Archivio | Maggio, 2021

Trionfa l’angelica bellezza: il telone artistico di Cutùli sull’Arcivescovado

31 Mag

Lorenzo Cutùli, scenografo ferrarese di fama internazionale, ci racconta il suo maxi telone che per un anno coprirà il ponteggio allestito a marzo sui due lati dell’Arcivescovado: si tratta di un omaggio al cardinale Tommaso Ruffo, Vescovo di Ferrara dal 1717 al 1738, che fece completare l’edificio. Gli angeli e le mani sono i simboli della custodia e della speranza

a cura di Andrea Musacci

La parte del telone su Corso Martiri della libertà


Una visione angelica si staglierà trionfante lungo una delle arterie principali del nostro centro cittadino. Una forte presenza di luce, di armonia, senza inutili spettacolarizzazioni, ma con la volontà di essere, in un tempo così tormentato, immagine di candore, porta aperta verso un futuro radioso nel legame indissolubile col passato, segno di protezione per la Chiesa e la città.

È questa l’intuizione dell’artista-scenografo ferrarese Lorenzo Cutùli nel realizzare l’enorme telone che andrà a coprire per un anno i due lati del Palazzo Arcivescovile di Ferrara, quello su corso Martiri della Libertà e quello su piazza Duomo. Il telone viene montato il 3 e 4 giugno. Cutùli così conclude, in un certo senso, il lavoro artistico iniziato nel 2017 con il telone artistico sul Teatro Comunale e proseguito l’anno successivo con quello sulla facciata della Cattedrale. A metà via tra i due, infatti, si colloca il grande Arcivescovado fatto completare negli anni ’10 e ’20 del XVIII secolo dal Card. Tommaso Ruffo, prima Legato apostolico poi Vescovo di Ferrara.

Lorenzo Cutùli


Partiamo dall’immagine: che cos’ha raffigurato sul telone?

«Sono partito, per il soggetto e per i colori, da un’idea angelica, dove l’edificio è protagonista soprattutto nelle sue decorazioni interne, nelle lesene, negli stucchi e nella parte superiore del grande portale d’ingresso, con la balaustra e la grande finestra incorniciata da motivi decorativi a rocaille. Su entrambi i teloni ho poi realizzato una grande allegoria di mani, mani gigantesche che sorreggono parti del palazzo, elementi simbolici a rappresentare le mani dei primi operai che costruirono l’edificio. Ma non solo: lo accudiscono e lo curano, oltre a essere giunte in preghiera. Sono, insomma, anche mani votive, devote, in parte riprese da alcuni dettagli della scultura funeraria della Certosa. In particolare, sul telone di Corso Martiri, oltre alle mani votive, vi sono riferimenti ad angeli guardiani e alle acquasantiere del vicino Duomo. E ancora, nel lato sinistro dello stesso, ho rappresentato la Madonna della Melograna di Jacopo della Quercia (esposta nel Museo della Cattedrale, ndr). Nel lato su piazza Duomo, invece, troneggia la grande statua di Atena, a sormontare lo scalone principale, affiancata da un altro grande angelo, che scrive la dedicatoria del palazzo del cardinal Ruffo. Poi, come pietra angolare, come fuga prospettica, ad angolo tra la via e la piazza vi è il ritratto dello stesso Ruffo, visto, però, come effige scenografica, attraverso un trionfo di angeli musicanti. Mentre nella parte inferiore si intravvede anche la Cattedrale, le grandi mani sono svelate da grandi drappi bianchi, quasi dei sipari scenografici, che “disvelano” l’apparizione delle stesse mani».


Nel progettarlo avrà pensato a non creare qualcosa di eccessivo per un centro storico come il nostro, in armonia con gli edifici circostanti…

«Avendo già realizzato i due grandi teloni artistico-scenografici per Teatro e Duomo, sapevo già come muovermi, che temperatura di colore usare. Fin da subito ho avuto chiara nella mia mente un’immagine totale di quello che poteva essere il telone, se non nei dettagli, almeno come concetto. In generale, ho voluto dare l’idea di candore. Non essendo un telone architettonico ma artistico-scenografico, non ho cercato una vera e propria armonizzazione con l’ambiente circostante, ma ho creato un continuum di racconto, una specie di narrazione visiva».


È, quindi, tutt’altro che una mera copertura. Cosa potrà dare al Palazzo e alla città?

«In questo periodo il telone può avere un grande significato simbolico, perché le mani aiutano, accudiscono e infondono speranza. C’è dunque una sorta di evocazione alla preghiera e una memoria della pandemia. Dovrà soprattutto creare bellezza e dare un valore aggiunto al palazzo, un forte senso di armonia».


Quanto tempo ha impiegato per idearlo e realizzarlo? 

«Il tutto è nato nel 2020, prima dell’aggiudicazione dell’appalto, dopo esser stato contattato dalla Ditta Leonardo. Fui molto contento della loro proposta. Ci sono voluti un paio di mesi per ideare il tutto, e tre settimane per realizzarlo. Dopo l’idea iniziale, ho raccolto il materiale iconografico riguardante la storia del palazzo, alcune vecchie planimetrie e vecchi prospetti, fra cui quello del Bolzoni, poi foto realizzate da me o da altri, ad esempio dai tecnici della Leonardo durante il sopralluogo. Il telone è stato stampato su un materiale plastico traforato, utilizzato per la copertura dei ponteggi. Ci sono voluti otto giorni per stamparlo».


È prevista una cerimonia di presentazione?

«Un’ipotesi, di cui ho parlato con Silvia Bottoni del Jazz Studio Dance, è di realizzare una coreografia ispirata agli angeli e alle mani, con anche un video della stessa e del telone».

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 4 giugno 2021

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Trasfigurare cose e luoghi: le poesie inedite di Lucia Boni

31 Mag

Uscita la nuova edizione di “Imbuti di cristallo” con i versi scritti durante il lockdown

Henri Matisse, Donna che legge, 1894


La sostanza del tempo nel quotidiano, nella vita animata da oggetti semplici che la poesia sa trasfigurare. E, insieme, il vuoto e l’attesa nel tempo del “confinamento” domestico obbligato.

Verso la fine del mese di marzo 2020, la poetessa ferrarese Lucia Boni ha composto alcuni versi ispirati proprio a quel lockdown di due mesi. Ora, vista l’assonanza con alcune sue poesie del 2009, ha deciso di pubblicarle insieme nella nuova edizione di “Imbuti di cristallo” (La Carmelina ed., 2021), con prefazione di Anna Paola Mambriani, postfazione di Monica Pavani e un commento di Gianni Cerioli del 2009.

Mai come in una rottura così netta e radicale, com’è stata la “segregazione” necessaria del 2020, ci siamo resi conto di come il tempo non possa avere oggettività. E così, nelle nuove poesie di Boni è protagonista il tempo del soggetto, fatto della stessa materia della vita di chi lo percepisce, degli oggetti che lo scandiscono, che affollano il quotidiano di chi scrive. Tempo inscindibile dallo spazio: «esploro», «colmiamo» sono alcuni termini usati dalla poetessa che dicono di un movimento.

Ma il tempo è anche legato al suono: le parole, la loro carne, è così diversa – nel loro mistero – da quella degli oggetti. Quest’ultimi sembrano guardiani, torri e mura della distanza, mentre le prime, vento, ciò che riempie senza confini, indefinibile. Riempiono. Sì, perché diverse volte le poesie di “Imbuti di cristallo” – nella prima edizione del 2009 – si chiudono con la parola «vuoto». Ma, come scriveva Bachelard nel suo “La poetica dello spazio”, «per i grandi sognatori di angoli, di buchi, niente è vuoto, la dialettica del pieno e del vuoto non corrisponde che a due irrealtà geometriche». «Le immagini abitano», prosegue il francese. «Lo spazio dell’attesa / non è vuoto», scrive Lucia Boni.

