Archivio | Maggio, 2022

Il pessimismo si combatte amando: storia di una famiglia fuggita dall’Ucraina

19 Mag
Leopoli

Zhanna vive a Ferrara. Parte della sua famiglia l’ha raggiunta, lasciando la propria terra

«Il 24 febbraio mi arriva un messaggio di mia madre sul cellulare: “è cominciata la guerra”. Nient’altro. Quella frase ha diviso la mia vita in due, un prima e un dopo. In questo dopo, ogni secondo, ogni pensiero è totalmente diverso rispetto a prima, la mia anima è diversa. Quasi non riesco a pensare ad altro». Ha un carattere forte Zhanna – a Ferrara per tutti “Gianna” -, dice di essere per natura ottimista. Ma ora non lo è più. In Italia da 20 anni, prima in Calabria, poi a Roma, infine dal 2010 a Pontelagoscuro, vive col marito Serhiy e un figlio, Danilo, di 4 anni, mentre un altro, Dmytro, ha 30 anni, è sposato e neopapà e vive a Ferrara.

I suoi genitori fino a un mese fa vivevano vicino Leopoli, a Liubeshiv, a 15 km dal confine con la Bielorussia. Cinque ettari di terra e una vita semplice, tranquilla. Poi l’invasione russa. «Essendo vicini al confine – ci racconta Zhanna -, di continuo passavano aerei, e sapevano che ammassati al confine c’erano e ancora ci sono numerose truppe. Mio padre prima di venire qui non era mai uscito dalla città. Mia madre invece qualche volta era venuta in Italia a trovarmi. I primi giorni non riuscivo più a dormire né a mangiare. “Papà, salvatevi, scappate, venite qua…”, continuavo a ripetergli». Alla fine Zhanna li ha convinti. Il 12 marzo sono arrivati a Ferrara. Insieme a loro, la suocera, la cognata e il nipote di Zhanna. Ma il padre ha un solo pensiero: la sua terra. Intesa come patria e come appezzamento di terreno che rappresenta la sua vita, le sue radici, la sua casa. E molto di più.  «“Se nessuno produce il grano, come viviamo? Non solo noi, ma tutta l’Ucraina”. È questo il loro pensiero. L’aver subito una violenza non da poco. E con loro, l’intero Paese. «È una cosa simile a quella di un secolo fa: una carestia indotta dagli invasori. Senza grano, l’Ucraina non sopravviverà», dice Zhanna. «Gli ucraini sanno anche divertirsi, ma prima di tutto sanno lavorare». «Non vedo la fine della guerra, Putin vuole andrà avanti, ha in mente un altro piano, che per ora non sappiamo», prosegue. E riesce a ingannare molti dei suoi concittadini grazie al controllo dell’informazione. «La propaganda della tv russa racconta dell’Ucraina come di un paese povero», rimasto a decenni fa. «E le tante persone che si informano solo attraverso la tv, ci credono».  

La nuova vita della sua famiglia è fatta anche dell’aiuto delle nostre comunità. Una volta al mese si recano nella sede del “Mantello” per i beni essenziali, e una mano gliela dà anche la parrocchia di Pontelagoscuro. Ma Zhanna, nonostante il pessimismo, non riesce a trattenere l’energia che ha dentro di sé, trasformandola in servizio per i propri connazionali fuggiti a Ferrara. «Non credevo ai miei occhi quando vedevo la fila di persone davanti alla chiesa di via Cosmè Tura, pronte a donare. Lì ho capito che i ferraresi non erano freddi, ma solo riservati…». Al Centro “Il Parco” di Ferrara, Zhanna è volontaria: una volta alla settimana intrattiene i bimbi profughi con canti e giochi. E se da alcuni giorni, nello stesso luogo, tre mattine alla settimana c’è una scuola per bimbi in età da prima elementare, è merito suo. Ma non si ferma qui, Zhanna. In attesa dei campi estivi, il 29 maggio, con inizio alle ore 16, al “Parco” ci sarà un grande evento di beneficenza con canti, danze, recite, laboratori e giochi per i più piccoli: lei è tra gli organizzatori e le animatrici. Sempre in prima linea. Solo così riesce a tenere a bada quel pessimismo che non le appartiene.

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 20 maggio 2022

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Oksana e i demoni vivi della guerra

19 Mag
La città di Kharkiv

È arrivata nella nostra città con la figlia Tatiana. Hanno raggiunto l’altro figlio Roman, promessa del basket

La mattina del 24 febbraio Oksana, che vive al decimo piano di un condominio di 15 alla periferia di Kharkiv, si è svegliata molto presto: deve finire un lavoro, lei impiegata in un’azienda farmaceutica. Mentre si prepara il caffè, dalla finestra vede una luce lontana nel cielo. «Ho sentito un forte rumore di esplosioni. Era terribile». All’inizio non capisce, ma presto comprenderà: la Russia ha iniziato a bombardare il suo Paese. Dopo 10 minuti sul web arrivano le prime notizie. Chiama il fratello che abita a Kiev. È l’inizio di un incubo che dura ancora. 

Dai primi di aprile Oksana vive a Ferrara insieme alla figlia Tatiana, di 11 anni. Sono scappati qui perché l’altro suo figlio, Roman, è a Ferrara da settembre per giocare nell’Under 17 Eccellenza della VIS 2008, società di basket giovanile della nostra città. Appena lo scorso gennaio, Oksana era venuta a trovarlo per alcuni giorni.

«Prima di quel 24 febbraio – ci racconta – non sapevamo quanto fossimo felici in Ucraina. Avevamo problemi, certo, ma dopo lo scoppio della guerra abbiamo capito che non erano veri problemi. La nostra era una vita davvero normale e pensavamo che sarebbe stato così per sempre». 

Anche il marito Yevhen lavora in un’azienda farmaceutica, a loro non manca niente, e nulla fanno mancare ai propri figli. «Il 24 febbraio i russi sono entrati facilmente in Ucraina, nessuno se l’aspettava», non c’è stata una dichiarazione di guerra. Dall’altra parte, però, anche Putin e i suoi uomini non s’aspettavano una resistenza così forte da parte degli ucraini, senza contare che l’esercito di Zelensky era comunque preparato da 8 anni di tensioni fra i due Paesi.

