Archivio | settembre, 2021

«Condividete il pane materiale e quello Eucaristico». La Lettera di mons. Mosconi del ’71

27 Set
Cena in Emmaus, Caravaggio, 1606, Pinacoteca di Brera (Milano)

All’inizio dell’ultima Lettera (“L’Eucaristia, sacramento del dono”), mons. Perego cita “La Sacra Eucarestia e i nostri problemi”, Lettera pastorale del ’71 (8° centenario del Miracolo di S. Maria in Vado) del Vescovo di Ferrara mons. Natale Mosconi.

Nella seconda parte, mons. Mosconi analizza i problemi della società moderna e della Chiesa, di cui l’Eucarestia rimane l’«unica soluzione»: «Gesù è la risposta» ai «problemi di vita, di pane e di vestito, di lavoro e di assistenza, di infermità e di sofferenza, di giustizia e di colpa; di aspirazioni senza fine e di miseria e di morte». «Non li abolisce, non li cancella: li risolve».

«E penso – prosegue – a uno dei più tremendi problemi morali dell’uomo: la solitudine, che può decidere fatalmente e tragicamente, e che dalla Realtà Eucaristica è superata, eliminata. Abbandonato dagli uomini, respinto o dimenticato o comunque rimasto solo, il cristiano trova sempre nel Cristo Vivente nell’Eucaristia il compagno della sua vita, Colui che non lo lascia mai solo, il fratello sempre a lui vicino che risponde a ogni sua domanda e accoglie ogni sua invocazione».

Mons. Mosconi passa poi ai problemi della famiglia e a quelli nella Chiesa: anche «l’accostamento dei lontani e l’incontro con i non credenti sia del mondo del lavoro sia del mondo intellettuale e filosofico e scientifico-tecnico, non può escludere questa via, perché è la via di Cristo». Riguardo ai problemi a livello mondiale, «il rinnovamento della liturgia nella sua accentuazione comunitaria», dev’essere «concreto e portare il cristiano a (…) precisi impegni». Perché, spiega, «non ci sarà mai pace che nell’affermazione attuosa della carità, né affermazione attuosa della carità nel mondo senza la Sacra Eucaristia, la fonte della carità», «Mensa di pace». «Invito a dividere con i fratelli il pane materiale allo stesso modo che condividiamo il Pane Eucaristico».

La Lettera si conclude con ventuno «Avvertimenti», l’ultimo dei quali è “profetico”: «Abbiamo (…) comunità care al Signore prive della permanente presenza sacerdotale. Stiamo diventando “terra di missione”?», si chiede. L’appello è quindi rivolto «al generoso cuore apostolico dei carissimi sacerdoti» e ai «candidati al sacerdozio» per «un impegno “missionario”».

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 1° ottobre 2021

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Cura e prossimità per uscire dalla crisi

21 Set
(Foto Pino Cosentino)

Quasi 300 persone il 17 settembre hanno partecipato al Convegno “Pandemia: sfide per l’etica della salute e dell’imprenditoria nel territorio ferrarese”, organizzato dalla nostra Arcidiocesi e dall’UCID Ferrara. Sono intervenuti Stefano Bonaccini (Presidente Emilia-Romagna), il card. Matteo Zuppi (Arcivescovo di Bologna) e Andrea Crisanti (Università di Padova). Conclusioni affidate a mons. Gian Carlo Perego

A cura di Andrea Musacci


Una rete di prossimità, un intarsio di servizi, saperi e professionalità necessarie per imparare la lezione fondamentale della pandemia: uscirne migliori di come c’eravamo entrati.

Sono queste le riflessioni emerse da ognuno dei relatori intervenuti la sera dello scorso 17 settembre in occasione del Convegno intitolato “Pandemia: sfide per l’etica della salute e dell’imprenditoria nel territorio ferrarese”, moderato dal Presidente UCID Ferrara Antonio Frascerra. L’incontro tenutosi al Teatro Comunale di Ferrara alla presenza di circa 290 persone, è stato organizzato dagli Uffici diocesani Pastorale della Salute e Pastorale Sociale, Lavoro, Giustizia, Pace e Salvaguardia del Creato, dalla Sezione UCID di Ferrara, con il patrocinio della Fondazione “Dott. Carlo Fornasini” e di BPER.

