, verso esotici miraggi, esperienze mirabolanti, in un perpetuo movimento che fa equivalere la stasi alla morte.
Le limitazioni legate all’attuale emergenza sanitaria ci possono spronare a mettere in discussione questo assioma.


La casa invasa dal virus e dalla paura
Innanzitutto, sottolineiamo una differenza degli ultimi mesi rispetto al lockdown di marzo-maggio: l’intimo, il domestico, il privato hanno perso in sicurezza, i loro confini si sono fatti ancor più labili rispetto all’esterno. La chiusura è meno netta nelle zone non dichiarate rosse, e per questo le case sono, inevitabilmente, più permeabili al virus. Negli ultimi mesi, dunque, la geografia del dentro e del fuori si è fatta sempre più confusa. La casa non è più sicura. Ma lo è mai stata davvero del tutto?
In ultima analisi è un’illusione quella del confine invalicabile tra il sicuro e il non-sicuro, discrimine immaginario quanto quello fra il prevedibile e l’imprevedibile, fra controllo e caos. Dove trovare un’abitazione che ci faccia del tutto sentire “a casa”? Dove trovare un abito che ci calzi perfettamente, senza fastidi, incertezze, spaesamenti o timori di incespicare?
Spaesati e incerti nello spazio immaginato come regno del confortevole e del familiare, non abbiamo calcolato il perturbante che ci assale, che ci prende alle spalle, spesso all’improvviso e in maniera violenta.


La casa invasa dal lavoro
La casa può diventare anche rifugio estremo – come accade in questa pandemia -, prigione intima, addirittura luogo di lavoro, pervaso e invaso – attraverso la Rete che assomiglia sempre più a una ragnatela – dalla produzione, dal dovere di produrre, dall’efficienza. Un corto circuito le cui assurde conseguenze abbiamo già visto nei mesi scorsi e vedremo sempre più nei prossimi anni. Di sicuro sarà qualcosa che vivremo fin quando anche quel “nido” che è la casa sarà invasa da tempi, ritmi e modi di essere e di muoversi funzionali a quello che, prima dell’era dei dispositivi digitali, chiudevamo, quanto possibile, fuori dalla casa stessa.


Conseguenza? Siamo stranieri a casa nostra
Non eravamo abituati a dover fronteggiare un nemico, perlopiù così subdolo, proprio nel luogo dove ci disarmiamo, dove abbassiamo la guardia. Costretti a una “quarantena” domestica spesso ci sentiamo spiazzati, fuori luogo, imbarazzati nei nostri stessi spazi che altri/altro ci costringono a vivere. Luoghi che diventano spazi non più nostri, di cui non riusciamo più a essere abitanti fedeli, che non ci rappresentano. Gabbie che forse diventano tali perché abbiamo dimenticato come si possano vivere davvero come case e non come ameni luoghi di passaggio.
Spazi “vuoti”, insomma, pieni solo di tedio, che, come detto, cerchiamo di riempire col lavoro, con ogni input possibile che possa arrivarci tramite i dispositivi digitali. Un modo anche per esorcizzare quel perturbante che incombe, ma che, in realtà, mai dovrebbe essere rimosso dalla nostra coscienza, ma affrontato, sublimato.

Quale risposta? Profondità o chiusura
C’è chi ha il lusso di poter vivere, in totale intimità e spontaneità, la propria casa, chi invece in un momentaneo appartamento, magari da condividere con altri. In ogni caso, il potersi raccogliere – agevolato, anzi quasi invitato, dall’inverno incalzante – evoca in noi, giorno dopo giorno, il ripiegarci: un atto – più simbolico che fisico – che sta a noi tramutare in profondità (in preghiera, in spazio di contemplazione) oppure in chiusura – un rifugio, una fortezza, un’illusione dunque -, senza speranze da sperare o immaginazione da liberare.
«C’è solo la strada su cui puoi contare / La strada è l’unica salvezza», cantava Gaber e quanto ci sembrano assurde le sue parole nelle vie svuotate dalle ordinanze, dalla paura e dallo sconforto montanti. Per non arenarci in sterili lamentazioni sull’immobilità forzata, ripartiamo allora dal paradosso radicale per cui ciò che non potrà mai proteggerci del tutto – la casa – può, dall’altra parte, definire la nostra identità (seppur non granitica), evocare infinite memorie, aiutare il sogno a fluire liberamente. Non una fuga né un fortino, ma una riscoperta della densità dei nostri spazi, un’intensificazione (come dev’essere) della propria vita attraverso un’apertura a un Oltre dal quale lasciarci spiazzare. A un imprevisto che ci trascenda.
Un’avventura radicalmente diversa da come l’abbiamo sempre immaginata.

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 4 dicembre 2020

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Haim Issak Bassan, il primo universitario israeliano a Ferrara

23 Nov

Una vicenda inedita. Nato in Bulgaria, nel ’56 si iscrive a Farmacia all’Università di Ferrara, dove quattro anni dopo si laurea. Nel frattempo risolleva la decimata e anziana Comunità ebraica ferrarese, tanto da diventare un esempio virtuoso per le altre Comunità in Italia. È deceduto due mesi fa all’età di 98 anni a Tel Aviv, città dove ha vissuto negli ultimi 60 anni

[Qui potete trovare la seconda parte del mio servizio su Haim Bassan]

di Andrea Musacci

Lo scorso 7 settembre a Tel Aviv, all’età di 98 anni, è morto Haim Issak Bassan, detto Jacques.
Una notizia apparentemente di scarso interesse per il nostro territorio, ma che in realtà riguarda da vicino la storia di Ferrara. Nel 1956, infatti, il giovane Haim si trasferisce da Tel Aviv nella nostra città per studiare Farmacia all’Università. Riuscirà a laurearsi quattro anni dopo, nel 1960, e, nel frattempo, risolleverà la Comunità ebraica locale decimata dalla Shoah e dalle tante emigrazioni verso altre città o Paesi. Ma c’è dell’altro: Haim Issak Bassan è stato il primo studente israeliano iscritto all’Ateneo ferrarese.
Una storia affascinante sotto molti punti di vista, anche considerando il cognome, di cui “Bassani” è l’italianizzazione. Proprio in questi anni, per la precisione nel ’56, Giorgio Bassani pubblica da Einaudi le “Cinque storie ferraresi” e nel 1960 “Una notte del ’43”. Nello stesso anno Florestano Vancini comincia a lavorare alla versione cinematografica di “Una notte del ’43”.
Ma risaliamo alle vicende di Haim Bassan, per capire com’è arrivato a Ferrara.


