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Santo Spirito, da 75 anni al servizio della città 

11 Nov
Enrichetta Maregatti, Giorgio Mazzoni ed Elvio Bonifazi

Nel novembre del 1948 l’allora parroco padre Francesco Righetti aprì la sala cinematografica in via Resistenza. Un pezzo di storia di Ferrara che ancora guarda al futuro (di tutti)

di Andrea Musacci

Nell’atrio il primo proiettore a carbone – un Victoria 4r del 1934 – accoglie giovani, famiglie, coppie, anziani e bambini che per gioco vorrebbero tirarne ogni parte sporgente…Utilizzata fino agli anni ’80 (a parte un’eccezione nel ’98 per “Gatto nero, gatto bianco” di Emil Kusturica), è l’immagine plastica di un piccolo ma storico luogo che definire cinema è riduttivo. Non è fra i più “antichi” (ad esempio l’Apollo è del ‘21), ma fu, ad esempio, il primo a proiettare capolavori del neorealismo e a organizzare Cineforum. Siamo in via della Resistenza a Ferrara, nel complesso parrocchiale di Santo Spirito, dove l’omonimo cinema da 75 anni è il punto di riferimento per cinefili e amanti della cultura in senso largo.

Nel ’48 fu l’allora parroco, il francescano padre Francesco Righetti, a dar vita al “Piccolo Cinema”, inaugurato a fine novembre dello stesso anno e con la prima proiezione organizzata a inizio dicembre. Fra i primi “padroni” della cabina di proiezione ci furono i proiezionisti Mario Stabellini, morto nel 2020, e Giordano Galesini, padre di frate Mauro, francescano del Santuario di Chiampo (VI). Ai tempi, per motivi di sicurezza e di gestione meccanica dei proiettori, era infatti normale la presenza contemporanea di due operatori. 

Nel libretto parrocchiale “S. Spirito…e le sue opere” del 1958 Antonio Cavalieri scrive: «Tutti sanno o almeno ammettono che l’essere umano ha necessità di ricreazione (…). Ricreazione è distensione, è rinnovamento di energie intellettuali, spirituali, fisiche (…), sollievo dal normale lavoro manuale o intellettuale (…). Ma perché questo si avveri (…) si rende indispensabile creare l’ambiente, dare i mezzi affinché ciascuno possa veramente “ricrearsi” nel vero senso, santo della parola (…). Tutto questo l’ha ben capito il nostro amatissimo Parroco, Padre Francesco, fin dai tempi dei tempi. Era un pallino che aveva nella Sua mente, un assillo che gli tormentava l’anima e il cuore (…). Ungiorno non ne poteva più; sentì il cuore gonfio, e nel cuore una Voce di sicura speranza, di fiduciosa sicurezza…e si mosse! Ed ecco la sala del cinema (eh già, come si fa oggi giorno a pensare ad opere ricreative senza cinema!…), la più bella fra le sale parrocchiali ferraresi; poi vennero i locali nuovi: le sale dei giochi per tutti – grandi e piccoli – le sale di lettura, la sala (magnifica) della televisione, delle adunanze (…)».

La Chiesa, anche a Ferrara, capì dunque che l’educazione e lo sviluppo della cultura, necessitava di luoghi moderni. Il proiezionista Galesini venne poi affiancato da Giorgio Mazzoni, che inizia a lavorare come operatore a S. Spirito 50 anni fa, nel 1973, proseguendo fino al 1984 e poi riprendendo da metà anni ’90 fino al 1998. Per un periodo, Mazzoni si alternava assieme ad Armando Maregatti tra qui e il Cinema Boldini. Armando, morto nel 2010, è il papà di Enrichetta Maregatti, che da lui ha ereditato la gestione della sala dopo l’esordio, assieme al marito Elvio Bonifazi, a fine anni ‘80. Enrichetta ed Elvio ancora oggi gestiscono con grande passione il loro amato cinema.

DAI BIGLIETTI A 40 LIRE ALL’AVVENTO DEL DIGITALE

I primi tempi le proiezioni erano quasi giornaliere, e i biglietti costavano tra le 40-60 lire nei giorni feriali (ridotti e interi) alle 50-70 per i festivi. Da inizio anni ’80, per un periodo, le proiezioni furono solo la domenica, dalle 14.30 fino a tarda serata, mentre con l’austerity (tra il ’73 e il ’74) la chiusura venne imposta alle 23. Ma con la gestione Maregatti ripresero anche nelle serate di venerdì e sabato, fino ad arrivare nel 2007 all’inizio delle rassegne (la prossima è prevista per gennaio 2024) e degli eventi speciali e, ora, a quattro serate di proiezioni, da venerdì a lunedì (oltre ai festivi e prefestivi). Un’altra svolta S. Spirito l’ha vissuta nell’estate 2013 con l’avvento del proiettore digitale (il canadese Christie Solaria One) che ha mandato in pensione i vecchi proiettori (l’ultimo fu un Victoria 8r, ai tempi considerato “la Rolls Royce” dei proiettori), grazie al contributo della Regione per la digitalizzazione dei cinema locali. S. Spirito fu il primo cinema non multisala a Ferrara ad adottare il digitale. Il Boldini ci arrivò per secondo solo il febbraio successivo. In pensione il digitale mandò anche la macchina “girafilm”, per riavvolgere la piccola o per fare montaggio, che Enrichetta conserva ancora gelosamente nella stanzetta attigua alla cabina di proiezione.

Ma torniamo agli albori: padre Francesco – che guidò S. Spirito fino al 1967 – come detto, non immaginò la sala cinematografica come luogo alieno dalla parrocchia e dal quartiere, ma una sala della comunità nella quale poter unire svago, educazione e condivisione. Un posto pensato soprattutto per famiglie, con proiezioni pomeridiane domenicali per i bambini e la sera il “filmone”. Sempre nel ’48 fu allestito anche un bar, col bancone a sinistra dell’ingresso principale e dietro la sala con i tavolini. Tra il 1982 e l’83 fu buttata giù la parete in modo da accedere direttamente alla sala. Di fronte all’ingresso, l’immancabile “stracciabiglietti”/maschera, ruolo ricoperto da metà degli anni ’50 fino al 2008 da Leonello Lugli, e il “segnatempi” sulla parete ai piedi della scala che porta alla galleria e alla cabina di proiezione. “Segnatempi” con i numeri romani I, II, III e con la A a indicare “Attualità”, vale a dire la pubblicità o i cinegiornali. «Ma non si fanno più intervalli – ci spiega Enrichetta – perché i film vanno visti senza pause».

Santo Spirito, quindi, come cinema della città ma senza dimenticare il suo legame con la Chiesa: come ci ricorda Giorgio Mazzoni, se richiesto, prestava le “pizze” con le pellicole, come ad esempio a metà degli anni ’70 quando don Sergio Vincenzi (ai tempi giovane seminarista e dallo scorso maggio in servizio proprio a S. Spirito) veniva a ritirarle per le proiezioni – sempre con una cinemeccanica Victoria 4r – nel Seminario di via G. Fabbri.

