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Rock’n’roll theology: Springsteen e la fede

10 Mag

In vista dello storico concerto di Bruce Springsteen a Ferrara il 18 maggio, scopriamo come in molti dei suoi testi siano presenti le domande della fede: vita e peccato, morte e redenzione, comunione e salvezza. Un viaggio nell’umano

di Andrea Musacci

Spesso si riduce a un gioco ozioso il voler attribuire etichette di “cristianità” a scrittori, registi, cantanti. La bellezza nell’indagare la loro spiritualità spesso non dichiarata, d’altra parte, porta alla luce come l’immaginario biblico (neo e vetero testamentario) sia così radicato nelle nostre vite da non poterlo eludere. Ed è una forza, la sua, non derivante da veri o presunti “indottrinamenti” ma dalla radicalità di come l’umano e il divino vengano, in ogni pagina della Bibbia, sviscerati, dando una risposta alla sete di verità e di assoluto insita in ogni persona.

Questa premessa per dire di come anche la poetica di un grande cantautore come Bruce Springsteen – che il prossimo 18 maggio si esibirà al Parco Urbano di Ferrara con la sua E Street Band – sia infarcita di parole e immagini legate al tema della colpa, della salvezza, della comunione.

Ne parla ad esempio Luca Miele, giornalista di “Avvenire”, nel suo libro “Il vangelo secondo Bruce Springsteen” (Claudiana ed., 2017), che l’autore presenterà il 13 maggio alle ore 18 nella sede di “Accademia” (chiostro chiesa di San Girolamo, accesso da via Savonarola), nell’incontro dal titolo “Everybody’s Got A Hungry Heart. Un viaggio alla riscoperta di sé nella musica di Bruce Springsteen”.

È lo stesso Miele a chiedersi innanzitutto se nel caso di Springsteen si possa parlare di “rock’n’roll theology”, o meglio di teologie (al plurale) nei suoi brani, vista l’ambivalenza e la frammentazione del tema religioso in esse contenuto. Di certo c’è, ad esempio, il legame con la “teologia nera” contenuta nei gospel e negli spiritual. 

CATTURARE LA VITA

E come nella musica del riscatto e della redenzione dei neri, è l’esistenza concreta, di carne e sangue, a essere imprescindibile. La sua ricerca, insomma, si muove sempre coi piedi per terra, pur con uno sguardo capace di rivolgersi verso l’alto. Springsteen – scrive Miele nel libro – sa «muoversi, senza rotture, con disinvoltura, tra i campi del secular e del religious. Infondere, catturare la vita – esprimere le sue cadute, le sue speranze quotidiane – dentro e con un tessuto di simboli, immagini, figure trasparentemente religiose. Springsteen, però, non decide né per l’uno né per l’altro, la sua scrittura si muove in quello spazio di indistinzione tra secular e religious, tende gli orli di secular e religious fino a farli toccare, li spinge a sconfinare, a ibridarsi, contaminarsi. Uno restituisce, specchiando, l’altro. La liberazione è qui, è ora». E ancora: «Lo storytelling di Springsteen non mira a svelare il mistero, ma a incarnarlo nelle vite che canta. Non mira a sciogliere il secular e il religious, ma a rendere trasparente la loro cucitura». 

IL PADRE E LA CASA: AMBIVALENZE

A Freehold, nel New Jersey, dove visse l’infanzia e l’adolescenza, Bruce frequentò la primaria nell’istituto della sua parrocchia, la St. Rose of Lima, per poi trasferirsi alla Freehold High School dove si diplomò nel 1967. L’approccio del giovane con la scuola cattolica fu difficile, in quanto non accettò la disciplina imposta dalle suore. A questo, si aggiunse il difficile rapporto col padre Douglas, costretto a cambiare vari lavori per mantenere la famiglia (Bruce ha due sorelle), e malato di depressione. Proprio il tema del padre torna spesso nei suoi brani, in una continua lotta con questa figura, nel tentativo di allontanarla, di comprenderla e infine di riconciliarla a sé. 

Un percorso lungo, questo, che passa nelle sue canzoni dall’immagine del peccato ereditato, nelle forme della malattia mentale (la depressione, appunto) e della malattia dell’anima (l’incapacità di amare): «la catena dell’amore è la catena del peccato», è una «de-generazione», scrive ancora Miele. Il lavoro – simbolo della figura paterna – è vissuto, esso stesso come colpa da espiare.

«Molte delle mie canzoni hanno a che fare con l’ossessione del peccato», ha riconosciuto lo stesso Springsteeen. Da questo abisso, ne uscirà solo con l’amore per una donna e per il loro figlio, diventando quindi egli stesso padre. 

Ma lo stesso luogo domestico, protetto e pieno di calore, può nascondere fantasmi che ritornano, mali mai del tutto sconfitti: «posso sentire la soffice seta della tua camicetta / e quelle leggere emozioni nella nostra piccola casa divertente / poi le luci si spengono e siamo solo noi tre / io, te e tutte quelle cose di cui abbiamo paura (…) / Un uomo incontra una donna e questi si innamorano / ma la casa è infestata» (Tunnel of love, 1987). O ancora: «Stasera il nostro letto è freddo / Sono perso nel buio di un amore / Dio abbia misericordia dell’uomo che dubita delle sue certezze» (Brilliant Disguise, 1987).

La casa è quindi infestata dall’ospite del male. E dalla certezza che è un ospite sempre inatteso, sempre indesiderato: «Io non riesco a capire neppure ciò che faccio», scrive San Paolo: «infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto. Ora, se faccio quello che non voglio, io riconosco che la legge è buona; quindi non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene; c’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio» (Romani 7, 15-19).