Dalla Bulgaria a Ferrara (passando per Israele)
Haim nasce il 7 novembre 1921 a Plovdiv (nota anche come Filippopoli), seconda città per numero di abitanti in Bulgaria. Suo nonno era bulgaro, mentre la nonna turca di Istanbul, allora Impero Ottomano di cui faceva parte la stessa Bulgaria. Nel corso della vita acquisterà, per vicende ignote, anche il cognome Eskenazi.
Fino al ‘52 Haim vive nel suo Paese d’origine, dove si diploma al Ginnasio misto “Regina Giovanna” di Nova-Zagora (a circa 120 km da Plovdiv), con voto finale, ottenuto il 12 luglio 1941, di 5,08 su 6: qui studia bulgaro, francese, russo, psicologia, logica, etica, matematica, geometria descrittiva, storia, geografia, economia politica, fisica, chimica, storia naturale, disegno, canto, educazione fisica e stenografia. Dal ’48 al ’52 è iscritto alla Facoltà di Legge (dove studia anche il latino) dell’Università Statale “Kliment Okhridsky” di Sofia, nella quale otterrà la laurea. Nel fascicolo a lui dedicato conservato nell’Archivio Storico dell’Ateneo di Ferrara, che siamo riusciti a consultare, è presente anche il certificato rilasciato dall’Università di Sofia per la presentazione alle autorità universitarie in Israele. Dal 1952 al 1956 Haim vive quindi in Israele, forse a Tel Aviv, dove vi farà ritorno dopo il 1960, una volta laureatosi a Ferrara.


Una comunità da ricostruire
È Andrea Pesaro, Presidente della Comunità ebraica di Ferrara dal 2015 al 2019, ad aiutarci a inquadrare il periodo storico: «nel 1957 ho lasciato Ferrara per andare a Milano (città dove ancora vive, ndr), dove mi sono laureato al Politecnico». Gli anni ’50 sono stati anni «di ricostruzione» per la Comunità ebraica ferrarese, composta da 150 membri contro i 700 di prima della Seconda Guerra mondiale.
«Molte persone, soprattutto giovani – prosegue Pesaro -, lasciano Ferrara dopo il ‘45 perché poco sviluppata economicamente. Tanti, come me e le mie sorelle o le famiglie Tedeschi e Ravenna, si trasferiscono a Milano, Roma, nello Stato di Israele o negli USA. Di queste famiglie non è rimasto quasi più nessuno a Ferrara».
Ma dagli anni ’50 la Comunità ebraica ferrarese accoglie comunque «alcuni ebrei provenienti dal Nord Africa, soprattutto dalla Libia». Lo stesso Fortunato Arbib, attuale Presidente della Comunità, arrivò dalla Libia nel ’67, durante il decennio che segnerà la vera, seppur parziale, rinascita della Comunità, proprio in quegli anni, dal ’64 all’ ’85, guidata dal padre di Andrea, Marcello Pesaro (mentre il nonno Silvio Magrini la guidò dal 1930 fino alla sua cattura nel 1943).

Via Mazzini (anni ’50 del ‘900)

«Aiutaci tu, Haim!»
Dalla Comunità Ebraica di Ferrara ci comunicano che nei loro archivi non risulta nessuna documentazione su Haim in quanto non nato né deceduto a Ferrara. È Roberto Matatia, nipote di Haim residente a Faenza, a raccontarci il suo periodo ferrarese, grazie ad aneddoti che suo zio stesso gli raccontò di persona.
Haim abbandona Tel Aviv, lasciando temporaneamente la sua farmacia in gestione a un polacco, per venire a studiare in Italia, per la precisione a Modena. Ma arrivato nella città emiliana alcuni coetanei lo dissuadono a iscriversi perché considerata l’Università più impegnativa. «La via più facile resta Ferrara, piccola, prestigiosa, senza stranieri», gli dicono. «Giungo, così, pieno di speranze», racconta Haim al nipote; «e, dove va un ebreo quando arriva in un posto dove non conosce nessuno e ha bisogno di tutto e di tutti? In Comunità!».
Così descrive il suo arrivo a Ferrara: «Arrivato davanti alla Sinagoga, vidi un edificio cadente, così come cadenti erano gli ebrei di quella piccola Comunità: dei vecchi poco entusiasti, stanchi, componenti di un nucleo destinato ad estinguersi, anche perché i pochi giovani sopravvissuti in buona parte avevano lasciato Ferrara. Quando vengono a sapere che sono israeliano, mi accolgono come fossi un messia: mi viene dato, senza esitare, un bell’appartamento del Ghetto, grande, arredato, completo di qualsiasi agio, forzatamente lasciato libero da una famiglia deportata e mai tornata». Affittare quei tanti appartamenti rimasti vuoti a non ebrei, sono le parole degli anziani della comunità ricordate da Haim, «vorrebbe dire rassegnarsi in ogni senso all’inesorabile fine». Haim probabilmente, almeno per un primo periodo, vive in via Vignatagliata, 43, a due passi dall’ex scuola ebraica: nella domanda d’iscrizione che nel ’56 consegna all’Ateneo di Ferrara, infatti, in fondo scrive: “Haim Bassan presso M. Borsetti, via Vignatagliata, 43, Ferrara”. Nell’attestato di ritiro dei documenti di laurea, quindi nel ’60, però, Haim indica un altro domicilio, sempre nell’ex ghetto: via Vittoria, 39. Allo stesso indirizzo, dalla seconda metà dell’Ottocento agli anni ’70 del Novecento, vi era anche la sede dell’ospizio israelitico.
Nel ’56 gli ebrei ferraresi gli chiedono un favore enorme: di far rinascere quel che di ebraico è sopravvissuto in città. «Accetto con entusiasmo, cercando di riportare in vita le festività comandate, organizzando riunioni, corsi di ebraico, ripulendo il cimitero. La notizia della ritrovata vitalità degli ebrei ferraresi raggiunge velocemente anche le Comunità più lontane. I locali adiacenti alla Sinagoga ritrovano una nuova vitalità. Vengono organizzati incontri, feste da ballo e in maschera. Arrivano ragazzi ebrei da ogni parte d’Italia, e, molto presto, tutti vengono a conoscenza del fatto che a Ferrara vi era un israeliano che aveva fatto un miracolo. Finché un giorno – prosegue Haim – vengo convocato a Roma, dall’Ambasciatore dello Stato d’Israele in Italia. Erano venuti a conoscenza del mio lavoro e ne erano entusiasti: così, mi affidano un incarico retribuito per portare in giro per le Comunità Ebraiche italiane l’esperienza di Ferrara. Accettai al volo!».
Per la quasi totalità degli ebrei il legame con Israele è viscerale, non si dimentica. Così, i suoi risparmi Haim li investe in beni non deperibili – alimentari, apparecchiature elettriche, medicinali – da inviare a Tel Aviv, «inventandomi, così – ha raccontato -, un piccolo commercio che mi consente di studiare e di mantenere mia madre senza problemi». Un contributo importante per uno Stato come Israele nato pochi anni prima.


Una laurea da 110 sugli anticolesterolemici
Questo impegno per le comunità ebraiche della nostra Penisola non fa, però, perdere di vista ad Haim i suoi studi all’Istituto di Chimica Farmaceutica e Tossicologica allora diretto dal prof. G. B. Crippa, mentre ai tempi il Rettore di UniFe è Giuseppe Olivero (lo sarà dal 1956 al 1959, sostituito fino al ’65 da Gioan Battista Dell’Acqua). Haim si immatricola il 30 ottobre 1956, matricola n. 1617, e conclude gli studi con una media voti del 28,222 / 30.
Il 23 novembre 1960 discute la sua tesi, di oltre 70 pagine, dal titolo “Caratteri chimici e analitici di anticolesterolemici di sintesi”, relatrice la prof.ssa Gilda Cavicchi Sandri. Voto finale: 110.


