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«La passione ci trasforma»: Maura Gancitano a Ferrara

22 Mar

Il 17 marzo il Convegno AGESCI: «vivere un tempo profondo» slegato dagli “obiettivi” e «saper vivere l’attesa» senza avere il controllo di tutto

Saper vivere nel «tempo profondo» per meglio conoscere sé stessi e quindi saper coltivare le proprie autentiche passioni.

Su questo ha riflettuto la mattina dello scorso 17 marzo, Maura Gancitano (foto in alto), saggista, filosofa e co-fondatrice di Tlon, scuola di filosofia. L’occasione è stato il convegno “Passione in Azione. Il senso di educare oggi ad appassionarsi” promosso da AGESCI Ferrara (Associazione Guide e Scout Cattolici Italiani) e svoltosi nella Sala convegni CNA di Ferrara. Oltre 120 i presenti che prima dell’intervento di Gancitano hanno ascoltato le testimonianze di Roberto Zaghi (fumettista), Pietro Savio (giovane fotografo), Andrea Zimelli (apicoltore), Antonella Antonellini (attrice e curatrice teatrale).

ATTESA E IGNOTO CONTRO LA SOCIETÀ DELLA PERFORMANCE

«Viviamo in una società della performance, che chiede costantemente a ognuno di essere attivo e dà l’illusione di poter avere il controllo su tutto». Così Gancitano ha esordito nel proprio intervento. «Soprattutto riguardo al corpo – ha proseguito -, è costantemente un essere giudicati e giudicarsi. E tutto quel che non raccontiamo di noi» sui social o comunque sul web, «è come  se non esistesse». Bisogna, poi, «sempre dimostrare che tutto va bene, dobbiamo raccontare tutto ciò che funziona nella nostra vita, dimostrare che abbiamo tutto chiaro nella nostra testa». Oggi, insomma, la nostra «società della “vetrinizzazione” richiede tantissimo, soprattutto ai giovani». 

Alternativo aquesto modello performativo, Gancitano propone il concetto di «fioritura», cioè di «una felicità legata al senso di gratitudine e del sentirsi fortunati di ciò che si ha». E legata al concetto di «passione» come di qualcosa che «mette in gioco la nostra diversità», innanzitutto rispetto al sé passato e quindi rispetto agli altri. Passione, quindi, come qualcosa che richiama non solo il talento – cioè «il saper fare qualcosa in base alle nostre caratteristiche» -, ma «la vocazione», la capacità cioè di «vivere il presente e di vivere un tempo più profondo», slegato dal culto degli «”obiettivi” da raggiungere», e opposto a un «tempo superficiale e frammentato» (soprattutto a causa dell’uso sempre più forte dei dispositivi digitali).

In una società «dove spesso è facile sentirsi inadeguati, non al proprio posto», e dove il tempo dell’inattività ci sembra «tempo vuoto», per Gancitano, quindi, è importante riscoprire il senso della «noia» come – citando Benjamin – «possibile spazio dove arrivano le idee, tempo dell’attesa dell’intuizione creativa per poter capire qual è la propria passione».Ma questa conoscenza profonda di sé presuppone una «cura di sé», quindi «una fatica, un impegno». Fatica che spesso oggi viene vista come «qualcosa da evitare», ma che invece è necessaria nella cura di sé stessi, nel coltivare la propria passione e nel percepire l’autentica bellezza, «quella che ci scuote, che non è ordinaria». Coltivare la passione è quindi «un’azione trasformativa di sé, che mette in discussione la falsa idea che abbiamo nel percepirci e immaginarci sempre come qualcosa di statico». Insomma, non sappiamo mai del tutto ciò che saremo:«la passione, dunque, ha a che fare con l’ignoto». È una bella sfida, da vivere appieno.

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce” del 22 marzo 2024

La Voce di Ferrara-Comacchio

Spagnoletti: «scommettere sui ragazzi e sulla relazione con loro»

8 Mar

La giudice del tribunale per i minorenni di Roma è intervenuta on line per la Scuola di teologia per laici diocesana

La cronaca nel nostro Paese ci racconta sempre più di casi in cui i giovani sono protagonisti in negativo: baby gang, femminicidi, tragiche challenges. Un punto di vista alternativo sulla questione – oltre la demonizzazione di un’intera generazione e la sua assoluta giustificazione – l’ha portata lo scorso 29 febbraio Maria Teresa Spagnoletti, giudice del tribunale per i minorenni di Roma e Presidente del Collegio dibattimentale del Tribunale per i Minorenni di Roma, oltre che Capo Guida Scout d’Italia e autrice del libro “Il mio territorio finisce qui” (Futura ed.). L’occasione è stata la nona lezione dell’anno in corso della Scuola diocesana di teologia “Laura Vincenzi”.Spagnoletti ha riflettuto – in collegamento on line – su “Esperienze di custodia dell’umano”. Il prossimo incontro della Scuola è in programma giovedì 7 marzo, ore 18.30, con suor Veronica Donatello che rifletterà su “La grazia non conosce barriere architettoniche” (incontro solo on line).

NESSUN GIUDIZIO SULLA PERSONA. E NESSUN BUONISMO

Tante le storie e gli aneddoti raccontati  dalla relatrice, legati ai ragazzi e ragazze che ha incontrato nella sua lunga carriera. «Innanzitutto – ha detto -, come adulti dobbiamo essere percepiti come persone giuste: il complimento migliore ricevuto è stato quello di un ragazzo che era stato arrestato, ai tempi facevo il gip, e lui era contento: “la Spagnoletti è severa ma giusta”, disse. E poi è importante rispettare le regole anche minime, nella vita e creare un’intensa relazione con la ragazza o ragazzo imputato o detenuto: è decisivo – ha proseguito – che percepisca che il giudice è interessato a lui come persona, al di là del dover giudicare il reato commesso. Ogni persona è diversa e diverse sono quindi le motivazioni che stanno dietro a un reato». Dall’altra parte, però, nessuno spazio al buonismo: «con i ragazzi non bisogna sminuire la colpa, ma bilanciare tra loro giustizia e misericordia». Che significa innanzitutto «scommettere su di loro, senza aver fretta e accettando anche i loro fallimenti». A tal proposito, la Messa alla prova – per Spagnoletti – è «sicuramente l’istituto più importante per la riabilitazione di un giovane che ha commesso un reato. Il carcere spesso è necessario ma ad esso devono seguire misure alternative per reinserirlo nella società e perché non commetta più reati. Non bisogna mai buttare la chiave. È facile scommettere solo su chi è un “bravo ragazzo”…». In ogni caso, «prima di valutare un percorso alternativo per il ragazzo, bisogna cercare di conoscerlo: la relazione con lui è fondamentale: prima di giudicarlo, ho sempre cercato di capire cosa pensasse del proprio periodo trascorso in carcere, del proprio futuro, quali riflessioni aveva fatto». D’altra parte – ha aggiunto -, «non bisogna nemmeno avviare percorsi alternativi quando il ragazzo non è pronto a sostenerli: bisogna avere pazienza, non fretta, altrimenti si mette il ragazzo di fronte a impegni troppo gravosi da rispettare e quindi si aumenta il rischio di recidiva». Giustizia e misericordia – verità e carità, potremmo aggiungere -, si diceva prima: parole che richiamano anche l’educazione alle regole:«è importante far capire ai giovani che le regole esistono non per imporle ma perché sono necessarie per la convivenza comune. A volte i genitori non insegnano, o non testimoniano, questo rispetto ai loro figli». I casi di violenza fra i giovani, per Spagnoletti hanno fra le cause anche «la responsabilità degli adulti, spesso incapaci di educare realmente i ragazzi: non insegnano né testimoniano nemmeno il rispetto per l’opinione altrui, non sono in grado di dialogare. Mancano quindi esempi veri di cosa voglia dire una convivenza civile fra le persone, rispettosa degli altri».