Presenti diverse autorità, fra cui il Prefetto Michele Campanaro e l’Assessore Regionale Paolo Calvano, oltre all’Assessore Marco Gulinelli, intervenuto per un breve saluto iniziale e presente al posto del Sindaco a rappresentare l’Amministrazione comunale. Ricordiamo che il convegno è il primo dei tre previsti sul tema “Salute e territorio”. Il secondo è in programma tra febbraio e marzo 2022 e avrà come titolo “Sanità e imprese: un dialogo necessario nella sostenibilità”, mentre il terzo e ultimo è previsto per ottobre-novembre 2022 e verterà sul tema “Sanità: per una valida risposta sociale”.


«Fraternità e speranza per i beni comuni»: Mons. Gian Carlo Perego
Soprattutto in un periodo complesso come l’attuale, «è importante avere visioni condivise, atteggiamenti e risposte responsabili da parte di tutta la comunità», ha riflettuto il Vescovo nel suo intervento conclusivo. Citando La Pira, mons. Perego ha ribadito come vadano difesi i beni comuni – «il tempio, la casa, la scuola, l’officina e l’ospedale, contro le tre pestilenze della violenza, della solitudine e della corruzione». Per il Vescovo va superata la «visione corporativistica e protezionistica», sviluppando «un nuovo modello di cura», innovativo e di prossimità (a tal proposito ha elogiato in particolare il ruolo fondamentale delle badanti), non dimenticando «la cura di tutti i beni comuni» del territorio – a partire dalla nostra Cattedrale, «da troppo tempo chiusa». «Fraternità e speranza», «condivisione verso obiettivi comuni»: questo serve al nostro territorio per non sprecare la lezione della pandemia.

«La casa dev’essere luogo di cura»: Card. Matteo Zuppi 
«La pandemia ci ha dato lezioni severissime: sarebbe un peccato non ascoltarle». Non ha usato giri di parole il card. Zuppi, che ha scelto di partire da alcune gravi conseguenze dell’attuale emergenza sanitaria, come «l’aumento del disagio psichico e i tanti casi di solitudine e abbandono. Il diritto alla salute è anche il diritto a vivere una rete di relazioni: da soli, la fragilità diventa terribile. Serve una rete di prossimità per l’“emergenza ordinaria”» che vivono tutti i soggetti deboli, ha proseguito.Partendo dalla Dottrina Sociale della Chiesa, il card. Zuppi ha poi riflettuto su come «la speculazione non mette mai al centro la persona, è il contrario della stessa opportunità imprenditoriale, è senza volto e non considera i volti delle persone». Il diritto alla salute, invece, «dev’essere garantito a tutti, anche se non “conviene”». La persona per la Chiesa «“conviene” sempre, anche quando è debole, fragile», come nel caso degli anziani o nelle fasi terminali della vita. Se, invece, queste questioni vengono lette da un punto di vista economico, «si perde la centralità della persona e la situazione diventa davvero grave». Il card. Zuppi ha poi posto l’accento sugli anziani, in particolare proponendo l’assistenza domiciliare come pratica virtuosa da incentivare fortemente: «la casa deve diventare un luogo di cura».


«Più sorveglianza e tracciamenti»: Andrea Crisanti 
Distanziamento sociale, sorveglianza/tracciamento, vaccini sono ancora, per Crisanti, i tre strumenti fondamentali per controllare la pandemia. Riguardo al primo, nonostante abbia «un costo economico devastante e non serva, da solo, a controllare o eliminare la pandemia», è fondamentale perché «permette di prendere tempo per sviluppare gli altri due». Riguardo alla sorveglianza e al tracciamento, «a differenza di altri Paesi, in Italia le facciamo in modo inadeguato: con l’Ausl di Ferrara stiamo lavorando a un sistema più efficace».
Il capitolo vaccini e Green pass: riguardo a quest’ultimo, pur essendo «uno strumento molto importante per incentivare a vaccinarsi», Crisanti ha sottolineato che «non dev’essere presentato come uno strumento di sanità pubblica, in quanto di per sé non può creare ambienti totalmente sicuri dai contagi». Sui vaccini, oltre a ribadire la necessità di una terza dose, Crisanti ha messo in guardia dal «non sottovalutare la possibilità che arrivi una variante resistente al vaccino».