La vita di Haim dopo Ferrara
Haim vivrà successivamente tutta la sua esistenza in Israele. Lo vedrà nascere, partecipando a tutte le sue guerre sino a quella del Kippur nel ‘73: «la vita di mio zio rappresenta la storia delle origini dello Stato di Israele», ci spiega il nipote Roberto Matatia. «Persona coltissima e profonda, parlava agevolmente 7 lingue. Circa 60 anni fa sposò Ruth, ora 88enne, elegante signora russa colta e discreta». I due hanno avuto insieme due figli, Amir e Sarit, anch’essi residenti a Tel Aviv.
Una storia straordinaria quella di Haim Bassan, degna di essere raccontata, che attraversa anni della storia ebraica ferrarese ancora poco indagati e che meriterebbero maggior risalto. È la storia di una vita che, nel pieno della sua formazione, vive la ricostruzione di una piccola e antichissima comunità, quella ebraica ferrarese, e la nascita di un piccolo Stato, quello di Israele, incarnando così la speranza di una risurrezione, dopo l’orrore della Shoah, tanto per gli ebrei di Israele quanto per quelli del nostro Paese.

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 27 novembre 2020

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Studentesse e studenti disabili o DSA: sono oltre 400 a Unife

23 Nov

A “La Voce” parla Maria Gabriella Marchetti, Prorettrice delegata alle Pari opportunità e alle disabilità: pro e contro della didattica a distanza e in presenza

di Andrea Musacci
Studentesse e studenti disabili o DSA normalmente vengono associati all’Istruzione Primaria e Secondaria. Ma forse in molti non sanno che un numero considerevole di essi, e in aumento, una volta concluse le scuole superiori si iscrive all’Università.
Nel nostro Ateneo le iscritte e gli iscritti con handicap (certificazione 104/92) e con disabilità sono più che raddoppiate in quattro anni, passando dalle 92 dell’anno accademico 2016/2017 alle 203 dell’a.a. in corso, di cui 54 sono matricole. Per quanto riguarda i DSA (studentesse e studenti con Disturbi Specifici dell’Apprendimento), sono passati negli stessi anni di riferimento da 52 agli attuali 349, con ben 171 matricole. Tra disabili e DSA, oltre 1 su 3 (il 38%, per la precisione) è iscritto a corsi umanistici, e il 90% alla laurea di primo livello.
Un aumento esponenziale che fa riflettere, spingendoci a interpellare la prof.ssa Maria Gabriella Marchetti, Prorettrice delegata alle Pari opportunità e alle disabilità e Presidente del Consiglio di Parità dell’Ateneo estense. Con lei abbiamo analizzato anche alcuni dati emersi dal questionario di valutazione dei servizi offerti dall’Università di Ferrara alle studentesse e agli studenti con disabilità o DSA, somministrato da inizio giugno a settembre scorsi.
Le chiediamo innanzitutto quali possono essere le cause dell’aumento così importante negli ultimi anni di studenti e studentesse DSA. «Dipende da due distinte cause: da un lato l’aumento complessivo delle iscrizioni ai corsi di laurea e dall’altro dal fatto che la legge sui DSA è solo di 10 anni fa. Dato che la diagnosi avviene, nella maggior parte dei casi, negli anni della scuola dell’obbligo, ne deriva che la popolazione alla partenza della legge è quella che oggi approda al percorso universitario».
Riguardo alla didattica in presenza, le chiediamo quali problemi lamentano le studentesse e gli studenti disabili o DSA. «Alla domanda, che prevedeva la possibilità di indicare più di una causa, ha risposto solo il 20% dei partecipanti. Fra le difficoltà emerse, abbiamo innanzitutto problemi di concentrazione e attenzione (il 90% delle risposte), e a seguire, in misura decisamente minore, problemi di accessibilità, e problemi di mobilità verso l’Ateneo (entrambi al 15%)».
Per quanto riguarda, invece, la didattica a distanza, riguardante il periodo del lockdown e buona parte di questo primo semestre, dalle risposte date da 92 studentesse e studenti interessati emerge come l’83% valuti positivamente le lezioni videoregistrate, mentre il 65% attribuisce alle lezioni in streaming live «un buon grado di positività». Queste, invece, le criticità: difficoltà di attenzione e concentrazione (58%), riduzione degli stimoli (54%), lezioni meno dinamiche (48%), problemi di connessione (38%), confusione sulle modalità di erogazione (25%), sovrapposizione di lezioni per ricalendarizzazione (11%). Gli studenti disabili o DSA, dall’altra parte, apprezzano la possibilità di seguire la lezione videoregistrata (83%), la riduzione dei problemi di mobilità (54%) e la possibilità di frequentare meglio più corsi (39%). «Il grado di soddisfazione è alto», commenta Marchetti. «Dobbiamo considerare che questo tipo di organizzazione è nato in un momento emergenziale e di estrema difficoltà. Questo vale per l’intera popolazione universitaria – studenti, personale docente e personale amministrativo – e non ha paragone col passato».
A proposito del resto della popolazione universitaria, le chiediamo qual è il grado di consapevolezza dei docenti e degli altri studenti e studentesse su una presenza così consistente in Ateneo di disabili o DSA e se vi sono difficoltà nei rapporti. «Il nostro Servizio Disabilità e DSA gestisce la regolarità documentale e provvede a mettere a disposizione degli aventi diritto tutti i servizi indicati nella “Carta dei servizi per la comunità universitaria con disabilità e con DSA”. Il corpo docente è informato e a conoscenza della normativa, e dobbiamo avere consapevolezza che il rapporto didattico è comunque di diretta responsabilità del singolo docente che applica, di caso in caso e nel rispetto delle normative, le misure dispensative/compensative in funzione della specificità della materia e delle caratteristiche documentate ed oggettive del singolo discente. Le assicuro, come docente, che questo avviene con grande rispetto e sensibilità». Allo stesso modo, anche riguardo ai rapporti con gli altri iscritti e iscritte, «posso dire che con molta oggettività e sensibilità operiamo per renderli consapevoli sui loro diritti e garantendo la massima obbiettività e credibilità al loro percorso di apprendimento e di crescita».
Tornando al questionario, le chiediamo quali richieste rivolte a Unife maggiormente emergono dalle risposte. «Maggiori certezze sulla possibilità di ottenimento di misure compensative/dispensative in sede d’esame e di supporto durante lezioni/laboratori previste per il proprio status. A tal fine stiamo sviluppando applicativi che consentono una semplificazione amministrativa e una velocizzazione di risposta utilizzando un’idonea piattaforma tecnologica (l’applicativo ESSE3) già in fase di prenotazione/iscrizione agli appelli. Questo comporta anche una semplificazione e una maggior immediatezza nel rapporto docente – studente/studentessa con disabilità o DSA».
Infine, le domandiamo se esistono statistiche su quante di queste persone riescano a concludere il ciclo di studi. «Purtroppo non disponiamo di dati significativi e consolidati su questi temi – risponde Marchetti -, ma è in cantiere un aggiornamento informatico, come accennato prima, che comporta una “profilazione di massa” della nostra utenza dall’inizio al termine della carriera universitaria».

