Archivio | novembre, 2021

Monastero delle Benedettine “invaso” dai giovani

29 Nov
Linda Rouhani e Caterina Brunaldi

Sant’Antonio in Polesine. Visite guidate grazie ad alcuni studenti del Dosso Dossi come  “apprendisti ciceroni”. Il Monastero benedettino dal 22 al 26 novembre è stato animato dal progetto del FAI. In tutto, 250 bambini e ragazzi in visita

di Andrea Musacci
Un afflusso tranquillo ma comunque anomalo per il Monastero di Sant’Antonio in Polesine. Un’apertura eccezionale per permettere a tanti bambini e ragazzi di conoscere meglio questo angolo di Cielo nel cuore antico della nostra città.

Da lunedì 22 a venerdì 26 novembre, dalle 9 alle 12, il Monastero che ospita le Monache Benedettine ha aperto le proprie porte a circa 250 alunni e ad alcuni loro insegnanti in occasione della decima edizione delle “Giornate Fai per le scuole”, che in tutto il Paese (nelle altre località fino al 27) prevedevano visite esclusive a luoghi di interesse storico, artistico e naturale a cura degli “apprendisti ciceroni”. La delegazione ferrarese del FAI ha organizzato visite riservate alle classi “Amiche FAI” e gestite da studenti formati dagli stessi volontari del Fondo Ambiente Italiano insieme ai docenti. A Ferrara gli “apprendisti ciceroni” sono stati gli alunni della classe 3 B/E del Liceo Artistico “Dosso Dossi”, impegnati per l’occasione nell’attività di PCTO – Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento (l’alternanza scuola-lavoro) e coordinati dalla prof.ssa Donatella Palchetti, docente di italiano e referente del progetto, da lei curato insieme alla collega Patrizia Massarenti, docente di Storia dell’arte.

Le ragazze e i ragazzi della 3 B/E hanno accolto e accompagnato, per visite di 45 minuti, in alcuni ambienti del Monastero bambini e ragazzi appartenenti a 13 classi di alcuni istituti cittadini: Istituto Comprensivo Alda Costa, I. C. Dante Alighieri, I. C. Boiardo, I.I.S. Luigi Einaudi e dello stesso Dosso Dossi, dalle classi IV delle Primarie fino al III° anno delle Superiori.

Viviana Babacci, volontaria del FAI impegnata in questo progetto insieme a Cristina Bignami e Marcella Pivano, ci spiega come dopo la stipula della convenzione tra il FAI e il Liceo, il progetto ha preso avvio tra fine settembre e inizio ottobre, per poi, a fine ottobre, iniziare la settimana di preparazione con lo studio del materiale, la redazione dei testi per le visite e una prima visita preparatoria al Monastero insieme alla Madre abbadessa Maria Ilaria Ivaldi.

I “ciceroni” del Dosso sono stati divisi in tre gruppi: uno si occupava di illustrare l’ingresso, lo spazio accoglienza e il chiostro; il secondo il sepolcro della Beata – la cui tomba in marmo i ragazzi hanno potuto vedere “gemmata” dalle “lacrime” della Beata Beatrice II d’Este, che normalmente è possibile ammirare fino a marzo -, il coro e le tre cappelle; il terzo, la chiesa.

Lorenzo Baroni e Marta Montanari sono due dei “ciceroni” incaricati di accogliere e guidare i gruppi di studenti nell’ingresso del Monastero per la prima parte della visita. «All’inizio – ci spiega Lorenzo – è stato difficile comprendere un luogo così particolare, così distante da quelli che normalmente viviamo. Prima di riuscire a spiegarlo, ho dovuto cercare di capirlo. E c’è voluto un po’ di tempo». La chiusura e il silenzio un po’ intimoriscono e spiazzano anche Marta, comunque ammaliata, come Lorenzo e i loro compagni, dalla bellezza e dal fascino del luogo. «Importante – aggiunge Marta – è anche il confronto con persone diverse» in questa che assomiglia a una prima esperienza lavorativa: «mi sento più matura», ci confida.«Le monache bevono l’acqua del pozzo?«. È una delle domande bizzarre rivolte ai “ciceroni” da alcuni bambini, più curiosi e spontanei rispetto ai loro omologhi adolescenti. «È bello spiegare da studente a studenti», ci spiega ancora Lorenzo, e «di volta in volta adattare i termini e il linguaggio in base alle età di chi mi ascolta, non usando o spiegando meglio alcuni termini più difficili».

Nell’ultima tappa in chiesa incontriamo, invece, Linda Rouhani e Caterina Brunaldi, interessate in particolare alla parte esterna della chiesa, alle decorazioni e agli affreschi. «La vita delle monache – riflette con noi Linda – la immagino difficile da seguire, così staccata dal mondo, mentre noi adolescenti siamo abituati ad ambienti caotici». Il luogo, però, concorda anche Caterina, è «davvero molto bello e tranquillo». «Il Miracolo – per Caterina – può sembrare inventato, ma dall’altra parte bisogna ammettere che è qualcosa di davvero inspiegabile».


Storia di un luogo davvero unico

Primo monastero femminile nella città estense, il complesso di S. Antonio fu creato per accogliere Beatrice d’Este, figlia del marchese Azzo VII Novello d’Este, e le giovani che, come lei, intendevano seguire la regola benedettina. Già intorno all’anno Mille si erano insediati sull’isoletta tra i terreni paludosi, monaci agostiniani devoti a S. Antonio: il marchese acquistò dai padri l’area e gli edifici nel 1257. L’anno seguente Beatrice e le sue compagne si trasferirono nel complesso, oggetto di importanti lavori, che Beatrice non riuscì a vedere completati poiché fu colta dalla morte nel 1262. Nel 1413 il vescovo di Ferrara, Pietro Boiardi, consacrò la chiesa. Le benedettine separarono la chiesa in due spazi, uno per i fedeli, l’altro per le loro preghiere. Già dal 1473, infatti, si ottennero, dividendo l’edificio, le due chiese attuali. La chiesa esterna ebbe nel secolo seguente un splendido organo, opera di Giovanni da Cipro, dal 1796 sistemato nella chiesa del Suffragio. Nel ‘600 la chiesa esterna fu abbellita da nuovi altari e da grandi tele e venne ridipinto il soffitto della chiesa esterna, ad opera di Francesco Ferrari, supportato forse dal figlio Felice. Il tema prescelto per la decorazione fu la Madonna col Bambino in gloria ed i Santi Antonio e Benedetto sistemati tra ricchi motivi ornamentali, e sei immagini di santi benedettini.

Si deve a interventi operati nel XVIII secolo la sistemazione della selciata della corte, come attestano le perizie coeve. Furono queste le ultime opere eseguite prima del tracollo del monastero, provocato dall’arrivo degli eserciti francesi: nel 1796 S. Antonio il Polesine ebbe chiuso il tempio, e il convento fu ridotto a reclusorio.La ripresa ufficiale dell’abito monastico si ebbe solamente nel 1924, tra vicende alterne che videro pure sistemare il nuovo altare del SS. Sacramento (1806) e creare una sorta di cappella, decorata da una statua della Beata.Nel 1910 l’ala delle novizie fu adibita a Caserma. Nello stesso anno il Comune di Ferrara acquistò tutto il complesso affidandolo alla custodia delle benedettine. All’entrata del monastero ci si trova nell’ala settentrionale del chiostro, in cui si venera il sepolcro della beata fondatrice dalla cui tomba in marmo periodicamente stilla un’acqua miracolosa detta le “Lacrime della Beata”.