«I primissimi giorni – prosegue – pensavamo che sarebbe finita molto presto, che avrebbero trovato un accordo. Le tv ucraine ci dicevano: “preparate le valigie in caso di emergenza”. Ma tutti pensavamo fosse solo una precauzione». E invece non è stato così. Nei giorni successivi i bombardamenti proseguono, «sentivamo ancora gli aerei passare con un rumore fortissimo, volavano basso. Anche questo non lo dimenticherò mai».

Dove abitano, non ci sono veri e propri rifugi, perciò molta gente si è nascosta negli scantinati dei condomini. «Mia figlia già dai primi giorni ha subito uno stress fortissimo, una grande stanchezza psicologica». I primi giorni di marzo decidono di partire da Kharkiv, in auto, disperati, rischiando la vita, dato che i russi iniziavano a colpire anche i corridoi umanitari. «Prima di partire ci chiedevamo: “cosa prendiamo con noi? Quanto staremo via? Ritroveremo la nostra casa?”. Una valigia a testa e siamo partiti». Impiegano 13 ore per arrivare a Kryvyj Rih, da parenti, che normalmente si raggiunge in 3 ore. Per un mese alloggeranno in una casa prestata da altre persone. Mentre il marito e i genitori sono rimasti lì, lei e la figlia il 30 marzo hanno lasciato il Paese, direzione Ferrara, che raggiungono dopo 4 giorni di viaggio, passando per Romania, Ungheria e Slovenia. «Mio padre purtroppo è morto lo scorso 5 maggio. Non ho avuto nemmeno la possibilità di dargli l’ultimo saluto». Da tempo malato, il covid ha peggiorato le cose, causando una rapida crescita e diffusione di tumori. La storia della sua famiglia è, purtroppo, una storia di fughe a causa del regime russo. Oksana, infatti, è nata e cresciuta in Crimea. I suoi genitori nel 2015, dopo l’annessione della penisola da parte della Russia e in seguito all’isolamento e alle continue molestie che subivano in quanto ucraini, han deciso di lasciare la casa dove hanno vissuto per 40 anni, per raggiungere la figlia, il genero e i nipoti. «Così – ci dice con profonda tristezza Oksana – i miei genitori per la seconda volta sono stati costretti a lasciare la loro casa a causa delle operazioni militari d’occupazione russe in Ucraina».

A Kharkiv, prosegue il racconto, «la metà delle case e dei condomini sono stati bombardati. Una mia collega voleva tornare nel suo appartamento, ma essendo stato il suo condominio colpito ai piani superiori, non può farlo, può crollare tutto. Il mio stesso ufficio è stato distrutto». Oksana è rimasta in contatto con alcuni amici e colleghi della sua città: «le persone che sono rimaste lì, l’hanno scelto o perché non sanno dove andare, o perché non vogliono lasciare la propria casa, o perché non possono in quanto malate, anziane».

Le chiediamo se ha colleghi russi, ci risponde di sì: «alcuni di loro hanno smesso di parlarmi, altri mi hanno detto “ci dispiace molto”, altri ancora dicono che in realtà la loro guerra è contro gli USA». Ma sono gli ucraini a morire. In ogni caso, «ora i russi hanno paura di venire arrestati, quindi hanno interrotto i contatti con noi». Riguardo a cosa pensa del governo del suo Paese, ci risponde: «so che Zelensky non ha molta esperienza politica ma ha scelto di rimanere, non è scappato dall’Ucraina e per questo mi fido molto di lui». 

La sua Ucraina è sempre vicina, forse mai come ora. È – come dicevamo – la loro vita prima di quel maledetto 24 febbraio a essere così lontana. «A molti interessava solo guadagnare più degli altri. Ora siamo tutti nella stessa situazione: se non c’è vita, se i nostri figli non sono al sicuro e se non ci si aiuta gli uni con gli altri, non c’è niente. Tutto il resto non conta più».

Oksana ci tiene molto a ringraziare Filippo Bertelli e Mauro Cavara, rispettivamente Presidente e Direttore generale della VIS 2008, «per il grandissimo aiuto che ci hanno dato e continuano a darci. Hanno fatto tutto per noi», così come l’amministrazione della Scuola San Vincenzo, che accoglie Tatiana per studiare. Ora, lei e sua figlia vivono in un appartamento che i genitori di un compagno di basket di Roman gli ha prestato. «Soprattutto per mia figlia – si sfoga -, è un incubo che sembra non finire. Ma almeno qui ha la possibilità di continuare a giocare a basket», che per lei, come per il fratello (che studia al Carducci) è molto importante. «Ora Tatiana sorride di più, gioca, sta bene con i compagni di scuola». I suoi nuovi compagni, perché quelle e quelli che aveva a Kharkiv sono sparsi per l’Europa, scappati con le famiglie nell’ovest dell’Ucraina, in Polonia, Repubblica Ceca, Germania, Regno Unito…

Il grande aiuto che sta ricevendo dai ferraresi, a un tempo commuove e imbarazza Oksana. «Non mi aspettavo tutto ciò, che così tanti sconosciuti ci aiutassero come fossimo loro amici». Dall’altra parte, ci confessa, «non è stato facile abituarsi a dover chiedere tutto, a prendere in dono anche l’essenziale: prima lavoravamo e guadagnavamo, ci mantenevamo tranquillamente. Ora c’è l’imbarazzo di dover chiedere per ogni cosa». Perché la guerra gli ha tolto tutto, lasciandole quel terrore negli occhi e nella mente: «quando passa un aereo ho ancora il panico». 

Come il presente e il recente passato sono qualcosa di assurdo, di incomprensibile, così il futuro è avvolto nella più grande incertezza. «Vorremmo tornare in Ucraina, ma non so se riusciremo. E in ogni caso, non so se nella stessa città, nella stessa casa». Quella casa dalla quale ha assistito all’inizio di un incubo di cui non vede ancora la fine.

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 20 maggio 2022

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Da Kicman in Ucraina a Ferrara: Agnese è sempre in prima fila

12 Mag
Agnese Di Giusto

Casco bianco IBO, ha dovuto lasciare per la guerra. Ma qui prosegue il suo servizio

Da alcune settimane Agnese Di Giusto nei locali della parrocchia di S. Maria deiServi a Ferrara tiene corsi di lingua italiana a un gruppo di bambini ucraini dai 5 agli 11 anni d’età, mentre quando la incontriamo sta tenendo la sua prima lezione settimanale ad alcuni adulti (Qui le loro storie: Fra le lacrime si cerca di rinascere: i racconti di tre donne ucraine).