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 27 novembre 2020

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Essere fecondi, non produttori di morte

16 Nov

Teresa Bartolomei e Silvano Petrosino hanno riflettuto sul tema “Terra nostra? La casa dell’umano e l’ecocidio imminente”. L’incontro si è svolto on line il 12 novembre in occasione di Book City Milano: “passiamo da un’etica del successo a una della cura” per realizzare davvero l’abitare come “convivenza e accoglienza”

L’essere umano è chiamato a «coltivare e custodire» il pianeta dove abita, ma al tempo stesso è responsabile di gravi atti di ecocidio.
Su questa contraddizione, che chiama in causa la teologia e l’antropologia, giovedì 12 novembre hanno discusso Teresa Bartolomei, teologa dell’Università Cattolica di Lisbona, autrice del libro ”Dove abita la luce?” e Silvano Petrosino (in grande nell’immagine con Bartolomei e Monda), docente di Antropologia filosofica dell’Università Cattolica e autore del libro “Dove abita l’infinito: trascendenza, potere e giustizia?”. L’incontro è stato organizzato on line su You Tube, in occasione di Book City Milano, dall’Università Cattolica del Sacro Cuore e dalla Casa editrice “Vita e Pensiero”. “Terra nostra? La casa dell’umano e l’ecocidio imminente” è il titolo assegnato al dibattito introdotto da Antonella Sciarrone Alibrandi, prorettore dell’Università Cattolica e moderato da Andrea Monda, direttore dell’Osservatore Romano.
Per “ecocidio” – neologismo nato negli anni ’70 dopo la guerra in Vietnam – si indica la distruzione diffusa, grave e duratura dell’ecosistema a opera dell’uomo, tale da dover essere giudicata a livello internazionale. L’uomo con la sua tecnologia, quindi, ha spiegato Bartolomei, può diventare «una potenza di morte e non di vita». È stato papa Francesco con l’enciclica Laudato si’ a chiamare l’ecocidio peccato. Riguardo al Giudizio universale raccontato nella Bibbia, la relatrice ha spiegato come con esso «Dio salvi l’uomo dagli effetti gravi del male compiuto da quest’ultimo, effetti che rompono l’equilibrio universale e il patto tra Dio e uomo». Come credenti e donne e uomini di buone volontà «abbiamo questa grande responsabilità e speranza» e dunque «dobbiamo trovare insieme soluzioni condivise in modo che prevalga l’etica della cura e non della performance e dell’oggettivizzazione del creato». Come cristiani, «scopriamo chi siamo solo riportando alla luce il fatto che siamo a immagine e somiglianza di Dio. Diversamente, diventiamo produttori di morte».
È partito da Genesi 2, 15 invece Petrosino, in particolare dai verbi «coltivare» e «custodire», a suo dire esplicativi del vero senso dell’abitare: «abitare non vuol dire necessariamente dominare, possedere o distruggere ma è possibile, per l’uomo, che significhi coltivare». Detto questo, per Petrosino, richiamando Lacan, anche «il possesso e la distruzione rimandano per l’uomo alla sua ricerca di un’identità»: «il distruggere è una pulsione negativa ma comunque creazionistica». Il problema del creato rimanda quindi sempre inevitabilmente al problema del soggetto, dell’essere umano. Ma anche nella Bibbia dal giardino di Genesi si arriva poi sempre «alla città, cioè – ha proseguito il relatore – al miracolo possibile della convivenza e dell’accoglienza fra gli uomini». L’abitare è dunque «incontrare qualcuno che dica “ti voglio bene”». La terra, ha quindi concluso, «è nostra, perché siamo attori, non subiamo la vita, siamo chiamati a coltivare», ma al tempo stesso «non è nostra perché siamo in affitto, non ne siamo i proprietari» e allo stesso modo «non possediamo la verità intesa come certezza assoluta»: saper accettare questo significa «essere in pace con se stessi. Riscopriamo invece la verità come fecondità».
Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 20 novembre 2020

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Uno sguardo profondo sulla rivoluzione in atto: il libro “Riflessioni per tempi incerti”

16 Nov

“Riflessioni per tempi incerti” è il volume corale con riflessioni sulla pandemia edito da Festina Lente. Tra gli altri, ospita contributi del card. Josè Tolentino De Mendonca, di Chiara Giaccardi, Pietro Gibellini, Emilio Isgrò, Mauro Magatti, Alberto Maggi, Alessandra Smerilli e Franco Arminio

«Indietro non torneremo o, meglio, ci torneremo poco e male. Ci sarà un po’ di inerzia, un po’ di riluttanza, ma il passaggio è avvenuto». Le parole sono di Luciano Floridi, docente di filosofia, e fanno parte dell’importante volume corale appena pubblicato dalla ferrarese Festina Lente Edizioni di Marco Mari.
“Riflessioni per tempi incerti” è il titolo del libro che raccoglie gli interventi di 11 personalità, frutto di una serie di video-conferenze organizzate da marzo a ottobre scorsi dalla Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura con sede a Brescia.
Sono scrittori, poeti, biblisti, artisti, economisti e sociologi: Luigi Alici, Franco Arminio, Carlo Bellavite Pellegrini, Luciano Floridi, Chiara Giaccardi, Pietro Gibellini, Emilio Isgrò, Mauro Magatti, Alberto Maggi, Alessandra Smerilli e il card. Josè Tolentino De Mendonca.
«Anche in situazioni di estrema difficoltà, in cui il dialogo interpersonale è fortemente compromesso, crediamo resti vivo l’insegnamento socratico di chiedersi qual è il senso di ogni cosa che facciamo, del rapporto tra il proprio agire e la propria “città”, ovvero del vivere insieme agli altri», scrive nell’Introduzione del testo Filippo Perrini, Presidente della Cooperativa bresciana.
Ed è quello che, da angolature differenti, provano a fare tutte le persone coinvolte, per riflettere, in periodi diversi, dell’emergenza che stiamo vivendo, su cosa ci insegna questa pandemia a livello spirituale, sociale, economico e relazionale.
«È un tempo purificatorio», riflette il card. Tolentino De Mendonca. «L’immagine prometeica che noi abbiamo – l’immagine di una onnipotenza che la nostra società vende come propria auto rappresentazione – è completamente fallita». Dobbiamo quindi, prosegue, costruire «processi di coscienza su noi stessi» e «processi di conoscenza di Dio». Sui processi riflettono ad esempio anche i coniugi e sociologi Giaccardi e Magatti. È la prima dei due a scrivere: «quello che ci aspetta è un guardare avanti, un mettere in movimento dei processi».
E lo sguardo di ognuno dei contributi è radicalmente proiettato nell’avvenire: «non vedo più una Chiesa che va avanti organizzando grandi eventi», è il pensiero di Smerilli. «Forse abbiamo capito che dobbiamo lavorare per processi, innescare processi, e, passo dopo passo, arrivare alle persone e portare la buona notizia».
Ma la profondità orizzontale, verso l’altro e verso il futuro, non può non accompagnarsi alla profondità interiore, dentro di sé e a fondo nel pur tragico presente, che ci costringe a gettarci alle spalle ipocrisie e scorciatoie. «Non è vero che la fragilità è uno stato accidentale e transitorio (…). La fragilità è una condizione costitutiva delle creature e del creato», scrive ad esempio Alici, ed è Maggi a riflettere sul senso cristiano del morire e sulla rimozione della morte nella società moderna e in particolare in quella contemporanea. Una rimozione terribile, che ci interroga sull’importanza di riscoprire una verticalità nelle nostre esistenze: «la poesia è una sorta di sentinella del sacro», riflette il poeta Arminio. «Noi abbiamo bisogno di intensità. Abbiamo bisogno di lavoro, ovviamente, di regole. Questo lo sappiamo. Però, abbiamo anche bisogno di intensità, di sacro, di senso. Direi pure che abbiamo bisogno di Dio».
Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 20 novembre 2020