NELLA COMUNITÀ, OLTRE LA COMUNITÀ

Come uscire dalle sabbie mobili in cui il male ci trascina, dalla sua mano che non ci lascia la gola? «La salvezza individuale, o qualcosa che le si avvicina, esiste veramente?», si è chiesto alcuni anni fa Bruce Springsteen. «O non è forse che nessuna salvezza individuale è possibile, e che qualsiasi forma di salvezza si realizza soltanto stando insieme? Dopo tutti questi anni sono convinto che la risposta sia chiara: non c’è salvezza senza unità». È la comunità, è l’altro a salvarci, ogni volta. In un altro brano, Land of hope and dreams (2001), scrive Miele, «è la comunità intera a essere il luogo in cui si fa, in cui si tenta, in cui ci si approssima, in cui si incarna la liberazione. La comunità è il farsi stesso dell’evento liberazione». Nulla di astratto, di vanamente idilliaco, quindi. Ma nemmeno qualcosa che possa ridurre tutto alla fragilità dell’esistere terreno. Ancora Miele: «Nelle canzoni di Wrecking Ball (2012, ndr), la giustizia è insopprimibilmente legata a un rinvio, si situa in un altro orizzonte, rimanda a una eccedenza, si disloca. Questo orizzonte, questa eccedenza, è la trascendenza». L’inappagabile può essere appagato solo da qualcosa di incommensurabile.

LA RISURREZIONE, L’ASCESA VERSO “L’ALTRO MONDO”

In The Rising, l’album dedicato agli attentati dell’11 settembre 2001, sempre presente è la tensione fra quell’abisso di polvere, fantasmi, corpi straziati (quel Nothing man, uomo annullato nel suo corpo, nella sua speranza), e l’urgenza di «articolare l’inarticolabile, trasformare il grido in dolore, il dolore in rappresentazione, la rappresentazione di ciò che sfugge alla presa di ogni rappresentazione – il vuoto, la perdita, la morte – in senso». La morte, quindi, non è l’ultima parola, sembra dirci il cantautore. Nella sua autobiografia, è lui stesso a scrivere: «Tra le tante immagini tragiche di quella giornata, ce n’era una in particolare che non riuscivo a togliermi dalla testa: quella dei soccorritori che salivano mentre gli altri scendevano di corsa per salvarsi. Quale senso del dovere, quale coraggio c’era dietro quell’ascesa verso…che cosa? L’immagine religiosa dell’Ascensione, il superamento del confine tra questo mondo, un mondo fatto di sangue, lavoro, famiglia, figli, fiato nei polmoni, terra sotto i piedi, tutto ciò che è vita, e…l’altro mondo (…). Insieme alla rabbia, al dolore e al lutto, la morte apre una finestra di possibilità per i vivi, rimuovendo il velo che “l’ordinario” ci posa delicatamente sullo sguardo. Aprirci gli occhi è l’ultimo, amorevole dono del martire».

In questo immolarsi risuona il grido della Croce presa su di sé per la salvezza, in quella salita che è, insieme, al Golgota (alla morte) e al Cielo. Contro le macerie del male, il desiderio è di innalzarsi verso quella luce che non muore.

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 12 maggio 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

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Roberto, fan da quando aveva 10 anni: «un incontro che mi ha cambiato la vita»


Roberto Mela (a sinistra) assieme a due amici (Caterina Maggi e Francesco Turrini) nel 2016 al concerto di Bruce Springsteen al Circo Massimo di Roma

«Undici anni fa lo vidi per la prima volta in concerto: quel giorno mi cambiò la vita». Roberto Mela ha 26 anni, è praticante commercialista e ha una passione smisurata per tutto ciò che riguarda Bruce Springsteen. Il 18 maggio, naturalmente, sarà uno degli oltre 50mila presenti al Parco Urbano. Gli abbiamo rivolto alcune domande.

Come e quando hai conosciuto Springsteen?

«A casa mia abbiamo sempre “respirato” la musica di Springsteen:mio padre è andato a sentirlo nel suo primo concerto in Italia, lo storico San Siro del 1985, e da allora non ha mai smesso. Nel 2007, lo ricordo bene tornare a casa dal negozio di dischi con il cd nuovo: qualche giorno dopo l’ho ascoltato da solo. L’album si apre con Radio Nowhere: rimasi folgorato da quell’intro».

Il primo concerto, invece?

«Fu l’indimenticabile notte di Firenze del 10 giugno 2012: ha piovuto tutto il tempo, tornai a casa fradicio ma con il cuore pieno. Quella sera vidi sul palco un uomo che dava veramente tutto per ciò che amava fare. Quante volte nel lavoro ti capita di incontrare gente così? Quel giorno mi cambiò la vita, fu uno dei miei primi concerti e se da allora sono andato a più di cento live di artisti diversi, in Italia e all’estero, è solo per ritrovare quel che ho visto quella sera in lui».

Quali altri suoi concerti hai visto?

«Nel 2013 a Padova e a Milano, nel 2016 a Roma e di nuovo a Milano. E dopo Ferrara, il prossimo 16 giugno andrò a sentirlo a Birmingham…».

Cosa ti ha colpito la prima volta della sua musica?

«Dei suoi testi mi colpisce come sia capace di trattare i temi della vita di tutti i giorni, dagli amori ai dolori, dalla famiglia al lavoro, con un tono che esalta la realtà dei personaggi».

Immagino sia difficile, ma se dovessi scegliere una sua canzone…

«Thunder Road. Springsteen l’ha sempre definita come “un invito” e per questo l’ha messa come prima traccia dell’album Born To Run».

I suoi testi sprigionano religiosità. Come definiresti la sua fede?

«Nell’autobiografia Springsteen parla chiaramente della sua fede, di come la sua formazione cattolica non l’abbia mai lasciato. In un’intervista disse:”Io frequentavo una scuola cattolica. L’anima non è un’astrazione per un bambino. È molto reale. La prendi alla lettera. E l’immaginario cattolico, così come la Bibbia, è un modo straordinario di esprimere il viaggio dell’uomo, dello spirito umano. Io ritorno a quelle immagini d’istinto”. In un’altra, in merito al disco The Rising, ha affermato:”Penso che le canzoni facciano appello a una sovrapposizione sfumata di queste idee: il religioso e la vita quotidiana devono in certo qual modo fondersi”, per cui egli afferma di muoversi “verso un immaginario religioso per spiegare l’esperienza”. E nel 1988, prima di un concerto, introducendo la canzone Born To Run disse: “Alla fine ho capito che la libertà individuale finisce per non significare nulla se non è collegata a degli amici, a una famiglia e a una comunità”. È la stessa concezione di libertà individuale che ho incontrato nella compagnia della Chiesa, nella fraternità di CL».

Un’identità chiara, quindi, la sua…

«Sì. Anni fa, nei suoi spettacoli a Broadway, ripeteva: “Una volta che diventi cattolico, non puoi più uscirne”. E in quell’occasione, per 256 serate ha concluso i concerti recitando il Padre Nostro al pubblico».