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 3 dicembre 2021

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Paoline, apostole di Cristo in nome di don Alberione

29 Nov
Suor Lidia Pozzoli, suor Daniela Cau, suor Luciana Santacà, suor Samuela Gironi

Abbiamo incontrato le Paoline di Ferrara in occasione del 50° anniversario dalla morte del loro fondatore 

Nella nostra città arrivarono nel 1940 e da quel momento non la lasciarono più. Punto di riferimento per la nostra comunità ecclesiale, e non solo, le Paoline di Ferrara insieme all’intera Famiglia Paolina ricordano i 50 anni dal ritorno alla Casa del Padre del loro fondatore don Giacomo Alberione, nato a San Lorenzo di Fossano  (Cuneo) il 4 aprile 1884 e deceduto a Roma il 26 novembre 1971. Il 26 giugno 1996 San Giovanni Paolo II l’ha dichiarato Venerabile. Lo stesso Pontefice il 27 aprile 2003 lo ha proclamato Beato. 


Le Figlie di San Paolo nella nostra città

Attualmente sono quattro le Paoline a Ferrara: Suor Daniela Cau, Superiora, arrivata nella nostra città nel maggio 2002, proveniente da Bologna; Suor Luciana Santacà, a Ferrara dal giugno 2002, proveniente da Perugia; Suor Lidia Pozzoli, qui dal 2014, precedentemente a Roma come l’ultima arrivata, suor Samuela Gironi, trasferitasi nella nostra città nel febbraio 2020. Fu proprio don Alberione, in visita a Ferrara, a scegliere nel 1962 insieme alla cofondatrice suor Tecla Merlo la sede di via San Romano, 35, abitazione delle suore e sede della libreria, edificio nel quale si trasferirono nel ‘66 dopo i necessari lavori di ristrutturazione. Precedentemente erano ospiti del Seminario diocesano nella vecchia sede di via Cairoli. Nei primi anni ‘60 le Paoline erano composte dalla Superiora sr M. Battistina Teodolinda Pisoni, da sr Pierina Maria Frepoli, sr Maria Nazarena Augusta Lovato, sr Maria Gabriella Almerina Manfrinati, sr Maria Saturnina Rosa Marcelli, sr Gaetanina Anna Medaglia, sr Maria Liliana Elda Ventresca. A queste si aggiunsero nel ‘61 sr Maria Federica Agnese Baronchelli (per un anno di postulato) e nel ‘62 sr Severina Maddalena Pellerino. 


Alcuni ricordi

«Ogni Paolina passata per la nostra comunità di Ferrara – ci spiega suor Daniela -, ha portato con sé nel proprio cuore sempre delle belle esperienze e delle riflessioni positive». Come ad esempio suor Maria Nives Toldo, che prima di morire il 25 ottobre 2016 all’età di 85 anni, alla sua Superiora ha detto: «il mio pensiero va alla comunità di Ferrara. Le avvisi che dal Cielo le proteggerò». Suor Toldo era stata a Ferrara dal 1955 al 1960 incaricata per l’apostolato nelle famiglie. Ritornò a Ferrara dal ’90 al ’92.O come suor Maria Adelaide Carandina, nata a Trecenta (RO) il 24 ottobre 1921, tornata alla Casa del Padre il 2 giugno 2011. Nel 1992 entrò nella comunità paolina di Ferrara anche per essere più vicina alla mamma, deceduta nel 2001. Dopo la morte della madre venne accolta nella casa “Giacomo Alberione” di Albano per trascorrere serenamente l’anzianità. Suor Maria Adelaide fu decisiva per la scelta vocazionale di don Fabio Ruffini, Cappellano della comunità paolina ferrarese: «nel momento delicato della mia conversione – ci racconta -, lei mi accolse. Era il tempo pasquale del 1994. Pian piano mi insegnò a pregare, ”a distanza” mi accompagnò al presbiterato, presente seppur già ammalata alla mia Prima Messa a Pontelagoscuro il 12 ottobre 2003».


«Don Alberione per noi»

«Aveva sempre chiara in mente la visione dell’universalità della Chiesa e quindi dell’apostolato», riflette con noi suor Samuela. «Preghiera e testimonianza» erano per don Alberione parole fondamentali, come anche la presenza paolina nelle librerie, la propaganda itinerante e le settimane bibliche. I banconi delle librerie paoline li definì veri e propri «pulpiti» da dove annunciare la Parola. «Le librerie Paoline – sono sue parole – non sono semplici negozi di compravendita. Esse debbono essere centri di luce, di amore, di preghiera. Debbono essere luoghi dove il Divin Maestro si siede volentieri per insegnare alla gente come fece quando pronunciò il discorso della montagna».


S. Messe di don Ruffini e del Vescovo

Venerdì 26 novembre, nell’anniversario della morte di don Alberione, alle 7.30 il Cappellano don Fabio Ruffini ha celebrato in sua memoria la S. Messa nella cappella della sede di via San Romano. Lunedì 29, invece, è stato mons. Perego a celebrare, sempre nella cappella, in memoria del fondatore delle Paoline. Don Alberione, nei suoi testi, ha «cantato senza fine le grazie del Signore», ha riflettuto don Ruffini nell’omelia. «Davanti a tante difficoltà, confidava nel signore. “Abbiate fede”, ripeteva sempre: in questa parole c’era tutta la sua vita». E la preghiera era sempre fondamentale per lui, la forma migliore di comunicazione col Signore. «Da lì – sono ancora parole di don Ruffini – gli veniva la forza, la luce per seguire le vie di Dio». Ma le immense grazie ricevute, don Alberione le ha sapute sempre «restituire»: aveva quindi coscienza di «essere sempre in debito col Signore, di “doversi” sdebitare nei confronti di un amore totalmente gratuito e più grande di noi». Da qui la centralità del discernimento». «Per questo ha potuto lasciare un’eredità così grande», perché ha saputo «leggere i segni dei tempi e cambiare le forme dell’apostolato». 

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 3 dicembre 2021

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Non solo scienza ma domanda sul Mistero

22 Nov

Nella pandemia, il necessario discorso scientifico rischia di farci dimenticare la nostra ricerca della Verità

di Andrea Musacci
Lo scorso settembre su Huffington post Italia il filosofo Massimo Adinolfi poneva una domanda importante: «Chi è competente, in fatto di umanità? O forse pensiamo che l’uomo è solo ciò che rimane da discutere a filosofi barbuti una volta sottratte loro tutte le questioni scientifiche (mediche, sanitarie, fisiologiche o psicologiche, o non so cos’altro)?».