«I bambini hanno tanta voglia di imparare, sono molto curiosi, fanno molte domande», ci spiega Agnese. E non hanno perso la voglia di giocare. «Con gli adulti, invece, all’inizio ero un po’ preoccupata, perché non volevo, durante la lezione, toccare tasti dolenti che potessero intristirle, come ad esempio nell’insegnar loro a dire se sono sposate, o vedove… Ma sono informazioni importanti, che verranno loro chieste quando dovranno fare i documenti».

Pochi ma intensi mesi a Cernivci

Agnese è volontaria come Casco bianco per IBO e fino a febbraio era inserita come volontaria nel Centro riabilitativo per minori disabili “Campanellino” a Kicman, un paesino vicino a Cernivci, nel sud ovest dell’Ucraina, a poca distanza dal confine rumeno. In quella zona del Paese, IBO collabora anche con l’Associazione “Gente buona di Bukovina”.

Ventotto anni, laureata in educazione professionale, Agnese è originaria di Buja, provincia di Udine, dove, oltre a insegnare yoga, prima di iniziare il Servizio civile ha lavorato come educatrice in un Centro per minori stranieri non accompagnati.

A Ferrara, dove prosegue il suo anno di Servizio civile, si occupa principalmente di aiutare lo staff di IBO a organizzare e coordinare la raccolta di beni di prima necessità da inviare a Cernivci per sostenere la comunità locale nel far fronte al grosso numero di sfollati che stanno arrivando dalle zone più colpite del Paese. E a Cernivici, come ci spiega, mancano molti farmaci comuni ed è quasi introvabile l’insulina, in quanto le farmacie non vengono rifornite.

Inoltre, insieme ad Amos, l’altro volontario rimasto appena poche settimane in Ucraina, fa testimonianza nelle scuole, corsi di lingua italiana ad adulti e ragazzi nella sede dell’ADO, mantiene i contatti con “Campanellino” e con Ivan Sandulovich a Cernivci (Qui il suo racconto: Ivan a Cernivci guida la macchina della solidarietà), e regolarmente si coordinano col CSV di Ferrara.

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 13 maggio 2022

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Fra le lacrime si cerca di rinascere: i racconti di tre donne ucraine

12 Mag
Oxana, Alina e Vasylyna

Oxana, Alina e Vasylyna sono arrivate a Ferrara negli ultimi mesi. Scappano da Kherson o hanno parenti in Donbass. Persone che non vogliono soccombere all’invasore russo

Quando le incontriamo nella sacrestia della parrocchia dei cattolici ucraini in via Cosmè Tura, Agnese insegna loro a leggere l’orologio in italiano.

Oxana, Alina e Vasylyna ascoltano con attenzione, fanno domande, si impegnano. Ma dai loro volti traspare tristezza. Agnese, volontaria di IBO Italia, ha trascorso oltre due mesi in Ucraina, ma è dovuta rientrare in Italia a causa della guerra, insieme a un altro volontario, Amos Basile.

Conclusa la lezione, chiediamo alle tre donne di raccontarci le loro storie.

«Vogliamo vivere da persone libere»

Da Cherkasy, nella parte centrale del Paese, arriva Oxana, qua da un mese. In realtà lei vive in Bulgaria e in Ucraina ci è andata per prendere i suoi due nipoti e portarli al sicuro, prima in Bulgaria, poi qui a Ferrara dove vive il suo compagno. «Durante il viaggio, grazie a una comunità protestante ho lasciato il Paese, ho dormito due giorni in una chiesa a Budapest, poi ho trascorso un mese a Sofia. Nel Donbass vivono le mie zie e mio zio», prosegue. «I loro figli non vogliono vivere sotto il giogo russo e quindi sono scappati in Belgio, Polonia e nei Paesi baltici. I russi propongono agli abitanti di andare a vivere in Russia, ma le persone si rifiutano. I miei cugini, come tanti altri nel Donbass, vogliono essere liberi, vivere da persone libere».

«A Kherson protestano contro l’occupazione russa»

Alina è scappata da Kherson, e da un mese è a Ferrara con i figli Artem e Costantin di 6 e 8 anni, con la cognata e i suoi figli di 3 e 10 anni. Nella nostra città, infatti, la madre Ludmila lavora come badante. «Siamo usciti da Kherson quando già era stata occupata dai russi, e non c’era nessun corridoio umanitario: abbiamo rischiato davvero la vita, di essere colpiti dai russi», ci spiega. «Mio marito ci ha portati a Odessa, dov’è rimasto, mentre noi da lì siamo partiti per l’Italia. A Kherson i militari si sentono i padroni, le bandiere russe sventolano, è orribile», ci dice tra le lacrime. «Non vogliamo far parte della Russia! Anche se non se ne parla, però, a Kherson ci sono proteste contro gli occupanti, la gente scende per strada con le bandiere ucraine». 

Quel viaggio a piedi di notte

A Ferrara è arrivata anche Vasylyna, venuta due mesi fa da Leopoli con i figli Anastasia e Roman di 11 e 13 anni, per raggiungere la sorella Alina. Un ricordo che le segna ancora il viso: «passata la dogana, abbiamo dovuto camminare per 8 ore, di notte. Poi per una settimana in Polonia siamo stati ospitati da una famiglia». Prima di arrivare in questa città che ora li accoglie, cercando di offrire loro un po’ di speranza.

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 13 maggio 2022

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Marta e i suoi figli a Ferrara, ma la guerra resta vicina

12 Mag
Marta col marito e i figli in un momento sereno in Ucraina prima della guerra

Marta è sposata con Pietro, sacerdote. Da Drohobyc è scappata coi figli Ivan (8 anni) e Teresa (5). Qui a Ferrara cercano un po’ di serenità, tra la scuola e la parrocchia in via Cosmè Tura

di Andrea Musacci

Raccontare attraverso i giochi e i disegni la guerra e quella vita nuova non voluta, inaspettata.

Sono alcuni dei particolari toccanti che emergono ascoltando le storie delle donne giunte a Ferrara negli ultimi mesi, molte di loro giovani madri. Come Marta, cognata di padre Vasyl Verbitskyy, guida dei cattolici ucraini nella nostra Diocesi. Marta è arrivata nella nostra città lo scorso 5 marzo da Verkhniy Luzhok, un piccolo paese vicino Drohobyc, a 30 km dal confine polacco. Con lei, i suoi due figli, Ivan di 8 anni e Teresa di 5.