Tre sue canzoni dove il tema religioso è più marcato, che vuoi condividere con noi? 

«Penso, fra le tante, a “Jesus Was an Only Son” e ad altre due in particolare: “Land of Hope and Dreams”, nella quale c’è una terra promessa a cui si può tendere insieme, che prende dentro tutti e questo dà senso alla comunione. La salvezza non è individuale ed è per tutti. E poi, “My City Of Ruins”, dell’album The Rising, scritto dopo l’attentato alle Torri Gemelle, in cui nel testo arriva a pregare il Signore per avere la forza di risorgere».

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 12 maggio 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

«Grazie a Dio, la polvere che siamo diventa gloriosa»: mons. Marco Frisina a Ferrara

6 Feb
Mons. Marco Frisina a Ferrara

Giornata per la Vita. Erano oltre 150 le persone che la sera del 4 febbraio si sono ritrovate a S. Stefano per il concerto con le meditazioni di mons. Marco Frisina

L’uomo senza Dio è destinato alla sopraffazione, a perdere la propria vita, come se quel soffio vitale che è lo Spirito non lo abitasse. È stato un intervento magistrale quello che mons. Marco Frisina ha donato la sera del 4 febbraio scorso alla nostra città. Oltre 150 i presenti nella chiesa di Santo Stefano per l’incontro organizzato da SAV Ferrara, Scienza&Vita e Ufficio diocesano Famiglia in occasione della 45a Giornata per la Vita.

Il compositore romano ha alternato i propri commenti ai canti del Coro S. Maria Assunta di Cernusco sul Naviglio diretto dal M° Franco Cipriani. Questi i brani eseguiti: “Credo in te”, “La vera gioia”, “Jesus Christ you are my life”, “O luce radiosa”, “O Signore nostro Dio”, “Un cuor solo”, “Verbo della vita”. 

La serata ha visto i saluti introduttivi di don Franco Rogato, uno degli organizzatori, e di Chiara Mantovani del SAV, mentre un saluto finale l’ha rivolto il nostro Arcivescovo mons. Gian Carlo Perego. Commovente anche l’intervento conclusivo della stessa Mantovani, la quale ha ricordato la vita del beato Hermann di Reichenau, monaco benedettino e compositore del “Salve Regina” e oggi, per molti, vita sacrificabile in quanto “storpio” a causa della sua paraparesi spastica.

Quel «pupazzo di polvere» follemente amato da Dio

«L’uomo oggi vive in una prosperità apparente, si illude così di essere vivo ma si dimentica l’aspetto creaturale. Dio è scomparso dai nostri orizzonti e noi ci illudiamo di poter prendere il suo posto». Così mons. Frisina ha introdotto le proprie meditazioni. «Ma poi, nei momenti drammatici ci si accorge», anzi ci si “ricorda”, «di essere poveri uomini, con una fragilità impensabile, fino alla morte in cui quelle illusioni così forti all’improvviso scompaiono».

Dio, infatti, ha prima fatto l’uomo come «un pupazzo di polvere», ma poi gli ha infuso il soffio vitale nelle narici. È lo Spirito Santo, «la Vita di Dio, il Suo “respiro”». Dio – che è essenzialmente amore, dono e relazione – in questo modo, donandogli la vita, «dona sé stesso all’uomo». E poi «maschio e femmine li fece», anche se oggi – ha commentato – «si fa questa distinzione del “genere”», che porta «in maniera un po’ ridicola» all’indistinzione.

L’uomo quindi porta con sé il sigillo di Dio, che «imprime il suo volto nel cuore dell’uomo», facendolo così diventare simile a Lui, ma non facendolo diventare come Lui. Questa è anche una sorta di «condanna» per l’uomo, che ha «nostalgia di Dio, dell’assoluto, una nostalgia più forte di qualsiasi altra cosa. L’uomo desidera tutto, l’assoluto, Dio, ma non può raggiungerlo, anche se è fatto per Lui». Questo voler avere tutto, lo può anche portare a confondere Dio con le cose (questo è il peccato), quindi all’avidità: anche nelle cose materiali, «l’uomo ha bisogno di tutto, cerca il tutto». E qui si inserisce il diavolo, che «“vende” all’uomo ciò che l’uomo già possiede, ma presentandoglielo in una maniera talmente accattivante da illuderlo di non averlo già» (che significa anche credere che «può fare a meno di Dio»). Questa avidità, questo autoinganno portano alla volontà di dominio e alla sopraffazione. Ma è proprio qui, è proprio così che l’uomo per guadagnare tutto, «perde tutto, si degrada, torna polvere», quella polvere che è, senza Dio.

Ma la polvere degli esseri umani – ha proseguito mons. Frisina con un’intuizione superba – è anche rappresentata da quelle con le quali «copriamo noi stessi, le maschere dietro le quali ci nascondiamo», come Adamo quando, dopo il tradimento, “scopre” di essere nudo, capisce cioè di essere polvere e null’altro. Dio continua però ad amare l’uomo, e «l’uomo può riprendersi la gloria perduta tornando a Dio», non nascondendosi e non fingendo più, «riscoprendo che il proprio cuore è immagine di Dio», il luogo dove può trovarLo. Proprio per questo, il santo non è – come spesso si pensa – colui che è perfetto, ma «colui che si lascia perfezionare da Dio». Non sono le opere, ma la grazia, a liberarci dalla miseria: «lo Spirito Santo per ognuno di noi realizza dei vestitini di grazia su misura, perché Dio odia le cose fatte in serie, la massificazione, la globalizzazione omologante. Ama, invece, la diversità, che è ciò che davvero ci arricchisce».

È dunque – ha concluso – lo Spirito Santo la Vita stessa – «soffio dolce e violento» – «ciò che rende gloriosa la polvere che siamo». 