Nelle sue poesie, tanto quelle del 2009 quanto quelle del marzo 2020, questo «spazio dell’attesa» (di cosa, in realtà?) è un piccolo mondo vivo, raccolto e non fortificato. Gli oggetti evocati, nelle credenze e nei “fine pasto”, nel desco di stoviglie e terraglie, dicono dell’anima di chi li ha creati, di chi dona loro presenza, di chi li interpreta dandogli così vita. La poetessa li informa di sé e al tempo stesso ne è avvinta, ne dona e ne riceve senso.

Il luogo intimo dei suoi versi ha, dunque, l’atmosfera trasognata che solo una vera casa può avere, una dimora, un guscio dove riposare e riconoscersi. Dove gli spazi e i volti hanno una storia, le affezioni ritrovano sempre un proprio filo che li lega tra loro e nel tempo. Dove la memoria assume sostanza. Un luogo di verità.

Ma la verità è sempre nelle parole, come nel caso di Lucia Boni. Dar vita e verità alle cose significa trasfigurarle nelle parole. E così i movimenti, i piccoli rumori, i bagliori di luce nelle sue poesie hanno la consistenza del sogno. Come saremmo, viene da chiedersi, senza questa luce avvolgente, onirica, questa luce che inonda, “senza tempo”, spesso all’improvviso, i nostri ricordi, come lampi inattesi?

Forse davvero la nostra vita quotidiana si invera in pienezza grazie all’immagine che la poesia ci dona, immagine che non descrive e non annulla, che coglie e non adultera. È ciò che Lucia Boni sa fare. 

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 4 giugno 2021

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«Spero Ferrara torni agli antichi fasti. Ma oggi mancano i veri critici»

31 Mag

Parla Paolo Micalizzi, giornalista, critico e storico da oltre 50 anni

Paolo Micalizzi intervista Marcello Mastroianni (1971 – foto Paolo Micalizzi)

Giornalista, critico e storico del cinema, Paolo Micalizzi è un pezzo importante della storia del cinema ferrarese e italiano. Giornalista da quando aveva 20 anni, ha collaborato con diverse riviste di cinema, dagli anni ’60 col nostro Settimanale e dal ’69 col Resto del Carlino ferrarese e nazionale. Tante anche le pubblicazioni, tra cui quelle su “La donna del fiume”, Gianfranco Mingozzi, Florestano Vancini, Antonio Sturla, Carlo Rambaldi e Massimo Sani. Il suo ultimo libro è “Giorgio Ferroni/Calvin Jackson Padget: dai documentari e film di genere ai western spaghetti”. Per la FEDIC (Federazione Italiana dei Cineclub) organizza il Premio FEDIC (dal 1993) e il Forum FEDIC (dal 1995) nell’ambito della Mostra del Cinema di Venezia. Dal 2020 è Direttore artistico, insieme a Gianluca Castellini, di Italia Film Festival di Montecatini. Ha un’esperienza trentennale di Responsabile Relazioni Pubbliche e Ufficio Stampa della Montedison e dal 2015 dirige la rivista on line “Carte di Cinema”.


Da alcuni anni a Ferrara sembra esserci una volontà di risveglio nell’ambito del cinema. Cosa ne pensi? 

«Certo, c’è una volontà di risveglio, ma siamo ancora lontani da quella vitalità che c’era negli anni ’50 con la nascita di nuovi autori nella regia, nella sceneggiatura e nella critica: Vancini, Baruffi, Sani, Ragazzi, Pecora, Pittorru, Felisatti, Rambaldi, Fink, tanto per indicarne alcuni. Quella di Ferrara era una presenza importante anche a livello di Festival e Rassegne cinematografiche, cui io stesso penso – e mi è stato detto – di aver dato un contributo, grazie alla lungimiranza del Sen. Mario Roffi che diede vita al Festival “Il Cinema e la Città”, che determinò la presenza nella nostra città di critici e giornalisti da tutta Italia. Ma grazie anche a un illuminato esercente come Antonio Azzalli (Apollo, Embassy, Alexander, soprattutto) che, con l’aiuto di alcuni giornalisti ferraresi, tra cui il sottoscritto, ha dato vita ad organismi come il FAC (Film Arte e Cultura) di cui ero Presidente e Il “Cinema Scuola”, guidato da Anna Ardizzoni, i quali hanno messo in campo tante iniziative che hanno portato a Ferrara nomi illustri del cinema. Senza dimenticare le iniziative culturali di Gabriele Caveduri al Manzoni e dell’ARCI al Boldini. Io, poi, ho portato avanti la tradizione cinematografica ferrarese organizzando rassegne sul rapporto tra Ferrara e il cinema e sui suoi autori, ma anche Mostre documentarie nella ex Chiesa di S. Romano e nell’attiguo Chiostrino, che registrarono numerosissimi visitatori. Mi auguro che da iniziative come il Ferrara Film Festival, Il Ferrara Film Corto e la Scuola “F. Vancini” nasca quella vitalità che ancora tanta gente di Ferrara ricorda. Tenendo anche presente che l’attuale gestione Salustro-Protti del Cinepark Apollo è molto aperta a dar vita a eventi e iniziative di valore in campo cinematografico».  

Oggi, nell’epoca delle serie tv e del cinema su Netflix, che ruolo ha il critico cinematografico?

«Sul web si assiste a un’inflazione di critici improvvisati che genera confusione di valutazione. Le recensioni non sono supportate da una preparazione che molti di noi hanno acquisito studiando la Storia del Cinema non sui libri ma vedendo le opere che l’hanno sostanziata, andando al cinema non solo nelle sale “commerciali” ma soprattutto in quelle d’essai, formandosi nei Circoli del Cinema e, alcuni, organizzando anche Rassegne. La situazione del critico, quindi, non è per niente rosea. Gli stessi quotidiani danno poco spazio alla critica cinematografica. Una volta, invece, ogni giorno venivano recensite le prime e seconde visioni».   

È una vita, la tua, spesa nel mondo del cinema: quale regista, attore o attrice che hai conosciuto personalmente, ti ha colpito di più? 

«Nei Festival, Convegni o Rassegne da me organizzate, di personaggi famosi ne ho conosciuti tantissimi e ho vissuto con loro momenti interessanti dal punto di vista del mio arricchimento culturale e umano. Mi è rimasta impressa la generosità e la determinazione di Sophia Loren che in occasione di una cena in suo onore all’Hotel Excelsior durante la 59^ Mostra di Venezia, alla quale ero stato invitato, alla richiesta mia e di una signora di avere un suo autografo (lo faccio da anni con personaggi del cinema importanti e ne ho un centinaio) rispose con un sorriso e invitò le sue guardie del corpo, rimaste un po’ sbalordite, a farci avvicinare a lei: un gesto molto apprezzato. Ma potrei ricordare anche la simpatia di persone come Michelangelo Antonioni, Florestano Vancini, Giuliano Montaldo, Sergio Leone, Silvana Pampanini, Sandra Milo, Jeanne Moreau e Ciccio Ingrassia».


Progetti per il futuro?

«Continuare a tenere viva con articoli, libri e iniziative che intendiamo attuare come Cineclub Fedic Ferrara – di cui sono Presidente onorario – la tradizione di Ferrara e il cinema di cui mi occupo sin dalla fine degli anni ’60 e che hanno avuto un momento importante con la pubblicazione nel 1981 sulla Rivista “La Pianura” di due “Guide” dal titolo “Ferrara: Ciak su un territorio”, prima che al cinema ferrarese ed ai suoi autori dedicassi una 15ina di libri». 