Diverse le domande e le riflessioni provenienti tra le persone collegate on line per ascoltare la relazione di Spagnoletti. Un intervento non solo tecnico, ma innanzitutto umano: «nel mio lavoro – ha infatti spiegato -, c’è un forte coinvolgimento emotivo ma ho sempre cercato di tener fuori le mie convinzioni personali nel giudizio sui ragazzi». L’ultima riflessione l’ha dedicata al suo rapporto con la fede e a come questa influisce sulla propria vita: «amare il prossimo è più facile se davvero si ama Dio, e se davvero capiamo qual è il nostro modo di rispondere alla Sua chiamata. Nel mio lavoro, la mia fede, la mia appartenenza alla Chiesa e allo scoutismo hanno giocato un ruolo fondamentale: ho imparato l’importanza da dare al rispetto dell’altro e al non giudicare l’altro, ma solo il suo comportamento».

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce” dell’8 marzo 2024

La Voce di Ferrara-Comacchio

Relazione, trascendenza, generatività: i volti della vocazione

6 Nov

Don Grossi e Bruzzone i relatori della seconda lezione della Scuola diocesana di teologia per laici

Sulla natura della vocazione e l’essenza relazionale della persona hanno riflettuto lo scorso 26 ottobre a Casa Cini, Ferrara, don Alessio Grossi (Referente del Servizio Diocesano Tutela Minori e persone vulnerabili della diocesi di Ferrara-Comacchio, nonché sacerdote dell’UP Arginone-Mizzana-Cassana) e Daniele Bruzzone Ordinario di Pedagogia generale e sociale presso la Facoltà di Scienze della formazione dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e Presidente di Alæf (Associazione di Logoterapia e Analisi Esistenziale Frankliana) (foto in basso). L’occasione è stato il secondo incontro dell’anno in corso della Scuola di teologia per laici “Laura Vincenzi”, avviata lo scorso 5 ottobre con la lezione introduttiva del nostro Arcivescovo.

“Parliamo di vocazione: Una via per ciascuno?” il titolo, invece, della lezione del 26 ottobre che ha visto la partecipazione (in presenza o on-line) di oltre 120 persone.

«La vocazione – ha esordito don Grossi – è chiamata, appello, è qualcosa che parte da Dio ma che non mi arriva dall’esterno, come qualcosa che possa non andare d’accordo col mio cuore, come qualcosa che io non conosco di me». Da una concezione errata di vocazione (intesa anche come «privilegio» e come qualcosa di esclusivo), si arriva a «forme negative di rinuncia e mortificazione» e si può arrivare anche «all’abuso spirituale e di coscienza». Nessuno può dire che cosa un altro deve fare, «può accompagnarlo nella sua scelta ma alla fine è quest’ultimo che deve decidere».

Nella “Gaudium et spes” – ha proseguito il sacerdote – è scritto che la dignità deriva dalla «vocazione alla comunione con Dio», dal dialogo tra uomo e Dio. Il Catechismo, poi, a proposito di vocazione parla di «vita nello Spirito», quindi di «un’espressione creativa, una dinamica e una concretezza». Qui, secondo don Grossi, risulta fondamentale il testo di Wojtyla “Persona e atto” (1969): secondo il futuro pontefice, «l’atto, il manifestarsi costituisce il particolare momento in cui la persona si rivela». Per l’uomo, infatti, «a differenza degli animali non è indifferente come vive la propria chiamata all’esistenza». «Partecipazione» (l’esplicarsi nella relazione) e «trascendenza» (apertura, eccedenza) sono i due concetti cardine che definiscono la persona umana. Ma questo oltrepassamento avviene anche al proprio interno, in quanto «il nucleo della persona risiede dentro di sé, è quella parte aperta al mondo ma che, ascoltandosi e decidendosi, vive la dimensione trascendentale partendo dal cuore». E – si badi bene – «l’interiorità non è riducibile allo psicologico, ma è molto di più, è lo spirituale, la fonte dell’uomo che può sempre decidere come orientarsi nella vita».

Ma se l’uomo è apertura, partecipazione e trascendenza, per un cristiano ciò che lo distingue è l’amore (si veda ad esempio Gv 13, 34), «il dare la vita, il generare: la stessa morte di Cristo e quella del nostro ego non significano mortificazione ma qualcosa di generativo, quindi la vocazione, ogni vocazione non può non essere qualcosa di generativo, che genera vita per me e per gli altri. La vocazione è tale se è generativa, se è una vivificazione reciproca», ha spiegato il sacerdote.

Alla base della sopracitata “teologia della persona” di Wojtyla e non solo, ha invece riflettuto Bruzzone, troviamo la filosofia del tedesco Max Scheler (1874-1928), che ha influenzato anche il pensiero di Viktor Frankl (1905-1997), neurologo, psichiatra e filosofo austriaco, tra i fondatori dell’analisi esistenziale e della logoterapia a cui si ispira l’Alæf presieduta da Bruzzone.

«Per Frankl – ha spiegato quest’ultimo – l’uomo è sempre orientato alla ricerca dell’altro e dell’Altro – che per chi crede è Dio -, quindi vi è sempre una tensione a un’alterità, un’apertura, un’eccentricità: per realizzarci abbiamo bisogno di dedicarci ad altro e ad altri. Il cuore dell’uomo ha una struttura dialogica – ha proseguito – la nostra coscienza è sempre interpellata e sempre risponde». Riguardo alla vocazione, dunque, vediamo come la vita sia «qualcosa che ci interroga, e dalle nostre risposte dipende la direzione della nostra esistenza». Senza dimenticarci, appunto, che «il concentrarci troppo su noi stessi ci fa ammalare: senza scopo, senza altro e senza altri, l’uomo inizia a preoccuparsi, a star male». Se rinnega la propria essenziale apertura, muore.

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce” del 3 novembre 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

«La teologia è un bene comune: la Scuola per laici apre orizzonti»

23 Set

Scuola di teologia per laici “Laura Vincenzi”, al via il nuovo anno. Intervista al Direttore Marcello Musacchi: «studio e confronto per abbattere gli idoli del “si è sempre fatto così”»

di Andrea Musacci

Non luoghi di difesa, ma di costruzione di nuove speranze. Così vanno ripensate – continuamente – le nostre comunità ecclesiali. E per cambiare sguardo, per cercare orizzonti differenti, servono anche momenti di ascolto e confronto. Questo aspira ad essere la Scuola di teologia per laici “Laura Vincenzi”, giunta al quinto anno. È già possibile iscriversi alle lezioni che si svolgeranno a Casa Cini, Ferrara dalle 18.30 alle 20 nelle date sotto riportate. Tema, “…E lo riconobbero…oltre le attese, con gli occhi della fede”. Abbiamo incontrato il Direttore della Scuola, Marcello Musacchi, per riflettere assieme sul nuovo anno che sta per iniziare.

Musacchi, rispetto all’anno scorso quali sono le novità?

«L’anno scorso avevamo scelto l’immagine della chiave e della casa, dei modi di entrare, approcciare una pastorale diversa. Quest’anno invece abbiamo scelto l’immagine di Emmaus, icona del Sinodo in corso, e anche qui in un certo senso ricorre il tema della casa, quel luogo da dove si riparte. Al tempo stesso, però, vi è l’immagine della strada, luogo dell’annuncio».