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 10 febbraio 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

Per chi suona la campana? Un cammino per riscoprirlo

4 Ott
Giovanni Vecchi durante il Cammino

Giovanni Vecchi, maestro campanaro ferrarese, dal 5 al 29 settembre ha compiuto un pellegrinaggio a piedi da Bologna a Roma. Obiettivo: far conoscere quest’antica arte. Lo abbiamo incontrato

di Andrea Musacci
Cercare nuove vie per far conoscere, o riscoprire, un’arte antica come quella campanaria. Questo l’obiettivo, anzi la direzione, di Giovanni Vecchi, maestro per i campanari ferraresi, che lo scorso 29 settembre ha concluso il suo Cammino da Bologna a Roma per portare a quante più persone – di volta in volta insieme ad altri campanari bolognesi o da solo – l’arte di chi suona le campane.

Domenica 5 settembre la partenza da Porta Saragozza a Bologna verso il santuario di San Luca per poi raggiungere l’8 il santuario di Montovolo e poi nella valle del Reno per il “triduo sonoro” di annuncio della festa della Natività della Vergine. Il 9 il cammino è ripreso verso San Miniato in provincia di Pisa, dov’era previsto un incontro per spiegare l’iniziativa. Poi di nuovo giù verso la Capitale, passando, tra l’altro, per Siena, Bolsena e Viterbo.

Giovanni Vecchi, originario di Bologna ma residente a Ferrara dal 1985, lavora nel mondo delle telecomunicazioni, occupandosi in particolare di ponti radio e misure. «L’essere un campanaro – ci spiega – è comunque una parte che riguarda la mia vita nel senso più pieno del termine». Una vocazione che l’ha convinto ad attraversare a piedi mezza Italia per portare il suono e l’anima di quest’arte.


Giovanni, da quanto tempo fa parte dei Campanari ferraresi? 

«Il mio rapporto con i Campanari ferraresi è piuttosto profondo: ho avuto la fortuna di essere il loro maestro e di avere trovato in loro la passione che ha permesso di ricostruire la “campaneria” ferrarese, ancor prima del 2007, quando il campanile del Duomo di Ferrara venne restituito al suono a mano».


Come e quando è nata l’idea di intraprendere questo Cammino?

«L’anno scorso durante la pandemia: l’emergenza ha evidenziato da un lato la necessita delle campane, come il Card. Zuppi ha spiegato con chiarezza, dall’altro il fatto che le intenzioni dietro al suono delle campane possono essere approfondite. Cosa meglio di un cammino condiviso per pensare a nuove vie?».


È la prima volta che faceva un’esperienza del genere?

«Sì, tuttavia ho sempre pensato che il cammino, il camminare, il non restare fermi ma essere migratori con il corpo e col pensiero fosse un valore. L’espressione “idea peregrina” mi piace molto, penso che nelle “idee peregrine” si possano celare soluzioni alle difficoltà con cui la vita ci misura».


«Salvaguardare le cose dove le cose sono vive»: in questo modo, in uno dei suoi video-diario pubblicati dai Campanari ferraresi su Facebook, parla del senso del Cammino. Ci spiega meglio?

«Si tratta di osservare e tenere conto della fertilità degli ambienti che ci circondano, dove le idee attecchiscono, possono diventare abbastanza grandi per essere d’ esempio, diventare quindi buone proposte, realizzabili anche in ambienti difficili o refrattari. La refrattarietà alle campane è dovuta a mio parere all’incapacità di spiegare che il loro suono, o meglio la loro voce, non è di chi le suona, ma di chi le ascolta».


Con questo suo Cammino che servizio pensa di aver svolto per i campanari e, soprattutto, per le tante persone che non conoscevano la vostra realtà? 

«Fatico a pensare che un cammino sia un servizio in sé. Se dovessi rappresentare il cammino con un simbolo, userei la freccia, non per la sua velocità ma per il fatto che indica una direzione. Con questo Cammino spero di essere riuscito a comunicare l’idea che occorre una direzione verso la quale andare. Penso che la parola “tradizione” non sia particolarmente utile ai campanari, e forse neppure alla Chiesa, ma penso che le campane siano lo strumento che gli uomini hanno a disposizione per cantare il Creato. Un po’ come fanno gli uccelli, che riempiono di messaggi l’aria senza bisogno di parole».


Come questa esperienza l’ha cambiata?

«Sono stati 24 giorni di buon umore, di fatica fisica e di realizzazione di un desiderio, dove ho avuto la possibilità di ascoltarmi e di guardarmi dentro: non capita sempre, lasceranno il segno».

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” dell’8 ottobre 2021

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Buskers festival “in gabbia”

30 Ago

(Foto Francesca Brancaleoni)


Costretta dentro Parco Massari la bella rassegna musicale svoltasi dal 25 al 29 agosto. Una riflessione

Ristretto e isolato. No: più intimo, sicuro e confortevole. Ha diviso molto i ferraresi la nuova versione “limitata” del Buskers Festival 2021.

Dal 25 al 29 agosto, la rassegna celebre in tutto il mondo si è svolta per la prima – e speriamo ultima – volta nel Parco Massari di corso Porta Mare. L’anno scorso, invece, venne scelta la formula dei tre concerti a sera per ognuno dei cinque luoghi del centro selezionati (giardino di palazzo dei Diamanti, cortile di palazzo Crema, chiostro di San Paolo, cortile del Castello Estense, palazzo Roverella). Costo del biglietto, 12 euro (l’anno scorso 10). Rilevante la partecipazione di ferraresi e non, com’è nella tradizione di questo festival negli anni sempre più amato anche oltre le Mura estensi.

Ma l’emergenza sanitaria ancora in corso ha sfibrato e stravolto rapporti, creato lontananze. E così, anche per il festival della città di Ferrara, l’anomalia è evidente, l’innaturalità del luogo palese e da non tacere. La rassegna, suo malgrado, assomigliava nei giorni scorsi a un animale, per sua natura selvatico, costretto in gabbia. Suo mondo, invece, è la città, la nostra città, non un – pur suggestivo e accogliente – parco pubblico. Relegato nella quarantena del grande cuore verde, incubo di ogni nomade, il festival si è ritrovato obbligato fra le definite e strette mura di Parco Massari.

Ma il centro di Ferrara non ha angoli, non conosce spigoli, men che meno durante “i Buskers”, inafferrabile e tarantolato vortice che prima di ogni regola rompe le geometrie, ignorando vincoli e percorsi, creando una visionaria e mai del tutto mappabile “città dei musicisti di strada”, un dedalo di slarghi e viuzze. Una rottura del quotidiano che a tutto invitava fuorché alla ripetitività, alla linearità degli spostamenti, a scansioni troppo rigide.