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La violenza sulle donne è anche economica

16 Nov

Il 13 novembre il primo degli incontri curati da Centro Ricerche Documentazione e Studi (Cds) Cultura e Centro Donna Giustizia di Ferrara

Oltre la metà delle donne vittime di violenza che si rivolgono al Centro Donna Giustizia (CDG) di Ferrara non hanno reddito o perdono il lavoro in seguito alla violenza subita. Nel 2020 in Italia in media ogni giorno ci sono oltre 3 denunce di violenze subite da operatrici sanitarie durante lo svolgimento del proprio lavoro.
Sono alcuni dei drammatici dati emersi dall’incontro svoltosi on line il 13 novembre sul canale Facebook del Cds (Centro Ricerche Documentazione e Studi) Cultura di Ferrara. L’occasione – in vista del 25 novembre, Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne – è stata la presentazione dell’Integrazione all’Annuario socio-economico ferrarese 2020, proposto dal Cds e quest’anno dedicato all’Agenda ONU 2030 per lo Sviluppo Sostenibile e declinato secondo i suoi 17 obiettivi, motivo di assegnazione del patrocinio ASviS. L’Integrazione riguarda, appunto, nello specifico l’Obiettivo (Goal) 5, quello dedicato alla Parità di genere, e raccoglie testimonianze e riflessioni di 15 protagoniste delle istituzioni, della politica, delle associazioni in chiave locale, insieme a interventi di due esperte, Marcella Chiesi e Daniela Oliva.
L’incontro del 13 novembre, introdotto da Cinzia Bracci (Presidente Cds Cultura) e condotto da Annalisa Ferrari (Direttivo Cds Cultura), ha visto fra gli interventi quello di Paola Castagnotto del Centro Donna Giustizia: «l’essere vittima di violenza è una limitazione forte per le donne e per il loro contributo alla crescita della propria comunità. Vi è – ha proseguito – un’intima relazione tra la violenza economica e quella fisica e psicologica contro le donne: la seconda è l’esito estremo delle disuguaglianze di genere». Castagnotto ha poi esposto i dati qui sopracitati: «più della metà delle donne che si sono rivolte al CDG, dopo la violenza sono diventate disoccupate, e la maggior parte di loro non hanno reddito o hanno reddito basso: parliamo del 56% delle 217 donne che si sono rivolte a noi. Più della metà, quindi, ha subìto anche violenza economica», oltre a quella fisica-psicologica.
Dopo gli interventi dell’Assessora Dorota Kusiak e di Rosanna Oliva de Conciliis (Presidente Rete per la Parità e Referente per ASviS del Goal 5), hanno preso la parola Daniela Oliva (Istituto Ricerca Sociale), Marcella Chiesi e Roberta Mori (consigliera e Presidente Commissione Parità Regione Emilia-Romagna). Quest’ultima ha posto l’accento su come durante la pandemia in corso «molte sono le imprese femminili colpite dalla crisi e tanti i posti di lavoro delle donne andati perduti»: se il problema non viene affrontato, «questo arretramento del protagonismo femminile diventerà strutturale».
È stata poi Debora Romano, presidente sezione ferrarese Associazione italiana Donne Medico, ad accennare ai dati sopracitati riguardanti le operatrici sanitarie nel nostro Paese: sono 176mila le donne medico in italia. Dati del 2020 parlano di 5 denunce al giorno di violenze subite da operatori sanitari, 2/3 delle quali vedono vittime donne (perlopiù medici di base, guardie mediche e operatrici nei Pronto soccorso), quindi circa 1.100 in un anno. L’incontro si è concluso con gli interventi di Ilaria Baraldi (consigliera e vice Presidente Commissione Pari Opportunità Comune di Ferrara), Paola Peruffo (consigliera e Presidente Commissione Pari Opportunità Comune di Ferrara) e Liviana Zagagnoni (UDI Ferrara).
Il programma degli altri incontri in programma sul tema della violenza contro le donne organizzati da Cds Cultura e CDG si può trovare qui: https://www.cdscultura.com/it/blog/471-cds-cultura-e-cdg-centro-donna-giustizia-una-sinergia-di-impegni-condivisi
Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 20 novembre 2020

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Covid, aumenta la depressione: boom di chiamate per sostegno psicologico

9 Nov

Paola Giacometti (AUSL Ferrara): “domina lo sconforto. Nei primi 4 giorni stesso numero di telefonate di un mese di lockdown”

«In pochi giorni il nostro Numero Verde di sostegno psicologico ha registrato più chiamate di quelle ricevute in un intero mese di lockdown. La situazione è grave, ci sono diversi casi depressivi».
A parlare con “La Voce” è Paola Giacometti, Psicologa e Psicoterapeuta, Responsabile della Psicologia Clinica Territoriale dell’AUSL di Ferrara. Da lunedì 2 novembre il Dipartimento di Salute Mentale ha infatti riattivato il Numero Verde di sostegno psicologico alla cittadinanza. E il primo quadro che emerge non è certo rassicurante, conseguenza di nuove limitazioni negli spostamenti e nelle attività dovute a un peggioramento dell’emergenza sanitaria. «Nei mesi scorsi, dalla fine del lockdown – ci spiega Giacometti -, avevamo iniziato a vedere alcune delle conseguenze della quarantena e in generale di questo periodo emergenziale, ma ora, con la recrudescenza del virus e le conseguenti nuove restrizioni notiamo un aggravamento della situazione».
Da marzo a maggio, nelle persone che hanno contattato il servizio di sostegno psicologico, si registrava «perlopiù ansia, senso di incertezza, paura e frustrazione», ma c’era comunque «un atteggiamento di resilienza, un tentativo di adattamento» alla situazione, anche facilitato dal clima di unità a livello nazionale. Spirito che è venuto molto a mancare negli ultimi mesi. In questa nuova fase invece «notiamo molto più sconforto e in misura maggiore elementi depressivi, anche gravi, legati a sentimenti di lutto, di perdita: perdita di un famigliare, del lavoro, della fiducia, della speranza, di ogni prospettiva. A ciò si aggiungono sentimenti di rabbia, una sensazione di isolamento sociale e che tutto quel che è stato fatto nella lotta contro il virus sia servito a poco. Ciò a maggior ragione se pensiamo che ora rispetto alla scorsa primavera si conosce anche meglio la malattia». Insomma, le conseguenze di mesi di quarantena e di crisi sociale si notano sempre di più. E le ulteriori chiusure, pur differenziate a livello nazionale, non fanno che peggiorare la situazione. «Non c’è niente di peggio – sono ancora parole di Giacometti – che convincersi di essere in una fase di risoluzione del problema e poi capire che invece non è così». La fine delle illusioni è pericolosissima e più peggiora la situazione, più sarà difficile affrontare e superare le conseguenze psicologiche sulle persone.
Sono una 15ina le telefonate al Numero Verde nei primi quattro giorni, «alcune di anziani isolati in casa, timorosi di tutto quel che rappresenta l’esterno, altre di persone più giovani in quarantena domiciliare perché risultate positive e per questo impossibilitate ad accudire famigliari anziani che vivono sotto lo stesso tetto». Altre telefonate riguardano richieste di informazioni, anche queste in aumento, a dimostrazione dell’accresciuto livello di ansia.
A tal proposito è stato anche attivato l’USCo, la nuova Unità Soccorso Covid per persone isolate perché positive al Coronavirus nei casi in cui ci sia il sospetto che stiano maturando propositi suicidari. «Se nelle telefonate avvertiamo questo pericolo – prosegue Giacometti -, chiamiamo il medico di Medicina Generale che attiva la procedura per valutare la situazione ed eventualmente intervenire. Registriamo in pochi giorni già un caso di questo tipo, oltre a uno contenuto invece dalle telefonate della psicologa che se n’è occupata».
Un ulteriore aspetto riguarda il fatto che, a differenza del periodo del lockdown, ora gli operatori del Dipartimento di Salute Mentale e dello Spazio Giovani sono tornati a ricevere i pazienti in presenza. A parità di personale, quindi, il carico di lavoro è maggiore. E il problema della tenuta psicologica riguarda anche alcuni operatori sanitari vittime di ansia, sfiducia e frustrazione. E di una condizione drammatica che nessuno contava di dover rivivere.