A Verkhniy Luzhok hanno lasciato il marito Pietro, sacerdote cattolico di rito bizantino. «Prima della guerra vivevamo una vita normale – ci racconta Marta -, Ivan andava a scuola, Teresa avrebbe dovuto iniziare l’asilo. E sognava tanto di andare a vedere uno spettacolo di canti, con i soldi che aveva ricevuto in dono per Natale…».

Ma alle 5 del mattino del 24 febbraio l’allarme delle sirene ha rotto ogni pace. «Abbiamo visto gli aerei militari sfrecciare sulla città e poco dopo abbiamo saputo dell’inizio dell’invasione russa. Anche noi come genitori non eravamo pronti. Non pensavamo potesse accadere una cosa del genere ai giorni nostri». La decisione di lasciare il Paese l’hanno presa dopo la notizia degli attacchi alla vicina centrale di Chernobyl, la notte fra il 3 e il 4 marzo.

«Era difficile spiegare ai bambini perché dovevamo partire, e perché con sé non potevano portare i propri giochi, ma solo l’essenziale. Prima di partire, i miei figli hanno creato loro stessi alcuni giochi: Ivan, coi Lego, ha creato tank, aerei da guerra e l’Antonov An-225 Mriya». Myria significa “sogno” in ucraino. Si tratta del più grande aereo del Paese utilizzato per i rifornimenti, costruito in un unico esemplare. I russi l’hanno distrutto a Hostomel’, vicino Kiev, nei primissimi giorni di guerra. Ivan l’ha voluto ricostruire dopo aver sentito in tv la notizia della distruzione.  

Poi la partenza verso la Polonia, direzione Italia. Alla dogana file di giovani mamme come lei, «con tutta la loro vita in uno zaino», prosegue Marta. «Nelle nostre valigie, oltre ai vestiti e all’essenziale, Ivan ha voluto mettere i suoi pennarelli, dato che ama molto disegnare, Teresa invece il suo unicorno, io un rosario. A mio marito, prima di partire abbiamo detto: “ti amiamo”…».

«Noi qua, i nostri cari sotto le bombe: non è giusto…»

Quotidianamente, più volte al giorno, Marta e i bambini si sentono via WhatsApp e Viber con Pietro. 

«Nella nostra parrocchia a Verkhniy Luzhok, soprattutto dopo gli eccidi di Bucha e Irpin, in molti hanno compreso ancora di più cosa fosse questa guerra, sono rimasti scioccati, considerano quel che sta accadendo incomprensibile. Si chiedono: “dov’è Dio? Perché permette tutto questo?”. Ci sembra di non vedere la fine di quest’incubo».

Il marito aiuta come può per organizzare l’ospitalità di tante famiglie che scappano dalla zona est del Paese: dà loro sostegno spirituale, anche psicologico, e insieme ai suoi parrocchiani li aiuta per i beni essenziali, raccogliendo beni anche per i militari della parrocchia impegnati a difendere la propria patria. 

«Poco tempo fa – ci racconta Marta – è morto un uomo del nostro paese che si era arruolato volontario in un battaglione per combattere in Donbass». Sono riusciti a far tornare il suo corpo a casa, per celebrare i funerali e lì farlo riposare. «Alle esequie era presente l’intero paese: quando è passato il feretro, tutti si sono inginocchiati, i bambini con le candele e i fiori in mano». E Marta poi ci racconta di Leopoli, dove ha molti amici impegnati come volontari nell’accoglienza dei profughi, e dove vivono suo fratello e i suoi genitori: «due giorni fa hanno visto quattro missili sorvolare la città a bassa quota». Era uno dei periodici attacchi sulla città.

«Noi siamo qui protetti e i nostri cari invece là sotto le bombe», dice commossa. «Questo mi fa stare molto male, quasi sentire in colpa. Per questo, anche se siamo scappati, la guerra la sentiamo ancora molto vicina a noi». 

Ricominciare a vivere

Appena arrivati a Ferrara, suo figlio Ivan ha voluto comprare la mappa d’Italia: su un grande foglio ha disegnato i luoghi e i monumenti caratteristici di alcune città italiane, Ferrara compresa, di cui ha realizzato il Castello. Ad aiutarlo in questa sua passione, una ferrarese amica di famiglia. E Ivan è rimasto molto colpito anche dallo splendore della Basilica di S. Maria in Vado, e ogni tanto aiuta padre Vasyl come chierichetto. Piccoli sprazzi di serenità per due bambini, come lui e Teresa, che in Ucraina hanno lasciato quasi tutto. Mentre la piccola non comincerà subito ad andare all’asilo, Ivan ha iniziato a frequentare la Scuola internazionale Smiling. «Il primo giorno – ci spiega Marta – si è commosso perché i suoi nuovi compagni lo hanno accolto con alcuni disegni di cuori con sia la bandiera ucraina sia quella italiana, realizzati apposta per lui. E fuori dall’orario delle lezioni, prosegue tramite Zoom la didattica a distanza con la sua insegnante in Ucraina, anche se a volte quando là suona l’allarme, si interrompe il collegamento». 

Anche Marta un po’ alla volta cerca di ritrovare un po’ di serenità: prima di Pasqua, ad esempio,  seguendo i bambini che si preparano per la Prima Comunione e aiutandoli a dipingere le uova pasquali e a preparare i rami d’ulivo. «Mi sono sentita utile, come se avessi di nuovo una vita normale. E in ogni chiesa che visitiamo qui in città prendiamo santini come souvenir che poi porteremo a Pietro». 

«Prima della guerra – dice con tristezza Marta – noi ucraini avevamo tanti sogni: di studiare, viaggiare fuori dal nostro Paese, aprire attività commerciali. Ora invece ogni giorno non sappiamo se avremo il cibo, l’acqua potabile, un letto e una casa. Si vive alla giornata. Anzi, le persone che vivono nelle zone occupate dai russi, vivono ora per ora. E i miei figli mi fanno tante domande sulla situazione in Ucraina, se ritroveranno i loro giocattoli. Speriamo che tutto questo finisca presto».