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 4 giugno 2021

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«Noi missionarie ai piedi del vulcano in eruzione»: testimonianze dal Congo

24 Mag

Luisa Flisi racconta a “La Voce” la notte di paura: «la lava si è fermata a 2 km da noi. Tante le scosse di terremoto»

Luisa Flisi e Antonina Lo Schiavo con la moglie del presidente Kabila

Due missionarie laiche, Luisa Flisi, 77 anni, originaria di Parma e Antonina Lo Schiavo, 83 anni, salernitana, vivono da oltre 30 anni in un’umile casa nel centro di Goma, capitale del Nord Kivu nell’est del Congo, a soli 20 km a sud dal vulcano Nyiragongo, uno dei più pericolosi del mondo, esploso la sera di sabato 22 maggio. «La lava – racconta Luisa a “La Voce” – si è fermata a soli 2 km da casa nostra». Distrutto il vicino villaggio di Bushara.Circa 7mila persone hanno raggiunto il Rwanda, mentre 17mila sono fuggite verso sud. In gran parte della città si è avuto un blackout elettrico. Nel 2002 un’eruzione simile ha ricoperto le piste e bloccato gli aerei dell’aeroporto di Goma, provocando 250 morti e lasciando altre 120mila persone senza un tetto. Un’altra eruzione avvenne nel 1977. Mentre siamo al telefono con Luisa, nel primo pomeriggio del giorno successivo, domenica 23, ci racconta in diretta di «diverse scosse di terremoto, alcune forti altre deboli», che proseguono quasi ininterrotte dalla mattina: «per le scosse tremano i deboli vetri della casa a un piano dove io e Antonina viviamo. Ci troviamo vicino alla vecchia Cattedrale (distrutta dall’eruzione nel 2002 e poi ricostruita, ndr), nel centro di Goma. Ieri notte abbiamo tentato anche noi di lasciare la città in macchina, ma siamo state bloccate. Volevamo raggiungere le Piccole Figlie del Sacro Cuore di Gesù, a sud della città. È anche vero – ricorda con amarezza – che ogni volta che io e Antonina lasciamo la nostra casa, qualcuno entra per rubare. Ad esempio, nel 2002 ci hanno saccheggiato tutto».

Le due donne sono aiutate, oltre che da una signora del luogo, da una sentinella diurna e da una notturna. «Solo una stradina divide la nostra casa dalla prigione. Ieri notte i detenuti hanno tentato di fuggire – prosegue Luisa -, abbiamo sentito ripetuti colpi sparati per dissuaderli, alcune pallottole sono arrivate sul nostro tetto di lamiera. Stamattina ho chiesto di poter entrare in carcere per il mio servizio di assistenza, ma mi è stato impedito». Dopo la laurea in Pedagogia e tre anni di insegnamento come maestra, Luisa Flisi nel 1972 ha lasciato Parma per operare all’interno dell’associazione “Fraternità missionaria” fondata a Goma dal padre saveriano Silvio Turazzi. Luisa si trova a Goma dal 1989, mentre Antonina dal 1986. Luisa svolge principalmente assistenza ai carcerati, e in passato è stata molto attiva con l’associazione GRAM nell’assistenza ai malati cronici (soprattutto di AIDS), anche bambini. Antonina guida, invece, una scuola di recupero per le ragazze che non hanno concluso il ciclo scolastico. In Italia non tornano da fine 2019 / inizio 2020. Luisa lo scorso febbraio ha partecipato alla cena con l’ambasciatore italiano Luca Attanasio – i due si conoscevano bene -, la sera prima che fosse ucciso insieme al carabiniere di scorta Vittorio Iacovacci e all’autista congolese Mustafa Milambo. A inizio marzo è stato ucciso anche il magistrato militare Mwilanya Asani William che indagava sull’agguato, avvenuto sulla stessa strada Rutshuru-Goma, a due passi da dove abitano Luisa e Antonina.

Un altro racconto da Goma

Il dottor Aimé Kazighi è uno specialista in ortopedia che lavora all’ospedale diocesano Charité Maternelle di Goma, dove l’Associazione “Amici di Kamituga” ha finanziato una decina d’anni fa la costruzione del reparto di neonatologia. Questa la sua testimonianza: «sabato sera sono rientrato tardi dall’ospedale e, nell’addormentarmi, ho sentito un fragore: era il Nyiragongo tornato in azione. Benché casa nostra si trovi nella Paroisse Saint Esprit, a 30 km, il bagliore rossastro illuminava la notte e la gente si è riversata in strada. La mattina dopo ci ha accolto un cielo plumbeo, con la cenere che si posava lentamente, mentre continuavno le scosse di terremoto. Siamo andati alla Messa di Pentecoste con un forte senso di angoscia. Nel pomeriggio abbiamo appreso che la colata di lava si era divisasi, dirigendosi verso sud, verso il lago, lambendo la città senza danni rilevanti. Abbiamo pensato che lo Spirito Santo fosse venuto in soccorso di Goma. La sera è cominciata una pioggia sporca e, poiché le scosse di terremoto continuavano, quasi nessuno è rimasto in casa. Il vulcano ha rallentato la sua azione. Le autorità sono poco presenti e mal organizzate e da una settimana vige lo stato di emergenza».

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 28 maggio 2021

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Se l’imprevisto innesca di nuovo la vita

24 Mag

“Le luci avare dell’alba” è il nome del nuovo romanzo dello scrittore ferrarese Giuseppe Muscardini

A Rovigo la vita di un 60enne insegnante di Liceo, scapolo e stimato conferenziere ormai prossimo alla pensione, sembra scorrere tranquillamente. Ma alcune lettere ritrovate, spedite tra il ’46 e il ’47 da una giovane donna tedesca al padre, dopo avergli regalato spunti per le sue sedute accademiche, sconvolgeranno positivamente la sua esistenza. Un’esistenza non più vissuta in una solitudine divenuta pesante, e nemmeno in un passato ingombrante, ma riannodando i fili tra il primo e il secondo, ricercando una radice e un «affetto sincero» che ridoni senso alla vita.È da poco uscito il romanzo “Le luci avare dell’alba” (Edizioni Amande, 2021) scritto da Giuseppe Muscardini, saggista e romanziere classe ’53, fino al 2015 in servizio nei Musei Civici d’Arte Antica di Ferrara in qualità di Responsabile della Biblioteca.

Nel romanzo, una sorta di archeologia dell’amore e della passione, il passato viene scavato, rievocato con forza. Un passato che è tale perché, in realtà, si annida ancora nel presente, essendone lo spirito, l’origine. Un presente che, però, è vissuto dal protagonista come angusto spazio solitario – sembra dirci lo scrittore -, dunque assoluto, di cui si illude di essere padrone. Il libro ha la tensione investigativa del romanzo giallo e la lentezza e l’accuratezza tipiche di chi è abituato alla ricerca storica e filologica. L’abbrivio della narrazione, in parte autobiografica, è una vicenda per alcuni tratti comune, per altri rara: poco prima della Liberazione, il padre del protagonista viene abbandonato dalla moglie Illa che fugge con un soldato tedesco. Nel cercarla, avrà un rapporto epistolare – e che tale rimarrà – con una dattilografa tedesca, Elke, prima di sposarsi con un’italiana, madre del protagonista. Elke è in un certo senso la proiezione di Illa, il filo pericoloso che lo lega alla moglie fuggita. Un rapporto a distanza, dunque, quello con Elke, la cui reciproca sincerità e mancanza di pudore è forse facilitata proprio dalla lontananza che sembra insormontabile e grazie alla quale si può coltivare l’illusione, alimentare la fantasia e il desiderio.