A fine anni ‘50 fu uno dei francescani di S. Spirito, padre Geminiano Venturelli, a far costruire la galleria al primo piano del cinema di via Resistenza, assieme alla cabina di proiezione (che prima era al piano terra), in questi ambienti direttamente collegati a quelli parrocchiali dove ancora oggi i bambini fanno catechismo e dove una volta erano adibiti ad aule per la Scuola elementare. E nella saletta di “passaggio” tra il cinema e le sale per i bambini, viene conservata un’altra macchina, una Victoria 5r, la stessa che nel film di Tornatore “Nuovo Cinema Paradiso” sostituisce il vecchio proiettore dopo l’incendio che rende cieco il proiezionista Alfredo.

Luoghi magici, più o meno nascosti, che dopo tanti anni trasmettono ancora quel calore antico di spazi vissuti e fatti crescere con invincibile passione.

Proseguendo nel nostro giro negli ambienti, scopriamo come per diversi anni in sala il palcoscenico – di legno – fosse davanti lo schermo, mentre quello nuovo, dietro lo stesso, venne fatto costruire a metà degli anni ’80 da padre Flavio Medaglia. Una volta, lo schermo quando non serviva veniva alzato e posto orizzontalmente a sfiorare, parallelo, il soffitto. Diverse foto che possiamo ammirare grazie a Enrichetta Maregatti e al parroco don Francesco Viali, testimoniano dell’iniziativa “Microfono d’oro” che si teneva proprio su questo palco negli anni ’70-’80, ispirata allo Zecchino d’oro del Coro Antoniano di Bologna. E un capitolo a parte meriterebbero le poltroncine blu della sala, fatte installare (assieme al pavimento) un quarto di secolo fa da padre Antonio Atanasio Drudi, in sostituzione di quelle di legno che a loro volta presero il posto di quelle in ferro. Prima delle poltroncine blu, i posti erano di più – oltre 200, rispetto alle 173 attuali – e in passato la sala era riscaldata con stufe di carbone. Un altro aneddoto riguarda le poltroncine in legno, che nei periodi estivi venivano trasferite nel campetto dell’oratorio per il “cinema all’aperto”.

I PRIMI CINEFORUM CITTADINI E “LASCIA O RADDOPPIA?”

Come accennato all’inizio, proprio nel Cinema Santo Spirito nacque, grazie a don Franco Patruno e Luciano Chiappini, il primo Cineforum ferrarese: la terza serie – a cura del “Club Ferrarese Cineforum” – ci risulta essere della stagione 1952-1953, col titolo “Panorama della cinematografia mondiale del dopoguerra. Charlie Chaplin – Il cinema francese”, con film anche di Renè Clair (“Il silenzio è d’oro”, 1947) e Henri Georges Clouzot, mentre di Chaplin venne proiettato “Monsieur Verdoux” (1946). Nella quinta serie, invece, anni ’53-54, protagonisti furono Jean Renoir (“La grande illusione”), Frank Capra (“L’eterna illusione”), G. W. Pabst (“La voce del silenzio”) e Billy Wilder (“Viale del tramonto” e “L’asso nella manica”). 

Don Patruno e Chiappini li ritroviamo quasi mezzo secolo dopo, il 4 dicembre 1998, per un incontro pubblico organizzato in occasione del 50° anniversario, con gli interventi, oltre che dei due, di Enrichetta Maregatti, del parroco padre Giovanni Di Maria (a S.Spirito dal ’97 al 2009) e di Antonio Azzalli. Proprio in occasione dei primi 50 anni del cinema, sull’edizione ferrarese del “Resto del Carlino” Gianfranco Rossi ricordava quando nel 1957 Michelangelo Antonioni con la sua troupe de “Il grido” (tra cui Alida Valli e Dorian Gray), si fermò al Cinema S. Spirito per annunciare la prossima uscita del film. 

Cinema d’autore, dunque, ma anche la neonata televisione fece capolino dal grande schermo di via della Resistenza con, dal ‘56, la proiezione di “Lascia o raddoppia?” e di altre trasmissioni televisive che raccoglievano una volta alla settimana tante famiglie della parrocchia ancora sprovviste in casa del televisore.

LE CRISI, IL PRESENTE E IL FUTURO DI UNA COMUNITÀ

Il Cinema S. Spirito è iscritto all’ACEC-SdC (Associazione Cattolica Esercenti Cinema – Sale della Comunità) e oggi ospita 173 posti, di cui 153 in platea e 20 in galleria.

Come ci spiega Enrichetta Maregatti, «cerchiamo di proiettare film d’essai o comunque di qualità. Facciamo anche proiezioni per le scuole, per l’Università degli Studi di Ferrara, oltre a conferenze e spettacoli teatrali benefici di compagnie amatoriali locali».

Negli anni, prosegue, «abbiamo vissuto momenti di crisi, ad esempio dopo l’apertura del Multisala in Darsena e con le chiusure causa Covid. Ma dallo scorso gennaio è ripreso il regolare flusso di spettatori, che anzi è aumentato rispetto al periodo pre-Covid. Da noi vengono persone non solo dalla città ma anche dalla provincia (Ostellato, Massa Fiscaglia, Poggio Renatico ad esempio) o dal rodigino, e ci sono tanti affezionati, un vero e proprio “zoccolo duro”».

La missione per il futuro è sempre chiara: «siamo una sala polivalente che cerca innanzitutto di aggregare le persone, di farle ritrovare, incontrare, socializzare. Il nostro è un servizio alla comunità, e anche per questo cerchiamo di mantenere prezzi bassi. I film vanno visti in sala, sul grande schermo e soprattutto assieme agli altri». 

Per questi motivi, i cinema come S.Spirito vanno tutelati e sostenuti come patrimonio dell’intera comunità.

***

SERATA SPECIALE IL 18 NOVEMBRE

“Cinema Santo Spirito. 75 anni di film che parlano al cuore” è il nome dell’incontro in programma sabato 18 novembre al Cinema Santo Spirito di via Resistenza, 7 a Ferrara.

Questo il programma della serata:

* ore 18:45 – 20:45, atrio del cinema:Annullo filatelico di Poste Italiane per la ricorrenza.

* 19:00, Sala del cinema:Tavola rotonda “Cinema Santo Spirito tra ricordi e prospettive”. Modera mons. Massimo Manservigi, Direttore dell’Ufficio Comunicazioni Sociali Arcidiocesi di Ferrara-Comacchio.

*20:00, cortile dell’oratorio:aperitivo con buffet.

* 21:00, Sala del cinema:speciale proiezione a sorpresa  di un film restaurato.

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce” del 10 novembre 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

Artisti ferraresi dietro le quinte: da Melli a Berselli

30 Gen

Gli artisti Roberto Melli, Severo Pozzati e Laerte Milani, oltre alla costumista Adriana Berselli nel libro di Scardino “Cinema Pittura Ferrara”

«I film dovranno diventare disegni viventi», profetizzava un secolo fa Hermann Warm, scenografo de “Il gabinetto del dottor Caligari”. Tecnici, artigiani, scenografi, costumisti. E ancora: attrezzisti, tappezzieri, falegnami, stuccatori, fabbri e sarte. Dietro un film effettivamente vi è un mondo variegato di professionisti spesso poco considerati ma in realtà fondamentali per la realizzazione dell’opera. Un concerto di creatività che fa essere un film qualcosa di infinitamente più complesso e affascinante di una mera sequenza di riprese. 

Lo ricorda Lucio Scardino, critico e storico dell’arte, nel suo libro da poco edito “Cinema Pittura Ferrara. Quattro artisti ferraresi prestati alla Settima Arte” (Ed. La Carmelina, 2022).