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 13 maggio 2022

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Sentirsi amati, sempre: l’impegno del SAV

12 Mag
Alcune volontarie davanti alla sede del SAV

Siamo andati nella sede del Servizio Accoglienza alla Vita di Ferrara per incontrare le volontarie. Perché la vita si difende, innanzitutto, con l’amore e la vicinanza alle persone

Impressionano quelle file di alti scaffali dove ordinatamente sono stipati ogni genere di indumenti per bambini di età diverse, e, dal lato opposto dello stanzone, le file di alimenti a lunga conservazione. Siamo nella sede del SAV – Servizio di Accoglienza alla Vita di Ferrara, per la precisione nell’ambiente dedicato alla distribuzione. Ma ciò che colpisce ancora di più, ogni volta che si varca la soglia d’ingresso, sono il calore e la gioia che le tante volontarie impegnate mettono in ogni piccolo gesto, in ogni sorriso.

Qui in via Arginone, a metà strada fra il carcere e la chiesa di San Giacomo, ogni mattina dal lunedì al venerdì dalle 9.30 alle 12 decine di volontarie accolgono mamme coi loro figli, a volte anche papà, venuti per ricevere in dono alimenti o indumenti soprattutto per i loro bambini, e a volte anche per sé. Il sabato, invece, oltre all’attività di segreteria, è prevista l’accettazione del materiale donato.

Attualmente sono 70 i soci (perlopiù donne), di cui 44 volontarie attive regolarmente. Sono donne che fanno della concretezza la loro forza, ma senza che il loro impegno diventi qualcosa di meramente burocratico e dimostrando, semplicemente col loro esserci, che i Centri di aiuto alla vita non sono etichettabili solo come gruppi “anti aborto”. «Certo, il nostro discorso va controcorrente – ci spiega la presidente Alessandra Cescati Mazzanti -, per noi la vita inizia col concepimento. Ma siamo persone competenti, e il nostro carisma va rispettato». La loro missione consiste nell’essere vicine alle donne, ai loro bimbi, alle loro famiglie. «Molte madri ci dimostrano riconoscenza anche a distanza di tempo, perché si sono sentite e si sentono amate da noi».

In questo periodo il SAV di Ferrara aiuta 292 famiglie: 59 vengono nella sede di via Arginone in maniera continuativa ogni settimana per ritirare indumenti, alimenti per i bimbi (pastine, omogeneizzate) e alimenti a lunga conservazione i genitori. 73 famiglie, invece, ritirano solo indumenti, e alimenti per i bimbi, mentre le restanti 160 ritirano un po’ di tutto ma saltuariamente, vale a dire circa ogni 3-4 mesi. Sono famiglie soprattutto straniere (la maggior parte nigeriane e marocchine), ma quelle italiane rappresentano una minoranza corposa. 

Il SAV ha anche aiutato la popolazione ucraina nelle prime settimane del conflitto in corso. Alla parrocchia guidata da padre Vasyl Verbitskyy sono stati consegnati tre pulmini pieni di materiale poi recapitati nel Paese in guerra: nello specifico, sono stati raccolti 15 lettini da campeggio, pannolini, alimenti per bimbi, coperte, vestiti, assorbenti, biancheria, e 250 kg di pasta acquistati coi soldi raccolti grazie a una delle serate di Burraco che regolarmente organizzano come forma di autofinanziamento. «Il nostro rapporto con padre Vasyl – ci spiegano – è iniziato ben prima dello scoppio del conflitto: ad esempio, lo scorso dicembre ci ha chiesto di aiutarlo per l’acquisto di un farmaco per un bambino, introvabile in Ucraina, e siamo riuscite ad aiutarlo».

Oltre agli indumenti, gli investimenti più consistenti sono naturalmente quelli per latte e pannolini, per cui vengono spesi ogni mese circa 2mila euro. Un’altra forma di aiuto del SAV avviene mettendo a disposizione i due appartamenti dell’Associazione presenti in via Baluardi, che possono ospitare 4 mamme coi loro bimbi. Nello stesso edificio ha anche sede il Laboratorio “Mani d’oro”. Soprattutto tramite il passaparola e la pagina Facebook, le volontarie riescono a raggiungere più persone possibili per chiedere aiuto quando vi sono necessità particolari. Come nel caso di una mamma, che dopo un certo periodo in uno degli appartamenti di via Baluardi, a breve si trasferirà in un alloggio del Comune, sprovvisto di tutto, mobili compresi. E grazie al passaparola, in tanti si stanno rendendo disponibili per aiutarla.

Non mancano, poi, raccolte straordinarie, come quelle durante la Giornata della Colletta Alimentare, o come quelle nei supermercati Coop: la prossima è in programma alla Coop del Doro sabato 14 maggio dalle ore 8 alle 13, con 8 volontarie che si alterneranno per la raccolta.

Un altro importante capitolo dell’impegno del SAV riguarda l’accoglienza nella propria sede di studenti in percorsi di stage in Alternanza Scuola Lavoro (soprattutto da Einaudi, Ariosto e Roiti) e l’adesione, da cinque anni, al Progetto di Accoglienza per Attività di Volontariato Sostitutiva della Sanzione dell’Allontanamento Scolastico.

Paola Mastellari, referente di questi due progetti, ci illustra i risultati dell’accordo tra il SAV e il Centro Servizi per il Volontariato, che fa da intermediario tra le associazioni e le scuole. «Lo scorso gennaio abbiamo ripreso i contatti con le scuole, dopo la sospensione per l’emergenza Covid. In questi primi mesi dell’anno abbiamo ospitato quattro studenti: a gennaio due ragazze dell’Einaudi per l’Alternanza Scuola Lavoro, che sono state qui da noi per tre settimane. Sono rimaste talmente contente che, a conclusione del progetto, hanno portato quattro loro compagne di classe per fargli conoscere la nostra realtà». Negli anni poi, assieme agli stagisti, «abbiamo portato avanti diversi progetti, ad esempio sulla prevenzione di incidenti domestici». 

Due sono, invece, i ragazzi accolti per l’Allontanamento Scolastico, uno dell’ITIS e l’altro, di 15 anni, del Vergani-Navarra, che farà esperienza al SAV dal 9 al 19 maggio. «Per noi è sempre una sorpresa la relazione che si crea con questi ragazzi sospesi da scuola», ci spiegano le volontarie. «Scopriamo, infatti, che sono persone molto sensibili e contenti di conoscere un mondo di cui non sapevano nemmeno l’esistenza. Speriamo sempre che qualche studente torni spontaneamente come volontario».