La Scuola non è un Istituto di Scienze Religiose. Quali le differenze?

«Come l’anno scorso, abbiamo mantenuto nel programma l’unione di discipline umanistiche e teologiche, un intreccio continuo tra le due, di cui parla anche Papa Francesco nella Costituzione apostolica “Veritatis gaudium”: una teologia, quindi, che – attraverso la multidisciplinarietà – entra nei contesti e nelle dinamiche delle vite delle persone. Una differenza importante rispetto al vecchio approccio. Inoltre, riteniamo sia altrettanto importante saper comunicare bene ciò che c’è di positivo, e per questo ai relatori abbiamo chiesto di portare con sé anche la propria esperienza, per arrivare a una dinamica di riflessione, a un confronto con i presenti». 

Esperienza: parlarne significa parlare anche delle fragilità, a partire dalle proprie…

«Sì, lo faremo soprattutto nella seconda parte del programma. Gli elementi di fragilità possono trasformarsi in opportunità per le comunità e la loro pastorale. Dalle fragilità che chiunque ha, si possono – assieme – cercare nuove strade per trasmettere la fede. Strade che, quindi, si dimostrano profetiche».

Abitudine e novità, futuro e tradizione: coppie che spesso creano tensione. La Scuola come affronta questi snodi?

«Dallo stesso percorso sinodale, stanno emergendo diverse riflessioni e proposte nuove. Si tratta di capire come riorientare la memoria – che è fondamentale – in una nuova speranza. Prima parlavamo di esperienza, di vissuti: un buon metodo per lavorare su questo, è stare sulla strada, non sulle mappe…».

Passare dalla carta alla carne, insomma…

«Esatto. Ma stare nella realtà significa iniziare a guardare le nostre stesse comunità cristiane con occhi diversi, costruendo forme di appartenenza che non siano più luoghi di difesa, che non seguano più la logica dell’arroccamento in piccoli gruppi autoreferenziali…».

Non a caso, la prima parte dell’anno della Scuola si intitola “Disinstallarsi: una Chiesa in cammino che prende sul serio le domande”. In che senso bisognerebbe “disinstallarsi”?

«Nel senso di “schiodarsi”, muoversi per mettere in gioco se stessi, la propria fede. È un’espressione che Papa Francesco usa spesso. È la grande sfida delle nostre comunità. Si tratta di cercare orizzonti diversi».

Alzando sempre più in alto l’asticella, per non rischiare di fissarsi troppo su ciò che si è raggiunto…

«Si tratta di spostare l’oggetto del desiderio: ciò che come parrocchiano o appartenente a un’associazione o a un movimento hai fatto fino ad oggi, va bene. Non è questo il problema. Ma bisogna sapersi mettere in gioco, abbattere gli idoli del “si è sempre fatto così”».

Le Unità pastorali, ad esempio, richiedono a tutti un approccio diverso…

«Sì, un approccio che non faccia disperdere energie, vista la necessità di lavorare in un territorio più ampio. Il “disinstallarsi” è anche questo, e comprende il prendersi cura, quindi anche il tema di una formazione adatta a tutti, aperta a ognuno».

Il tema della cura, che richiama ancora quello della fragilità…

«Si tratta di entrare nelle vite delle persone. Ogni evangelizzazione dovrebbe sempre partire da questo, non da un sistema di pensiero che si considera perfetto e che quindi basta applicare alla realtà. Mentre invece la mia vita deve poter cambiare, senza conformarsi a un sistema concettuale. La nostra stessa Scuola, dunque, rifiuta questo tipo di rigidità, proponendo un approccio alla teologia intesa come bene comune appartenente al popolo di Dio».

Un bene comune che andrebbe anche “portato” in maniera sempre più capillare nelle varie parrocchie…

«Certamente. Già l’anno scorso alcuni dei partecipanti hanno sperimentato una forma ancora più allargata di Scuola: coloro che vi partecipavano, infatti, avevano dato vita nelle proprie parrocchie a gruppi nei quali riportavano ciò che avevano ascoltato durante le lezioni, per discuterne assieme. Un metodo da promuovere ovunque in Diocesi».

Pubblicato sulla “Voce” del 22 settembre 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

Quacchio, festa per la chiesa e l’asilo restaurato 

18 Set

Dedicazione e 60° dalla costruzione col Vescovo. Il rito in una chiesa gremita e la cerimonia nella Scuola

Grande festa il 17 settembre nella chiesa “San Giovanni evangelista” di Quacchio a Ferrara per la dedicazione e per il 60° della consacrazione. La chiesa fu distrutta dai bombardamenti bellici nella seconda guerra mondiale e ricostruita nel 1963, assieme alla canonica e alla Scuola materna, su progetto dell’arch. Orlando Veronese e grazie all’impegno dell’allora parroco mons. Antonio Abetini. Da due anni Quacchio fa parte dell’Unità pastorale “Borghi in periferia fuori le mura” assieme a S. Caterina Vegri, Malborghetto di Boara, Pontegradella e Focomorto. 

I riti della dedicazione – unzione dell’altare e delle pareti della chiesa in corrispondenza delle croci della Via Crucis, l’incensazione e illuminazione dell’altare e dell’edificio – sono seguiti all’omelia del nostro Arcivescovo, nella quale – riprendendo anche il Vangelo del giorno – ha riflettuto così: «Ogni chiesa è luogo dove si vive e s’impara il perdono. Quanti in questi 60 anni hanno sperimentato in questo luogo il perdono di Dio, hanno ricominciato a vivere grazie alla misericordia di Dio? E quanti in questi 60 anni in questa chiesa, nata sulle macerie della violenza di una guerra, hanno partecipato all’Eucaristia, fonte di perdono e pace?».

A fine Messa il parroco don Luca Piccoli dopo i ringraziamenti alla comunità, ha invitato a «non dimenticarci di essere un popolo sacerdotale, che nasce e rinasce sempre grazie all’Eucarestia». Per l’occasione – ha spiegato – è stato ricostruito l’ambone e all’ingresso il confessionale e il fonte battesimale sono stati scambiati tra loro di posto, tornando alle loro posizioni originarie. «D’ora in poi – ha aggiunto – la festa comunitaria della parrocchia ricorrerà in questi giorni di settembre».

Due i video realizzati per l’occasione da Daniele Musacchi, disponibili qui: https://www.youtube.com/@danielemusacchi8709/featured

L’ASILO RESTAURATO

Dopo la Celebrazione, sono stati ufficialmente inaugurati i locali restaurati dell’attigua Scuola d’Infanzia “Maria Immacolata”, la cui inaugurazione, prevista per marzo 2020, fu rimandata a causa del lockdown. Oltre all’intervento antisismico, sono stati adeguati gli impianti elettrici e termoidraulici, è stato rifatto il sistema di fognature e gli allacciamenti sia idrico che gas, i pavimenti, gli intonaci, le tinteggiature e i bagni dei bambini. Sono state poi sostituite le finestre e le porte più vecchie e la scuola è stata dotata di un bagno per portatori di handicap. L’investimento complessivo è stato di circa 450mila euro.