L’autore si sofferma in particolare su quattro creativi del nostro territorio che hanno tentato, con alterne fortune, di realizzarsi anche nell’ambito cinematografico. Parliamo di Roberto Melli (1885-1958), Severo Pozzati (1895-1983), Laerte Milani (1913-1987) e Adriana Berselli (1928-2018).

Un crescendo, temporalmente parlando, di riconosciuta fama: si parte con Melli, pittore e scultore che riscosse ben poco successo nel suo tentativo: fu direttore artistico della San Marco Film, sceneggiatore e scenografo de “La piccola fioraia”, co-regista de “La cugina d’Alcantara” e “La casa dei libri”, regista de “Il fiore del destino”. 

Poi, Pozzati, detto Sepo, artista comacchiese, che collaborò con la Felsina Film, prima come insegnante nella scuola per attori e tecnici, poi realizzando alcune scenografie. Successivamente, firmò soggetto e regia di “Fantasia bianca”, film ben presto dimenticato.

Sicuramente più successo ebbe lo scultore Milani, originario di Mezzogoro: dagli anni ’40 realizzò prima documentari scientifici per il GUF (Gruppo Universitario Fascista) ferrarese, poi, con altri (grazie allo “Studio Milani” o “Pubblicine”), alcuni shorts, cortometraggi pubblicitari d’animazione proiettati nei cinema locali prima dei film, e una pellicola animata, “Destinazione errata”. In seguito, si concentrò su cartoons, scenografie, fondali e disegni animati.

Infine, la vera “diva” del quartetto: Berselli, costumista, nata nell’ospedale dei bambini di via Savonarola, considerata – da un articolo di “Repubblica” – «regina dei costumi del cinema italiano degli anni Sessanta e Settanta». Lavorò tra l’altro per “La voce del silenzio” di Georg Wilhem Pabst, “L’avventura” di Antonioni (foto), altre pellicole con Virna Lisi, Peter Seller, Sylva Koscina, Michel Piccoli, o dirette ad esempio da Roman Polanski e Carlo Lizzani. 

Modi diversi, dunque, di tentare di dare il proprio contributo alla Settima Arte. In ogni caso, un tassello importante di ricerca di un ambito ben poco noto del legame tra Ferrara e il cinema.

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 3 febbraio 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

Corpo e parola, intreccio di contraddizioni: il film “The Grand Bolero”

26 Set

“The Grand Bolero” di Gabriele Fabbro ha vinto il recente Ferrara Film Festival. Desiderio e violenza nel rapporto tra due donne

di Andrea Musacci

«Ogni cosa e ogni luogo appaiono nella loro veste più vera, ti toccano in qualche modo più da vicino – così come sono: splendore e miseria» 

(Giorgio Agamben, “Quando la casa brucia”) 

Le mani e la bocca. L’eterno contrasto tra l’energia corporale e la forza delle parole. Due forme di relazione che possono tramutarsi in violenza e sopraffazione. Temi ancestrali ma che col diffondersi della pandemia da Covid-19 hanno assunto un significato maggiore: le mani coperte dai guanti o dal gel, la bocca coperta dalla mascherina. La difficoltà o impossibilità di toccare l’altro.

Su questo si gioca la drammatica vicenda narrata nel film “The Grand Bolero”, diretto da Gabriele Fabbro e premiato al recente Ferrara Film Festival con il premio per la miglior attrice (Lidia Vitale) e per la miglior opera d’autore. Film proiettato lo scorso fine settimana al Cinema San Benedetto e che prossimamente arriverà all’UCI Cinemas. Ambientato per gli esterni nel Santuario della Madonna della Pace alla Rocchetta (provincia di Lecco) e per gli interni nella cappella dell’ospedale di Lodi, il film racconta di una restauratrice d’organi, Roxanne (Lidia Vitale), donna di mezza età che, nonostante il lockdown del 2020, decide di proseguire il proprio lavoro, vivendo nella chiesa abbandonata, custodita solo da un sacrestano, Paolo. Ma irromperà una giovane, Lucia (Ludovica Mancini), appena cacciata, assieme al fratello, di casa dal padre, e invitata proprio da Paolo a far da assistente alla dura e cinica Roxanne. Il rifiuto ostile di quest’ultima nei confronti della giovane si tramuterà in attrazione morbosa.

Dall’indifferenza alla rivelazione

Pur nel momento più difficile della pandemia, quello iniziale, la paura di Roxanne del contatto deriva da altro, da una sua incapacità profonda di esprimere sé stessa, di lasciarsi “toccare”. Una mancanza – si capirà – legata a un rapporto difficile con la madre, e che la porta a esagerare l’aspetto verbale, fatto di toni duri e urlati. Ma lei, indifferente alle restrizioni sanitarie, oltre a non indossare la mascherina, impedirà inizialmente alla giovane ogni contatto: con lei, nemmeno nella gioia per un organo che rivive, e con i suoi amati strumenti musicali. «Non toccare il mio organo!», si sente rimproverare più volte Lucia. 

Solo dopo che quest’ultima le avrà dimostrato di poterle essere d’aiuto, l’atteggiamento della donna cambierà. Le mani di Lucia saranno strumento potenziato di comunicazione, di desiderio. Desiderio che si scatenerà in Roxanne, prorompente, cieco. Proprio mentre Lucia suona l’organo, si rivela definitivamente alla donna: quest’ultima la ammira turbata e rapita, ma non vuole mostrarlo. Allora, per la prima volta, per nascondersi indossa la mascherina, quasi a voler celare il proprio desiderio, l’affiorare dell’emozione e del turbamento sul suo volto.

Ma il rivelarsi anche fisico della passione, ben presto si tramuterà in rabbia e violenza.

Il corpo vince

La lotta finale tra le due è, infatti, un intreccio inestricabile di amore e sopraffazione, attrazione e repulsione. Tutto, in quegli istanti, è detto dal corpo – dalla mimica facciale, dalle mani, dall’intera corporeità. Portate all’estremo, forza e dolcezza sembrano annullarsi a vicenda. Ma non è così: come scrive Luce Irigaray (“Elogio del toccare”), e lo possiamo applicare tanto per Roxanne quanto per Lucia, ognuno di noi resta diviso «tra Dioniso e Apollo (…), tra una divinità fedele alla propria naturale energia, ma che non sa come incarnarla e oscilla tra una sua mancanza e un suo eccesso, e un’altra divinità che preferisce confinarsi in un’apparente bellezza, all’interno di una forma ideale», in questo caso musicale. Nel film le parole sono perlopiù rade e fredde. Quelle sincere non possono essere udite dallo spettatore, sono come silenziate dalla distanza, forse a significare la loro mancanza di positività. È il corpo ad avere la meglio. 

Ma nel film emerge anche un altro senso.

Nessuna illusione

Non c’è posto, in questa chiesa sconsacrata ma ugualmente carica di sacralità, mistero e bellezza, per la vita medicalizzata. Lì le passioni sono quelle di sempre: amore, gelosia, violenza, desiderio dell’altro. La carne e il sangue riprendono, dunque, il sopravvento sulla razionalità, sulla volontà di dominare tutto – corpi, spazi, parole. L’unica distanza davvero reale, nel film, è tra mondi diversi, l’estraneo è quello che irrompe e stravolge, senza bisogno di parole, nella solitudine melanconica e sovraterrena di una chiesa abbandonata.