Riguardo a quest’ultimo gruppo di ragazzi accolti, le volontarie, dopo un colloquio e una visita alla sede, cercano di capire le loro attitudini e quindi come meglio renderli utili, ad esempio nel controllo delle scadenze degli alimenti raccolti, oppure nello stoccaggio o nella sistemazione degli scaffali. 

Quest’ultime iniziative legate al mondo della scuola dimostrano ancora di più la volontà del SAV di far comprendere la propria apertura all’intera cittadinanza e l’importanza di un servizio come questo che va avanti da 35 anni, fondamentale per difendere la cultura della vita non come sterile battaglia ideologica ma come fonte di speranza per tutti, soprattutto in una città come la nostra con un indice di natalità basso e in continuo calo.

Una cura, quella delle volontarie del SAV, che come dicevamo non si arresta ai primi mesi di vita del bambino, ma prosegue nel tempo, a volte per anni. Come nel caso di una giovane camerunense madre di una bimba, seguita dal SAV, che con le volontarie in queste settimane condivide la grande soddisfazione di aver conseguito la Laurea magistrale in Medicina e Chirurgia.

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 13 maggio 2022

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Che vita meravigliosa: i 100 anni di Raffaele Lucci

4 Mag

Per tanti anni noto pediatra di Ferrara, ha salvato molti bambini dalla tubercolosi. E ha permesso 150 adozioni in famiglia. Fu il primo in Italia a pensare in Pediatria luoghi per l’ospitalità delle madri 

di Andrea Musacci

Cento di questi giorni. Anzi, cento di queste vite. Sì, perché ad ascoltare i racconti di Raffaele Lucci, si ha la sensazione di essere dentro una storia fatta di infinite storie. Raffaele lo incontriamo nella sua casa di via Scandiana. Casa che, per lui, è molto di più di una residenza ma il luogo dov’è venuto alla luce e dov’è sempre vissuto.

Nato il 4 maggio 1922 insieme al fratello gemello Mario, proprio di fronte all’ingresso laterale di S. Maria in Vado, come pediatra ha lavorato per 12 anni all’Istituto provinciale per l’infanzia diretto dal prof. Marino Ortolani in via Savonarola 15, prima di assumere la direzione provinciale dell’ONMI – Opera Nazionale Maternità e Infanzia. Buona parte della vita spesa, dunque, per i bambini e le loro madri.

La casa luogo dell’anima

Figlio di Giuseppe, originario di Mesola, e Aldina, ottavo/nono di dieci figli (sei maschi e quattro femmine), Raffaele frequenta il Giardino d’Infanzia, scuola materna privata in via Savonarola (dove ora c’è l’Istituto Einaudi). Dopo le Elementari alla Guarini di via Bellaria, dove ricorda in particolare il maestro Pedrocchi, si iscrive al Regio Liceo Classico Ariosto, ai tempi in via Borgo Leoni. 

Ma la dimensione domestica, quella casa luogo non solo fisico ma simbolico e spirituale, come detto è stata da sempre per lui centrale. Scrigno, dunque, di dolci memorie. A partire dai volti, dagli ambienti e dagli oggetti: la «cucinona», il grande camino, il rito della polenta, il lanternone per conservare gli alimenti, il capitone a Natale, il presepio realizzato nella “Stanza dei Giochi” in mansarda. E ancora, il carillon, il giradischi coi canti natalizi, a maggio il fioretto mariano nella cosiddetta “Camera da lavoro”. 

E un altro luogo dell’anima è la casa delle vacanze, quella Villa Belvedere a Dozza parte di un’azienda agricola dove con la famiglia trascorreva il periodo estivo. «Partivamo sulla nostra Ford, con Dante, il tuttofare di casa, al volante. Non c’era l’acqua dall’acquedotto, usavamo il pozzo». In casa, un minuscolo water in casa, il bagno completo era fuori. Non c’era la corrente elettrica, si usavano le lampade a petrolio appese al soffitto, e le candele. Queste mancanze non ci pesavano ma le vivevamo come una gradita novità». E poi la sua amata fionda e le mucche, l’aratura con le bestie, «l’odore delle zolle fresche», la trebbiatura vissuta «come una festa», «il sapore del formaggio appena fatto» e il momento della vendemmia, con «le donne che, arrotolate le sottane per scoprire le gambe, entravano nel bigoncio a pigiare l’uva». 

«Un avvenire infausto»

Ma la storia con la “s” maiuscola incombe, strappa legami, distrugge vite.

Del regime Lucci ricorda innanzitutto l’ipocrita e imbarazzante ritualità, come quella del Sabato fascista, giorno in cui i suoi stessi insegnanti erano costretti a indossare la divisa nera: «ma riuscivo a capire chi la indossava volentieri – e aveva la camicia ben stirata -, e chi invece lo faceva controvoglia – e allora notavo che era stropicciata e abbottonata male…». «Questa situazione politica mi disturbava molto», prosegue Lucci. «Mi metteva a disagio e già allora, nonostante avessi 16 anni, avvertivo il timore di un avvenire imprevedibile, infausto».

Così fu, e Raffaele lo ricorda attraverso il racconto che gli fece il fratello Vincenzo, appartenente alla FUCI, e della loro sede di via Montebello devastata dai fascisti. O dal ricordo del conte Grosoli, «che mio padre andò a trovare fino all’ultimo nel suo esilio ad Assisi». Oltre a quello dei due cugini Tullio e Vittorio Ravenna, che da quel novembre 1938 non si presentarono più a scuola. «Per noi vedere il banco vuoto è stato un grande dolore, e silenziosamente qualcuno di noi ha pianto. E quel banco è rimasto vuoto». Vittorio morì nel campo di Auschwitz. Triste sorte toccò anche ad Emilio Teglio (1873-1940), Preside del Liceo Ariosto dal ’22 al ’38, costretto a dimettersi a causa delle leggi razziali promulgate dal regime fascista. Il figlio Ugo è uno degli 11 fucilati dell’eccidio del Castello della notte del 14-15 novembre 1943. 