Sulla facciata principale dell’asilo, vi è una formella rappresentante la Sacra Famiglia e una targa che ricorda due vittime dei bombardamenti del 10 marzo 1945: Gianfranco Zagni, 12 anni, e Floriano Fantoni, 8 anni. Tra le novità dell’asilo, vi sono l’allungamento dell’orario di apertura fino alle 17.30 e due nuovi laboratori di musica e inglese. Sono 55 i bimbi iscritti quest’anno, una ventina in meno rispetto all’anno scorso. Un problema sottolineato anche da mons. Perego nel suo intervento, nel quale ha ricordato come «la scuola cattolica non è una scuola esclusiva, ma inclusiva per sua natura», anche se «non è stata ancora rispettata adeguatamente la libertà educativa, più costosa per i genitori che scelgono la scuola cattolica per i loro figli, che segue in tutto i programmi delle altre scuole statali e comunali, anche se costa dieci volte di meno e ha un contributo irrisorio dallo Stato attraverso i Comuni e le Regioni. Per queste ragioni, soprattutto nelle frazioni, le nostre scuole cattoliche faticano a vivere e ad avere un futuro. Ma il valore educativo non ha prezzo, soprattutto se una scuola favorisce una cultura dell’incontro». 

Ha portato il suo saluto anche l’Assessora comunale all’Istruzione Dorota Kusiak, alla presenza delle educatrici e di alcuni bambini con le loro famiglie. Bambini che hanno anche intonato una canzone prima che il Vescovo e l’Assessora fossero accompagnati a visitare i locali della Scuola. La giornata si è conclusa con il pranzo comunitario. Domenica 15 ottobre, infine, in occasione del 40° della dedicazione della chiesa di S. Caterina Vegri, si celebreranno le Cresime e vi sarà il pranzo comunitario.

Famiglia Cortesi in parrocchia: la novità in Diocesi 

Per la prima volta nella storia della nostra Arcidiocesi, una famiglia vive in una casa canonica parrocchiale. Si tratta del diacono permanente Marco Cortesi assieme alla moglie Alessia Pritoni e ai loro cinque figli, che da agosto vivono negli ambienti della parrocchia dell’Addolorata a Ferrara. Cortesi assieme alla famiglia è stato richiamato in Diocesi dopo cinque anni trascorsi in missione a Toledo, in Spagna. Appartenente alla Papa Giovanni XXII, la coppia aiuterà il parroco don Paolo Semenza. Lo scorso 3 settembre il Vicario Generale mons. Massimo Manservigi ha celebrato la Messa in ricordo di don Valenti e per l’occasione è stata anche accolta la famiglia Cortesi. Cresciuti a Mizzana, i Cortesi hanno vissuto anche a Pescara di Francolino e a Pontelagoscuro.

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce” del 22 settembre 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

Daniele Lugli, testimone del bene e costruttore di pace

6 Giu

Addio a uno dei padri della nonviolenza italiana. Ritratto di un uomo mite, di una presenza positiva 

di Andrea Musacci

«Mi piace andare al mare in primavera: fine aprile, maggio. C’è poca gente. A fare il bagno nessuno. Ho tutto il mare a disposizione. Così ci vado anche quest’anno. Gli anni e la stagione mi inducono però a rinviare il mio lento nuoto. Le notizie dell’alluvione vicina rattristano e preoccupano». Scriveva così, Daniele Lugli, sul sito di “Azione nonviolenta”, appena due giorni prima di morire per un malore proprio mentre faceva il bagno nel suo mare di Lido di Spina.

Il 31 maggio, a 82 anni, ci ha lasciati, all’improvviso, una personalità molto amata per il suo impegno per la pace e la democrazia. Originario di Suzzara (MN), a 21 anni è tra i fondatori, insieme ad Aldo Capitini (detto il “Gandhi italiano”), del Movimento Nonviolento di cui sarà nella segreteria dal 1997 per divenirne in seguito presidente.

Daniele aveva lo sguardo e la posa del saggio. La sua presenza, anche silenziosa, era sempre carica di esperienza. Un’esperienza forgiata nelle lotte, nella ricerca, nello studio, nella costruzione lenta di relazioni, di progetti, di parole. Il suo era un corpo antico, quasi scolpito nella pietra, come certe maestose statue antiche. Ma nulla aveva, Lugli, del distacco solenne, della freddezza marmorea, della sapienza che intimorisce e allontana. In lui la nonviolenza era carne. Lo si poteva notare nel suo viso rassicurante mentre si scioglieva nel calore di un sorriso accogliente.

La sua era una presenza priva di algidità, mite e mai austera. Era difficile immaginare piedistalli sotto i suoi piedi. Rifiutava la violenza dell’arroganza, della verbosità usata come clava, volontà di supremazia, mezzo per non incontrare l’altro.

Nel 2018 andai a casa sua per intervistarlo in vista di uno speciale nel 50esimo del ’68: anche in quell’occasione notai la sua capacità di sapersi, all’occorrenza, decentrare, di evitare inutili narcisismi. Forse non sempre in maniera consapevole, ogni suo brano di vita era alimento per la narrazione, per la memoria, per ogni sua nuova testimonianza.

Qualche anno fa mi fece dono di una copia del suo volume dedicato a Silvano Balboni. Un giorno mi disse: «Sei una persona curiosa, ti consiglio di leggere questo libro». Si trattava di “Religione aperta” di Capitini (che dopo, in effetti, comprai), suo amico e maestro. Capii che Daniele sapeva cogliere la bellezza dentro le cose, dentro le vite. Anche questo significa essere “costruttori di pace”: saper riconoscere il bene, dargli spazio, forza. Non solo denunciare il male, non rimanere alla polemica sterile e che avvelena. Costruire la pace in ogni gesto, in ogni parola. Col corpo e nello spirito. 

Per Capitini la nonviolenza era «un’apertura affettuosa all’esistenza, alla libertà, allo sviluppo di ogni essere», ciò che pone «in primo piano assoluto la presenza e la compresenza degli esseri viventi». La nonviolenza è «positiva», cioè sempre attiva; è «lottatrice», ha cioè «bisogno di coraggio»; ed è «creativa» e «inesauribile», «inattuabile tutta perfettamente».

Così era Daniele Lugli, vero «amico della nonviolenza»: la sua presenza (ancora forte tra chi gli ha voluto bene) era apertura affettuosa all’altro, coraggio e continua ricerca creativa. La sua vita è stata testimonianza di bene, dell’intima positività del reale. Testimonianza che il male non ha l’ultima parola.

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 9 giugno 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

(Foto di Francesca Brancaleoni)

Salvia, un martire del dovere. Antonio Mattone: «quel giorno che incontrai Cutolo»

8 Mag
Claudio Salvia e Antonio Mattone

Giuseppe Salvia, vicedirettore del carcere di Poggioreale, fu ucciso nel 1981 per volontà del boss Raffaele Cutolo. Il 5 maggio a Ferrara la testimonianza del giornalista Mattone e del figlio Claudio

«Salvia era un martire del dovere, un integerrimo funzionario delloStato che incappò nel più grande delinquente italiano del secondo dopoguerra: Raffaele Cutolo. Ma che non si volle piegare alla sua prepotenza».

Sempre più persone iniziano a conoscere la straordinaria testimonianza di coraggio e di amore alla verità e alla giustizia rappresentata dalla vita e dalla morte di Giuseppe Salvia, vicedirettore del carcere di Poggioreale ucciso nell’aprile del 1981 per volere di Cutolo.

Due anni fa Antonio Mattone, giornalista napoletano, raccontò la sua storia nel libro “La vendetta del boss. L’omicidio di Giuseppe Salvia”, presentato la sera del 5 maggio nel Monastero del Corpus Domini di Ferrara. Un incontro voluto da Dario Poppi, insegnante in pensione, e organizzato dall’Unità Pastorale Borgovado. Un libro scritto sotto richiesta dei familiari di Salvia:della moglie Giuseppina e dei figli Antonino e Claudio. Quest’ultimo, che nell’81 aveva solo 3 anni (il fratello, 5) è intervenuto a Ferrara proprio insieme a Mattone, alla presenza di circa 80 persone. 