Fosse finito qui, il romanzo sarebbe stato uno di quelli in cui protagonisti sono gli amori impossibili, irrimediabili, quelli mai goduti. Quelli malinconicamente perduti ma che rimangono sempre tali: potenti affermazioni nelle esistenze di chi li vive, che mai si disperdono del tutto. E invece il protagonista si rifiuta di pagare “le colpe” del padre (e forse di quella generazione), di rassegnarsi. E di quel mucchietto di lettere non ne fa un reliquiario ma una fonte viva d’ispirazione. In questo sta il primo salto da lui compiuto: l’attingere dalla vita, pur trascorsa. Ma compirà anche un secondo, più importante salto, quello dalle parole all’azione, dopo aver trasformato parole morte in parole vive. Un passaggio, questo, per nulla scontato, ma che gli permetterà di meglio mettere a fuoco la propria vita, dopo aver messo a fuoco, nella propria completezza, gli avvenimenti passati riguardanti il padre. «Ormai tutto è inarrestabile», dice all’inizio il protagonista, ancora ignaro che l’imprevisto appare indipendentemente dal nostro evocarlo, dal nostro desiderarlo.

L’innesco, o meglio la voce profetica, anticipatrice, nella vita del protagonista – ancor prima della donna che, come Altro, come volto nel suo apparire gli permetterà di meglio guardarsi – sarà un suo giovane allievo e il suo racconto puro e carnale, non il rimpianto di «quelle felicità intraviste / dei baci che non si è osato dare», citando Brassens/De Andrè. Un amore non pensato, non lontano, ma vissuto dal ragazzo, bruciato e che fa bruciare, un amore clandestino ma senza vittime né tradimenti, come invece nel caso del padre della protagonista.

Un amore concreto, quello del giovane allievo, ma ancora racconto, scintilla dell’amore che sarà, dell’imprevisto incarnato, invece, nella donna (Rosemarie) che, finalmente, comparirà in corpo, verbo e storia, nella totalità quindi del suo essere persona, senza infingimenti poetici, né nostalgici, diretta, fuori dalla narrazione altrui, porta dell’avvenire dentro la vita del protagonista. Una variabile non calcolata che lo rende fragile, dischiudendolo, portandolo, di nuovo, fuori di sé. Come per ogni apertura, egli si sentirà dunque esposto, provocato nel profondo da questa donna mossa dalla volontà di cercarlo in Italia proprio in relazione al padre, ma ignara delle conseguenze di tutto ciò sulle loro vite. Non più investigatori, dunque, saranno, né tantomeno spettatori, ma attori di un’altra storia. È, questo, in fondo, e fuori di ogni retorica, un altro modo di costruire l’avvenire: lasciando tracce di vita piena a chi verrà.

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 28 maggio 2021

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San Francesco è a Ponte Rodoni

24 Mag

Semplicità, comunità, sacralità sono i tre principi che hanno ispirato la costruzione della nuova chiesa del piccolo paese vicino Bondeno: parla l’architetto Antonino Persi. Lunedì 31 maggio la dedicazione col  Vescovo

di Andrea Musacci
Mistica e mastice. Le regioni insondabili dello spirito che richiamano la sobrietà della materia, l’artigianalità come arte religiosa, lavoro svolto nell’amore per gli uomini e per Dio.
Se desiderio di ognuno è di cercare parole e forme adatte a questo perenne dialogo col Mistero, di permettere alla Luce di entrare nel cuore delle persone attraverso i loro luoghi, così a Ponte Rodoni, piccola frazione che il Cavo Napoleonico divide dalla vicina Bondeno, l’arch. Antonino Persi, incaricato di progettare la nuova chiesa, ha riflettuto su questa dinamica. La vertigine dell’indicibile e la naturalità della materia. Come custodire la solennità non cedendo allo sfarzo. Ora, giunti alla conclusione di questo progetto durato due anni, è lo stesso Persi a spiegare a “La Voce” questa ricerca, in attesa che lunedì 31 maggio alle ore 20 si svolga la consacrazione dell’edificio. Data non casuale: essendo la parrocchia dell’Assunzione di Maria Santissima, si è scelto il giorno conclusivo del mese dedicato alla Madre di Dio.


La ricchezza è nella povertà

«Ho deciso di usare pochi e semplici materiali, volendo realizzare una chiesa che si rifacesse all’idea monastica, cercando di portare la semplicità della mia fede nel mio lavoro», ci spiega Persi, che si definisce, per formazione, «uno dei ragazzi del cardinal Lercaro». «Ad esempio ho usato la pietra “Santa Fiora”» – dal nome del paese nel grossetano vicino al confine con Umbria e Lazio -, «un’arenaria color sabbia considerata la pietra di San Francesco, estremamente povera ma ricca di sostanza». La stessa pavimentazione della chiesa «è in cemento e gli arredi sacri in legno, un legno molto semplice, coi chiodi visibili, così da suggerire la loro realizzazione. La stessa abside, di color cotto, è formata dai segni lasciati da vari assi di legno, vicini e uniti, a simboleggiare come devono essere i componenti della comunità».

Non tutti, però, a Ponte Rodoni apprezzano queste scelte. Ma la mancanza e la povertà dei materiali e degli arredi, nonostante l’impulsiva associazione con la mancanza di attenzione e cura per il luogo, rappresenta invece proprio il contrario. «È importante che le persone sappiano riabituarsi alla semplicità», prosegue Persi. Non un pauperismo fine a se stesso, dunque, ma il desiderio di essenzialità che si manifesta e al tempo stesso viene sollecitato anche dalle linee e dalle forme. «L’architetto – prosegue – deve far intravvedere l’invisibile attraverso il visibile. Per questo ho voluto realizzare una chiesa estremamente riflessiva, con la stessa luce che invita alla preghiera e alla meditazione». Il fonte battesimale, inoltre, è visibile già da una delle vetrate, per ricordare la centralità del Battesimo.

Comunità sacrale

Dicevamo dell’abside simbolo della collettività. Sì, perché per Persi «la chiesa non dev’essere dell’architetto ma della comunità. Voglio essere una pietra delle fondamenta, che non si vede ma sostiene, non mi importa essere una pietra d’angolo». Tre anni fa il progetto del nuovo edificio fu, non a caso, discusso e realizzato insieme alla comunità, adulti e bambini, attraverso diversi incontri, aperti a tutti, nella chiesa provvisoria. Un ulteriore momento di confronto è previsto nelle prossime settimane, e vi parteciperanno anche il Vescovo e don Zanella dell’Ufficio tecnico.

«Ci tengo a ringraziare anche le maestranze che hanno lavorato con devozione: gli stessi operai di fede musulmana hanno sempre rispettato il cantiere, ad esempio non consumando all’interno il proprio pranzo. È importante la sacralità del luogo dove sorge l’edificio religioso», prosegue. «A volte ho pregato e meditato con alcuni dei miei operai e due anni fa piantai davanti alla chiesa provvisoria una croce realizzandola con due assi di legno: da quel momento i fedeli non hanno più parcheggiato in quello spiazzo». Da una provocazione nasce poi una condivisione, un discorso comune. «Da un piccolo seme nasce un grande albero. Mi auguro che questa nuova chiesa diventi un luogo per l’intera comunità e soprattutto per i giovani». C’è tutto quel che serve: spazio, silenzio e una solenne semplicità.

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 28 maggio 2021

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L’appartenenza e le emozioni: Giorgio Franceschini ricordato dalla sua Ferrara

17 Mag

Il 15 maggio nella Loggia di Palazzina Marfisa un convegno dedicato all’ex partigiano, politico e uomo di cultura nei 100 anni dalla nascita. L’intervento del figlio e Ministro della Cultura Dario, il video ricordo della figlia Flavia, le tante testimonianze

Dario Franceschini a Marfisa

di Andrea Musacci


«Oggi ho la conferma che nella vita emozionano di più i ricordi personali e non ciò che abbiamo fatto nella vita pubblica». Era commosso Dario Franceschini, ferrarese Ministro della Cultura, mentre ricordava il padre Giorgio, anche se il carattere schivo e l’abitudine a dissimulare hanno di certo attenuato la sua emozione.