Nel film non si può illudere, e autoilludersi, che “andrà tutto bene”. Ognuno dei protagonisti è solo, e rimarrà solo: solo con i propri mostri, col proprio passato, solo nella lotta tanto contro i propri impulsi quanto contro il desiderio di Altro. Il toccare fisicamente l’altro, pur avvenendo, si rivelerà, dunque, un atto “impossibile”: Roxanne non uscirà forse mai del tutto dallo schema del possesso, e la stessa Lucia rimarrà sola. Sola ma più libera e consapevole.

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 30 settembre 2022

Quel “niente” dei film di Antonioni così pieno di senso

13 Giu
L’avventura (1960)

Al PAC di Ferrara fino al 10 luglio la mostra “La città del silenzio”. Opere di 62 artisti ispirate al regista ferrarese. Un’occasione per ripensare all’essenza della sua poetica al di là di facili banalizzazioni

Quel regista che filmava “il niente”, autore di capolavori che spiazzavano – coi loro silenzi, coi loro vuoti, con quegli spazi morti – le abitudini e le mode di critici e spettatori. 

Questo e molto altro è stato Michelangelo Antonioni, al di là di etichette, di facili e strumentali piegature della sua poetica a icona pop. L’Amministrazione Comunale di Ferrara insieme a Ferrara Arte ha deciso di omaggiarlo in occasione dei 110 anni dalla sua nascita con una mostra collettiva di artiste e artisti ferraresi (oltre 60) – “La città del silenzio. Artisti ferraresi per Antonioni” -, che fino al 10 luglio espongono le loro opere al PAC – Padiglione d’Arte Contemporanea di Ferrara, che prossimamente verrà convertito proprio in Spazio Antonioni. La mostra in un certo senso può essere vista anche come continuo ideale di “Pittori fantastici nella valle del Po” (nel 2020 al PAC) e di “Il sogno di Ferrara” di Mantovani (in mostra al Castello): una sorta di Trilogia del silenzio, per richiamare quella del “silenzio di Dio” di Ingmar Bergman (morto lo stesso giorno di Antonioni, il 30 luglio 2007).

Il legame di Antonioni con le arti è stato indagato, lo ricordiamo, 9 anni fa con la mostra “Lo sguardo di Michelangelo Antonioni e le arti”, esposto da marzo a giugno 2013 a Palazzo dei Diamanti. Per quanto riguarda la pittura citiamo, a mo’ di esempio, i richiami nei suoi film a opere di Rothko e Schifano (per Zabriskie Point, ’70), a quelle di De Chirico e Sironi (nella Trilogia dell’incomunicabilità: L’avventura, La notte, L’eclisse, rispettivamente del ’60, ’61 e ’62). Senza dimenticare le “Montagne incantate” da lui stesso realizzate.

In una lettera a Rothko, Antonioni scrive: «Io e lei facciamo lo stesso mestiere: lei dipinge e io filmo il niente». Lo squallore, la noia, la tristezza della mediocrità degli ambienti e dei paesaggi – urbani e naturali – col regista “diventano” immagine poetica. A lui riesce quel che solo un vero artista può fare: cambiare lo sguardo di chi ammira le sue opere. E quegli occhi nuovi permettono, quindi, di godere, anche nella quotidianità, dei particolari più insignificanti. Di amare – pur nello struggimento e nella malinconia – oggetti, luoghi e ambienti che altrimenti non vedremmo più, incapaci di coglierne l’anima, tediati dalla loro pesante normalità. È questo il servizio che ci fa un artista come Antonioni. Come scrive Enrica Fico nel catalogo: «cercava la luce per ogni inquadratura. Si faceva incantare dal paesaggio, anche da un orribile balconcino grigio sotto la pioggia, pur di creare il contesto esatto, vero per la sua storia».

«Provo il bisogno di esprimere la realtà in termini che non siano affatto realistici», disse Antonioni in un’intervista, a ulteriore dimostrazione di come certo “realismo” in realtà uccida la realtà, banalizzandola. Alain Robbe-Grillet disse: nei film di Antonioni «le immagini non nascondono nulla. Ciò che vediamo è estremamente limpido, eppure il significato dell’immagine è sempre problematico e lo diventa ancora di più man mano che la storia prosegue». Citando Roland Barthes, la poetica di Antonioni privilegia il punctum dell’immagine – cioè quell’indefinibile che coinvolge e turba chi la guarda -, al suo studium – il mero campo di informazioni che l’immagine stessa ci dà. 

In alcuni film del regista, disse qualche critico riferendosi in particolare alla Trilogia, «non succede nulla». Giudizi molto superficiali di chi – esperto o meno, poco importa – si aspetta da un’opera d’arte, o letteraria, solo qualche brivido, qualche sensazione, qualche stimolo fugace che non faccia scivolare nella noia. Cioè, detto altrimenti, che non faccia né sentire né pensare alla propria condizione. Come se fosse mero intrattenimento. 

È invece sopravvalutata – nel cinema come nella letteratura – la trama, il “significato” potremmo anche dire, mentre si dimentica, non ci si accorge quanto i significanti, la cosiddetta “forma” siano essenziali. La forma è contenuto. Annoiarsi, quindi, è segno della nostra incapacità di contemplare, rimanere in silenzio, attendere, indugiare. Bisogna, invece, reimparare a “prendere tempo” e a perdersi nella densità e nella magia dell’immagine artistica. Ne L’avventura, ad esempio, non vi è soluzione del mistero, non c’è consolazione. Ci si “perde” – ed è una grazia – nelle viscere emotive dei personaggi, nei loro dedali esistenziali e psicologici.

L’assenza o la rarità – di parole, di suoni, di azione – non è vuoto, ma presenza non immediatamente percepibile, luogo del possibile. Il cinema di Antonioni ci abitua a vedere il pieno in ciò che ci sembra vuoto, a immergerci, a sentire il più possibile la vita, a ricordarci di fare attenzione ad essa, senza sommergerla di immagini e rumori.

Ancora Barthes scrisse: «Guardare più a lungo del richiesto […] disturba gli ordini stabiliti, quali che siano, nella misura in cui, di solito, il tempo stesso dello sguardo è controllato dalla società». È inquietante pensare alla nostra attualità in cui generazioni crescono coi tempi brevissimi, quindi vuoti (davvero), delle notizie sullo smartphone, delle immagini su Instagram, dei video su Snapchat o TikTok. 

Reimpariamo, invece a indugiare, ad assaporare i vuoti e i silenzi, a contemplare la bellezza. Ci ritroveremo forse più inquieti, meno “soddisfatti”, ma di sicuro più pieni di senso e di verità.

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 17 giugno 2022

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Persona, comunità e cura collettiva del creato: al Ferrara Film Corto Festival dibattito sull’ambiente

14 Giu


Il 10 giugno alla Racchetta di Ferrara, mons. Perego è intervenuto in un confronto col Rabbino Caro e con diversi giovani presenti. Emersa l’importanza di agire subito

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Riflessione biblica e politica, proposte concrete per il nostro territorio e sguardo ampio a livello globale. L’incontro svoltosi la mattina del 10 giugno a Palazzo della Racchetta in via Vaspergolo a Ferrara ha tentato, nelle due ore in cui si è svolto, di abbracciare quanto più possibile la maggior parte degli aspetti e dei livelli riguardanti il tema della cura e della salvaguardia del creato. Protagonisti del confronto, il nostro Arcivescovo mons. Gian Carlo Perego e il Rabbino Capo della Comunità di Ferrara rav Luciano Meir Caro, moderati da Mattia Bricalli, Direttore del Ferrara Film Corto Festival – all’interno del quale si è svolto l’evento – insieme a Eugenio Squarcia (alias Lucien Moreau).