Fermarsi, riflettere, interrogarsi e interrogare su ciò che davvero ci rende umani. Tornare ad ascoltare l’altro. Propositi che sempre meno, spiace registrarlo, sembrano andare di moda. Il coro unanime di quasi due anni fa sulla necessità e l’urgenza di proteggere noi stessi e gli altri dal Covid19, si è purtroppo, ormai da molto tempo, trasformato nel suo opposto. Ora, sempre più, domina lo scontro tra due intolleranze: quella dei sostenitori di ogni forma di restrizione potenzialmente senza limiti di tempo, e chi, dall’altra parte, già da un bel po’ ha dimenticato quanta sofferenza, angoscia e morte ha portato una pandemia di questo tipo. In mezzo, quegli interstizi sempre più stretti (e sempre meno affollati, purtroppo) di chi non rinuncia a porre questioni sulla gestione dell’emergenza – pur sempre difficile –, e soprattutto su come, veramente, possiamo cogliere questa fase eccezionale delle nostre vite per riscoprire il Mistero che si cela dietro di esse. Che significa anche ripensare il rapporto tra salute e salvezza, come propone il gesuita Gaetano Piccolo nel suo ultimo libro “Salute o salvezza? Il dilemma dei nostri tempi” (Ediz. San Paolo).


Salute o salvezza?

Salute o salvezza è un aut aut sbagliato, a cui non cedere. Assolutizzare il primo dei due termini significa castrare la dimensione spirituale, religiosa, annullandola nel culto illusorio di ciò che è corruttibile. Dall’altra parte, la finta “salvezza” di chi pensa che la cura di sé e dell’altro non abbia nessun valore rispetto alla vita eterna, nasconde una pericolosa mancanza di empatia per il prossimo.

Fatta questa premessa, il rischio maggiore nelle nostre società occidentali è che questa fase – dove il dominio del discorso medico-scientifico va a scapito di quello religioso, politico e culturale -, ci faccia ancora una volta venir meno nella nostra ricerca di un equilibrio diverso fra la difesa della salute e l’anelito alla Salvezza. Salvezza che è fatta di amore e di relazioni, di prossimità fisica, di consapevolezza dell’invincibile limite della morte e di desiderio di una vita davvero piena. Coscienza, quindi, che, come di non solo pane vive l’uomo, nemmeno gli possono bastare le conoscenze medico-scientifiche. Ma che tutto il nostro essere (corpo e anima) domanda un nutrimento ben diverso: una fede e una pienezza che da credenti troviamo in Cristo, Pane di vita.


Non fare della scienza un idolo

La possibilità di poter risolvere sempre più problemi non deve illuderci di poter avere il controllo su ogni aspetto della nostra esistenza. Questa tendenza a sentirci onnipotenti può risultare molto pericolosa se ci si affida al “sapere della scienza” come a ciò che possa rispondere alle domande più profonde. Non è così e mai potrà esserlo: significherebbe storpiare la fondamentale ma limitata missione della scienza. Soprattutto in una situazione estrema e inattesa come quella della pandemia, spesso si è riposto, invece, purtroppo, in medici e ricercatori una speranza quasi “religiosa”. Ciò che la scienza, in sé, non può darci è la felicità, la pienezza di vita, è salvarci dal vuoto, dal terribile nulla della depressione e della disperazione. È inutile convincerci che possiamo delegare tutto a medici e virologi. La lotta contro il male spetta a ognuno di noi. La testimonianza della misericordia nella prossimità all’altro è un compito che abbiamo sempre davanti.


Non fare del corpo un idolo

Idolatrare la scienza – qualsiasi filosofo o uomo di scienza non ideologico inorridirebbe solo all’idea! – porta all’idolatria del corpo. Il filosofo ed epistemiologo francese Bernard-Henri Lévy, liberale, l’anno scorso nel suo libro “Il virus che rende folli” scriveva: «L’inferno è il corpo. Solo il corpo e il corpo solo». L’inferno siamo noi «in quanto persone che sono chiuse nel proprio corpo, ridotte alla nostra vita di corpi e che, sotto il dominio del potere medico, o del potere in generale che si appropria del potere medico, o della nostra stessa sottomissione a entrambi, ci sottomettiamo a esso». «La cura della nostra salute -, scrive invece Piccolo nel libro sopracitato – nel momento in cui dovesse essere possibile solo a costo di rinunciare a tutto quello che per noi è spiritualmente essenziale, varrebbe la pena?».

Spiritualmente essenziale è anche il “filosofare”, il sentire e parlare – senza scorciatoie – della nostra finitezza, del nostro limite, del nostro morire. «Filosofare è imparare a morire», scrive Fabrice Hadjadj nel suo libro “Farcela con la morte. «L’atto stesso di pensare la Verità produce una “piccola morte”, un distacco dal corpo che addestra al grande distacco del trapasso. Quando medito sulla vita entro nella vita stessa della saggezza, passo già nell’aldilà, la mia anima tende a liberarsi della carne, non a motivo della sua debolezza, ma a causa della sua rinnovata vitalità di anima immortale, che va oltre la vita corruttibile dei miei organi».


La ricerca della Verità contro la paura

Tornare a interrogarci e a compiere la nostra ricerca della Verità significa anche non cedere alla paura. Sentimento umano, umanissimo, ma da controllare e affrontare. Da non eludere e a cui non sottomettersi. È importante, oggi, non cedere né alla paura di vaccinarsi né a quella che ci paralizza impedendoci una riflessione profonda e un conseguente vivere che non sia solo sopravvivere nella nostra “sicurezza” di non venire contagiati. Ma in una società come la nostra dove è sempre meno diffusa una concezione religiosa della vita e della morte, certi interrogativi che possono inquietare, vengono posti sempre meno. È, invece, importante cercare di riempire di senso il nostro tempo, perché non sia vuoto. Vuoto di una dimensione spirituale e relazionale. Vuoto che è manifestazione profonda della nostra fragilità, proprio quella fragilità che tendiamo a rimuovere, a negare.

La nostra mortalità ci costringe ad evitare che la nostra vita sia sprecata. Il limite è ciò che muove la nostra libertà nella ricerca di un senso. Senso che riguarda l’interezza di ciò che siamo. Corpo e anima, salute e Salvezza. Solo così, solo interrogando il Mistero e testimoniando la Verità, potremmo dirci davvero umani.

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 26 novembre 2021

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(Immagine: Edvard Munch, “Malinconia”, 1892)

Cristiani e musulmani, «ragioniamo insieme anche su ciò che ci divide»

22 Nov

Proficuo incontro il 20 novembre tra Piero Stefani e Hassan Samid

La conoscenza reciproca tra le religioni non può avvenire solo cercando, spesso a tutti i costi, punti di convergenza, ma anche ragionando e confrontandosi assieme su ciò che divide.