La splendida Loggia degli Aranci della Palazzina Marfisa d’Este a Ferrara la mattina di sabato 15 maggio lo attendeva per ricordare, a 100 anni dalla nascita, il padre Giorgio, partigiano, deputato, uomo di cultura deceduto nel 2012, che tanto ha dato alla politica e alla cultura anche della nostra città. Una mattinata di riflessioni ma perlopiù di testimonianze di chi l’ha conosciuto, desiderata e organizzata innanzitutto, oltre che da Dario, dall’altra figlia di Giorgio, Flavia, insieme all’Isco e al Comune. Una mattina culminata nella cerimonia di intitolazione a Giorgio Franceschini della piazzetta della chiesa della Madonnina di via Formignana, con lo scoprimento di una targa commemorativa. Flavia Franceschini, scultrice, è una vera e propria archeologa degli affetti: la sua appassionata attenzione alla vita dello spirito e alla coltivazione della memoria è un tratto che ha ereditato proprio dal padre. “E raccolgo ogni cosa, ogni voce ascolto” è il titolo del video da lei realizzato proiettato a inizio mattinata, citazione proprio di una frase di Giorgio. Alcuni giorni prima del convegno, chi scrive ha potuto visitare la casa della famiglia Franceschini in corso Giovecca, proprio attigua a Marfisa. Il magnifico atrio con parte dei 19mila volumi di famiglia, alcune sculture di Flavia, lo studio di Giorgio, sempre al pian terreno e, all’ultimo piano, quel sottotetto dove Giorgio dava vita ai suoi circoli giovanili (e, quindi, dove forse aveva anche ideato quel Fronte Giovanile Cristiano di cui abbiamo parlato nel numero scorso), sono un commovente luogo della memoria personale, famigliare e collettiva, visto il ruolo, ieri come oggi, sempre pubblico dei componenti della famiglia.

Lo scavo nella vita del padre, Flavia l’ha ripercorso montando nel video foto di lui da bambino, da ragazzo fino a quelle degli ultimi anni di vita, e con i ricordi personali di Carlo Bassi e Mario Morsiani. Un omaggio che ha commosso i circa 50 invitati, e che, nel suo lirismo, ha ricordato l’amore per il bello di Giorgio Franceschini: «ci ha insegnato a cercare la bellezza, sempre e ovunque», ha, non a caso, detto il figlio Dario, ricordando del padre anche il suo «saper non prendersi troppo sul serio». Ma il senso di appartenenza per papà Giorgio era anche quello per la propria città e per la propria nazione: Dario nel suo saluto finale ha ricordato anche «il suo impegno politico, sempre senza retorica», quel suo «cappotto consumato», immagine metaforica per dire l’attività instancabile in Parlamento e nelle istituzioni locali, e, appunto, quel senso di appartenenza, «che oggi si è un po’ persa, ma ai tempi era comune a tutte le forze democratiche».

L’evento della mattinata, che si poteva seguire in diretta dalle pagine Facebook del Comune e di Isco, è stato coordinato da Anna Quarzi (Isco) e ha visto anche il saluto del sindaco Alan Fabbri, la relazione di Angelo Varni (docente emerito dell’Università di Bologna) sull’impegno politico di Franceschini, e alcune testimonianze personali, quelle di Cesare Capatti (ex segretario della DC ferrarese), Francesco Scutellari (presidente dell’Accademia delle Scienze), Daniele Ravenna, Francesco Paparella (il quale ha donato ai Franceschini il documento del Fronte Giovanile Cristiano e 5 lettere inedite scritte da Giorgio all’amico Bruno Paparella nella primavera del 1941), e infine di Gianni Venturi.Tra i presenti vi erano anche mons.  Perego, il Prefetto Campanaro, la senatrice Boldrini, il consigliere Calvano, l’ex Sindaco Tagliani e il Presidente della Provincia Minarelli.

Mons. Perego, Dario Franceschini, Flavia Franceschini, Alan Fabbri


Intitolata a lui la piazzetta della chiesa della Madonnina

La mattinata del 15 si è conclusa con la cerimonia di intitolazione a Giorgio Franceschini della piazzetta della chiesa di Santa Maria della Visitazione (detta “della Madonnina”) di via Formignana e lo scoprimento di una targa commemorativa. Tanti i presenti, tra cui mons. Perego, che ha impartito la benedizione e recitato il Padre Nostro, e l’Assessore alla Cultura Marco Gulinelli che ha tenuto un breve discorso.

La Chiesa della Madonnina, parte dell’UP Borgovado, dovrebbe riaprire a breve, vista la conclusione dei lavori lo scorso aprile. L’edificio, insieme alla canonica e al complesso conventuale, sono stati dichiarati inagibili a seguito del sisma del 2012. I lavori di riparazione col consolidamento strutturale, eseguiti con finanziamenti regionali e assicurativi da parte del Comune, sono iniziati nel marzo 2019. I lavori di restauro sono stati eseguiti solo nella chiesa, dove attualmente si stanno ultimando alcuni interventi di finitura per poter ospitare le opere d’arte rimosse dopo il sisma.

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 21 maggio 2021

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«La vera forza è la mitezza»: dialogo cristiano-islamico sulla violenza

17 Mag

Il 16 maggio a Sant’Agostino incontro cattolici-musulmani sul tema della violenza nei testi sacri

Da sx: Samid, El Hachimi, don Zecchin

È possibile difendere la giustizia, la vita e la dignità delle persone non rispondendo al male con il male, trattenendo la collera? Su questo complesso tema, sul quale non si riflette mai abbastanza, la sera dello scorso 16 maggio si sono confrontati don Michele Zecchin, parroco di Sant’Agostino, Hassan Samid, Presidente del Centro culturale islamico di via Traversagno e l’imam di Ferrara Mohammed El Hachimi. Un appuntamento organizzato dal gruppo “Incontro” di amicizia tra cristiani e musulmani della comunità di viale Krasnodar, da anni impegnato a livello caritatevole, sociale, culturale e teologico nel rafforzare i rapporti tra gli appartenenti alle due fedi.

«Il Corano proibisce l’aggressione e l’ingiustizia», ha esordito l’imam. «Tre sono i tipi di musulmani: quello che usa le parole solo per il potere e per compiere violenza, quello troppo debole, che soffre di vittimismo, e quello forte, che fa valere la giustizia senza violenza». Samid ha invece esordito con un messaggio di speranza: «quest’anno per il Ramadan abbiamo ricevuto i consueti auguri da parte dell’Arcivescovo, quelli del MEIS e, per la prima volta, anche quelli del Rabbino di Ferrara». «Il Corano – ha poi riflettuto – è un messaggio universale che non invita alla vendetta o alla violenza, né fisica, né verbale, nemmeno contro gli animali». La violenza, infatti, «non può durare nel tempo, mentre la pace e la giustizia sì. Nell’islam, la persona timorata cerca di rimanere sulla retta via e di trattenere la collera, anche se vittima di ingiustizia». Riguardo alle critiche che a volte vengono rivolte al Corano di contenere diversi passaggi di incitamento alla violenza, Samid, pur non negando che vi siano, ha spiegato come il testo sacro dell’islam «non vada usato come fosse un manuale tecnico, ma continuamente studiato e interpretato, sempre leggendolo in maniera complessiva e unitaria». 