I dati in Emilia-Romagna

In Emilia-Romagna sono state 9.729 le prestazioni psicologiche dedicate all’emergenza COVID-19 tra il 17 febbraio e il 17 maggio, delle quali 241 con l’AUSL di Ferrara. Numero comunque inferiore ad altre AUSL, come ad esempio Parma (2.275), Bologna (1.823) e Modena (1.055).
La consulenza è stata data per il 26,9% dei casi a chi ha contratto il virus e può trovarsi ricoverato o a casa; al personale sanitario (24,7%); a familiari (19,4%) in condizione di stress acuto a causa del distanziamento e di paure specifiche; a cittadini (17,8%) che hanno vissuto in prima persone le esperienze negative legate al lockdown; infine ad assistiti di Servizi sanitari o socio-sanitari (4,16%), che con le limitazioni imposte nel periodo di emergenza hanno avuto meno possibilità di rivolgersi ai Servizi stessi.

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 13 novembre 2020

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Il distacco profondo dell’arte e della poesia per vivere il tempo dell’inquietudine

9 Nov

Riflessione del filosofo francese Jean-Luc Nancy al Festival Mimesis: “nello sconvolgimento contemporaneo è necessario scoprire la possibilità di vedere nell’oscurità”

«Assistiamo a un completo sconvolgimento della civiltà: l’arte e la poesia, più che la filosofia, oggi possono illuminarci».
Si può sintetizzare così l’importante seppur breve riflessione del noto filosofo francese Jean-Luc Nancy (foto) lo scorso 4 novembre in occasione del Festival Mimesis.
La rassegna, organizzata dall’Associazione “Territori Delle Idee” della Casa editrice Mimesis, normalmente in programma a Udine, si svolge fino al 14 novembre on line dal canale You Tube e dalla pagina Facebook del Festival. La settima edizione, centrata sul tema “Immagine e storia”, ha visto lo scorso 4 novembre Nancy dialogare con il giornalista de “L’Espresso” Wlodek Goldkorn e con il filosofo e critico Federico Ferrari a proposito del tema “Il tempo dell’inquietudine”.
«Inquietudine è assenza di quiete, di riposo, di tranquillità ma al tempo stesso qualcosa che ci mette in movimento, che ci spinge a cercare», ha esordito il filosofo francese. Un’inquietudine oggi, perlopiù negativa, che rischia di travolgerci: «è fallito lo sforzo moderno di concepire una comunità diversa dal modello fascista e da quello del socialismo reale. Oggi non si è più insieme, non c’è più comunità – ha proseguito Nancy -, e la società francese in particolare è molto divisa, anzi straziata». Il discorso sul multiculturalismo sta lì a dimostrarlo come esempio drammatico. L’alternativa ai modelli storici si era pensato di trovarla «in una sorta di universalismo possibile anche attraverso la laicità» e in un ottimismo in nome del progresso. Ma non ha funzionato.
«Oggi – secondo Nancy – non c’è più racconto, non possiamo più proiettare un futuro positivo per l’umanità: ciò è intrinseco al progresso tecnico, che tante catastrofi ha prodotto, dalla crisi ecologica alla pandemia di Covid», tragica prova del fatto che il progresso e la scienza «non possono risolvere tutto».
«Lo sconvolgimento» avvenuto nell’impero romano del IV-V secolo aveva comunque i cristiani come soggetto capace di «immaginare altro. Ma per noi oggi non è così», ha riflettuto con pessimismo. «Forse ci sarà una grande trasformazione della società verso il modello cinese o un’implosione di questo modello tecno-scientifico. Non è forse la fine del mondo ma di sicuro viviamo un periodo di enorme difficoltà: siamo in una sorta di oscurità».
Per questo, secondo Nancy, «è necessario conservare le luci», cioè la speranza, «ma anche scoprire la possibilità di vedere nell’oscurità: oggi bisogna cercare nell’arte e nella poesia, non nella filosofia, qualcosa che illumini». Riprendendo Bataille e il suo concetto di non-sapere, il filosofo ha evocato l’importanza dell’arte e della poesia come di «qualcosa che non è un sapere, una pretesa di sapere ma una sorta di distacco» positivo e profondo.
Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 13 novembre 2020

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Quando l’anelito della fede si fa parola poetica

9 Nov

Il libro di Giovanna Massari edito da Faust edizioni

“I canti dell’esistenza” è il titolo del libro di esordio di Giovanna Massari, bondenese d’origine, classe ’57 residente a Ferrara. Edito per Faust Edizioni (Collana Arbolè, 58 p., prefazione dello storico Paolo Sturla Avogadri), il volume di brevi testi poetici uscito a giugno è espressione della forte sensibilità per la dimensione spirituale di questa ex dirigente d’esercizio alle Poste Centrali di Ferrara.
Senza infingimenti Massari lascia spazio al dolore, spesso usando la ricorrente immagine delle lacrime. La sua è una lucida disamina del vivere umano, a tratti anche cruda: «non siamo altro che poveri pezzi di carne», scrive. L’orrore del «mai più», «lo stillicidio inesorabile del tempo» pervadono le pagine, il senso della corruzione di ogni cosa creata le innerva, ma senza dominarle. L’ultima parola è ben altra, la vita – l’autrice sembra esserne pienamente cosciente – può conoscere l’«amore misericordioso di Dio», «la luce della vita eterna». Per questo l’invito a se stessa e a ogni lettore è «risplendi alla luce di Cristo!».
A luglio l’autrice ha inviato una copia del libro al Santo Padre. La risposta è arrivata il 10 settembre: «Sua Santità desidera manifestarLe cordiale gratitudine per il dono e per i sentimenti di filiale venerazione che hanno suggerito il premuroso gesto e, mentre assicura il Suo ricordo nella preghiera, invoca la materna intercessione della Beata Vergine Maria e di cuore imparte la Benedizione Apostolica».
Una grande emozione che suggella la soddisfazione di veder pubblicati brani che dicono di una vita dedita alla fede, di un’interiorità capace tanto di profondo raccoglimento quanto di viva espressione delle più intime meditazioni.
Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 13 novembre 2020