Nel ’41 Raffaele conclude il Liceo, per due anni frequenta Ingegneria ma nel ’43 viene chiamato alle armi e assegnato a Firenze. Un tremendo ricordo legato a questa città è quello dell’esecuzione di tre giovani partigiani. Ricordo che Raffaele ha raccontato per la prima volta, ai figli, solo pochi anni fa. «Per punire un gruppo di commilitoni accusati di aver lanciato sassi contro alcuni repubblichini dal treno, una notte ci svegliano e ci fanno attraversare la città deserta per arrivare a un poligono di tiro. Qui, per terrorizzarci ci obbligano ad assistere alla fucilazione di quei poveri tre. Erano solo ragazzini…». Dopo un periodo nell’entroterra di Anzio, con altri incaricato di scavare trincee, arriva la ritirata dei tedeschi dopo lo sbarco degli Alleati. Raffaele allora risale verso nord, si ferma a Poggibonsi, vicino Siena, dov’è accolto da don Baldo, che vive con la madre e il fratello, e che si è unito alla Resistenza: «mi dice: “guarda, faccio parte del movimento di liberazione”. Apre il cassetto della scrivania e prende fuori una rivoltella che appoggia sulla scrivania stessa. Ma non la userà mai».

Raffaele torna poi a Firenze, ospite del dott. Terzi, amico di famigli. È il periodo dei bombardamenti alleati. «Quando cadeva una bomba non sapevamo in che direzione scappare, perché non potevamo sapere dove sarebbe caduta quella successiva». Arriverà il 25 aprile del ’45, l’ora del rocambolesco ritorno a casa, «dove però trovai 3 metri di macerie. Due bombe, infatti, l’avevano colpita, e altre nelle case attigue, una vicina a S. Maria in Vado».

Una nuova vita al servizio degli altri

Nel ’45, rientrato dalla guerra decide che debba, anche per lui, cominciare una storia diversa. Si iscrive a Medicina e Chirurgia, dove si laurea nel ‘50 e inizia la specializzazione in Pediatria all’Università di Padova. Nel gennaio ’51, pochi mesi prima di sposare Anna, viene assunto come assistente all’Istituto in via Savonarola. «Già dal primo anno Ortolani mi affida il reparto per i bambini malati di tubercolosi. Andai un mese in visita alla Clinica pediatrica Mayer di Firenze allora diretta dal prof. Cocchi, una delle prime cliniche che iniziavano ad adottare la streptomicina. I malati a Ferrara arrivavano dalla città, da ogni parte della provincia, dal Polesine e dalla Bassa Lombardia. Riuscimmo a salvarne molti grazie a questo nuovo antibiotico proveniente dagli USA. Uno di questi, Giuseppe Artioli, che dopo divenne fornaio, ancora oggi, dopo 60 anni, ogni Natale mi manda un biglietto di auguri».

Quello di via Savonarola era allora l’unico reparto pediatrico della provincia, e fu il primo in Italia che insieme al bambino ricoverava anche la mamma. Questo per un’intuizione che oggi sembra naturale, ma che ai tempi non lo era, proprio di Raffaele. «Molte mamme non si fidavano dell’allora Pediatria del S. Anna, e quindi si rivolgevano a noi». 

In seguito Raffaele divenne prima Direttore della sede provinciale del Centro Sudi della talassemia e nel ’63 della sede provinciale dell’ONMI in via Contrada della Rosa. Di questa esperienza ricorda il ruolo fondamentale delle assistenti sanitarie e la sua battaglia per l’allattamento al seno. «In molti mi dicevano: “il latte in polvere è più comodo e le donne non vogliono più allattare al seno”. Ma io sapevo che la scelta di molte era condizionata da pressioni esterne. Dal ’63 al ’74 nella Casa di cura Quisisana di Ferrara visitai 3500 neonati e le loro mamme, aiutandole in questa esperienza: da alcune mie indagini scoprii che, a differenza del S. Anna, qui la maggior parte delle mamme allattava al seno».

Altri ricordi personali di questo periodo sono legati alla vaccinazione contro la poliomelite, «che registrò un’adesione molto alta», e al suo impegno per le adozioni, dopo che nel 1967 fu promulgata la “Legge sull’adozione speciale”. Negli otto anni successivi portò a termine ben 150 adozioni. Per questo suo fondamentale servizio alla vita e alla famiglia, fu nominato Giudice Onorario del Tribunale dei minori di Bologna, e alla fine del ’68 fu insignito dell’attestato di Cavaliere dell’ordine al merito.

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 6 maggio 2022

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Fuoco che risveglia: un libro per don Alessandro Denti

4 Mag

A 5 anni dalla scomparsa, un volume raccoglie le sue parole e i ricordi di chi l’ha conosciuto, di chi ha avuto la grazia di camminare assieme a lui

di Andrea Musacci

«Sì, anche la sofferenza, a modo suo, se impari ad ascoltarla, pur nella durezza del suo linguaggio, ti riconduce a ciò che conta ed è essenziale: crescere nell’amore!» 

(Don Alessandro Denti, lettera alla parrocchia, febbraio 2016)

“Don Alessandro Denti. Tutto passa, solo l’amore resta” è il nome della pubblicazione appena edita dedicata all’indimenticato sacerdote della nostra Arcidiocesi, prematuramente scomparso il 4 marzo 2017. Il volume, con prefazione di don Emanuele Zappaterra e postfazione di don Andrea Zerbini, è curato da alcuni parrocchiani: Alda Lucci, Sabina Marchetti, Simonetta Montanari, Bruno Quarneti e Silvia Veronesi. Il libro verrà presentato domenica 8 maggio alle ore 18.30 nella chiesa di Malborghetto. Distribuito ad offerta libera, il ricavato della diffusione andrà alla Parrocchia stessa. Nel volume se ne ripercorre la vita attraverso le sue riflessioni, alcune sue lettere del 2016, testimonianze di parrocchiani, di appartenenti a Rinascita Cristiana, delle Carmelitane di Ferrara, di amici sacerdoti.

Riguardo in particolare al suo ministero a Malborghetto, i curatori scrivono: «non si è mai imposto come “capo” della parrocchia, ma si è proposto accanto alla sua gente». «Con pazienza e delicatezza don Alessandro è riuscito a farsi ben volere e a proporre iniziative che hanno contribuito a rendere più uniti gli abitanti del paese». «Don Alessandro ha non solo contribuito in maniera decisiva a rendere il paese di Malborghetto più unito, ma soprattutto ha reso la parrocchia “casa di tutti”, luogo in cui le differenze sono state considerate un’opportunità positiva e non un ostacolo».