«TANTI AGENTI HANNO PAURA DI PARLARE»

Sono oltre trenta le presentazioni del libro di Mattone in giro per l’Italia, fra cui una col card. Zuppi, e tante nelle scuole. Qui, purtroppo, ha spiegato l’autore, «nessuno sapeva chi fosse Salvia, molti sapevano invece chi fosse Cutolo».

«Ho ascoltato 90 persone in diversi modi legate a Salvia: familiari,  agenti di polizia penitenziaria, terroristi, magistrati, inquirenti, forze dell’ordine, giornalisti». A proposito degli agenti di polizia penitenziaria, «alcuni di loro, dopo oltre 40 anni, non hanno voluto parlarmi: alcuni, forse perché collusi, altri perché si vergognano ancora di averlo allora lasciato solo, altri ancora per paura o per non voler riaprire vecchie ferite».

IN CARCERE, COME UN PRINCIPE

Innanzitutto, Mattone ha ricordato come Cutolo si trovasse a Poggioreale per omicidio, ma lì, dietro le sbarre, costruì la Nuova Camorra Organizzata, «il suo impero». Alcuni testimoni «mi hanno raccontato di quali privilegi godesse in carcere, fin dal ’73», segno di forti collusioni: «aveva la cella sempre aperta, la moquette, il frigo, la tv, passeggiava in vestaglia e un altro detenuto gli  faceva, di fatto, da maggiordomo. E un agente mi raccontò che un giorno nella posta destinata a Cutolo, trovò anche alcuni biglietti di auguri di buon onomastico provenienti da Deputati della nostra Repubblica. Questo agente mi ha chiesto di rimanere anonimo».

Arriviamo al 1981. Al ritorno dall’udienza in un processo, Cutolo incrocia casualmente Salvia.Quest’ultimo dice agli agenti di perquisirlo, come da regolamento. Prima di allora, invece, Cutolo era l’unico detenuto a non venir mai perquisito.Allora Cutolo, davanti agli altri detenuti e agli agenti, gli dà uno schiaffo, così forte da fargli cadere gli occhiali. Giorni dopo, Salvia gli negò, dopo aessersi consultato col Ministero, di poter fare il “compare di nozze” per il matrimonio di un boss anch’egli detenuto a Poggioreale. Allora Cutolo ordinò, dal carcere, di ammazzarlo. L’omicidio avvenne sulla tangenziale di Napoli il 14 aprile 1981.

Giuseppe Salvia

IL MIO INCONTRO CON RAFFAELE CUTOLO: «SÌ, L’HO UCCISO IO»

Oltre ad aver potuto incontrare Mario Incarnato, l’esecutore materiale dell’omicidio, Mattone il 21 luglio 2019 ha potuto parlare con Cutolo nel supercarcere di Parma, un anno e mezzo prima della sua morte. «Era isolato, e non incontrava giornalisti da 30 anni. Parlammo 1 ora, un vetro ci divideva. Era molto invecchiato, col parkinson e l’artrite. Iniziò a fidarsi di me quando gli dissi che dal 2006 ero volontario nel carcere di Poggioreale: gli si illuminarono gli occhi. “Sì, l’omicidio Salvia l’ho fatto io”, mi disse. Prima di allora, almeno pubblicamente, non l’aveva confessato a nessuno».

CLAUDIO SALVIA: «MIO PADRE MI HA INSEGNATO MOLTO»

Il figlio Claudio lavora in Prefettura a Napoli, si occupa di antiracket, in passato si è occupato anche di antimafia. «Mio padre in casa non parlava mai di lavoro. Nel libro di Mattone viene raccontato un episodio che dice molto di che persona fosse mio padre. Un giorno andò a trovare in ospedale “Zio Antonio”, un suo caro amico.Ma con sé aveva anche dei cioccolatini: doveva portarli  a un ragazzino figlio di detenuto, lì curato, e lasciato solo».

Erano gli anni di piombo, del terrorismo, della corruzione dilagante. «Servivano, allora più che mai, servitori dello Stato integerrimi, come mio padre. Tanti corrotti lavoravano anche nel carcere di Poggioreale». Tra l’altro, «a mio padre 2 o 3 volte rifiutarono anche la richiesta di trasferimento in un altro carcere. Richiesta che fu accettata solo il giorno dopo la sua morte».

«Mio padre servì lo Stato fino all’estremo sacrificio», ha proseguito. «La camorra, prima di ammazzarlo, aveva anche cercato di corromperlo, e poi lo minacciò. Fu vittima di una delle peggiori, se non la peggiore, associazione criminale al mondo», la Nuova Camorra Organizzata.

«Io, come Mattone, faccio tanti incontri nelle scuole per sensibilizzare sul tema della legalità, per parlare di antimafia e antiracket. Per parlare di mio padre. E negli incontri con gli studenti, spesso noto come molti giovani e giovanissimi abbiano il mito del camorrista killer, anche per colpa di serie tv come “Gomorra”, che non apprezzo anche perché non vi è mai un risvolto positivo. E poi bisogna continuare a lavorare molto sulla forte correlazione tra dispersione scolastica e devianza sociale:così tanti ragazzi iniziano a delinquere».

«Mio padre, quindi – ha aggiunto -, mi ha insegnato molto, anche se praticamente non ho avuto modo di conoscerlo di persona: il suo sacrificio mi ha consegnato valori altissimi e profondi. A mia figlia, che ha 8 anni, cerco di trasmetterglieli a mia volta. E ho capito quanto sia importante testimoniare ciò che si dice coi fatti». È quel che ha fatto Giuseppe Salvia, testimone di verità e giustizia fino alla morte.

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 12 maggio 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

«La fede è dei testimoni: ecco il mio don Milani». Intervista a Marina Salamon

24 Mar
Don Lorenzo Milani con alcuni dei suoi ragazzi di Barbiana

Sono gli incontri che cambiano la vita, che ci riaprono allo Spirito. Marina Salamon ci racconta della fede giovanile, e di quella ritrovata da adulta. Una fede più che mai incarnata

di Andrea Musacci

Per chi nutre ancora dubbi sulla possibilità, in una sola anima, di unire un forte senso del sacro con una mentalità imprenditoriale, uno slancio all’Assoluto con le ultime statistiche demografiche, si ricreda. 

Marina Salamon, nella sua personale esperienza incarna questa aspirazione. O almeno ci prova, data l’umiltà che dimostra pur avendo alle spalle una vita di successo nel mondo dell’impresa: nata nel 1958 a Tradate (Varese), è diventata imprenditrice quand’era ancora universitaria, fondando “Altana”, azienda leader nel settore di abbigliamento per bambini. Nei primi anni ’90 assume il controllo della società di ricerche di mercato “Doxa” mentre nel 2014 diventa azionista di maggioranza di “Save the Duck”, azienda che produce piumini senza fare uso di penne d’oca. Oggi tutte le sue attività fanno parte della holding “Alchimia”, impresa che opera nel settore della compravendita immobiliare. Nel ’94, per qualche mese, ha fatto anche parte della Giunta di Venezia guidata da Massimo Cacciari. Salamon ha quattro figli (da due padri diversi), una figlia in affido e attualmente assieme al marito Paolo Gradnik (col quale vive a Verona) ospita due famiglie ucraine. 