Sulle differenze e l’importanza di non sottovalutarle, si è trovato – “paradossalmente” – un accordo nel corso del confronto pubblico svoltosi il 20 novembre tra Piero Stefani, biblista e scrittore, e Hassan Samid, Presidente del Centro di Cultura islamica di Ferrara.L’appuntamento pomeridiano – il terzo in memoria del giornalista trentino Piergiorgio Cattani -, organizzato in collaborazione con l’Ufficio diocesano per l’ecumenismo, riguardava la presentazione del libro di Stefani, “Bibbia e Corano, un confronto”, pubblicato lo scorso giugno da Carocci. “In memoria di Piergiorgio Cattani (1976-2020). ‘Allora quando uscirà il libro mi prenoto per fare la recensione’ ” il nome dell’incontro che ha visto un’ottima partecipazione di pubblico nella sala parrocchiale di Santa Francesca Romana.

Marcello Panzanini, Direttore del sopracitato Ufficio diocesano, ha introdotto ricordando lo storico incontro tra San Francesco e il Sultano del 1219: «grazie al dialogo e alla conoscenza – ha riflettuto -, hanno compreso che dall’altro si può imparare qualcosa. Solo col vero ascolto si possono avere frutti di pace».Dopo il ricordo di Cattani da parte di Stefani, Samid ha preso la parola. «Il Corano – ha riflettuto – è un libro al servizio del dialogo interreligioso, ma è utile anche per il dialogo coi non credenti. Spesso sbagliamo quando cerchiamo di trovare solo ciò che ci accomuna», ha proseguito. «È importante, invece, anche ragionare insieme su ciò che ci divide, ad esempio su chi è per noi Dio. Sarebbe una forma di dialogo più matura».

Sempre confrontandosi con Stefani, e sollecitato da alcune domande di donne presenti fra il pubblico, Samid ha poi spiegato come  nel Corano – «che per noi musulmani è incontestabile» ed è «l’unico libro tra quelli sacri rimasto intatto per com’è stato rivelato» -, «quando si parla di avvicinarsi agli altri popoli del Libro (ebrei e cristiani, ndr) il più delle volte vi siano situazioni di conflitto. Oggi, invece, siamo ben oltre il dialogo: siamo conviventi».

Alcune riflessioni di Samid hanno riguardato poi, ad esempio, l’importanza, quando si parla di Islam, di non trattare solo questioni concrete, “terrene” (il velo, i diritti ecc.) ma anche – com’è nel libro di Stefani – temi riguardanti la trascendenza, l’Aldilà, i concetti di bene e di male, il giorno del Giudizio. Ma riguardo a temi più “terreni”, Samid ha chiarito ad esempio come nel testo coranico «vi siano indicazioni sulla vita di tutti i giorni, ma non così dettagliate – a suo dire – da potersi applicare a tutte le epoche». O riguardo al tanto discusso termine “jihad”, ha spiegato con chiarezza come nel Corano venga usato «sia per indicare lo sforzo personale nella fede sia la guerra per difendere la fede stessa, anche quando non si tratta di autodifesa».

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 26 novembre 2021

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(Foto, da sx Samid, Stefani, Panzanini)

Colletta il 27 novembre per aiutare oltre 10mila persone

19 Nov
Volontari al Lidl di Argenta nel 2019

Supermercati di Ferrara e provincia aperti alla carità. Si può donare anche online. Ecco i numeri dell’emergenza nel nostro territorio: ancora alto il numero dei bisognosi (e quello delle donazioni)

La situazione è stabile, ma non per questo positiva. I numeri delle famiglie bisognose della nostra provincia che ci arrivano dal “Centro Solidarietà-Carità” (CSC) di Ferrara ci dicono di una situazione che si mantiene costante da inizio anno, dopo la preoccupante impennata causata dalla pandemia, con la chiusura, momentanea o definitiva, di molte aziende e attività.


I numeri

Ci sono storie, esistenze e sofferenze dietro le cifre che torniamo a fornirvi: sono circa 190 le famiglie nel ferrarese direttamente aiutate dal CSC, soprattutto con beni alimentari di prima necessità e una prossimità  non meno importante fatta di parole e affetto. In totale, parliamo di oltre 550 persone. Per quasi tutto il 2020, in piena pandemia, questi numeri erano schizzati addirittura a 280 famiglie seguite per un totale di oltre 800 persone. Riguardo a queste famiglie, Massimo Travasoni, Responsabile del magazzino del CSC in via Trenti (e vicepresidente del CSC, guidato da Fabrizio Fabrizi), ci spiega come «cerchiamo sempre più di rispondere ai loro bisogni anche nell’aiuto del pagamento delle bollette e nel vestiario». Senza dimenticare i fondi straordinari stanziati anche per il CSC nei mesi scorsi, le donazioni di associazioni del territorio e i buoni spesa, che hanno permesso a questi nuclei famigliari di acquistare anche beni alimentari diversi (come ad esempio la carne fresca), prodotti per l’igiene personale e materiale scolastico.Inoltre, sempre a livello provinciale, ricordiamo che il CSC, in convenzione con la Fondazione Banco Alimentare di Imola, rifornisce costantemente di generi alimentari 72 Associazioni/Enti caritativi, permettendo loro di raggiungere e assistere più di 10mila bisognosi nella nostra provincia, oltre la metà dei quali aiutati da Caritas parrocchiali. Entro fine anno vi sarà il rinnovo della convenzione.

Dall’altra parte, però, Travasoni almeno può tirare un sospiro di sollievo avendo visto aumentare negli ultimi mesi di circa il 25% le donazioni provenienti dall’industria (a causa anche dell’invenduto nel pieno della pandemia), dall’ortofrutta, dall’AGEA (Agenzia per le erogazioni in agricoltura, che si occupa dei fondi europei). «Inoltre – prosegue Travasoni – ci vengono consegnate per essere donate anche tipologie di prodotti che prima non ricevevamo, come caffè, cioccolata, carne in scatola, olio evo, fette biscottate». Altra nota positiva riguarda l’aumento degli studenti universitari che si propongono come volontari del CSC per comporre i pacchi alimentari e consegnarli alle 190 famiglie povere del nostro territorio: attualmente sono 30 i giovani coinvolti in questo gesto caritatevole.


La Colletta il 27 novembre

E poi, come ogni anno, c’è la Colletta Alimentare, che permette a chiunque di donare beni alimentari di prima necessità per i più bisognosi. A Ferrara e provincia il responsabile è Giuseppe Salcuni. La 25° Giornata nazionale della Coleltta vede coinvolti in tutta Italia 11mila supermercati aderenti all’iniziativa dove 145mila volontari, distanziati e muniti di green pass, inviteranno a comprare prodotti a lunga conservazione: omogeneizzati alla frutta, tonno e carne in scatola, olio, legumi, pelati. I prodotti donati saranno poi distribuiti alle 7.600 strutture caritative convenzionate con Banco Alimentare (mense per i poveri, comunità per i minori, banchi di solidarietà, centri d’accoglienza ecc.) che sostengono quasi 1.700.000 persone. Per chi non riuscisse a recarsi in uno dei punti vendita aderenti, sarà possibile donare la spesa anche online dal 29 novembre al 10 dicembre su Amazon.it/bancoalimentareDa domenica 28 novembre a domenica 5 dicembre 2021 la Colletta continuerà anche attraverso le Charity Card di Epipoli, da 2, 5 o 10 euro, che potranno essere acquistate nei supermercati aderenti all’iniziativa oppure online sul sito www.mygiftcard.it. Le donazioni saranno poi convertite in alimenti. Una possibilità, quest’ultima, ereditata dall’anno scorso, quando, per la prima volta, a causa dell’emergenza sanitaria, la Colletta non potè svolgersi in presenza.