«Anche noi cristiani dobbiamo compiere sempre uno sforzo di interpretazione del testo biblico», ha commentato don Zecchin. «In ogni caso, dovremmo innanzitutto evitare di assegnare a Dio le nostre qualità negative», come appunto l’essere vendicativi, cattivi, violenti. Il sacerdote ha brevemente analizzato alcuni episodi della Bibbia, tra cui l’uccisione di Abele per mano del fratello Caino, la vicenda di Mosè, dell’omicidio da lui compiuto e del lungo pentimento, quello del profeta Osea, fino ad arrivare a Gesù. In particolare nelle beatitudini, «mitezza, misericordia e ricerca della giustizia sono al centro: la vera forza è proprio la mitezza, l’umiltà, che rappresenta un cambiamento reale del cuore». I racconti della Passione sono il culmine di questo rifiuto della violenza: «davanti a un’enorme ingiustizia, il Figlio di Dio non risponde come avrebbe potuto». «Benedite coloro che vi perseguitano, benedite e non maledite» (Rm 14) è la riflessione di San Paolo con cui don Zecchin ha voluto concludere l’incontro. Nella speranza che, già dopo l’estate, si possano organizzare momenti di confronto non solo tra cristiani e musulmani, ma anche con ebrei.

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 21 maggio 2021

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Che risposta dare al nichilismo? Dialogo fra Truffelli e don Carron

17 Mag


Il 13 maggio il presidente nazionale di AC e la guida di CL si sono confrontati sul tema della fraternità

Truffelli
don Carron

La pandemia è «un fatto epocale che sfida il nichilismo e l’individualismo delle nostre società». Per questo, la Chiesa e più in generale la società e la politica debbono dare risposte all’altezza di una prova così radicale. Non è così frequente vedere insieme sullo stesso palco il massimo rappresentante dell’Azione Cattolica Italiana, il presidente Matteo Truffelli, e la guida di Comunione e Liberazione don Julian Carron. Uno stare insieme che significa tanto l’uno a fianco all’altro – come si è o si dovrebbe sempre essere nella Chiesa -, quanto l’uno di fronte all’altro, differenti ma fraterni, uniti anche quando emergono i conflitti. Per questo dispiace che l’incontro pubblico fra i due tenutosi lo scorso 13 maggio sia passato un po’ sotto silenzio. Trasmesso in streaming dall’Università Cattolica di Milano e moderato da Ferruccio De Bortoli, verteva sul tema “Fraternità e amicizia sociale. La Fratelli tutti e il nostro compito”.


Questa nostra epoca complessa

«Come credenti dobbiamo vivere e condividere una visione differente della società, fondata sulla fraternità – ha esordito Truffelli -, proponendo ideali, non ideologie, e costruendo esperienze concrete». L’inizio del confronto sembra improntato sull’ottimismo. «La solidarietà» è l’antidoto al «principio individualista del “si salvi chi può” e al conformismo». Per cui, questa della pandemia «è una stagione in cui è più facile riconoscersi come fratelli». «L’aver sentito tutti il bisogno di essere uniti – ha condiviso con lui don Carron – ci ha resi più consapevoli che siamo tutti sulla stessa barca, che non possiamo cavarcela da soli. Il bisogno può far generare nuovi principi e unità, come dopo la seconda guerra mondiale». Anche oggi «si sono avviati processi di collaborazione – scientifico ed ecologico, ad esempio – impensabili fino a poco tempo fa. Si stanno avviando, o sono accelerati, cioè, processi diversi da quelli dati per assodati».


Ma quali risposte offrono i cristiani?

«Il mondo cattolico ha idee, proposte, esperienze e persone da mettere a disposizione del Paese, dell’Europa e del mondo? Sappiamo, cioè, tradurre tutto ciò in proposta politica?», ha incalzato Truffelli. «Ciò significa anche liberare i cattolici da alcune caselle entro le quali a volte vengono messi, come quelle della sola difesa dei migranti o della vita». Non bisogna, invece, dimenticare che «la politica è il senso dell’insieme, del complessivo» e che ai cattolici «è chiesto di viverla come seminatori di speranza: la politica deve innescare il futuro, non contrapponendo ma unendo». La problematizzazione del concetto di fraternità l’ha portata avanti anche don Carron, se possibile anche andando più a fondo della questione. Dato che «il desiderio di pienezza appartiene a ogni persona», la risposta «non può essere teorica ma reale, e non può essere l’individualismo, l’accumulazione di cose o il potere». La risposta sta in una testimonianza radicalmente diversa. «Se non viviamo davvero la fraternità – ha proseguito il sacerdote -, se cioè non abbiamo modalità, criteri diversi nel vivere il nostro quotidiano, allora siamo come gli altri». «Essere davvero “fratelli tutti” non è un mero sogno ma risponde al bisogno grande che abbiamo».


Che cos’è la libertà

La fraternità fa riflettere anche su quale sia la vera libertà. Per Truffelli la pandemia «ci ha fatto ripensare il senso della libertà intesa come scelta solitaria e relativista, cioè il modello fortemente prevalente in precedenza. La libertà non è tutto. Legato a ciò, c’è il tema dei diritti, che a volte rischia di essere difesa di privilegi», mentre «il diritto deve tutelare non solo me ma anche gli altri». «Dobbiamo essere consapevoli – ha ribattuto la guida di CL – che l’affermazione di sé è vera solo se avviene insieme all’affermazione dell’altro: partecipare a un gesto comune porta a un godimento del vivere nettamente più grande».


Sinodalità e pluralità

L’ultima questione posta da De Bortoli ha riguardato il tema della sinodalità ecclesiale: un percorso sinodale, come quello annunciato due mesi fa dal card. Bassetti, «può essere una grande occasione per la Chiesa italiana per maturare ancor più consapevolezza di ciò che vuol dire essere popolo dentro un popolo ancora più grande, e quindi il sapersi mettere in ascolto» e il «saper riconoscere la diversità come ricchezza, non come problema». «La sinodalità – ha poi concluso don Carron – è utile solo se ci mettiamo in ascolto dello Spirito. C’è qualcosa di davvero interessante che sfida questo nichilismo? Ascoltiamo la novità che il Mistero suscita rispetto al nulla che avanza».

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 21 maggio 2021

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«Liberi da bavagli e catene, ricostruiamo la Patria»: il documento antifascista inedito dell’autunno 1943

10 Mag
Gruppo di giovani cattolici ferraresi, anni ’40 (Franceschini è il primo a sx seduto. Al centro don Carlo Borgatti e sotto don Quaranta, mentre Max Tassinari è due persone a destra di don Carlo) (foto Flavia Franceschini)

Il documento sul Fronte Giovanile Cristiano che abbiamo ritrovato a Ferrara fra le carte di Bruno Paparella fu scritto a macchina da Giorgio Franceschini, futuro deputato, in pieno terrore repubblichino: prevede la nascita della DC e della democrazia

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 14 maggio 2021

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di Andrea Musacci
Un documento inedito, riemerso fra le antiche carte di Bruno Paparella, fondamentale per capire la sua personalità e quella dell’altro principale ideatore, Giorgio Franceschini – di cui il 15 maggio ricorre il centenario dalla nascita -, oltre allo spirito che animava l’antifascismo cattolico ferrarese, soprattutto fra quei giovani che contribuiranno nel CLN alla Liberazione e poi alla costruzione della Democrazia Cristiana a livello locale e nazionale.Il documento ritrovato, scritto a macchina (di cui accenna Lydia Paparella, sorella di Bruno, nel suo articolo sulla “Voce” del 30 aprile scorso), reca nella prima pagina la scritta “Fronte Giovanile Cristiano” e l’indicazione “Ferrara, autunno 1943”. I nomi di Carlo Bassi, Max Tassinari e Giorgio Franceschini campeggiano su questo frontespizio. Si tratta della bozza di un progetto clandestino – mai concretizzatosi – di tipo educativo e socio-culturale, rivolto ai giovani cattolici ferraresi, mosso da grande idealità, volto a un impegno integrale. Un testo emozionante, scritto da poco più che 20enni, dopo due decenni di fascismo e nel buio della guerra e dei primi mesi della RSI, rischiando la vita e con uno slancio spirituale, culturale e politico impressionante, coniugato a un enorme desiderio di ricerca e dibattito troppo a lungo represso.