Con un anticipo di qualche mese, all’anno che verrà chiediamo, quindi, di restituire ai Buskers la loro città, e a quest’ultima il piacevole frastuono di quell’anima selvatica.

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 3 settembre 2021

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Quei nostri sogni così tangibili: ecco il nuovo album di Irene Beltrami

19 Apr
Irene Beltrami (foto di Emanuele Morini)

Si intitola “Anima reale” il primo album della giovane cantante di Malborghetto, voce solista nel brano che Patrizio Fergnani ha dedicato a Laura Vincenzi. L’abbiamo incontrata insieme a Matteo Tosi, co-autore, musicista e compositore, per ragionare su cosa significa fare musica oggi

di Andrea Musacci

Razionalità e sogno: un connubio non sempre riuscito, ma in ogni caso inevitabile, insito nella condizione umana, una tensione dalla quale non si può sfuggire.

È la stessa che vive Irene Beltrami, 21enne promettente cantante di Malborghetto di Boara che a breve pubblicherà il suo primo album da solista, “Anima reale”. Il nome – che è anche quello del singolo che verrà lanciato su You Tube il 24 aprile – richiama appunto quell’ambivalenza fondamentale dell’umano. Ed è su questo che Irene ha sentito il bisogno di esprimersi, dando vita a otto inediti che, insieme al suo brano di debutto “Ti voglio raccontare”, uscito due anni fa, andranno a comporre il nuovo progetto musicale.

A parlarcene è proprio lei insieme a Matteo Tosi, musicista e compositore copparese nonché co-autore dei testi, che con Irene condivide non solo questo percorso artistico, ma molto di più: «ci siamo conosciuti tre anni fa a Copparo durante le prove di “Romeo e Giulietta”. E ci siamo innamorati». Mentre Matteo è entrato fin dalle Medie nel progetto di “Romeo e Giulietta” al De Micheli (nella versione di Giuliano Peparini riadattata da Stefania Capaccioli), Irene vi è arrivata nel 2017 nel ruolo di Lady Capuleti (mentre Matteo interpretava Romeo). Ruolo che le permetterà, l’anno successivo, di qualificarsi alla finale europea del Tour Music Fest – The European Music Contest nella categoria “Musical Perfomer”.

Nel 2019 consegue il diploma di recitazione di I° livello al Centro di Preformazione Attoriale di Ferrara, sotto la direzione di Stefano Muroni e Massimo Malucelli, ma sceglie di cambiare strada: il suo sogno è di comporre e cantare una canzone tutta sua. Dopo un anno di lavoro, nel settembre 2019 nasce “Ti voglio raccontare”, col testo quasi interamente scritto da lei e la parte musicale da Matteo, e col fondamentale aiuto di Alessandra Alberti, insegnante di canto dell’Associazione “Arci Contrarock”di Contrapò.

Nel giugno 2020 Irene partecipa ai provini di “Amici” di Maria De Filippi. Un’esperienza sicuramente utile ma che le aprirà gli occhi su certi «meccanismi “misteriosi”, che non favoriscono l’affermazione di veri artisti emergenti, ma di chi ha magari già un manager e alcune canzoni alle spalle. Il mio provino – mi racconta – è durato appena un quarto d’ora, mentre le tre ore precedenti le ho passate a dover compilare questionari psicologici», per essere inquadrata in un certo “tipo” di cantante spendibile sul mercato. Il provino non è andato bene, Irene è stata rifiutata. Le chiedo se sentirsi dire tanti “no” e non essere selezionati, può essere frustrante. «Certo, lo è», mi risponde, «ma ormai io e Matteo ci siamo abituati, e soprattutto rimaniamo convinti della nostra scelta». Sono rifiuti, quindi, che i due «da problema» hanno «trasformato in opportunità, ogni volta ripartendo da zero». Una ripartenza che ha come luogo fisico la mansarda della casa dove Irene vive con i propri genitori e il fratello, un ambiente riadattato come studio di registrazione. Proprio qui, lei e Matteo lo scorso ottobre hanno concluso il nuovo album, poi inviato a diverse case discografiche, senza però, per ora, ricevere risposte positive.

Complice anche il buon riscontro che il video di “Ti voglio raccontare” ha avuto sul canale You Tube di Irene, con oltre 5mila visualizzazioni, i due vanno avanti. «Ogni artista è in continua evoluzione – riflette Irene –, e così anch’io». Il tema del cammino personale, che richiama quella tensione tra razionalità e sogno di cui parlavamo all’inizio, spiega anche, secondo la cantante, il successo che i suoi brani hanno su persone di ogni età, dagli adolescenti agli anziani: «nel nuovo album e in particolare nel singolo “Anima reale” trattiamo il tema della ricerca interiore durante la vita, dall’infanzia alla vecchiaia», anzi, specifica Matteo, «fino all’accettazione della morte».

Matteo Tosi e Irene Beltrami (foto di Andrea Musacci)
Matteo Tosi e Irene Beltrami (foto di Andrea Musacci)

Una ricerca, dunque, sempre in bilico tra ragione e sentimento, logica e istinto. Il giusto equilibrio fra i due termini è fondamentale, per non scadere in quell’astrattezza che mal si addice all’età adulta, ma nemmeno, dall’altra parte, nel cinismo di chi dimentica le “regole” del desiderio e del sogno: «per noi nella vita è importante vedere in ogni adulto il bambino rimasto, quel bambino che sa sognare». E un pezzo di sogno ora si concretizza: sabato 24 il video creato da Lucien Moreau, Tobias Tran e Mattia Bricalli del singolo di lancio “Anima reale” sarà pubblicato su You Tube. Un video che è anche un omaggio alla nostra terra, essendo stato girato nella Rocchetta Mattei sull’Appennino Bolognese, alla Pietra Bismantova nel reggiano e a Lido di Volano.