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Studenti in fuga: crollo degli affitti a Ferrara

2 Nov

Ferrara è ancora una “città universitaria”? Sì, ma ormai a metà. Gli ultimi 8 mesi di emergenza sanitaria e la didattica on line l’hanno svuotata: appartamenti abbandonati, residenze universitarie mezze vuote. E si teme un ulteriore drammatico crollo nei mesi di dicembre e gennaio. Abbiamo incontrato proprietari e gestori di alloggi

di Andrea Musacci

Ferrara è Sede universitaria sin dal 1391: l’anno prossimo compirà ben 630 anni. Ma ci sono voluti oltre sei secoli perché potesse ottenere anche il “titolo” di “città universitaria”. Titolo che si è guadagnato all’incirca da una ventina d’anni, in maniera sempre maggiore: la nostra, infatti, è una città a misura di persona, non eccessivamente grande, percorribile in bicicletta e, nonostante tutto, tranquilla. Il suo Ateneo si è affermato negli anni per la qualità di diversi Corsi di laurea, riconosciuti come tale da tanti giovani provenienti dagli angoli più disparati della Penisola e non solo.
Una città nella città è il mondo universitario estense, un mondo vivo, che arricchisce – si spera non solo economicamente – il tessuto urbano. Una babele di accenti e cadenze di ogni risma, un’irruzione di vitalità, giovinezza e creatività positiva, non inficiata da alcuni problemi connessi – forse in parte inevitabili – ma comunque, ci permettiamo di dire, “veniali”. Problematiche legate ad esempio alla cosiddetta Movida, con gli ormai caratteristici scontri con i residenti e le conseguenti diatribe politiche e di categoria. Un’esuberanza che, da 20 anni, si spera sempre si trasformi in valore aggiunto per Ferrara: se lo augurano spesso gli studenti stessi, almeno quelli che sognano di trasferirsi nella nostra città, perché rimasti affascinati o per scappare da terre ancor più sonnolente e prive di opportunità lavorative. E lo sperano tanti in città, che in loro vedono il futuro, o almeno una parte importante del futuro di Ferrara, località sempre più anziana, sempre meno ricca e da sempre inchiodata all’etichetta di località provinciale, assopita per sua natura, come incantata fra le nebbie e i fantasmi – e i fasti – del passato.
Così si poteva ragionare, di sicuro, almeno fino a inizio 2020. Poi è arrivata quest’emergenza e una situazione drammatica che ancora sconvolge e minaccia le nostre esistenze. E allora molte studentesse e studenti che avevano scelto di trasferirsi qui per studiare e laurearsi hanno avuto paura: paura del contagio, di vivere il lockdown di marzo e il semi-lockdown attuale in totale solitudine o quasi, sicuramente lontani da famigliari e affetti radicati. E con la paura che il virus facesse diventare il sogno concreto dei loro primi vent’anni null’altro che una continua e triste preoccupazione, ad esempio, per un alloggio che costa senza essercene la necessità, o perlomeno l’urgenza, visto l’uso massiccio della Didattica a distanza. E così la paura si è insinuata in tanti di loro: i primi a partire, lo hanno fatto a fine febbraio. Fra questi, molti avevano approfittato dei giorni di intervallo tra la fine della prima sessione d’esami e l’inizio del secondo semestre, per tornare in famiglia. Il lockdown li ha obbligati a rimanere dov’erano. Altri sono tornati a Ferrara tra maggio e giugno, altri ancora in estate. E una parte non irrilevante ha fatto nuovamente rientro nella propria località d’origine nelle ultime settimane, dopo i tre Dpcm del Governo di ottobre, una volta accertata l’avvilente possibilità di nuove restrizioni, di un coprifuoco e, chissà, di un altro futuro lockdown.
Scelta magari, nelle ultimissime settimane, ancor più confermata dalle chiusure di bar, locali e ristoranti alle 18: un incubo per un 20enne, abituato spesso a iniziare la serata non prima delle 21.
Per la seconda parte del Focus che abbiamo scelto di dedicare al mondo universitario ferrarese (la prima è uscita nello scorso numero, l’ultima uscirà la prossima settimana), abbiamo dunque scelto di indagare sulle conseguenze sugli alloggi e le residenze di questa “fuga” degli universitari da Ferrara.

ER.GO: a ottobre 65 rinunce, 15 studenti torneranno nel 2021

Partiamo dalle residenze gestite da ER.GO, l’Azienda Regionale per il diritto agli studi Superiori, che nella nostra città si occupa direttamente dei posti letto nelle Residenze (con stanze singole, camere doppie o monolocali) in via Guido d’Arezzo, via Darsena, via Mortara, vicolo Santo Spirito (Santo Spirito e San Matteo), via Ariosto (Santa Lucia), via Savonarola e via Coramari. Con rette o tariffe, per studenti in graduatoria o ospiti (e compresi i mesi di dicembre e gennaio in cui ci sono ribassi) che vanno dai 133 ai 342 euro mensili.
Elisa Bortolotti è la Responsabile per ER.GO della Gestione Graduatorie e servizi per l’accoglienza di Ferrara. Specificando che «l’assegnazione degli alloggi è un fatto dinamico e la situazione assestata potrà avvenire solo a fine anno», ci comunica che a ottobre 2020, 285 studenti sono stati assegnati nelle Residenze ER.GO di Ferrara, contro i 301 dell’ottobre 2019.
«Tra marzo e aprile 2020 – prosegue – abbiamo avuto 142 studenti che sono tornati a casa e ai quali abbiamo rimborsato una mensilità; di questi, la maggior parte sono tornati in alloggio tra settembre e ottobre, ovviamente se in possesso dei requisiti economici e di merito previsti dal bando di concorso. Durante le convocazioni per le nuove assegnazioni, iniziate il 1° ottobre scorso, abbiamo avuto 65 rinunce, mentre 15 studenti hanno optato per venire in alloggio nel secondo semestre (da gennaio 2021), se ci saranno posti disponibili».