Il concetto di ecologia integrale è stato al centro dell’intervento di mons. Perego: «non bisogna esasperare l’ambiente a danno della persona, nè viceversa: ambiente e persona vanno sempre insieme. Oggi invece c’è una vera e propria dissociazione tra uomo e creato, l’uomo è diventato padrone e non custode della natura. Il modello neoliberista dominante – ha proseguito – non preserva questo rapporto fondamentale». Basti pensare ai casi dell’Amazzonia, del Congo, o a quello dell’Ilva di Taranto, «dove non si è riusciti a coniugare la difesa del lavoro con quella della salute». Al contrario per mons. Perego è sempre più necessario valorizzare i luoghi della comunità, difendere i beni comuni, naturali e non. «A rischio è la vita di tutti, ognuno è responsabile degli altri, dei propri fratelli e sorelle. Vanno dunque cambiate anche le “strutture di peccato”. Per questo è importante la politica, sono centrali le istituzioni e il ruolo della collettività».

E di conseguenza è fondamentale e urgente ripensare la città, l’urbanizzazione, rivalorizzando anche la campagna – con il suo contatto più pieno, diretto, con l’ambiente naturale, con i suoi ritmi più lenti -, attraverso un sistema di servizi e di luoghi di aggregazione che faciliti una ripopolazione. Tema, quest’ultimo, emerso in uno degli interventi dal pubblico, quello di una ragazza, presente in sala insieme a diversi altri suoi coetanei.«Nessuno è un’isola, ma legato agli altri», ha esordito rav Caro per introdurre il tema della responsabilità: «Dio ha dato all’uomo il compito di completare la Sua opera prendendosi cura della creazione, garantendone la sopravvivenza». «Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse» è scritto in Genesi 2,15. Per Caro, inoltre, «preservare il creato per le future generazioni significa anche non intervenire sulle leggi di natura per tentare di modificarle», come a volte purtroppo avviene nell’ambito della bioetica. «Siamo all’anno zero, occorre una rivoluzione», ha riflettuto il Rabbino nella parte conclusiva del dibattito. «Non bastano più le parole. Portiamo concretamente nel presente i principi che Dio ci ha dato. Anche le grandi religioni hanno avuto gravi mancanze in questo ambito».

Alla presenza anche di mons. Perego, subito dopo sono intevenuti la cantante Irene Beltrami e il musicista Matteo Tosi per presentare il loro nuovo album “Anima reale” (di cui con loro abbiamo parlato nel numero dello scorso 23 aprile). Beltrami, lo ricordiamo, è anche la voce solista del brano “Laura canta insieme a noi” dedicato a Laura Vincenzi. Lei stessa ha riflettuto sull’importanza della tutela dei beni comuni – tanto naturali quanto culturali e spirituali -, mentre Tosi ha posto l’accento sull’importanza, nella musica come nella cura dell’ambiente, del concetto di armonia: armonia tra uomo e natura, negli ambienti creati dall’uomo, nella natura.

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 18 giugno 2021

http://www.lavocediferrara.it/

Con lo sguardo proteso oltre Ferrara e il Po

7 Giu

“Antonioni, Bassani, Vancini, Visconti e, affettuosamente, gli altri – Ferrara, il Po e l’Altrove” è il nome del volume di Maria Cristina Nascosi Sandri. Un dono alla nostra terra e all’arte che l’ha omaggiata

Ci sono corpi e sguardi di artisti e letterati talmente e profondamente legati alla terra ferrarese, da non riuscire, quando si parla dei primi, a non parlare anche della seconda.

Questo sa bene Maria Cristina Nascosi Sandri, giornalista, scrittrice, studiosa e ricercatrice di lingue anche dialettali, che l’anno scorso ha scelto di realizzare una piccola antologia dei suoi scritti dal titolo “Antonioni, Bassani, Vancini, Visconti e, affettuosamente, gli altri – Ferrara, il Po e l’Altrove” (Edizioni Cartografica, 2020, ora distribuita da “La Carmelina” di Federico Felloni).

Per chi, come l’autrice, da tanti anni è abituata alla cadenza quotidiana o settimanale dei propri articoli, a volte è necessario mettere dei punti fermi, e consegnare alla comunità tasselli di un lavoro durato anni, di una memoria personale e collettiva insieme.

Così la Nascosi Sandri in questo volume raccoglie testi scritti in circa quattro decenni tra carta e web, con l’aggiunta di alcune sue poesie dedicate al Po e a Ferrara. Sullo sfondo e nel midollo, quell’atmosfera trasognata e antica della città e del Delta, che emerge costantemente nelle pagine del libro. Radici di terra e di acqua da cui non può non nascere, e mai morire, un legame viscerale, materno. Un legame invincibile che accomunava oltre ai quattro citati nel titolo, anche gli altri protagonisti del volume (ma non meno importanti per l’autrice): Fabio Pittorru, scrittore, sceneggiatore, cineasta; Alfredo Pittèri, drammaturgo (non solo dialettale); Lyda Borelli Cini, attrice del Muto, moglie di Vittorio Cini; “Cici” Rossana Spadoni Faggioli, attrice teatrale della “Straferrara”, ed Elisabetta Sgarbi.

Un libro per Ferrara, dunque, un libro-omaggio alla nostra città e al suo territorio attraverso lo sguardo mai banale delle sue figlie e dei suoi figli dediti alla ricerca della bellezza e di quell’altrove citato anche nel titolo, oltre il fiume, la nebbia e i ricordi di una vita.

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” dell’11 giugno 2021

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«Spero Ferrara torni agli antichi fasti. Ma oggi mancano i veri critici»

31 Mag

Parla Paolo Micalizzi, giornalista, critico e storico da oltre 50 anni

Paolo Micalizzi intervista Marcello Mastroianni (1971 – foto Paolo Micalizzi)

Giornalista, critico e storico del cinema, Paolo Micalizzi è un pezzo importante della storia del cinema ferrarese e italiano. Giornalista da quando aveva 20 anni, ha collaborato con diverse riviste di cinema, dagli anni ’60 col nostro Settimanale e dal ’69 col Resto del Carlino ferrarese e nazionale. Tante anche le pubblicazioni, tra cui quelle su “La donna del fiume”, Gianfranco Mingozzi, Florestano Vancini, Antonio Sturla, Carlo Rambaldi e Massimo Sani. Il suo ultimo libro è “Giorgio Ferroni/Calvin Jackson Padget: dai documentari e film di genere ai western spaghetti”. Per la FEDIC (Federazione Italiana dei Cineclub) organizza il Premio FEDIC (dal 1993) e il Forum FEDIC (dal 1995) nell’ambito della Mostra del Cinema di Venezia. Dal 2020 è Direttore artistico, insieme a Gianluca Castellini, di Italia Film Festival di Montecatini. Ha un’esperienza trentennale di Responsabile Relazioni Pubbliche e Ufficio Stampa della Montedison e dal 2015 dirige la rivista on line “Carte di Cinema”.