La stessa genesi della musica e dei testi di “Anima reale” dice di questo cammino che mai si interrompe, frutto di «appunti o pensieri che vengono a uno o all’altra», mi spiegano. «Li raccogliamo cercando di trasformarli in testi, confrontandoci e ragionando insieme. E poi Matteo prova ad accompagnarci una musica». Musica che, però, tante volte è lo spunto per andare a modificare le stesse parole. Così, ad esempio, il nuovo singolo “Anima reale” nasce non a tavolino ma nella vita di Matteo e Irene, tra consapevolezza e inconscio (torniamo sempre lì…): è l’estate del 2020, momento di relativa tregua dall’emergenza Covid. Matteo in spiaggia si riposa ascoltando con le cuffiette Nek, Diodato, Vasco Rossi, alcuni dei suoi artisti preferiti. Il parto del brano nasce inconsapevolmente lì, sulla sabbia. E prosegue, attraverso vie misteriose e inaspettate, nei giorni e nelle settimane successive, tra melodie e rumori vari, che null’altro sono se non la personale “colonna sonora” dell’esistenza quotidiana di ognuno. Un pout pourri imprevedibile che solo a un certo punto si coagula, prende forma e sostanza grazie all’intervento di chi lo ha vissuto e assorbito.

Una lotta tra veglia e sogno, un gioco un po’ da osservare, un po’ da guidare. Quella stessa danza di sguardi di due innamorati come sono Irene e Matteo, che a fianco alle parole, ben oltre le parole, abitano e creano universi di musica ed emozioni davvero unici.

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Irene&Laura

Irene Beltrami è la voce solista del nuovo brano di Patrizio Fergnani “Laura canta insieme a noi”, dedicato a Laura Vincenzi. «Non conoscevo Patrizio, è stato lui a contattarmi. Nei valori e nei luoghi di Laura, come la parrocchia, ho ritrovato i miei». Un altro luogo le lega: anche Laura, infatti, studiava Lingue all’Ateneo bolognese.

Obiettivo Cina

Irene al Liceo ha studiato inglese, francese e cinese, e lo studio delle ultime due lo prosegue all’università. La speranza è di recuperare il “Progetto Cina” per far conoscere la versione cinese di “Ti voglio raccontare” nel Paese asiatico, grazie anche al video da realizzare con la Scuola “F. Vancini” di Muroni. Il cinese, tra le lingue straniere, è quella che Irene preferisce per il canto.

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 23 aprile 2021

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Progetto, elevazione o liberazione: cos’è davvero il sogno?

17 Set

Il 15 settembre anche a Ferrara il tema è stato al centro della Giornata europea della cultura ebraica

giacobbe riberaI sogni, si sa, sono per loro natura sfuggevoli, “materia” inafferrabile sui quali è possibile disquisire all’infinito. Anche per questo, una cultura come quella ebraica, che fa dell’interpretazione un suo carattere sostanziale, trova nel mondo onirico e nei suoi innumerevoli richiami, terreno fertilissimo sul quale lavorare. L’annuale Giornata Europea della Cultura Ebraica, giunta alla XX edizione, in programma domenica 15 settembre, era proprio dedicata a “Sogni. Una scala verso il cielo”. A Ferrara, sono state organizzate due iniziative. La prima, svoltasi nella mattinata nel Tempio italiano, organizzata dalla Comunità ebraica di Ferrara al secondo piano della sede storica di via Mazzini, 95, ha visto diversi relatori alternarsi sulla traccia della Giornata. In serata, invece, è stata la Sala Estense di piazza Municipale a ospitare il concerto “Shemà – Sogni con anima e corpo”, organizzato dal MEIS, con le poesie in musica di Primo Levi, incentrato sui sogni di libertà e liberazione dopo il trauma della Shoah. Protagonisti di quest’ultimo evento, la cantante Shulamit Ottolenghi, il compositore e trombettista Frank London e il pianista e produttore Shai Bachar, pianista e produttore, introdotti da Simonetta Della Seta, Direttrice del MEIS . Quattro le relazioni della mattinata, presentata e moderata dal vice Presidente della Comunità Ebraica di Ferrara, Massimo A. Torrefranca: “Sogni nella Torà” del Rav Luciano Meir Caro, Rabbino capo della Comunità ebraica di Ferrara; “Il sogno sionista di Theodor Herzl a Ferrara”, Simonetta Della Seta, Direttore del MEIS; “La scala di Giacobbe: un oratorio incompiuto di Arnold Schönberg”, Massimo A. Torrefranca; “La Torà sogna? / Sognare la Torà?”, prof. Gavriel Levi. Da un sogno concreto e possibile ha preso le mosse il Presidente della Comunità Ebraica ferrarese, Fortunato Arbib, nel suo saluto iniziale: “che i lavori nell’edificio che ci ospita finiscano presto e che quindi questa sede torni a essere viva, accogliente, luogo di ritrovo e di socialità”. Ricordiamo, infatti, che il complesso di via Mazzini 95, che ospita tre sinagoghe, gli uffici della Comunità e il Museo ebraico, è chiuso per restauri a causa degli effetti del sisma del 2012.

Sogno, comunicazione di Dio o espressione dell’uomo?

Il Rav Caro nel suo intervento ha spiegato come il sogno nella tradizione ebraica è “lo strumento usato da Dio, in maniera enigmatica, per comunicare all’uomo la propria volontà in forma di avvertimento, o come indicazione pratica, o ancora per avvertirlo su ciò che avverrà. Nella Bibbia, però, sono presenti anche interpretazioni critiche nei confronti del sogno, in quanto il sognatore sarebbe il mago, l’indovino, lo stregone”. Sempre nella Torà il sogno “è anche espressione dei desideri più profondi della persona”, quindi non di Dio, oppure sinonimo di “apertura”, e “segno, anche se molto parziale, di profezia. Altre interpretazioni molto importanti del sogno presenti nella tradizione ebraica, lo indicano come “anticipazione della morte o come discesa nelle profondità divine, o, ancora, come albero della vita”. Un’ultima esegesi, ha concluso Rav Caro, descrive la vita narrata in Genesi come “mondo dei sogni, imprecisio, mentre quello successivo, normativo, dopo la rivelazione di Dio a Mosè sul Monte Sinai e la consegna dei Dieci Comandamenti e della Torà, è quello davvero reale, dove l’uomo inizierà a vivere nella consapevolezza delle proprie responsabilità nei confronti di Dio e delle altre persone”.