Giovedì 30 marzo alle ore 20.30 interverrà a Casa Cini a Ferrara (via Boccacanale di Santo Stefano, 24) per il terzo e ultimo incontro della “Cattedra dei credenti” coordinata da Piero Stefani con la Scuola di teologia per laici “Laura Vincenzi”. Tema dell’incontro, “Un’imprenditrice alla scuola di don Milani”.

L’abbiamo contattata per rivolgerle alcune domande.

Marina, com’è nata la sua fede cristiana, dove ha attinto? 

«Vengo da una famiglia non credente, ma grazie a mia nonna, che amavo molto, feci comunque i sacramenti. Quel che però ha fatto la differenza, è stata la mia esperienza negli scout, a partire dai 10 anni. Mio padre Ennio teneva ai valori dello scoutismo, perché anche lui era stato uno scout cattolico, anche se poi è diventato agnostico. È stata un’esperienza meravigliosa, fondante sia per la mia fede che per i miei valori: mi ha insegnato a riconoscere Dio nella creazione, mi ha tenuta attaccata a Dio attraverso San Francesco d’Assisi, anche negli anni in cui sono stata lontana dalla Chiesa. Poi, tra i 14 e i 16 anni, ho frequentato Gioventù Studentesca (movimento interno a CL, ndr), un’altra esperienza per me importante, grazie anche a molti amici di CL che mi sono rimasti amici dopo la mia uscita dal movimento. Le loro testimonianze di vita, legate alla missionarietà, mi hanno aiutato molto». 

Da adulta, invece, quali testimoni l’hanno accompagnata nella fede?

«Ne ho incontrati diversi, ma ne cito tre su tutti, in ordine cronologico: mons. Gianfranco Ravasi, che ho conosciuto grazie a mio padre, il quale non sempre ha condiviso le mie scelte di vita come imprenditrice. Parlò di me a mons. Ravasi, che iniziò a invitarmi a presentare i suoi libri. Un giorno mi disse: “penso che tu non sia così male…”».

Il secondo testimone?

«A un incontro del Forum Ambrosetti, nei primi anni del 2000, fu invitato l’allora card. Joseph Ratzinger. Ci arrivai carica di pregiudizi, ma con dentro una forte domanda sulla fede. Sono rimasta assolutamente affascinata dalla sua intelligenza – proprio nel senso di saper leggere oltre l’apparenza – e dalla sua umiltà. In vita mia non avevo mai visto una combinazione così dei due aspetti: da lui, il carisma usciva prepotentemente, smontando tutto quel che avevo dentro». 

Per quale motivo in particolare? 

«Nel mio mondo imprenditoriale, spesso ciò che conta è esibirsi ed esibire. Ratzinger, invece, era come un monaco eremita del Medioevo…». 

L’ultimo testimone che voleva citare?

«Salvatore Martinez (Presidente di Rinnovamento nello Spirito Santo, ndr), a capo di un movimento a cui non appartengo e non ho appartenuto, ma che in periodi di crisi della mia vita, ad esempio per la separazione col mio ex marito, mi ha preso per mano, invitandomi ad alcuni pellegrinaggi: io, “irregolare” in quanto divorziata, partii quindi con loro a Gerusalemme, poi a Lourdes. Insomma, nell’epoca delle beauty farm e della new age, tutti abbiamo bisogno di qualcuno che ci prenda per mano e ci accompagni. Senza rigide appartenenze ecclesiali». 

Marina Salamon

In una recente intervista, parla dei momenti di studio e preghiera che si ritaglia nella sua pur intensissima vita, per affrontare quelle «ardue domande che si fanno strada in ognuno di noi ed esigono risposta»: a cosa si riferiva?

«Le ardue domande non riguardano l’esistenza di Dio, su cui non ho dubbi, ma il come riuscire a tenere insieme l’insegnamento del Vangelo con le scelte di lavoro, con la famiglia e la vita in genere. Appena riesco, quindi, mi “prenoto situazioni” per poter meditare e studiare: pellegrinaggi, ritiri spirituali o periodi in conventi dove vado senza pc, solo con libri, quaderno e penna. Sono stata, ad esempio, a Bose e a Camaldoli. E sono iscritta, assieme a mio marito, all’Istituto di Scienze Religiose di Verona – dove sto lavorando a una tesi su don Milani -, oltre a frequentare un Master in dialogo interreligioso a Venezia».

Riguardo a don Lorenzo Milani, che cosa della sua testimonianza l’ha colpita e ancora considera importante?

«Avevo 10 anni quando trovai in casa la prima edizione di “Lettera a una professoressa”: già da giovane mi provocava in ciò che mi era più scomodo, è questo era per me commovente, sapeva davvero muovermi il cuore. Capii che non potevo accontentarmi dei miei privilegi, che erano stati soprattutto culturali, venendo da una famiglia colta e aperta al mondo. Don Milani sa invece essere duro come il Vangelo del giovane ricco». 

Come iniziò a concretizzarsi questo suo bisogno di cambiamento?

«Facendo caritativa con CL: andavamo a casa degli immigrati meridionali, case senza pavimento e coi bagni in bugigattoli esterni. Anni dopo conobbi Pietro Ichino (noto giuslavorista, ndr), citato da don Milani come “pierino”, perché i due si conobbero quando Pietro era piccolo. Anche lui mi raccontò come il sacerdote gli cambiò la vita».

“Un’imprenditrice alla scuola di don Milani”: che cos’ha imparato, e che cosa, ancora, impara da lui?

«L’amore per la vita e la valorizzazione di ogni persona. Nel mio caso, soprattutto nelle mie aziende. L’economia, però, si è pesantemente finanziarizzata, e questo ha avuto un impatto su tante scelte delle mie aziende, che a volte ho vissuto con grande angoscia, come una ferita». 

Non è possibile trovare un punto di equilibrio tra persona e finanza? 

«Lo sto cercando in ogni mia scelta. Mi son sempre sentita un genitore nei confronti di tutte le persone che lavorano con me: genitore nei termini di responsabilità nei loro confronti. Ma nei prossimi anni – ne sono convinta, basta leggere le statistiche – l’Italia andrà in crisi, con forti ripercussioni sociali. Il calo demografico è troppo forte, non c’è possibilità di invertire questa tendenza, se non in futuro».

A livello educativo, di trasmissione della fede e dei valori, qualcosa però si può sempre fare. Su questo, cosa può dirci don Milani oggi?

«Don Milani era ed è un profeta e quindi va ascoltato: da giovanissima pensavo fosse troppo “di sinistra”, ma dopo capii che mi sbagliavo. Quando, ad esempio, ai sindacalisti diceva che, una volta conclusa la lotta al fianco dei lavoratori, sarebbe tornato nella sua chiesa, intendeva dire che i valori della fede vanno ben oltre quelli secolari, politici. Dovremmo quindi ripartire da valori forti e chiari, scomodi ma profetici: la Chiesa innanzitutto ha questo compito, questa grande responsabilità educativa».

La Chiesa, però, è sempre più minoranza…

«Non è un problema, anzi può essere positivo: il mondo viene cambiato dalle idee e dai testimoni che le incarnano».

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 24 marzo 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

Giovani, annoiati e creativi: e noi cosa offriamo loro?