Alloggi ACER: 84 disdette e nuove prenotazioni giù dell’80%

Il netto calo degli studenti che hanno scelto di abitare nella nostra città emerge in maniera ancora più netta dai dati fornitici da Marco Cassarà, referente dei rapporti con gli studenti all’interno dell’Area commerciale di Acer. L’Azienda Casa Emilia-Romagna, infatti, in convenzione con ER.GO, mette a disposizione alloggi per studenti universitari e ricercatori “fuori sede” nella Residenza “Le Corti di Medoro” (188 alloggi in una parte dell’ex Palazzo degli Specchi in zona Beethoven con canoni di mensili dai 370 ai 590 euro mensili), nella Residenza Putinati (53 posti letto nell’omonima via, tra i 250 e i 290 euro mensili) e in dieci bilocali su corso Porta Mare, in via Darsena, via Boiardo, via Recchi e via Fabbri, con affitti tra i 205 e i 330 euro al mese.
«Su gli oltre 250 tra alloggi e posti letto, quest’anno abbiamo gestito 84 fra disdette e mancati rinnovi contrattuali». Quasi uno su tre. Per la precisione, le disdette o i mancati rinnovi sono stati 14 nel mese di marzo, 21 ad aprile, 21 a maggio, 5 a giugno e ben 23 a ottobre. La maggior parte riguardano le Corti di Medoro (76), mentre 3 a Putinati e 5 negli appartamenti.
Le nuove prenotazioni per l’a.a. 2020/2021 sono state 20: un quinto in meno rispetto a un anno fa, quand’erano state 97.

Fondazione Zanotti: chiuso il Cenacolo, in via Mortara metà dei posti è vuota
Non lasciano spazio a dubbi nemmeno i dati che ci vengono forniti dalla Fondazione Enrico Zanotti: per quanto riguarda il Campus Universitario “Collegio Don Calabria” di via Borsari, «le stanze singole per 24 studenti – ci spiega Nicoletta Vallesi – sono piene al 75%, e i nuovi utenti sono appena 4. Gli anni scorsi le riempivamo tutte senza problemi, anzi le richieste superavano tranquillamente le nostre disponibilità». Qui, durante il lockdown, «solo 7-8 studenti erano rimasti, gli altri erano tornati a casa».
Per quanto riguarda, invece, la vicina Residenza Universitaria “Enrico Zanotti” in via Mortara, i monolocali con parti in comune hanno visto solo «1/5 degli studenti rimanere durante il lockdown, mentre adesso dei 24 posti solo la metà è occupata. E dei 12 attualmente presenti, solo due sono matricole». Epilogo ancor più triste per la Residenza “Il Cenacolo” di via Fabbri, chiuso per mancanza di richieste: appena 5 per 40 posti disponibili. Una situazione diventata insostenibile.


Camplus: 1 posto letto su 3 è rimasto vuoto
Camplus Apartments in città gestisce gli appartamenti della Residenza Darsena, vicino al Polo Tecnologico, e dislocati in centro e nella zona del Polo Biomedico. Roberto Marinelli, Responsabile Camplus a Ferrara, ci spiega come su 600 posti letto totali, circa 200 sono vuoti. «Dal lockdown di marzo tanti studenti non sono tornati a Ferrara o han scelto di non trasferirsi. Quello che più temiamo è che, dopo i recessi tra luglio e ottobre, ci sia un’ulteriore forte ondata di disdette dei contratti di affitto tra dicembre e gennaio. Abbiamo questa spada di Damocle che incombe: per noi sarebbe una disfatta».


ASPPI e Sunia: dimezzati i contratti per gli studenti
«Per noi settembre è sempre stato il mese dei tanti contratti d’affitto per gli universitari. Quest’anno, però, nulla a che vedere con gli altri anni: registriamo un dimezzamento dei nuovi contratti per studenti, e perlopiù di matricole, incentivate dalla Didattica in presenza». A parlare a “La Voce” è Ippolita Domeneghetti dell’ASPPI – Associazione Sindacale Piccoli Proprietari Immobiliari di Ferrara. Per venire in contro alle situazioni difficili di tanti studenti e delle loro famiglie – prosegue – «abbiamo avuto diversi casi di rinegoziazioni di contratti esistenti, con diminuzioni, ad esempio, di affitti da 600 a 450 euro mensili. E ipotizziamo altre disdette e richieste di rinegoziazione anche nei prossimi mesi».
Parole simili ci arrivano da Marcello Ravani di Sunia-CGIL: «rispetto a un anno fa abbiamo avuto un calo del 49-50%: 45 asseverazioni (certificazioni di contratti a canone concordato tra privati, ndr) contro le oltre 90 del 2019». Stabili i contratti direttamente stipulati, 10 contro i 13 dell’anno scorso. Contratti che, comunque, sono tendenzialmente sempre più brevi, e sui quali, ci spiega Ravani, «ci richiedono rinegoziazioni sul canone anche del 20-30% in meno».
Una prima conferma ci arriva anche da Vittorio Zanghirati, Presidente provinciale Confabitare: «sicuramente c’è stato un calo dei contratti di locazione per studenti, spesso i proprietari hanno difficoltà a riempire tutte le stanze degli appartamenti, o alcuni rimangono proprio vuoti».


RUA-UDU: “meglio contratti di 6 mesi. Insufficiente il bando del Comune di Ferrara”
Chi si è occupato della questione affitti è stata l’Associazione studentesca RUA-UDU.
«Il 31 marzo come RUA-UDU – ci spiega Maria Antonietta Falduto – abbiamo rilasciato un comunicato dove notificavamo la necessità, strettamente urgente, di avviare nette azioni di sostegno agli affitti per tutti quei nuclei familiari colpiti da violente contrazioni di reddito a seguito dell’emergenza Covid. Ma il solo intervento che ne è risultato è stato la delibera comunale legata all’erogazione di contributi per il pagamento dei canoni locativi (ne parliamo nel box, ndr)». Bando che, per RUA, «oltre a stanziare un cifra irrisoria per fronteggiare la questione, risarciva solo i casi di “morosità incolpevole” risultando impraticabile per chi, magari pure con sforzi, aveva fin lì onorato le clausole contrattuali di locazione».
Ma RUA è andata oltre, dando vita nelle ultime settimane a un sondaggio fra gli studenti dell’Ateneo ferrarese: «dai dati si evince come molti studenti abbiano optato per disdire il proprio contratto di locazione mentre tanti altri in ingresso, malgrado l’iscrizione attiva presso Unife, hanno cassato la possibilità di prendere casa entro le mura cittadine».
Questo a causa della Didattica a distanza e «dei termini temporali tipici dei contratti locativi per studenti che, vedendo la scadenza a un anno dalla prima firma, poco si sposa con il regime d’incertezza che caratterizza il periodo. Molto più ragionevole e d’aiuto – conclude Falduto – potrebbe essere garantire locazioni semestrali attendendo l’evolversi della situazione».

Gli iscritti a Unife

Su un totale di 132.463 residenti nel Comune di Ferrara (dato al 31/12/2019, fonte: ”Annuario Statistico Demografico 2019”), gli iscritti all’Università di Ferrara attualmente sono 22.010. I dati fornitici dall’Ateneo si riferiscono al 28 ottobre 2020, ma le immatricolazioni saranno chiuse il prossimo 15 aprile. Il dato, inoltre, riguarda gli iscritti ai Corsi di studio ovvero lauree triennali, magistrali e magistrali a ciclo unico.
Il dato definitivo dell’a.a. 2019/2020 registrava 24.229 iscritti all’Ateneo della nostra città.

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 6 novembre 2020

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