L’utopia concreta (e ferrarese) di Theodor Herzl

“Se il sogno è ciò che dà possibilità di cambiamento”, ha spiegato invece Della Seta, proprio da un “sogno” è stato incitato Theodor “Beniamino” Herzl (1860-1904) (prima foto in basso), giornalista, scrittore e avvocato ungherese naturalizzato austriaco, padre del sionismo e dello Stato Israele, da lui, appunto, preconizzato e progettato nella sua celebre opera “Lo Stato ebraico” (1896). “Dobbiamo vivere come uomini liberi nella nostra terra”, scriveva. Fondamentali per la sua decisione furono i progrom di cui erano vittime gli ebrei nell’est Europa (l’antisemitismo violento), e, in Francia, l’affaire Dreyfus, caso di antisemitismo sottile, intellettuale, ma non meno grave. Un sogno, il suo, che passa anche da Ferrara. Nel 1904 Herzl, infatti, viene in Italia per tentare di avere un colloquio diplomatico sia col re Vittorio Emanuele III sia con papa Pio X, al fine di convincerli della bontà del suo progetto. Due incontri assolutamente fondamentali, resi possibili dall’intermediazione dell’avvocato ferrarese Felice Ravenna (1869-1937), figlio di Leone, residente in via Voltapaletto. Nei suoi diari parla dell’“amico Ravenna” e dei suoi famigliari, persone dai “cuori molto caldi”. Herzl e Ravenna si scambiarono ben 17 lettere tra il 1902 e il 1904. Mentre il re esprime positività nei confronti del sionismo, il pontefice è netto nella sua contrarietà al progetto di uno Stato ebraico: “gli ebrei – era il suo pensiero – non hanno riconosciuto nostro Signore”, quindi “non possiamo riconoscere lo Stato ebraico”. Non poche critiche i sionisti ricevettero anche da giornalisti e politici italiani, nonostante in quel periodo, ad esempio, 18 erano i parlamentari ebrei nel nostro Paese, fra cui Giacobbe Isacco Malvano, meglio noto come Giacomo Malvano (1841-1922), che fu in contatto con Herzl.

Musica, una scala che eleva a Dio

Della figura e dell’opera di Arnold F. W. Schönberg (1874-1951), compositore ebreo austriaco naturalizzato statunitense, uno dei teorici del metodo dodecafonico, ha parlato, invece, Torrefranca. Convertito nel 1908 al protestantesimo per profonda convinzione (non per opportunismo, come invece era uso fare), e tornato all’ebraismo nel 1933, iniziò a comporre l’oratorio “La scala di Giacobbe” negli anni immediatamente successivi alla prima guerra mondiale. Come nel racconto biblico, l’oratorio rappresenta una sorta di “elevazione spirituale verso Dio”, anche se fondamentale è la figura dell’Arcangelo Gabriele.

Agente di trasformazione, strumento contro la “dimenticanza”

Gavriel Levi  ha, invece, riflettuto su come il sogno notturno “condensa desideri e censure verso gli stessi, quindi i conflitti profondi della persona”, e come dunque sia “un continuo racconto di se stessi, sempre aggiornato dalle spinte dell’esistenza”. Inoltre, “come la Torà scritta è quasi insignificante senza la cosiddetta Torà orale, cioè senza le interpretazioni, così il sogno coincide con la sua interpretazione, quindi anche con chi lo interpreta”. Levi ha poi analizzato i sogni nella vita del patriarca Giuseppe, figlio di Giacobbe, nipote di Isacco, bisnipote di Abramo: due sogni è Giuseppe a farli (quello dei covoni, e quello del sole, della luna e delle stelle). Negli altri casi, invece, Giuseppe è interprete di sogni altrui: prima quelli del coppiere e del panettiere coi quali divide la prigionia in Egitto, poi del faraone stesso. Questa sequenza, per Levi, dimostra bene il passaggio di Giuseppe “dal pensare se stesso all’interagire con gli altri e dunque, ancora più in grande, all’intero Egitto”, e, aspetto importante, “preannuncia l’esilio e la schiavitù del popolo d’Israele, conditio sine qua non per diventare popolo. Per essere ebrei, insomma, bisogna passare per la schiavitù, per la perdita di legami”. In conclusione, questo significa che, “qualunque avvenimento tragico possa accadere, la vita fiorirà”, ha spiegato il relatore. Fondamentale è, perciò, il sogno, che “ci evita la dimenticanza, ci permette di ricordare le cose nuove, ci mette in crisi, dicendoci qualcosa di importante su noi stessi. Sta a noi, dunque, usarlo come agente di trasformazione, di liberazione”.

Andrea Musacci

Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” il 20 settembre 2019

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La Voce di Ferrara-Comacchio

CPIA in festa: un ponte nella città

24 Giu

Oltre 200 i presenti venerdì 21 giugno in piazza Municipale a Ferrara per l’evento di fine anno scolastico del Centro per l’istruzione degli adulti. Tanti i ragazzi stranieri protagonisti

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Una serata di festa nel cuore della città, insieme alla città. Non è, infatti, casuale la scelta del CPIA (Centro Provinciale per l’Istruzione degli Adulti) di Ferrara, di svolgere, per il secondo anno consecutivo, la propria festa di fine anno scolastico in piazza Municipale, luogo simbolo della comunità. Oltre 200 le persone presenti dal tardo pomeriggio del 21 giugno scorso per assistere ai due spettacoli preparati da studenti e insegnanti. Fabio Muzi, Dirigente scolastico, ha introdotto l’evento spiegando come la festa sia una sorta di “resoconto alla città del lavoro progettuale che con i nostri studenti abbiamo realizzato in questo anno”. Il CPIA esiste dal 2015 e ha cinque sedi nella nostra provincia, delle quali due a Ferrara (via Ravera e carcere dell’Arginone), le altre a Cento, Codigoro e Portomaggiore. Molti degli iscritti sono stranieri che frequentano i corsi di lingua italiana. Il Centro offre soprattutto una formazione base: per il diploma conclusivo del primo ciclo di istruzione, la certificazione di assolvimento dell’obbligo di istruzione, la certificazione di conoscenza della lingua italiana di livello A2, oltre a corsi di alfabetizzazione funzionale (lingue straniere, informatica, ecc) e di Italiano come L2. Non mancano però proposte laboratoriali “per dare strumenti concreti – ha proseguito Muzi -, ponti verso l’esterno, aprendo la scuola alla città, in particolare al mondo dell’associazionismo. Così facciamo integrazione, che per noi significa scambio fra culture”. La festa ha voluto evidenziare due laboratori realizzati nell’ambito del progetto “Il Giardino del Mondo”, vincitore del concorso regionale “Io Amo i Beni Culturali 2019”. Il primo è il lavoro teatrale “Il cielo è di tutti gli occhi”, realizzato con Teatro Cosquillas, che vede la regia di Massimiliano Piva e Roberto Agnelli. Di particolare rilevanza questo progetto incentrato sul quartiere Giardino della città, “dove è stato importante intervenire per affrontare e cercare di dare una risposta ai problemi di convivenza tra alcuni residenti e alcuni immigrati”, ha spiegato ancora Muzi. A seguire, un altro spettacolo ha animato la piazza Municipale, a cura di Alberta Gaiani (che è anche attrice) e di uno studente straniero. Infine, un altro lavoro realizzato durante l’anno scolastico è stato “Al Presente: ritratti contemporanei”, mostra fotografica con i lavori realizzati dagli studenti del laboratorio condotto da Ippolita Franciosi e Luca Pasqualini: un progetto nel quale giovani immigrati indagano e cercano di rappresentare la propria condizione.