13 Mar

Incontro a Ferrara sugli adolescenti: le sofferenze post pandemia, le testimonianze da Sambe e WebRadio Giardino, proposte di educazione condivisa

Insicuri, annoiati, rabbiosi. Ma anche desiderosi di bene, di una comunità educante. Nel parlare dei giovani – in particolare degli adolescenti – si rischia sempre di essere troppo paternalistici o “sociologici”. Da quest’approccio ha provato a uscire l’associazione “Ferrara Bene Comune” (FBC), proponendo, nella serata del 10 marzo, un incontro organizzato con CSV Terre Estensi, in Sala della Musica, moderato da Patrizio Fergnani (vice Presidente FBC), e con una 70ina di presenti. “Essere giovani in una città che invecchia”, il titolo scelto, a dire di un futuro che tanto roseo non sembra, e di un presente fatto di contraddizioni e difficoltà.

NUMERI CHE PARLANO CHIARO

Dai dati è partito Guglielmo Bernabei, Presidente di FBC (e nostro collaboratore), con la presentazione della ricerca “Tra Presente e futuro. Essere adolescenti in Emilia Romagna nel 2022” realizzata dall’Osservatorio Adolescenti del Comune di Ferrara con la collaborazione del Servizio Politiche sociali e socio-educative della Regione Emilia-Romagna. Dai 15mila ragazzi coinvolti (di età compresa fra gli 11 e i 19 anni), è emerso la loro ricerca di «una comunità educante, attiva, cooperativa». Il periodo pandemico, in particolare, è stato percepito da tanti come «spazio vuoto, sospeso». Da qui, la loro fame di relazioni nuove, diverse.

Dall’indagine risulta che siano due i luoghi di maggior disagio per gli adolescenti: la scuola e l’on line (la metà di loro passa almeno 4 ore davanti al pc). Qui, maggiormente, emergono ansia, noia, insicurezza, rabbia e solitudine. La gioia e la fiducia, al contrario, vengono dagli amici e dalla famiglia (pur con alcuni dati negativi da non sottovalutare). Insomma, la situazione è complessa ma non tragica: «i giovani vogliono esprimere la propria creatività, hanno voglia di conoscere, sono curiosi», ha concluso Bernabei: «hanno voglia di futuro».

TESTIMONIANZE DEI GIOVANI

Una «voglia di futuro» espressa da Tania e Anna (foto a sx) dell’Oratorio di San Benedetto: la prima, 22 anni, educatrice con la Lingua dei Segni, è partita da tre verità: «il bene genera il bene, l’educazione è cosa di cuore, in ogni ragazzo c’è un punto accessibile al bene. A me – ha proseguito – la vita dell’Oratorio ha salvato nella dimensione della relazione. Ma anche noi ci interroghiamo sulla nostra insufficienza, su dove sbagliamo se tanti giovani non sono attratti da noi. Una cosa è certa: se non agiamo nel bene, questa città muore». 

Per Maria Vittoria Govoni (foto a dx), 25 anni, vice presidentessa di Web Radio Giardino (aps e spazio culturale nato nel 2017 per raccontare la città e i mondi giovanili), la domanda è aperta: «come Radio stiamo vivendo una crisi. Come fare – ci chiediamo anche noi – per trovare forze nuove e non abbatterci?».

La risposta, per Micol Guerrini, Assessora alle politiche giovanili del Comune di Ferrara, sta soprattutto nella comunicazione: «in città non mancano iniziative e proposte, ma dovremmo cercare di raggiungere più i giovani, soprattutto attraverso le scuole». Sarà. Fatto sta che le persone si avvicinano – si attraggono – sempre una a una, sempre chiedendo loro “tu come stai?” (come ha detto Tania). Sempre incontrandole sul loro cammino. 

PROPOSTE DI EDUCAZIONE CONDIVISA

Su queste basi è nato anche il progetto Family StAR (Student At Risk), che parte dal modello delle Family Group Conference. Ne ha parlato Francesca Maci, Docente all’Università Cattolica di Milano. Il progetto è rivolto a studenti e studentesse con difficoltà scolastiche: il disagio personale viene affrontato non solo dalla famiglia o dagli insegnanti, ma anche – se lo studente lo vuole – da chiunque possa aiutarlo (amico, compagno di classe, vicino di casa, parente ecc.), e da professionisti, in maniera partecipata e condivisa. Insomma, «sapere esperto e sapere dell’esperienza» si alleano tra loro per trovare soluzioni pratiche attraverso un percorso personalizzato. StAR, per ora, è stato sperimentato a Milano, Lodi, Sondrio e Salerno su un totale di 540 studenti. Si è accennato alla possibilità (tutta ancora da valutare) di portarlo anche a Ferrara.

E sull’idea di rete solidale si fonda anche il progetto dei Patti Digitali di Comunità (PDC), nati nel 2018 grazie al MEC (Media Educazione Comunità), rappresentati da Matteo Maria Giordano (con Maci e Bernabei in foto), il quale con amara ironia ha illustrato la realtà: lo schermo di un tablet o smartphone sta sostituendo, per molti bambini, anche piccolissimi, il volto della madre (o del padre). Chi non ha mai visto, al tavolo di un ristorante, un bimbo non far altro se non fissare uno smartphone? «È una scelta – ha detto Giordano – fatta non per il bambino, ma dai genitori per loro stessi, perché vogliono essere al centro, non disturbati dal figlio». Da una recente indagine, il 72% delle famiglie con bimbi 0-2 anni ha ammesso di usare dispositivi digitali durante i pasti. Ma gli effetti, in particolare sui bambini, sono gravi, perché provocano dipendenza, quindi mancanza di sonno, di memoria, di concentrazione. Oltre a inibire la creatività e appunto a impoverire le relazioni. «Se continuiamo così, fra 20 anni avremo tanti giovani con disturbi di questo tipo: sono i bambini di oggi», ha ammonito Giordano. Bambini che perdono la relazione coi genitori, inghiottiti dallo schermo che loro stessi li mettono davanti agli occhi. 

I PDC sono, quindi, un tentativo per far incontrare fra loro i genitori e decidere, insieme, alcune regole/principi da applicare ognuno coi propri figli. A partire da 5 basi: sì alla tecnologia, ma nei tempi giusti; preparare i bambini all’autonomia digitale (ma graduale e attenta); regole chiare e dialogo; adulti informati e responsabili; alleanza tra genitori. Altre informazioni su https://pattidigitali.it/

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 17 marzo 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

Bambini disabili, ecco il progetto IBO in Tanzania

17 Ott
La presentazione dell’11 ottobre a Casa IBO

Presentato a Ferrara l’11 ottobre: inclusione scolastica e sociale per centinaia di bambine e bambini con disabilità, da sempre considerati “scarti”. I sei tanzaniani a Ferrara e la storia di riscatto di Mage, Vicky e Ageni

di Andrea Musacci

Abbandonati lungo il ciglio di una strada polverosa o reclusi a vita in casa, quando non uccisi. È questo il tragico destino di tante bambine e bambini con disabilità in Tanzania, dove la povertà e disumane credenze popolari hanno ridotto a un inferno la vita di queste persone considerate “scarti”.

È di loro che si occupa il progetto “No One Left Behind” realizzato da IBO Italia, e presentato nella sede di via Boschetto a Ferrara nel pomeriggio dello scorso 11 ottobre, alla presenza di una delegazione di sei tanzaniani coinvolti nel progetto. Progetto (finanziato anche grazie all’8×1000 alla Chiesa Cattolica) che ha come obiettivo il rispetto dei loro diritti e la loro accessibilità ai servizi delle scuole primarie (6-13 anni) e riabilitativi nel distretto di Iringa, nel Paese dell’Africa orientale celebre, soprattutto, per il Kilimangiaro e l’isola di Zanzibar. Area con oltre 400mila abitanti (più della metà sotto i 19 anni) che comprende una zona urbana e una rurale (dove vive il 78% della popolazione), a dieci ore di macchina dalla costa e dalla capitale Dar es Salaam. Ben il 7,8% dell’intera popolazione ha una disabilità, il 3% della popolazione in età scolare, di cui la maggior parte è esclusa dai servizi scolastici.