Da alcuni anni a Ferrara sembra esserci una volontà di risveglio nell’ambito del cinema. Cosa ne pensi? 

«Certo, c’è una volontà di risveglio, ma siamo ancora lontani da quella vitalità che c’era negli anni ’50 con la nascita di nuovi autori nella regia, nella sceneggiatura e nella critica: Vancini, Baruffi, Sani, Ragazzi, Pecora, Pittorru, Felisatti, Rambaldi, Fink, tanto per indicarne alcuni. Quella di Ferrara era una presenza importante anche a livello di Festival e Rassegne cinematografiche, cui io stesso penso – e mi è stato detto – di aver dato un contributo, grazie alla lungimiranza del Sen. Mario Roffi che diede vita al Festival “Il Cinema e la Città”, che determinò la presenza nella nostra città di critici e giornalisti da tutta Italia. Ma grazie anche a un illuminato esercente come Antonio Azzalli (Apollo, Embassy, Alexander, soprattutto) che, con l’aiuto di alcuni giornalisti ferraresi, tra cui il sottoscritto, ha dato vita ad organismi come il FAC (Film Arte e Cultura) di cui ero Presidente e Il “Cinema Scuola”, guidato da Anna Ardizzoni, i quali hanno messo in campo tante iniziative che hanno portato a Ferrara nomi illustri del cinema. Senza dimenticare le iniziative culturali di Gabriele Caveduri al Manzoni e dell’ARCI al Boldini. Io, poi, ho portato avanti la tradizione cinematografica ferrarese organizzando rassegne sul rapporto tra Ferrara e il cinema e sui suoi autori, ma anche Mostre documentarie nella ex Chiesa di S. Romano e nell’attiguo Chiostrino, che registrarono numerosissimi visitatori. Mi auguro che da iniziative come il Ferrara Film Festival, Il Ferrara Film Corto e la Scuola “F. Vancini” nasca quella vitalità che ancora tanta gente di Ferrara ricorda. Tenendo anche presente che l’attuale gestione Salustro-Protti del Cinepark Apollo è molto aperta a dar vita a eventi e iniziative di valore in campo cinematografico».  

Oggi, nell’epoca delle serie tv e del cinema su Netflix, che ruolo ha il critico cinematografico?

«Sul web si assiste a un’inflazione di critici improvvisati che genera confusione di valutazione. Le recensioni non sono supportate da una preparazione che molti di noi hanno acquisito studiando la Storia del Cinema non sui libri ma vedendo le opere che l’hanno sostanziata, andando al cinema non solo nelle sale “commerciali” ma soprattutto in quelle d’essai, formandosi nei Circoli del Cinema e, alcuni, organizzando anche Rassegne. La situazione del critico, quindi, non è per niente rosea. Gli stessi quotidiani danno poco spazio alla critica cinematografica. Una volta, invece, ogni giorno venivano recensite le prime e seconde visioni».   

È una vita, la tua, spesa nel mondo del cinema: quale regista, attore o attrice che hai conosciuto personalmente, ti ha colpito di più? 

«Nei Festival, Convegni o Rassegne da me organizzate, di personaggi famosi ne ho conosciuti tantissimi e ho vissuto con loro momenti interessanti dal punto di vista del mio arricchimento culturale e umano. Mi è rimasta impressa la generosità e la determinazione di Sophia Loren che in occasione di una cena in suo onore all’Hotel Excelsior durante la 59^ Mostra di Venezia, alla quale ero stato invitato, alla richiesta mia e di una signora di avere un suo autografo (lo faccio da anni con personaggi del cinema importanti e ne ho un centinaio) rispose con un sorriso e invitò le sue guardie del corpo, rimaste un po’ sbalordite, a farci avvicinare a lei: un gesto molto apprezzato. Ma potrei ricordare anche la simpatia di persone come Michelangelo Antonioni, Florestano Vancini, Giuliano Montaldo, Sergio Leone, Silvana Pampanini, Sandra Milo, Jeanne Moreau e Ciccio Ingrassia».


Progetti per il futuro?

«Continuare a tenere viva con articoli, libri e iniziative che intendiamo attuare come Cineclub Fedic Ferrara – di cui sono Presidente onorario – la tradizione di Ferrara e il cinema di cui mi occupo sin dalla fine degli anni ’60 e che hanno avuto un momento importante con la pubblicazione nel 1981 sulla Rivista “La Pianura” di due “Guide” dal titolo “Ferrara: Ciak su un territorio”, prima che al cinema ferrarese ed ai suoi autori dedicassi una 15ina di libri». 

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 4 giugno 2021

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E all’alba, ecco la nostra rinascita: “Passio Christi” al Teatro Comunale

6 Apr
Vito Lopriore – (C) Marco Caselli Nirmal

L’opera di Michele Placido con la “Passione” di Mario Luzi presentata il Venerdì Santo: i tormenti della condizione umana e la Liberazione in Cristo

di Andrea Musacci

L’affanno di chi ha paura, il rantolo dell’angoscia, di chi è solo e senza luce. Di chi, disarmato, vive la lontananza, l’apparente insanabilità dello smarrimento. Dove ogni dire e udire è vano, ogni sguardo è nemico, dove il male ha le sembianze dell’irreparabile.
Oltre 20 anni fa il poeta Mario Luzi, invitato da Giovanni Paolo II a scrivere i testi per la Via Crucis al Colosseo, seppe, come pochi, dare parola a questo tremendo umanissimo non comprendere. Per questo, la scelta di alcuni di quei versi per lo spettacolo “Passio Christi”, non può non commuovere. Il progetto tra cinema e teatro andato in onda la sera di Venerdì Santo sul canale You Tube del Teatro Comunale di Ferrara (e disponibile fino al 12 aprile), è stato ideato dal Presidente dell’“Abbado” Michele Placido su testi, oltre che di Luzi, di Dario Fo e Franca Rame (“Maria alla croce”), coi Salmi recitati da Moni Ovadia e lo Stabat Mater interpretato in dialetto trentino da Daniela Scarlatti. In scena, anche lo stesso Placido, Sara Alzetta e Vito Lopriore nei panni del Cristo. Fra i luoghi della nostra città scelti, la chiesa di San Giuliano e il Cimitero ebraico. Magistrale il Coro dell’Accademia dello Spirito Santo diretto da Francesco Pinamonti.

La stanchezza, dicevamo, quel respiro affannoso che «inciampava nei denti» (1). E, insieme, la violenza della derisione, lo scherno impietoso che anticipa la brutalità sulla carne. «Dubito talora – prega al Padre il Cristo di Luzi – / che questa sofferenza non ti arrivi / poi subito di questo mi ravvedo / perché so la tua misericordia». Ma la notte è buia, i minuti non scorrono ma incombono: «Io dal fondo del tempo ti dico: la tristezza / del tempo è forte nell’uomo, invincibile». E quegli anfratti sono, nella “Passio” di Placido, le budella nascoste del teatro ferrarese, dove gli umori e i tormenti urlano per affiorare, per rivivere in questa stagione di non-presenza, di chiusura e lontananze. E questa mancanza, questa privazione il regista sceglie di mostrarla, per renderle giustizia. È il “retroscena” col suo travaglio a un tempo manuale e intellettuale, del legno e del pensiero, in una zona ambigua dove finzione e realtà sovrapponendosi sanno di incertezza.