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 19 novembre 2021

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Strolghe tra magia, fede e medicina

8 Nov
Louis Welden Hawkins, “Woman with the blue curtain”

“La Strolga di Ferrara e la Medicina del Segno” è il libro di Daniela Fratti dedicato ai riti praticati da queste donne ancora attive nel nostro territorio. Ecco chi sono e come la loro arte affonda le proprie radici nella notte dei tempi

I confini tra fede e superstizione si confondono in un sincretismo che mischia cattolicesimo e riti precristiani, magia e fede popolare. È la cosiddetta “Medicina del Segno”, antica pratica, ancora presente, delle strolghe, nella quale l’uso di erbe, spighe e spirali convive con preghiere rivolte alla Vergine Maria.

Ne parla Daniela Fratti nel suo libro “La Strolga di Ferrara e la Medicina del Segno” (Scaranari Editore, Ferrara, aprile 2021), interessante studio su quest’arte trasmessa oralmente nel nostro Paese dalla notte dei tempi e ancora praticata nel territorio ferrarese. 


Tocco taumaturgico tra sacro e profano

Attraverso una precisa ricerca di documenti storici, presenti anche nell’Archivio Diocesano di Ferrara e nella Biblioteca del nostro Seminario, l’autrice ripercorre le origini e le trasformazioni delle strolghe, termine del dialetto ferrarese difficile da tradurre ma che significa “astrologa”, “indovina”. Non a caso, in italiano “strologare” significa almanaccare, perdersi in ragionamenti astrusi, emettere responsi talora assurdi. Una figura –  simile alla pranoterapeuta – con tratti materni e domestici, che “segnava” diversi tipi di malanni e malattie – dai porri sul viso al mal di schiena – fino ai mali dell’animo, alle angosce e alle paure. «Curava nella penombra della cucina di casa – scrive Fratti -, interrompendo la preparazione delle tagliatelle, o nei campi coltivati e perfino nelle stalle, bisbigliando cantilene incomprensibili, tracciando segni sulla parte dolente e scrutando nell’acqua unta per individuare le fonti della malattia». Il suo era considerato un tocco taumaturgico, una «benedizione» se applicata sulla parte malata del corpo. Il rito inizia col segno della croce, si conclude col Pater, l’Ave Maria e un altro segno della croce. La strolga segna tre volte il malato, per tre volte durante il giorno – all’alba, a mezzogiorno, al tramonto. Il segno è «praticato con la mano a taglio, con la punta dell’indice o del pollice oppure con la punta di indice e medio uniti».


Le strolghe ferraresi

Limitatamente alla nostra provincia, l’autrice – soprattutto da racconti orali – ha scoperto come «la strolga era una figura di donna che svolgeva un ruolo fondamentale nella società contadina» fino a metà del secolo scorso. Per questo libro, fra agosto e ottobre 2020, Fratti ha incontrato e intervistato sette strolghe residenti nella nostra provincia, ancora attive come guaritrici, oltre ad essere venuta a conoscenza di altre sei (fra cui un uomo) di cui le hanno parlato ma che non è riuscita a contattare, o già defunte. Un numero alto per una provincia come la nostra.

Le sette strolghe ferraresi sono: Gigliola T., 89 anni, S. Bartolomeo in Bosco, contadina; Giliola P., 79 anni, San Bartolomeo in Bosco, proprietaria terriera e lavoratrice nei propri frutteti; Lia M., 89 anni, S. Martino, contadina; Rosanna M., 82 anni, Ferrara, ex operaia in un vivaio; Daniela C., 61 anni, Scortichino di Bondeno, casalinga; Maria S., 87 anni, Poggio Renatico, contadina; Marta M., 84 anni, Berra. Dall’eczema al colpo della strega, dall’orzaiolo all’herpes, sono tanti i malanni che dicono di riuscire a curare, compresa la paura: il “segnare la paura” sembra essere una specificità proprio delle strolghe ferraresi. Non a caso, nel libro l’autrice racconta come da piccola i coetanei più “temerari” le dicessero: «Àt devi andàr da la strolga, a fàrat sgnàr la paura».


Origini storiche

Né sciamana né fattucchiera, la strolga – viene spiegato nel libro – è «una vera Medichessa che operava attraverso strumenti di tipo sacerdotale». Sembrava che agisse «per ricostituire una qualche armonia perduta dalla persona che si affidava ai suoi segni, e che usasse mezzi e strumenti che forse era più indicato interpretare utilizzando il linguaggio dei simboli». Un’azione, la sua, a differenza delle streghe, almeno nelle intenzioni a fin di bene. Un’armonia del “sacro dentro di sé” da ricostruire, contro forze esterne avverse. Una figura che ama tenersi «in disparte», discreta, «riservata, raccolta nel silenzio del rito consumato nell’interiorità». E che «sopravvive grazie alla stima e all’amore popolare» nei suoi confronti. Le origini di questa “medichessa” sembrano risalire alle società primitive, all’epoca del matriarcato primigenio, e tracce di culti naturalistici nel ferrarese – nel territorio deltizio, in quello di Ostellato, Voghenza e Cassana, in tutta la valle del Basso Po e nel bondenese – rimandano al culto della Signora degli Animali (Reithia Potnia Theron), simbolo dell’eterno femminino, praticato soprattutto dalle donne a protezione di messi, erbe e animali domestici. Nello stesso libro V dell’Iliade, Afrodite è guarita da una carezza della madre Dione. Ma pare addirittura che questa pratica del segno risalga a 5300 anni fa: grazie allo studio del 2015 si è scoperto come l’Uomo dei ghiacci rinvenuto nel 1991 sulle Alpi italiane rechi incisi 59 segni con probabili finalità taumaturgiche.

Com’è naturale, nella cristianità anche le strolghe, considerate “incantatrici”, non potevano essere sempre tollerate. Nel libro, ad esempio, l’autrice cita alcuni casi segnalati al Vescovo Francesco Dal Legname a Ferrara, Villanova di Denore, Quartesana, Tresigallo, Corlo e Correggio, durante la sua visita pastorale fra il 1447 e il 1450. E il Sinodo diocesano del 1751 si pronunciò su coloro che «esercitano Magie, Sortilegi e Incantesimi», e così i Sinodi precedenti, dal 1592, dove si cita anche chi si applica nel “segnare” o “incantare”. La prima segnatrice ferrarese viene citata nel Liber querela rum quartus del 1606: è “Madonna Antonia”, residente in città, «guaritrice herbaria», una delle dementes mulierculae (“donnicciola di poco cervello”), come venivano con disprezzo chiamate le strolghe. Oppure, i documenti citano il caso nel 1605 della bondenese Giacoma la Mantilara, veggente che – a suo dire – riusciva a vaticinare solo fissando un’icona mariana posta sopra il letto. In generale, era proprio questo che la Chiesa perseguiva: «l’uso di elementi sacramentali [acqua benedetta, crisma, ad esempio] fuori dal contesto ecclesiastico, da parte di persone non autorizzate e con intendimenti puramente pagani». Tollerava, invece, a volte le pratiche di maghi, stregoni, cartomanti e quant’altro se non avvenivano con l’uso di materia sacramentale.