Dopo i saluti dell’Assessora del Comune di Ferrara Dorota Kusiak, Federica Gruppioni e Paola Ghezzi hanno presentato il progetto coordinato da quest’ultima, scritto e presentato all’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo nel 2018 e approvato e avviato l’anno successivo. La pandemia, naturalmente, lo ha rallentato, ma non fermato. La conclusione è prevista ad aprile 2023.

Il contesto di povertà

I volontari di IBO si trovano ad operare in un contesto in cui, soprattutto nei villaggi, le persone non accettano la disabilità. In passato, ma ancora in parte oggi, in Tanzania una famiglia è rispettata solo se ricca e con tanti figli, quest’ultimi sinonimo, secondo questa mentalità, di ulteriori guadagni, braccia in più per lavorare. Se queste “braccia” non sono abili a svolgere determinate mansioni, vengono considerate “maledette”: la persona disabile è considerata inutile, e quindi va emarginata. A ciò si sovrappongono elementi di superstizione, come la credenza che il malocchio di vicini o famigliari fosse la causa della disabilità. I bambini, quindi, fino a non molti anni fa erano nascosti dalle famiglie. Erano come invisibili, quando non venivano  soppressi, com’era in uso nella tribù Masai, dove le famiglie, dopo aver ucciso il bambino, cambiavano anche casa. In altri casi, i bambini venivano abbandonati nei boschi, facili prede di bestie feroci.

C’è voluto tempo, quindi, perché molte famiglie non considerassero inutile portare i propri bambini con disabilità a scuola. Ora, per legge, tutte le scuole devono accettare questi piccoli. Ma, come sempre, la legge è necessaria ma non sufficiente: tocca alle persone e alle comunità renderla concreta.

Le fasi del progetto

Questo contesto, com’è normale, portava a una totale impreparazione di insegnanti, presidi e personale scolastico sul tema dell’inclusione di queste bambine e bambini, oltre ad ambienti di studio non accessibili. 

Il progetto “No One Left Behind” si svolge in tre fasi. Innanzitutto, quella della formazione dello staff scolastico, già conclusa: ad oggi, sono stati formati circa 150 insegnanti, con corsi settimanali di base e successivamente un periodo di formazione nelle scuole. Secondo, l’abbattimento delle barriere architettoniche e la costruzione di ambienti per questi ragazzi, come il dormitorio per bambine e ragazze nella scuola primaria di Kipera, prima costrette a dormire in letti a castello montati nelle classi. Infine, la campagna di sensibilizzazione per genitori con bimbi con disabilità e per l’intera collettività.

Gli attori: i sei tanzaniani in visita a Ferrara

Presenti in Italia per la visita-studio dall’8 al 21 ottobre, sei protagonisti (tre donne e tre uomini) di questo progetto, tutti provenienti dal Distretto rurale o da quello urbano di Iringa: Peter Edmond Fussi, Responsabile dell’istruzione del Consiglio distrettuale di Iringa, che comprende 158 scuole primarie, di cui 5 private, per un totale di 74064 studenti; Wilfred Makaranga Mattu, Responsabile dell’istruzione per studenti con bisogni speciali, con 441 bimbi disabili delle primarie coinvolti, e 53 nelle secondarie; Faines Seti Mteleka, Dirigente scolastica della scuola primaria di Kipera, che accoglie 683 studenti, di cui 97 con disabilità fisica, cognitiva o di altro tipo; Esther Charles Mtendeule, insegnante per studenti con bisogni speciali nella primaria di Tanangozi, con 856 ragazzi, di cui 25 con disabilità; Mary Aidano Semaganga, insegnante per studenti con bisogni speciali nella primaria di Sabasaba, con 500 studenti, di cui 80 disabili, seguiti da appena 4 insegnanti; Adam John Duma, Direttore dell’Associazione Nyumba ALI a Iringa: «dal 2006 – ha spiegato – abbiamo aperto tre centri diurni per la riabilitazione fisica di bambini con disabilità e per bimbi con disabilità gravi, che quindi non possono essere accolti nelle scuole pubbliche. Uno dei ragazzi che abbiamo seguito, tetraplegico, ora è iscritto a Giurisprudenza».

Fra le altre tappe della visita-studio in Italia, una mattina all’Istituto Vergani Navarra, alla scuola Neruda, alla primaria di San Martino, per poi gli ultimi giorni trascorrerli a Roma, con anche una visita in Vaticano. 

I partner 

Assieme a Nyumba ALI ha collaborato anche l’Università di Ferrara, uno dei partner del progetto. Alfredo Alietti, docente di UniFe e Direttore del Centro di Cooperazione Internazionale dell’Ateneo estense (nato lo scorso luglio), ha spiegato la ricerca svolta nel contesto urbano, dal titolo “Welfare educativo, disabilità e rapporto scuola-famiglia nei distretti urbani di Iringa”, che verrà pubblicata a breve: «abbiamo costruito un questionario poi sottoposto a genitori con figli disabili nelle scuole di Sabasaba e Ipogolo, per sapere quali difficoltà vivono e anche gli aspetti positivi. Successivamente, abbiamo svolto incontri con genitori di bimbi disabili». Questa ricerca sarà una parte di una più ampia che comprenderà anche le zone rurali e altri capitoli.

Caterina Arciprete del Laboratorio ARCO dell’Università di Prato e di quella di Firenze, altro partner, ha spiegato il loro impegno per svolgere una cosiddetta ricerca emancipatoria, svolta cioè da alcuni ragazzi disabili recatisi da 120 famiglie con bimbi disabili, in zone rurali, per capire i loro bisogni. Assieme a questo, ARCO ha promosso un’importante campagna di sensibilizzazione con manifesti, messaggi in radio e spettacoli teatrali. 

A seguire, è intervenuto Luigi Rosso, Responsabile di un altro partner, la Cooperativa “La Città Verde” di Pieve di Cento.

Mage, Vicky e Ageni: tre ragazze-speranza

Bruna Fergnani, Presidente di Nyumba ALI, fondata col marito Lucio e altre persone, ha preso la parola per raccontare il loro impegno in Tanzania e la situazione nel Paese. Sono 230 i bambini con paralisi cerebrali negli anni accolti nei centri di Nyumba ALI ad Iringa, senza contare tutti gli altri.

La storia della loro famiglia è grande fonte di speranza. Bruna e Lucio hanno tre figlie adottive: nel 2003 sul ciglio di una strada in periferia, lei e il marito incontrano Mage, bambina orfana affetta da un ritardo mentale e da qualche problema di deambulazione. Tre anni dopo nasce l’associazione e la casa famiglia costruita per accogliere la ragazza. A lei, nel 2007 si aggiunge Vicky che, svegliatasi dal coma, «vive ora in un mondo tutto suo, troppo bello per essere visto e ancor più per essere capito», scrive Bruna. Poco dopo arriva Ageni, costretta su una sedia a rotelle dagli effetti devastanti della tubercolosi ossea. Ageni, laureata all’Università di Bologna in Tecniche di laboratorio biomedico, nel 2021 è stata assunta dall’ASL di Ferrara per le analisi Covid nell’Ospedale del Delta. 

Una delle tante storie di riscatto, rese possibili grazie a chi non ha considerato “scarti” queste persone.

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 21 ottobre 2022

La Voce di Ferrara-Comacchio