Negli interstizi dietro, sopra e oltre la scena, dunque, al di là dell’apparire – vero o falso che sia – il dialogo è con Dio, sempre, è la confidenza del Figlio col Padre, è la preghiera che si apre all’eterno. Dai sottofondi, la vertigine: «quanto è lontana da te l’angoscia che mi opprime»; e ancora Luzi: «Anche la morte pare eterna, è duro convincerli, gli umani, / che non ci sono due eternità contrarie, / il tutto è compreso in una sola e tu sei in ogni parte / anche dove pare che tu manchi». Anche in quell’ossatura di legno e polvere, dove una debole luce filtra, sul palco dell’umano dimenarsi dove le tuniche, come detto, possono essere inganno o domanda perpetua, lì, nel fastidio e nel dubbio, «Tu entri» «e lo disbrogli / pure così lontano come sei nella tua eternità / da questi nodi delle esistenze temporali».

E nei viluppi entra anche il femminile, portando cura e visione, rivelandosi nel viso contratto di Maria, sulle labbra il lamento, ancora l’affanno della via che porta alla croce. Lungo la strada – di nuovo – la scelta, fino al sepolcro, è di affiancare, coi loro corpi, alcuni morti ammazzati del nostro tempo: da Pier Paolo Pasolini a Stefano Cucchi, da George Floyd ai bambini vittime delle guerre. Volti morti o sofferenti privi di luce, come nel tremendo silenzio del sabato. Ma Lui «non è qui», e allora perché Lo cerchiamo tra ciò che non può essere all’altezza di tutto il nostro dolore? Perché, invece, nello smarrimento non tentare di riconoscerLo mentre ci accompagna, quando nel buio ci affianca? Perché anche lungo la via che Tu hai tracciato, che Tu sei, è «difficile tenersi». Ma «Tu solo» davvero sai il Mistero. 

«Ora sì, o Redentore», «invochiamo il tuo soccorso, tu, guida e presidio, non ce lo negare».  Ora e sempre, ora e ogni giorno. Adesso possiamo chiederglieLo, sappiamo di poterglieLo chiedere perché crediamo nella Sua Resurrezione, perché – sempre tentati dal non sperare – ancora una volta speriamo. Nell’affanno, «con amore ti chiediamo amore». Un amore che libera, che fa uscire, un amore «infinitamente più grande».

La resurrezione è, nella “Passio”, proprio un’uscita, una fuga, una lode, ancora e sempre, una perenne preghiera sulle labbra, in canto o in prosa, nel giubilo o nel dolore. Si ricongiunge il cammino, ritorna su quei passi iniziali, gli stessi ma incredibilmente diversi: nell’esordio della “Passio” vi era, infatti, Placido pellegrino inquieto fra le vie del centro di Ferrara. Un sobbalzo nel petto, poi gli spari improvvisi come un lampo di luce, e invece era notte, una lunga notte, quella dei corpi riversi ai piedi del Castello, quella tremenda notte nel novembre del ’43. Ma non dormono, no, sono morti, giacciono ma rivivranno. E allora «di mattino, quando era ancora buio» (2), in un’alba grigia e vuota, è l’ora della Liberazione, della Rinascita, è il tempo della pienezza, anche per noi, per chi, come gli apostoli, non aveva «ancora compreso» (3). 


*********
(dove non indicato, le citazioni sono tratte da “La Passione. Via Crucis al Colosseo” di Mario Luzi, 1999)


(1) F. Guccini, “Venezia”.

(2) Gv 20, 1.

(3) Gv 20, 9.

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 9 aprile 2021

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L’enigma delle parole in una mostra ispirata a Michelangelo Antonioni

22 Giu

Nella Factory Grisù di Ferrara è visitabile la mostra “…E allora ridi” di Elisa Leonini e Sara Dell’Onze. Le due artiste riflettono su memoria e incomunicabilità, in “dialogo” col regista ferrarese. È una delle primissime mostre inaugurate a Ferrara dopo il lockdown

Per comunicato stampa“Dato che non voglio sentirmi triste… a volte rido, senza motivo”. “Allora ridi!”. Da queste battute di un dialogo tra Cloe e Christopher nell’episodio “Il filo pericoloso delle cose” (parte del film collettivo “Eros”), prende spunto il titolo dell’esposizione di Elisa Leonini e Sara Dell’Onze “…E allora ridi”, inaugurata sabato 20 giugno nella Green Lobby di Factory Grisù a Ferrara. Quella in via Poledrelli è in assoluto una delle prime in città dopo la fine del lockdown. Un “primato” quasi dovuto dato che avrebbe dovuto inaugurare il 29 febbraio scorso, se il timore – fondato – dell’imminente chiusura degli spazi pubblici non avesse convinto artiste e organizzatori a rimandare. Si tratta di un’installazione site specific realizzata a quattro mani, in parte già presentata nell’autunno del 2012 al Torrione, sede del Jazz Club, per il centenario della nascita del regista ferrarese. Allora il progetto espositivo si intitolava “A volte rido lo spazio di una notte”, mentre la mostra di Grisù, che vede l’aggiunta di alcune opere inedite, sembra appunto una risposta al titolo precedente. E così, in parte, è. Infatti, le opere esposte – sia su carta sia stampe su legno o su tessuto, oltre a un video – riprendono fotogrammi e brani delle sceneggiature di quattro pellicole del Maestro: “La notte”, “Deserto Rosso”, “Il grido” e “Il filo pericoloso delle cose”. Se la tristezza nelle opere di Michelangelo Antonioni assume spesso la forma di una malinconia dolce, di uno struggimento sordo, di un passato che riecheggia nelle parole e sui volti dei personaggi, allora è volutamente coraggioso ed enigmatico il tentativo delle due artiste di riflettere sul tema dell’incomunicabilità – così caro ad Antonioni –, scomponendo e ricomponendo brani dei dialoghi, frammenti visivi, proponendo nuovi significati e invitando il visitatore a fare altrettanto. “È una mostra importante – ci spiega Leonini -, anche per dare un segnale di ripartenza alla città, a Grisù e all’arte stessa, così penalizzata da questa emergenza ”. La scelta della Factory Grisù, tra l’altro, dipende anche dal fatto che, fra le varie attività, ospita la Scuola d’Arte Cinematografica “Florestano Vancini”. “Per questo – prosegue Leonini – volevamo dare un valore aggiunto agli allievi della Scuola, proponendo loro una visione ampliata, e differente, sul mondo del cinema”. La mostra dovrebbe rimanere a Grisù fino alla fine dell’anno o perlomeno fino a settembre – ottobre, per organizzare eventuali visite guidate per le scuole.