Dalla pandemia si esce, quindi, «non sperando che il virus diventi più “buono”» ma continuando con Green Pass e vaccini e «sperando che i futuri vaccini siano più efficaci, più duraturi e vengano distribuiti anche ai Paesi più poveri».


Sanità, clima e digitale, le proposte della Regione: Stefano Bonaccini 
«Oggi iniziamo a vedere la luce in fondo al tunnel. In Emilia-Romagna sono 3milioni e 100mila le persone sopra i 12 anni vaccinate. Entro fine ottobre contiamo di avvicinarci al 90% dei vaccinati».

È partito dai dati, Bonaccini, da quei numeri che fotografano un presente positivo inducendo così all’ottimismo. «La nostra Regione può diventare la locomotiva d’Italia: qui la ripartenza potrà avvenire prima e meglio che altrove. I numeri dell’export e le previsioni di crescita sono più che positive», merito anche, ci tiene a dirlo il Presidente, «dei tanti bravissimi imprenditori del nostro territorio». Il fondamentale contributo dei privati alla crescita non deve, però, far venire meno l’intervento del pubblico – Stato e Regione – «per difendere due diritti fondamentali, come quello all’istruzione e quello alla salute». Su quest’ultimo, «investiremo ancora di più, anche grazie ai finanziamenti del PNRR, puntando su una nuova generazione di professionisti». Oltre alla costruzione di nuovi ospedali («nel piacentino nascerà uno dei primi post Covid»), l’idea è «di irrobustire maggiormente la sanità territoriale, a partire dalle Case della Salute – già 120 in Regione, destinate ad aumentare -, il pilastro della sanità del futuro» e puntando molto sull’«assistenza domiciliare».

Venendo al territorio ferrarese, Bonaccini ha sottolineato l’importanza di «una sanità territoriale più forte e radicata soprattutto nel Basso ferrarese». Più in generale, la nostra provincia, pur crescendo più lentamente rispetto alle altre province della Regione, «nei prossimi mesi avrà uno sviluppo deciso, recuperando lo svantaggio accumulato per ritardi storici». Il completamento della Cispadana e sopratutto il Patto per Ferrara sono per Bonaccini due importanti progetti per rilanciare il nostro territorio.In conclusione, il Presidente ha voluto affrontare due problematicità. La prima, la crisi demografica: «negli ultimi decenni le politiche per la famiglia sono state deboli, anche per responsabilità della mia parte politica, la sinistra. Abbiamo in cantiere diverse proposte per aiutare le famiglie numerose, gli studenti e i pendolari». La seconda seria questione riguarda l’emergenza climatica e digitale: «la transizione ecologica e lo sviluppo digitale possono rappresentare grandi opportunità di lavoro, un lavoro che sia di qualità e non precario».

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 24 settembre 2021

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Mons. Giulio Zerbini figura attenta e sensibile

13 Set

Nel ventennale del ritorno alla Casa del Padre di mons. Giulio Zerbini (1925-2001), un incontro pubblico e un volume ricordano il sacerdote ferrarese

Mons. Giulio Zerbini

“Nella scia di un prete del secolo scorso” è il nome dell’appuntamento pubblico in programma in Biblioteca Ariostea il prossimo 23 settembre. Interverranno Alberto Andreoli, mons. Massimo Manservigi, don Enrico Peverada e don Andrea Zerbini. Quest’ultimo ha curato l’ultimo Quaderno del CEDOC dedicato al sacerdote

Riguardo al primo, si intitola “Nella scia di un prete del secolo scorso: mons. Giulio Zerbini (1925-2001)” l’appuntamento in programma giovedì 23 settembre alle ore 17 nella Sala Agnelli della Biblioteca Ariostea di Ferrara (via delle Scienze, 17). Interverranno Alberto Andreoli (Docente e ricercatore storico), mons. Massimo Manservigi (Vicario generale Arcidiocesi di Ferrara-Comacchio), don Enrico Peverada (Presidente del Centro Italiano di Studi Pomposiani) e don Andrea Zerbini (Presidente dell’Unità Pastorale Borgovado e nipote di mons. Giulio Zerbini).