Per 20 anni i giovani furono, infatti, inquadrati prima nell’Opera Nazionale Balilla e poi nel GIL (Gioventù Italiana Littorio) con uno spirito militaresco. In una lettera del 10 settembre 1943 Alcide De Gasperi esprime a Sergio Paronetto i propri timori circa il fatto che il fascismo fosse ormai «una mentalità congenita alla generazione più giovane». Questo dimostra ancora di più l’eccezionalità di questo coraggioso documento ferrarese che “smentisce” le parole di De Gasperi.“Premessa”, “Programma” e “Punti fondamentali” sono le tre parti in cui è diviso il testo, composto da sei fogli ramati dal tempo, nell’ultimo dei quali sono indicati i diversi nomi dei promotori e dei primi possibili aderenti. Fra questi, scritti a mano, oltre ai tre indicati nel primo foglio, ipotizziamo i nomi di Antonio Periotti, Cesare Menini, Giorgio Motta, Gianni Vitali (poi cancellato, forse perché ai tempi troppo giovane), Paolo Rovigatti.

«In questo documento – spiega a “La Voce” Flavia Franceschini, figlia di Giorgio (l’altro è Dario, attuale Ministro della Cultura) -, riconosco sia la calligrafia sia la macchina da scrivere di mio papà: non ho alcun dubbio in merito». Lydia e Francesco Paparella (quest’ultimo nipote di Bruno) ci confermano che la calligrafia non è di Bruno. Inoltre, «nella nostra grande vecchia casa in corso Giovecca, nella soffitta (che chiamavamo ”granaio”) – continua Flavia -, mio padre da ragazzo aveva adibito una camera a circolo culturale, dove si riunivano gli amici. Su una trave del sottotetto ci sono ancora scritte con il nome di un circolo da lui creato. Di sicuro – aggiunge – era una passione di mio padre organizzare circoli di questo tipo».


Il documento. «Una nuova fraternità di spiriti»
«Dinnanzi al presente grave e doloroso stato in cui si trova la nazione italiana, dinnanzi al disorientamento, al dolore e ai sacrifici e alla sempre crescente incredulità del nostro popolo verso i grandi ideali. Dinnanzi allo stato di abiezione di gran parte della gioventù italiana divenuta incapace di rettamente sentire, pensare ed agire per il disordine fallimentare, spirituale e morale di tante famiglie, per l’incapacità e l’indegnità dei suoi educatori, per la mancanza di libertà d’azione e di pensiero a chi poteva più degnamente e saggiamente condurla, per l’errata impostazione educativa del passato, noi – giovani di Ferrara – dichiariamo il nostro bisogno di unirci in una nuova stretta sincera fraternità di spiriti». Così esordisce il testo. «Proviamo a metterci nei panni di quei giovani», ragiona con noi Francesco Paparella. «È vietato ogni dissenso nei confronti del regime, figuriamoci pensare di costituire un movimento politico democratico!» E invece loro, pur con le dovute cautele, lo progettano. «Erano mesi molto bui per l’Italia, quelli della repressione più violenta. Ebrei, oppositori, sospettati venivano incarcerati, condannati e barbaramente uccisi o deportati. Basti pensare, a mo’ di esempio, agli eccidi del Castello, della Certosa, del Doro e della Macchinina». Più avanti il testo continua: «Riconoscendo la nostra ignoranza in campo teologico e dommatico, ma animati da un immenso desiderio di affidarci alla verità del Cristo e della sua Chiesa (…) ci professiamo cristiani cattolici e diamo il nome di cristiano al FRONTE GIOVANILE che costituiamo».
«Il “Fronte” – è scritto poi nel documento – è soprattutto unione spirituale di giovani che (…) sentono il desiderio e la necessità di prepararsi spiritualmente e culturalmente per potersi formare una chiara coscienza cristiana, per dare oggi e ancora più domani un valido aiuto al movimento cattolico, secondo le possibilità apostoliche loro, intellettuali e sociali, con il pensiero e con l’azione. Il “Fronte” nel suo attuale momento iniziale, più che organizzazione è movimento, tendenza, corrente giovanile». Movimento che intende «raccogliere adesioni di giovani di qualsiasi categoria sociale, desiderosi di accostarsi maggiormente al Cristianesimo per il bene proprio, della Chiesa e della Patria, coll’impegno di differenziarsi nettamente da tutti i cristiani e italiani attuali “all’acqua di rose”, insensibili, infrolliti, o falsi bacchettoni e (parola aggiunta a mano non comprensibile, ndr)». L’unione, viene poi specificato, «è al di fuori di ogni organizzazione, lontana da ogni costituzione gerarchica» e fondato sulla fraternità: tutti i giovani aderenti «si conoscono tra di loro, si amano fortemente e fraternamente senza distinzioni di età o di classe, si aiutano vicendevolmente; tengono il contatto tra loro, se lontani, si interessano reciprocamente del lavoro che svolgono, si sacrificano fino all’ultimo per i bisogni del singolo o della collettività. Perciò l’appartenenza al Fronte è anzitutto un patto di amicizia e di solidarietà da mantenere e difendere con un giuramento».

Ma questa unione «è in funzione di una preparazione e di un lavoro sociale» – poiché «ogni azione sociale non compiuta nello spirito della eccelsa virtù della carità non rimanga sterile» – e politico: «Se il F.G.C. si limitasse a costituire l’unità dei giovani e a svolgere benefiche opere sociali, senza avere un’influenza politica, non avrebbe ragione di esistere e si potrebbe identificare con altre istituzioni, quale quella dell’Azione Cattolica (…). Se l’Azione Cattolica non può fare della politica perché altri sono i suoi intendimenti, è necessario (…) e non meno importante e indispensabile una netta e ferma posizione dei cattolici nella vita politica perché, oltre a non tollerare che vengano misconosciuti e negati fondamentali principi cristiani in campo morale e giuridico, in campo interno e internazionale, debbono agire affinché la ricostruzione della Patria e del mondo avvenga realmente e su basi Cristiane». È evidente come il documento getti le basi per la futura Resistenza e alternativa al nazifascismo. Il finale, coraggioso se si pensa che viene scritto nel clima di repressione totale della RSI, è commovente: «I giovani sanno che la sistemazione cristiana del mondo è necessaria e possibile: che esiste un piano di sistemazione economica sociale e politica ispirato al Vangelo di Cristo e agli insegnamenti della sua Chiesa: non possono perciò né negarlo né abbandonarlo: lo raccolgano, lo amino, lo meditino, combattano e soffrano per esso con l’ardore della giovinezza. Di questa giovinezza che, denarcotizzata, libera da bavagli e catene, purificata dalle cattive tendenze e dagli odi cui fu educata, sollevata da angosce e terrori, deve essere restituita finalmente al culto degli alti ideali dell’amore universale e della Patria».