Andrea Musacci

Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 26 giugno 2020

La Voce di Ferrara-Comacchio

“Ho fatto solo ciò che era giusto”: il film su don Giovanni Minzoni

15 Ott

Gli ultimi anni della vita del parroco di Argenta – ucciso dai fascisti di Balbo dopo il rifiuto di piegarsi al regime – raccontati nella pellicola di Marco Cassini, con Stefano Muroni protagonista. Alla prima nazionale a Ferrara, circa 600 i presenti al Cinema Apollo

di Andrea Musacci

don minzoni 1A Ferrara c’è una via centralissima a lui intitolata, fra il retro di una nota catena di fast food e il Museo della Cattedrale, fra corso porta Reno e San Romano, attraversando la Galleria Matteotti. Si poteva fare di più, qualcuno potrebbe pensare, ma vedendo come ciclicamente si torni a parlare dell’intitolazione a Italo Balbo, capo dello squadrismo padano, di vie o fantomatiche sezioni di musei, forse è meglio ritenersi soddisfatti. Soddisfatti e sempre vigili, perché a qualcuno non venga in mente nemmeno di fare di don Giovanni Minzoni un “inutile” santino, indebolendone la fortissima testimonianza, cristiana e civile, fino al martirio, in difesa della libertà delle donne e degli uomini. Di sicuro, il film dedicato agli ultimi anni della sua esistenza, “Oltre la bufera”, proiettato in anteprima nazionale al Cinema Apollo di Ferrara, aiuta la propria coscienza a rimanere ben desta (nella foto in alto, un fotogramma del film con a sinistra il fascista Augusto Maran e don Giovanni Minzoni). L’opera si presenta come una lunga sequela di immagini e parole che mozzano il fiato per l’alto livello di tensione che comunicano. La sera del 10 ottobre scorso, i gestori dello storico cinema di piazza Carbone sono stati obbligati a proiettare contemporanemante in Sala 1 (520 posti) e in Sala 4 (90 posti) la pellicola scritta e diretta da Marco Cassini (e prodotta da “Controluce”), per permettere ai tantissimi presenti di poterla ammirare. Un film fra l’altro decisamente ferrarese, a partire dall’interprete del sacerdote, l’attore Stefano Muroni, e dai luoghi dov’è stato girato dal 3 al 28 aprile 2018: Ferrara (negli interni di Palazzo Crema), Mesola (in diversi luoghi fra cui Piazza Umberto I° e il Consorzio di Bonifica), Ostellato (pieve di San Vito), San Bartolomeo in Bosco (al Centro di Documentazione del MAF – Mondo Agricolo Ferrarese) e Portomaggiore (nel Teatro Concordia). “Ho fatto solo ciò che era giusto”: è questa la prima battuta pronunciata nel film da Muroni alias don Minzoni. Il riferimento è al suo servizio come cappellano militare nel primo conflitto mondiale, ma la frase profetizza in modo sconvolgente quella che sarà la sua fine. Una lotta sempre combattuta a testa alta ma non scevra di delusioni e amarezze, come quelle provocate dal mancato appoggio da parte delle gerarchie ecclesiastiche: “mi stanno lasciando solo”, si sfogherà il sacerdote, ripetutamente ammonito dall’allora Vescovo ravennate Antonio Lega che nella pellicola spiega a un proprio collaboratore: “il fascismo si sta imponendo e noi dobbiamo adeguarci”.

Ma chi era don Minzoni?

Nato a Ravenna il 1° luglio 1885, una volta ordinato sacerdote viene destinato ad Argenta, dove fin da subito dimostra solidarietà ai tanti e poveri braccianti agricoli. Cappellano militare volontario nella prima guerra mondiale, decorato di medaglia d’argento, al termine del conflitto torna ad Argenta divenendo parroco. Promuove la costituzione di cooperative sia di braccianti sia di operaie del laboratorio di maglieria, caso quest’ultimo, di una cooperativa femminile, rivoluzionaria per il mondo cattolico dell’epoca, in quanto strumento di emancipazione e di autonomia per le donne tramite il lavoro. In ambito educativo dà vita al doposcuola, al teatro parrocchiale, alla biblioteca circolante, a circoli maschili e femminili. Ma la libertà e l’amore resi carne e sangue da un testimone di Cristo sono considerati “eretici” dall’asfissiante e ottusa ideologia fascista: don Minzoni si oppone alle violenze delle “squadracce”, sostenute dai proprietari terrieri e capeggiate da Italo Balbo, ostili alle più elementari rivendicazioni salariali dei lavoratori agricoli. Nel 1923 sono proprio loro a uccidere il sindacalista socialista Natale Gaiba, amico del parroco argentano. Parroco che nel 1923 rende esplicita la propria adesione al Partito Popolare Italiano, divenendo ancor più punto di riferimento degli antifascisti di Argenta, ma, più in generale, esempio civile per l’intero paese (“chi mi conosce sa che il mio amore è per tutti”, sono sue parole), grazie anche all’idea di fondare un gruppo scout in parrocchia, scelta considerata “sovversiva” dalle belve in camicia nera, trattenute ma in realtà sempre difese da Balbo. Ma alla violenza endemica degli squadristi, dirà don Minzoni, “rispondiamo con una sola arma: il nostro cuore”. La sera del 23 agosto 1923, intorno alle 22:30, mentre stava rientrando in canonica in compagnia del giovane parrocchiano Enrico Bondanelli, don Minzoni è vittima di un agguato teso da due squadristi di Casumaro, Giorgio Molinari e Vittore Casoni, facenti capo proprio a Balbo, responsabile morale dell’assassinio. Poco prima della morte, don Minzoni scrive: “a cuore aperto, con la preghiera che mai si spegnerà sul mio labbro per i miei persecutori, attendo la bufera, la persecuzione, forse la morte per il trionfo delle causa di Cristo”. I responsabili materiali verranno condannati solo nel 1947 per omicidio preterintenzionale, ma gli imputati superstiti saranno scarcerati in seguito all’amnistia. Il film è, come detto, percorso da una profonda tensione etica, in lotta costante contro le tentazioni del male – della violenza, della resa all’odio e al potere -, tensione che è nettamente dominante nei volti e nei corpi, più che nei luoghi radi, asfittici, mai messi a fuoco né “esplorati” dall’occhio del regista. Dall’inizio nel quale in modo deciso è ribadita la volontà di fare il bene, nonostante tutto, la pellicola si conclude col passaggio del testimone a quei giovani che tanto ha amato e cercato di tutelare: “i nostri figli dovranno illuminare questa terra”, dirà don Minzoni, frase che richiama il passo evangelico di Matteo: “Voi siete la luce del mondo […]. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli” (Mt 5, 14-16).

cast alla fineEmozione per la presentazione a Ferrara

Alla fine della proiezione a Ferrara, sul palco, oltre al regista, a Muroni e a Valeria Luzi della casa di produzione, sono saliti diversi attori e altri protagonisti di questo progetto artistico. “Prima che un antifascista, don Minzoni era un educatore”, ha spiegato Muroni. “Siamo qui per lui, per fare memoria”. “Don Minzoni ha saputo dire ‘no’ in un momento molto difficile”, sono state invece le parole del regista Cassini. “La sua storia la sentivo profondamente, per questo ho voluto fare il film”. Film che non ha avuto vita facile, non riuscendo all’inizio a reperire i finanziamenti necessari, poi arrivati grazie anche a un finanziamento collettivo. Un coinvolgimento “popolare” vi è stato anche durante la preparazione e le riprese, tanto che lo stesso Muroni lo ha definito “un film del territorio”. E a proposito di territorio, dopo la proiezione, dal pubblico è intervenuto anche il parroco di Argenta, don Fulvio Bresciani, “successore di don Minzoni”: “il vostro merito più grande è quello di aver mostrato i suoi veri valori. Il suo ‘no’ al fascismo è stato un ‘sì’ a Dio”.

Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 18 ottobre 2019

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La Voce di Ferrara-Comacchio