Credenze appartenenti a un passato ormai lontano? Non del tutto. Come si è visto, nel nostro territorio c’è chi ancora si rivolge a queste figure, la cui fama poggia anche sulla sopravvivenza di assurde superstizioni. Come spiega la stessa autrice, ad esempio «a Ferrara è ancora diffusa la credenza che la visita di una donna con il ciclo arresti l’allattamento di una giovane madre, a meno che la visitatrice non dichiari apertamente di essere mestruata».


Lo strolghino, salame suino “veggente”

Lo “Strolghino” è un salume tipico del parmense. Le fonti più accreditate fanno risalire il suo nome proprio a strolga. La tradizione, infatti, sostiene che, un tempo, la produzione dello Strolghino servisse per prevedere l’andamento della stagionatura dei salumi di taglia maggiore. Non a caso, perché fra i tanti insaccati suini, lo Strolghino è il primo pronto per il taglio. Una versione meno diffusa vorrebbe, invece, che lo Strolghino fosse un salume difficile da realizzare a regola d’arte, tanto da rendere necessario il consulto della strolga.

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 12 novembre 2021

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Un nuovo Delta del Po per la rinascita dell’intera provincia

8 Nov


L’insediamenteo di Massenzatica
(Foto di Filippo Pesaresi per il Consorzio Uomini Massenzatica)

Il “Laboratorio Agro-Ambientale per il Delta del Po” sarà presentato il 12 novembre a Comacchio. Il Consorzio Uomini di Massenzatica cuore di questo ambizioso progetto di riconversione ecologica


A cura di Andrea Musacci
Un grande piano di riconversione ambientale nel territorio del Delta del Po, l’area umida più grande d’Italia, un grande laboratorio agroambientale dove sperimentare pratiche paesaggistiche e culturali virtuose, con al centro il Consorzio Uomini di Massenzatica (CUM).

È questo il progetto di valenza europea per l’adattamento e la mitigazione dei cambiamenti climatici che verrà presentato venerdì 12 novembre a Comacchio, un piano strategico commissionato nei mesi scorsi dal CUM a LAND Italia srl, prestigioso studio internazionale di architettura e progettazione con sede a Milano fondato e diretto da Andreas Kipar, che il 12 a Palazzo Bellini illustrerà il lavoro svolto.Il progetto intende definire una strategia di interventi e azioni progettuali per la valorizzazione sostenibile di questo territorio caratterizzato da condizioni paesaggistiche, ambientali e culturali uniche. Nello specifico, si propone la creazione di un’infrastruttura verde ecologico-produttiva di 63 km, da Chioggia a Comacchio, con il CUM come epicentro, territorio pilota del laboratorio. 

Un’infrastruttura che segue le antiche linee di costa e che in particolare prende in considerazione la zona tra il Po di Volano e quello di Primaro, immaginando corridoi della natura e una rinnovata produzione agro-ambientale (pensata fino al 2050), attraverso la reintroduzione di fasce ecotonali – spazi intermedi tra due ecosistemi – per combattere l’impoverimento paesaggistico, ricombinando natura e agricoltura, biodiversità e produzione agricola, puntando sull’agro-ecologia, l’agro-forestazione e l’agricoltura ad “alto valore naturale aggiunto”, con l’aumento della biodiversità, la diversificazione degli habitat e l’aumento degli impollinatori. Tutto ciò in alternativa alle meno produttive monoculture. Pratiche virtuose, queste, che la Politica Agricola Comunitaria dell’Unione Europea finanzierà nei prossimi anni attraverso i suoi programmi, il PAC – Politica Agricola Comune 2021-2027 e il PNRR – Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza del Next Generation EU. 

Il Delta del Po, come emerge in maniera chiara dallo studio, si trova nell’area più industrializzata, urbanizzata e inquinata d’Italia. Si tratta di un territorio fragile e a bassa densità insediativa, con un alto tasso di salinità, dove incombenti sono l’innalzamento del livello del mare fino a 2 metri, il rischio alluvioni, di subsidenza (il lento e progressivo sprofondamento del bacino marino e dell’area continentale), la desertificazione e l’innalzamento del livello dei mari. Un territorio “rurale-periferico” negli anni sempre più marginalizzato dal processo di sviluppo. Un’analisi impietosa che, se presa in seria e urgente considerazione, può trasformare il Delta in un’area di grande produttività agricola e di forte rilevanza ecologica e culturale. Solo l’area-pilota dove si trova il CUM, di 13.000 ettari, si è stimato potrebbe generare fino a 25 milioni di euro di benefici diretti ed indiretti all’anno. E l’intero Delta può rappresentare una zona in transizione verso un nuovo paesaggio agricolo-naturalistico con un potenziale stimato di 2 milioni di alberi.


Carlo Ragazzi (CUM): «dono e comunità contro la logica del profitto»

Carlo Ragazzi è il Presidente del Consorzio degli Uomini di Massenzatica (CUM), proprietà collettiva di 353 ettari (all’interno del Comune di Mesola) rappresentante attualmente circa 600 famiglie, ciascuna con diritto al voto nelle decisioni del Consorzio.

Con “La Voce” riflette su un progetto così significativo. «La nostra è una comunità proprietaria di un pezzo di terra che ha scelto di autonormarsi e di donare parte degli utili e delle risorse alla comunità. Dalla nostra nascita nel 1994 abbiamo sempre posto al centro la cultura del dono al territorio. Il nostro è un modello che dal punto di vista sociale ed economico va a confutare molte teorie fondate sul profitto e la finanziarizzazione, smentite anche dalle ripetute crisi degli ultimi 15 anni». «Oggi – prosegue – l’intero Delta del Po è un grande volano economico per la nostra Provincia: da un’agricoltura intensiva, basata sulla rendita, il latifondo, la monocultura è necessario passare a un’agricoltura fondata sul capitale circolante e la rotazione delle colture. Un’agricoltura dinamica dove il lavoro è ancora centrale». Il CUM si pone quindi come modello virtuoso al servizio del territorio, «per ricucire la frattura creatasi nel secolo scorso tra città e campagna. Il futuro della stessa città sta, dunque, nel riappropriarsi della propria campagna come elemento di rigenerazione a tutti i livelli, anche spirituale e psicofisica». Il Delta del Po, non dimentichiamolo, è ad esempio fondamentale per l’equilibrio idrico dell’intero territorio provinciale. «Un intervento così importante – conclude Ragazzi – non può essere lasciato agli umori o alle opinioni di singoli docenti, ma va analizzato nella sua globalità, con un approccio interdisciplinare e strategico».