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 28 giugno 2019

La Voce di Ferrara-Comacchio

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Musica e cinema, miei articoli sul sito de la Nuova Ferrara (21, 22 e 23 marzo 2017)

23 Mar

Storia e arte in parete: guida alle mostre del fine settimana

11 Mar

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Un’opera di Anna Di Prospero in mostra al MIA Photo Fair

Anche in questo fine settimana Ferrara si conferma a pieno titolo città d’arte. Partendo da fuori, da giovedì fino a domani è in programma a Milano il MIA Photo Fair, dove la ferrarese Maria Livia Brunelli home gallery è presente con tre fotografi (Silvia Camporesi, Anna Di Prospero e Hiroyuki Masuyama) allo stand A47, con un progetto curatoriale sull’energia dei luoghi.
Nel nostro territorio, oggi alle 10.30 nella Sala Voltini del Centro Culturale Cappuccini di Argenta inaugura, con la presentazione del libro omonimo, la mostra storico-documentaria “Legati mani e piedi con rozze funi. Le carte raccontano la pellagra a Ferrara ed Argenta 1859-1933” a cura di Magda Beltrami e Mara Guerra, presenti insieme a Benedetta Bolognesi dell’Archivio Storico comunale. La mostra, in parete fino al 1° aprile, è visitabile da lunedì a sabato dalle 8.30 alle 19. Sempre ad Argenta, oggi alle 17.30 nel Centro Culturale Mercato inaugura la mostra di Marino Trioschi, “Trioschi. Antologica 1970-2017”, promossa con la Galleria d’arte Stefano Poppi e la Galleria Giacomo Cesari, entrambe di Argenta, e con presentazione di Franco Bertoni. La mostra sarà aperta fino al 17 aprile e visitabile da martedì a sabato 9.30-12.30, da giovedì a domenica 15.30-18.30.
A Ferrara, invece, oggi alle 16 a Casa Ariosto è in programma il “Concerto per Franco” del duo Claudio Miotto (clarinetto) e Paolo Rosini (chitarra), nell’ambito della mostra di don Franco Patruno “La libertà di dire, la verità di fare”, in esposizione fino al 12 marzo. L’entrata è gratuita.
“Andar per rifugi” è, invece, il titolo della mostra fotografica che la Sezione di Ferrara del Club Alpino Italiano presenta da oggi, alle 17, fino al 19 marzo alla Porta degli Angeli.
Domani, invece, alle 11 nel Museo del Risorgimento e della Resistenza di Ferrara (in c.so Ercole I d’Este, 19) inaugura la seconda sezione della mostra storico-documentaria “E Beltrame disegnò la Grande Guerra”, a cura di Gian Paolo Marchetti, con la collaborazione di Antonella Guarnieri, Elena Ferraresi e Martina Rubbi. La mostra sarà visitabile fino al 9 aprile dal martedì alla domenica, 9.30-13 e 15-18.

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Un’opera di don Patruno in mostra a Casa Ariosto

Ancora domani, alle 11 nella sede dell’Associazione “Al boattino” di Masi Torello (in via dei Masi, 8) inaugura la mostra fotografica “Storie ferraresi”, con opere di Silvia Grillanda, Andrea Mantovani e Germano Nardini. La visita della mostra con aperitivo è possibile tramite iscrizione (10 euro) all’Associazione.
Sempre fuori città, domani dalle 15.30 al Mondo Agricolo Ferrarese a San Bartolomeo in Bosco (in via Imperiale, 265) avrà luogo l’evento “Arte internazionale e mondo culturale della tradizione a confronto”, con presentazione di G. P. Borghi della mostra di Habdessamad Halloumi, “Da Casablanca a Ferrara”, in parete fino al 5 aprile. Alle ore 16 di domani, invece, inaugura la personale di pittura di Alessandro Govoni nella sede di G&G Fashion Art in via IV novembre, 15/b a Renazzo.

Andrea Musacci

Pubblicato su la Nuova Ferrara l’11 marzo 2017

“The Giant Undertow” stasera al Clandestino

9 Feb

16508045_10154740140110210_2542096801055989222_nStasera ultima serata per l’edizione invernale di “Clandestino d’autore” organizzato da Carlo Bollani e Jazz Club. Dopo il live di lunedì con Enrico Cipollini, alle 21.45 è il turno di “The Giant Undertow”, progetto solista di Lorenzo Mazzilli, padovano trapiantato a Bologna. Già attivo in varie band, tra cui The Johnny Clash Project, ha iniziato a dare spazio al progetto nel 2014. I paesaggi nebbiosi delle sue canzoni nascono da chitarre di fortuna e da una voce calda e barcollante. Il risultato è un desert folk profondo che strizza l’occhio alla musica d’autore d’oltreoceano.

Dopo aver diviso il palco con artisti come King Dude e Cult of Youth, un tour acustico in Germania e un tour europeo come bass player del texano Daniel Payne, The Giant Undertow ha realizzato il suo disco d’esordio, The Weak, lo scorso settembre 2016.

Andrea Musacci

Pubblicato su la Nuova Ferrara il 09 febbraio 2017