Giorgio Franceschini nel 1943 (foto Flavia Franceschini)

Prima del Fronte Giovanile Cristiano: Juniorismo, scuole di apostolato e autorganizzazione educativa
Come raccontò lo stesso Franceschini (nel libro di Giovanni Fallani intitolato “Per Bruno Paparella: testimonianze di amici”, 1987), Paparella nel ’40 – ai tempi presidente della GIAC (Gioventù italiana di Azione cattolica) e un anno dopo averlo conosciuto – lo nominò delegato diocesano degli Juniores di AC. “Juniorismo” era il nome di un ciclostilato, uscito in tre numeri, che a inizio ’41 fu redatto e stampato dallo stesso Franceschini insieme a Carlo Bassi, Max Tassinari e altri: «era – scrisse Francheschini –, in fondo, l’espressione dell’intenzione di provare una via ancor più originale e persuasiva per l’apostolato giovanile, con nessun intendimento politico (non erano quelli né i tempi né gli uomini, né gli ambienti per comprendere l’incalzare dei tempi nuovi). (…) Si salpava verso lidi imprevedibili, ma di cui si immaginava l’esistenza: un modo nuovo di concepire la vita, la gioventù, l’amore reciproco, ben diverso da quello che i tempi e il fascismo insegnavano ai giovani». Ma «l’arcivescovado e la curia, prese dal timore di “grane” di provenienza fascista, che forse avevano cominciato a manifestare osservazioni e critiche, intervennero perché la pubblicazione cessasse». Una capacità di visione, dunque, che sembrerà poi tornare nello spirito del Fronte Giovanile Cristiano (FGC).

Anche in due lettere rispettivamente del febbraio e dell’aprile ’43, che Bruno Paparella invia da Ferrara a Franceschini, in quel periodo a Lucca per il servizio militare, torna il tema di un nuovo gruppo giovanile cattolico. Il tema è quello delle organizzazioni delle forze giovanili dentro l’AC: Paparella parla dell’istituzione delle scuole di apostolato che, «svolgendo le sue lezioni tutti i lunedì, dà luogo a interessanti conversazioni sui più vari problemi (…). C’è tanto bisogno di fare del bene nelle nostre sezioni, anche magari facendole vivere rivolte alla parte positiva ed attiva del nostro cristianesimo, alle opere di carità…». Anche qui, uno spirito molto simile al mai realizzato FGC.

Proseguendo, in un’intervista rimasta inedita che tra fine 2005 e inizio 2006 Monica Campagnoli dell’Istituto Sturzo di Bologna rivolge a Giorgio Franceschini, quest’ultimo, parlando di quel periodo, ricorda: «qui a Ferrara non c’era la possibilità di trovare dei punti di riferimento intesi come persone la cui azione poteva costituire un esempio: mentre i leader nazionali, De Gasperi, don Sturzo, ci sembravano così lontani qua in provincia. De Gasperi ancora nel luglio del 1943, in pieno periodo badogliano, sembrava un personaggio strano e misterioso. Prendemmo davvero coscienza delle idee di De Gasperi a partire dal ’45. Per questo motivo, quelli che dopo la formazione del partito divennero democristiani, prima della nascita della DC, qui a Ferrara, erano un gruppo di cattolici legati anche da un comune sentimento antifascista. (…) Rispetto alla questione della formazione, direi che qui a Ferrara, “ci siamo fatti un po’ da noi in casa” (…). Buone letture e amicizie, se dicessi delle altre cose sarebbero tutte invenzioni». Parole che in un certo senso confermano quel sano spontaneismo, quell’autodeterminazione così evidente nel documento del FGC.

Bruno Paparella nel’ 41 con alcuni famigliari (foto Francesco Paparella)


Dopo il Fronte Giovanile Cristiano: staffette partigiane, Comitato di Liberazione Nazionale e Democrazia Cristiana ferrarese
Ben 297 sono le incursioni aeree sulla città di Ferrara dal 1943 al 1945, con una trentina di bombardamenti a tappeto che provocano la morte di almeno 1070 vittime ufficiali. Il 40% delle abitazioni viene distrutto o danneggiato.

In questo clima, la famiglia Franceschini ai primi del ’44 sfolla a Ostellato, e Giorgio spesso si reca in bicicletta a Masi Torello per incontrare Luciano Comastri, giovane proveniente dall’AC, «membro del movimento clandestino DC», sfollato proprio a Masi Torello, come raccontò lo stesso Franceschini a “la Voce” nel 1985. Nello stesso articolo spiega come lui e Comastri riuscirono a portare a diversi cittadini, preti e non, – sfruttando il proprio servizio di “postini-ciclisti” del Corriere Padano – copie del messaggio radiofonico di papa Pio XII del Natale ’44, in cui il Pontefice parla della democrazia che verrà: «In una schiera sempre crescente di nobili spiriti sorge un pensiero – sono sue parole -, una volontà sempre più chiara e ferma: fare di questa guerra mondiale, di questo universale sconvolgimento, il punto da cui prenda le mosse un’era novella per il rinnovamento profondo, la riordinazione totale del mondo. (…) [I popoli] Edotti da un’amara esperienza, si oppongono con maggior impeto ai monopoli di un potere dittatoriale, insindacabile e intangibile, e richieggono un sistema di governo, che sia più compatibile con la dignità e la libertà dei cittadini. In tale disposizione degli animi, vi è forse da meravigliarsi se la tendenza democratica investe i popoli e ottiene largamente il suffragio e il consenso di coloro che aspirano a collaborare più efficacemente ai destini degli individui e della società?».

Sempre nel ‘44 Franceschini fonda, insieme ad alcuni amici dell’AC ferrarese, il primo nucleo clandestino della locale Democrazia Cristiana, anticipato – possiamo dire – dal Fronte Giovanile Cristiano. Nella primavera del 1945 Franceschini, insieme ad altri giovani cattolici, rappresenta la DC nel Comitato provinciale (clandestino) di Liberazione Nazionale, conseguendo poi il brevetto di patriota. Da elenchi di catalogazioni da lui stesso redatti, risultano anche un “Volantino clandestino diffuso dai giovani D.C. qualche giorno prima della Liberazione” e un “Programma clandestino dei Giovani D.C. ferraresi”. Purtroppo, però, non sono ancora stati ritrovati.

Nella citata intervista che rilasciò nel 2005-2006 a Monica Campagnoli, Franceschini parla anche della successiva nascita della DC ferrarese, nata dal «gruppo dei vecchi popolari, per la verità non molto numeroso», e dal «gruppo dei giovani che avevo raccolto io», e da un gruppo che chiama gli «incerti», provenienti dal mondo fascista o da quello borghese. «La Democrazia Cristiana – spiega ancora nell’intervista inedita – fece la sua comparsa qui a Ferrara solo nel 1945 (…), nacque solo pochi mesi prima della liberazione grazie all’azione di un gruppo di giovani di cui mi “vanto” di essere stato un po’ il leader. Entrammo prima nei Comitati di liberazione e poi proseguimmo la nostra attività nella DC (…)». Quei giovani si ritrovarono il 26 aprile 1945 in una sala del palazzo arcivescovile per la prima riunione della DC ferrarese. Era presente anche un gruppo degli “anziani”. Tra i giovani vi erano Carlo Bassi, Giorgio Franceschini, Cesare Menini, Gian Maria Bonsetti, mentre tra gli “anziani” l’avv. Dotti, l’avv. Gorini, l’avv. Lodi, l’avv. Devoto, Giovanni Vincenti.

La prima assemblea della DC ferrarese si tenne, invece, nei locali di via Adelardi 9/a, presso i quali per alcuni mesi prese sede il Partito, sino al trasferimento nella Borsa di commercio. Da tale assemblea uscì un Comitato provvisorio con il compito di organizzare il 1° Congresso provinciale, che si tenne il 28 settembre dello stesso anno. Ad esito di questo Congresso l’avv. Lucci venne eletto Segretario provinciale, per poi lasciare il posto ad Adalberto Galante.Il resto è storia della nostra città e dell’intera nazione, ma possiamo dire che idee, passioni e progetti di questa vicenda durata oltre 40 anni germinarono anche, clandestinamente, in quel sottotetto di corso Giovecca, sognando quel Fronte Giovanile Cristiano che mai nacque ma che diventò ben presto parte delle fondamenta per la rinascita di un intero popolo all’insegna, anche, dello spirito cristiano.


(Grazie a Francesco Paparella e Flavia Franceschini per le foto e le informazioni)

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