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 12 novembre 2021

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Libertà umana e misericordia divina contro il vuoto della sofferenza e della morte

8 Nov
Vito Mancuso

L’intervento di Vito Mancuso il 6 novembre a Santa Francesca Romana in occasione della donazione al Cedoc della biblioteca di Piergiorgio Cattani, «immobile ma rapido» nel suo “sì” alla vita

Sabato 6 novembre si è svolta l’inaugurazione del lascito librario di Piergiorgio Cattani alla Biblioteca Cedoc di Ferrara, nel primo anno dalla sua morte. Sono circa 700 i volumi che Cattani, giornalista e intellettuale trentino scomparso lo scorso novembre a 44 anni, donò all’amico Piero Stefani, che a sua volta ha regalato alla Biblioteca diretta da don Andrea Zerbini. Si è trattato del secondo dei tre incontri organizzati dal Sae di Ferrara in memoria di Cattani, dopo il primo tenutosi il 16 ottobre.

“Niente sta scritto. Libertà e limiti della condizione umana” il titolo dell’iniziativa che nel salone parrocchiale di Santa Francesca Romana in via XX settembre ha visto l’intervento del filosofo e teologo Vito Mancuso e la proiezione di parti del documentario “Niente sta scritto” di Marco Zuin dedicato a Cattani e a Martina Caironi. Ultimo appuntamento sabato 20 novembre alle 16, in collaborazione con l’Ufficio per l’ecumenismo diocesano, quando verrà presentato il libro di Piero Stefani, “Bibbia e Corano, un confronto”, pubblicato lo scorso giugno da Carocci. “In memoria di Piergiorgio Cattani (1976-2020). ‘Allora quando uscirà il libro mi prenoto per fare la recensione’ ” il nome dell’incontro, alla presenza dell’autore, con introduzione di Marcello Panzanini (Ufficio diocesano Ecumenismo), e intervento di Hassan Samid, Presidente Centro di Cultura islamica di Ferrara.

“Immobile ma rapido” si definiva Cattani, affetto da distrofia muscolare di Duchenne, malattia invalidante e progressiva, ricordato da Stefani nella sua personalità spesso non facile ma che gli permise di essere fino all’ultimo attivo nei suoi molteplici progetti culturali e politici.

Vito Mancuso nel proprio intervento ha riflettuto sulla ricerca del senso nella sofferenza, che Cattani nella propria condizione ha rappresentato in maniera così radicale. «In una società come quella di oggi in cui tutti dicono “sì”, Cattani ha saputo dire tanti “no”. Questo è segno di profonda intelligenza, cioè della capacità di saper vedere a fondo le cose. Tanto più si è intelligenti, quindi tanto più si vede e si comprende, quanto più si soffre, è inevitabile». E la sofferenza per Mancuso «può portare a una ribellione, a dire “no” alla vita». Ma Cattani, invece, nonostante tutto, «ha saputo, fino alla fine, dire il suo “sì”», e in maniera per nulla retorica, anzi spesso pungente e incisiva.

«La religione – ha proseguito Mancuso – è il grande “sì” alla vita, al senso della vita», mentre la modernità nel suo sviluppo, abbandonando la fede, «non ha trovato un “sì”», una positività «altrettanto grande», non ha saputo cioè «rispondere alle grandi domande dell’esistenza», compresa quella sul senso della sofferenza e della morte. «Anche oggi ci si affida solo ai sentimenti per spiegare la volontà di bene verso l’altro», proprio perché «manca un fondamento vero come la religione».

Questo, per Mancuso, non elimina la dura ma necessaria consapevolezza che «il dolore non sempre porta a qualcosa di bene e spesso, quando ciò avviene, avviene a un prezzo esagerato. Tanti sono i casi in cui la sofferenza non porta bellezza», in cui le persone che la vivono «vengono da essa scarnificate, arrivano alla rassegnazione, alla disperazione, al suicidio».Citando anche il proprio libro del 2002, “Il dolore innocente. L’handicap, la natura e Dio”, Mancuso ha riflettuto come nella vita esistano «zone grigie, vuoti che non possiamo spiegare. Il potere ha invece sempre cercato di riempire, di dominare questo vuoto, questo inevitabile horror vacui». E invece – citando il titolo dell’incontro – «niente sta scritto: in parte è vero, non tutto è già definito, già deciso, altrimenti saremmo solo burattini». Tentando di riflettere sull’eterna diatriba tra Grazia divina e libertà umana, Mancuso ha spiegato come «la libertà non è qualcosa che si dà in natura ma che l’essere umano può e deve conquistare, perché la sua condizione iniziale è quella dell’uomo nella caverna», per usare la nota immagine di Platone. «Io non sono il creatore delle condizioni attraverso cui la mia libertà si può sviluppare, ma sono il creatore del contenuto della mia libertà». L’“immobile ma rapido” di Cattani, secondo Mancuso «richiama la contraddizione insita nella condizione dell’uomo».

E Cattani quello spazio bianco di libertà da creare, da scrivere, l’ha affrontato sempre, con grande coraggio. In una lettera indirizzata agli amici, con parole commoventi mostrava ancora una volta, ben oltre la vita terrena, questa sua consapevolezza sul fondamento ultimo della libertà umana: la morte, scriveva, «non è un precipitare nel nulla, perché il nucleo della mia esistenza sopravvive, salvato dalla misericordia di Dio, saldo nell’alleanza con il Dio vivente».

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 12 novembre 2021

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Cattolici latinoamericani: gruppo nutrito in Diocesi fra identità e integrazione

2 Nov


Almeno una 50ina, sono studenti, operai, professori e casalinghe. Provengono da Repubblica Dominicana, Cuba, Colombia, Venezuela, Panamá, Perù  Ecuador, Argentina e Cile. Il gruppo, fondato da don Zappaterra, attualmente è guidato da don German Diaz Guerra

Intergenerazionali e interclassisti, provenienti da diversi Paesi dell’America Latina, di passaggio o ormai integrati nella nostra città.

Sono i “Católicos latinoamericanos de Ferrara” del gruppo San Martín de Porres, i cattolici di lingua spagnola appartenenti alla nostra Arcidiocesi. Il gruppo è attualmente formato da almeno una 50ina di persone, oltre a molte altre che partecipano solo sporadicamente alle attività e ai momenti di incontro e preghiera. Responsabile del gruppo è don German Diaz Guerra, cubano d’origine (è nato a L’Avana nel 1966), ordinato sacerdote a Comacchio il 21 settembre 2019 e attualmente in servizio nella parrocchia di Sant’Agostino a Ferrara, dopo essere stato, nel periodo da seminarista, nella parrocchia di Masi San Giacomo e poi diacono e sacerdote nella parrocchia cittadina della Sacra Famiglia.

La nutrita comunità ferrarese dei latinos comprende persone provenienti da Repubblica Dominicana, Cuba, Colombia, Venezuela, Panamá, Perù  Ecuador, Argentina e Cile, oltre a una piccola minoranza di lingua portoghese, fra cui brasiliani e africani. Alcuni sono studenti universitari, molti di loro lavoratori impiegati in vari ambiti, dai più semplici, come operai, fino a docenti universitari, passando ad esempio per alcuni attivi nello sport. Il gruppo diocesano, fondato e guidato per anni da don Emanuele Zappaterra, ormai prossimo a iniziare la sua esperienza missionaria in Argentina, attualmente non ha una sede fissa, ma per diverso tempo è stato ospitato nella parrocchia di Malborghetto di Boara proprio quando don Emanuele ne era parroco.