Un passaggio di una sua preghiera per l’inizio della Sagra nel 2014 ben rappresenta questo suo spirito: «Bambini e giovani, adulti e anziani, siamo un popolo in cammino… siamo insieme in questi giorni per aprire vie sempre nuove alla pace, per essere segno del sogno che è dentro di noi: dipingere un mondo dove il calore della fraternità dia luce ai nostri volti, slancio al nostro cammino…».

Una personalità a un tempo umile e carismatica, capace di attirare a sé, a Cristo e alla sua Chiesa, persone tra le più diverse. Don Zappaterra, che con lui collaborò al Centro Missionario Diocesano, scrive nella prefazione, raccontando la prima volta che lo vide, quand’ero studente liceale e lui giovane sacerdote, sull’autobus n. 11: «mi colpì non solo per quei lunghi jeans che indossava e per i capelli piuttosto lunghi, ma soprattutto per quel volto mite e sereno, che poi, dopo vari anni, capii esprimere la bellezza e la bontà della sua persona». Del primo incontro nel suo studio parrocchiale poco tempo dopo, ricorda «quel piccolo prete, umile e sobrio nell’aspetto: un padre e fratello, vero pastore, che con Cristo cammina insieme alla sua gente».

E proprio il camminare insieme, a fianco alle persone, se necessario un passo indietro, emerge dalle pagine del volume. Nel 2009 don Alessandro scrive: «Spiritualità dell’Esodo. Esodo da dove? Dal nascondiglio di una fede rassicurante, intimistica, senza sussulti». E nel 2012: «Dio non si trova solo alla fine del cammino ma ci è compagno di viaggio nel deserto meraviglioso e struggente, ma anche grande e spaventoso della vita». Grande e spaventoso, scriveva nella sua lucidità quasi profetica. «La missione sicuramente è risposta libera ad un invito ad “alzarsi e andare”, ma perde tutta la sua forza ed efficacia se non è attraversata dal desiderio profondo di offrire e donare a tutti, con passione e simpatia, tutto ciò che a nostra volta abbiamo ricevuto in dono». E le pagine che raccolgono i ricordi di chi l’ha conosciuto trasudano questa commozione che la sua grande umanità e smisurata fede trasmettevano. «Nei momenti liberi – ricorda don Alessio di Francesca, che lo conobbe come Direttore spirituale quand’era seminarista – parlava con tutti, ci colpivano quello sguardo profondo, quella voce delicata e quel sorriso che ti metteva a tuo agio. Senza che ce ne accorgessimo, sembrava che ci fossimo conosciuti da sempre…».

Profondità e delicatezza: due caratteristiche decisive per catturare il cuore di chi ci sta vicino. Due moti dell’animo sempre irradiati da una Luce più grande, da una fiamma inestinguibile. «Che bella l’immagine della Pentecoste – scriveva don Alessandro nel 2005 – , dove fra i vari simboli con cui viene descritto lo Spirito Santo, c’è quello della lingua di fuoco. Un fuoco che risveglia la vita, che riaccende in noi la brace che forse si sta spegnendo (…). A volte abbiamo la sensazione di contenere solo cenere. Ci sembra che da noi non esca più niente. La possibilità di incontrarsi in un tempo e in un momento altro rispetto alla routine, magari con le persone che vedo quotidianamente, può essere l’occasione per riscoprire che in me non c’è solo cenere consumata, ma un ardore e un desiderio di vita e di dono che può rinascere, riaccendersi, ridarmi pienezza. Attraverso la relazione, l’incontro e la parola sincera, questo può accadere». 

Relazione che si esprimeva anche nell’accompagnamento spirituale, con la preghiera e la parola. «Ha lavorato – scrivono i curatori – perché ogni persona potesse crescere spiritualmente, trovando nella preghiera uno strumento di realizzazione umana in grado di fornire la possibilità di entrare in comunione con Dio e stabilire con Lui una vitale relazione esistenziale». «Non solo ciò che appare – scrive nel 2013 -, ma ciò che muove “dentro” la vita e gli avvenimenti ci riguarda, ci interessa, diviene indispensabile tesoro da scoprire e quando è buono da accogliere e valorizzare. Il pregare ci viene incontro allora come sorgente viva che abita il cuore di ciascuno di noi».

Cuore che lui, sempre vicino alle persone, sapeva spesso pieno di dubbi, dolori, fatiche. Anche per questo, «don Alessandro ha insegnato ai suoi parrocchiani a cercare costantemente nella Parola le risposte alle inquietudini e ai problemi dell’agire dell’oggi, ma anche a cercarvi le certezze che conducono a fondare la propria esistenza in sintonia e in armonia con Dio».

La sua vita sempre «intrecciata con Gesù»

Don Alessandro Denti nasce il 23 settembre 1959 ad Ambrogio. Nel 1970 decide di entrare nel Seminario di Ferrara. «Con Gesù da quel momento la mia vita si è intrecciata», disse. All’età di 24 anni, il 2 ottobre 1983, viene consacrato sacerdote nella cattedrale di Ferrara dall’arcivescovo mons. Luigi Maverna. È vicario parrocchiale a Pontelagoscuro (1983-1986), a San Gregorio, a S. Francesca Romana (1987-1988), a Voghiera e Montesanto (1989-1991). Riceve l’incarico di insegnante di Religione e nel ‘91 fa la sua entrata, con l’incarico di parroco, nella chiesa di Malborghetto di Boara. Nel 2006 succede a don Ivano Casaroli come assistente diocesano del Movimento di Rinascita Cristiana. Nel periodo 2007-2014 è vicario foraneo del vicariato di Santa Caterina Vegri che include la parrocchia di Malborghetto. Nel 2014 il suicidio dell’amato fratello Antonio. Nel 2015 inizia la collaborazione in Seminario come direttore spirituale. Nello stesso anno accetta dall’arcivescovo il mandato di esorcista per la Diocesi. A inizio 2016, di ritorno da uno dei pellegrinaggi che organizzava a Medjugorje, la diagnosi di un tumore alla cistifellea. l’8 dicembre 2016, nella cattedrale di Ferrara riceve da mons. Negri la nomina a canonico e il titolo di monsignore. Dopo lunga agonia don Alessandro si spegne il 4 marzo 2017 presso l’Hospice Casa della Solidarietà ADO di Ferrara per malati terminali. Il 10 novembre 2018 con una cerimonia ufficiale gli viene intitolata la piazza di Malborghetto.

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 6 maggio 2022

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