I latinos ferraresi si incontrano due volte al mese, una volta per la celebrazione della Santa Messa, un’altra per un momento di catechesi. L’ultimo incontro in ordine di tempo è stato domenica 31 ottobre al Santuario della Madonna del Poggetto da don Giuseppe Cervesi, in passato missionario in Messico. E a proposito di venerazione mariana, simbolo del gruppo non poteva che essere la Vergine di Guadalupe, Nuestra Señora de Guadalupe. Il gruppo, però, come detto, porta il nome di San Martín de Porres (1579-1639), peruviano mulatto di Lima, religioso dominicano figlio di un aristocratico spagnolo e di un’ex schiava nera, per una vita al servizio dei poveri, dei malati, dei bambini indigenti. Un esempio di integrazione importante per questi cattolici che, pur mantenendo la propria identità latinoamericana, vivono in modo attivo e con forte convinzione la propria appartenenza alla Chiesa di Ferrara-Comacchio e alla città dove hanno scelto di vivere.

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 5 novembre 2021

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Giovani, svogliati e solitari: gli adolescenti nella pandemia

2 Nov


Preoccupanti i risultati dell’indagine regionale presentata il 28 ottobre da Sabrina Tassinari e commentata da Chiara Saraceno. Con alcune note positive e un impegno per tutti

Aumento di ansia, rabbia e rassegnazione. I videogiochi sempre più luogo di alienazione, le serie conseguenze della didattica a distanza. Non è positivo il quadro che emerge dalla ricerca a livello regionale dedicata alle ricadute sui giovani della pandemia da Covid 19. “Noi adolescenti al tempo della pandemia”: questo il nome dell’indagine curata da Sabina Tassinari, responsabile dell’Osservatorio Adolescenti del Comune di Ferrara, e presentata in un incontro online lo scorso 28 ottobre.

Dai questionari compilati da 20.750 giovani dagli 11 ai 19 anni nella nostra Regione emerge come la necessaria emergenza sanitaria «abbia negato quei bisogni di socialità così importanti per gli adolescenti», ha spiegato Tassinari. Partendo dalle restrizioni, le conseguenze maggiori le hanno vissute i giovani fra i 16 e i 19 anni, in particolare le femmine, «che hanno accusato maggiormente le tensioni famigliari a causa della minor privacy» soprattutto durante i lockdown. Tensioni causate o amplificate anche «dall’aumento delle difficoltà economiche» di cui «anche gli adolescenti più giovani sono stati consapevoli». Mentre più nei ragazzi stranieri si registra un aumento di piccoli lavori, dell’impegno nel volontariato, della preghiera e della meditazione, decisivo per molti adolescenti è stata anche l’impossibilità di avere vicini a sé i propri nonni. Lo stesso tempo libero è stato stravolto: tanto l’attività sportiva quanto il tempo trascorso con gli amici sono, naturalmente, crollati durante i periodi più acuti dell’emergenza. Dall’altra parte, dalle risposte emerge un aumento degli hobby – in particolare il cucinare -, dell’informarsi via web, ma anche dell’ozio e della solitudine nella propria stanza. Riguardo ai comportamenti specifici, soprattutto fra i maschi è esponenziale l’aumento nell’utilizzo dei videogiochi (il 61,2% lo segnala), seguito dall’incremento di chi si è abbandonato in maniera esagerata al cibo, oltre a un aumento – soprattutto fra i 16 e i 18 anni – dell’aggressività.

Di conseguenza, proprio le emozioni provate dagli adolescenti sono l’ambito nel quale più chiare sono le conseguenze di questa situazione. Si riduce di quasi la metà la “voglia di fare”, mentre aumentano i sentimenti negativi come la rassegnazione, il senso di solitudine (soprattutto nei giovani dei licei, poiché negli istituti tecnici i laboratori hanno permesso a molti di tornare prima a scuola). E ancora: in tanti segnalano ansia, noia, tristezza e rabbia come sentimenti prevalenti, soprattutto nelle femmine e nei neomaggiorenni. Ma una domanda specifica segnala ancor più il crescente disagio: “a chi ti rivolgi quando hai bisogno di sfogarti?”. Il 21,9% ha risposto “Nessuno”.

Il capitolo scuola registra altrettante criticità legate alla didattica a distanza (dad). «La pandemia – ha spiegato Tassinari – ha diminuito sensibilmente la fiducia nel sistema scolastico, aumentando in tanti il desiderio di espatriare per avere un futuro». In particolare, da segnalare un peggioramento del rendimento scolastico nei licei e, in generale, come la dad abbia tolto molta «serenità nel rapporto coi docenti e coi compagni», oltre a conseguenze sull’autonomia di studio e la determinazione ad imparare.

L’analisi dei dati raccolti non può far venir meno però alcune note positive: tanti adolescenti dalla pandemia «hanno capito l’importanza dell’aiuto degli altri e di affidarsi alla scienza. Sicuramente – ha concluso Tassinari -, il sentire una considerazione positiva su di sé dai genitori e dai docenti, è fondamentale per loro». Per questo, è necessaria «un’alleanza per il futuro, un nuovo patto educativo tra generazioni», con gli adulti capaci di ascoltare gli adolescenti, per «costruire insieme a loro un futuro per tutti».

L’incontro, oltre al saluto iniziale di Micol Guerrini, Assessore alle Politiche Giovanili, e al breve intervento di Mariateresa Paladino, Regione Emilia-Romagna, ha visto le conclusioni affidate alla nota sociologa Chiara Saraceno dell’Università degli Studi di Torino, esperta di politiche familiari, minori, donne e giovani. «Questa sofferenza diffusa – ha riflettuto -, causata da una “deviazione” nel loro percorso di crescita, emerge anche dalle indagini compiute a livello nazionale e in altri Paesi». Fra gli aspetti più problematici, Saraceno ha sottolineato la percezione da parte degli adolescenti di «essere considerati soggetti passivi di decisioni altrui» e la «mancanza di privacy» nei lockdown «vissuta come invasione dei propri spazi». Riguardo alla scuola, per la sociologa nell’emergenza «è passata spesso come mero luogo di mera trasmissione di saperi» – e quindi gli studenti come meri «utenti» -, non come luogo dello stare insieme, della mediazione dei conflitti». È, quindi, importante «offire ai giovani spazi in cui possano elaborare e rielaborare ciò che hanno vissuto». Infine, le fortissime disuguaglianze, non solo economiche ma anche relazionali, tra adolescenti, rischiano di creare sempre più “neet” (giovani che né studiano né lavorano), «una porzione di generazione che si perde: deve diventare una questione proritaria», da affidare non solo all’associazionismo ma alle «comunità educanti», per un «lavoro integrato con la scuola».

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 5 novembre 2021

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