Andreoli – promotore dell’evento e curatore nel 2002 de “I Buoni studi. Miscellanea in memoria di Mons. Giulio Zerbini”, 27° volume di “Analecta Pomposiana” – farà un breve intervento concentrandosi sugli interessi culturali ferraresi di mons. Zerbini. Gli abbiamo chiesto cos’ha rappresentato per lui il rapporto col sacerdote: «non sarei la persona che sono, non avrei percorso l’itinerario che ho percorso negli ultimi 50 anni, se non lo avessi incontrato. È stato un precettore e un amico. Da qui, il mio personale e forte interessamento affinché la sua figura sia ricordata. Una personalità, prosegue Andreoli, «molto importante non solo per me ma per tantissime persone, dentro e fuori la Chiesa. La vis polemica che emergeva nei suoi articoli su “La Voce” – conclude -, nel tempo è diventata la capacità di porsi come interlocutore attento agli equilibri e alle sensibilità dell’intera cittadinanza, imponendosi come figura sensibile ed esperta per credenti e non». Mentre mons. Manservigi e don Peverada proporranno un ricordo personale, don Andrea Zerbini presenterà la raccolta di scritti di suo zio, pubblicata un mese fa come ultimo quaderno del CEDOC SFR (Centro Documentazione Santa Francesca Romana). Il volume si intitola “Affectus Communionis, un servizio alla comunione ecclesiale”, ed è a cura di Dario Micheletti e dello stesso don Andrea Zerbini. È possibile leggerlo e scaricarlo gratuitamente a questo link: http://santafrancesca.altervista.org/materiali/quad45.pdf Il testo, oltre a un’articolata introduzione di don Zerbini (di cui qui sotto pubblichiamo un estratto), ai testi e agli interventi dello zio (molti dei quali usciti su “La Voce”), contiene anche alcuni ricordi scritti negli anni da Carlo Pagnoni, don Franco Patruno e Gian Pietro Zerbini. 

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 17 settembre 2021

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11 settembre 2001: cos’è rimasto vent’anni dopo?

6 Set

Il crollo delle Twin Towers, l’attacco al Pentagono, l’aereo dei passeggeri eroi. Meditazioni su un colpevole oblio

di Andrea Musacci

L’11 settembre di 20 anni fa non è successo niente. Cerco nelle librerie della città e su internet eventuali recenti pubblicazioni sul tema. Nulla. Evidentemente non è accaduto niente, o ciò che è accaduto non era così rilevante da dedicarvi, nel ventennale, pubblicazioni, riflessioni, approfondimenti. Forse, il prossimo 11 settembre, o nei giorni immediatamente prima, sarà trasmesso un qualche speciale in TV, qualche articolo uscirà su riviste e quotidiani. Vi saranno giusto due parole fugaci, il 12 settembre già vecchie, già fuori luogo.E perlopiù saranno legate alla – non meno tragica e importante – questione afghana, quindi all’attualità. A ciò che è “fresco” (in realtà anch’esso già consumato, quindi nuovamente poco o per nulla interessante per i più). Due decadi sono un’eternità per una società come la nostra, la società di Snapchat, il social network dove messaggi, foto e brevi video vengono cancellati automaticamente al termine della visualizzazione da parte del destinatario. 


1. Il trauma dell’11 settembre è stato rimosso.
Nell’epoca del comfort, bisogna rimuovere il terrore di essere spazzati via da un momento all’altro, di bruciare vivi su una torre alta oltre 400 metri, di essere obbligati a gettarsi nel vuoto da altezze vertiginose. Nulla deve più turbarci. Gli stessi ciclici attacchi terroristici nelle città occidentali quasi non fanno più notizia (basti pensare al recente attentato islamista in un supermercato di Auckland, in Nuova Zelanda). 


2. La violenza non ha più parole per essere detta. Quella violenza inattesa, cieca e furiosa degli attentatori islamisti dell’11 settembre, quella collera cosciente e diretta non sappiamo più nominarla con coraggio. È scomparsa. In un’epoca «post-narrativa» qual è la nostra – come la definisce il filosofo Byung-Chul Han -, più in generale la violenza è bandita dal nostro immaginario, dai nostri discorsi, o al massimo relegata all’ambito psichico, medico, giudiziario. E con essa il dolore, la morte. Insomma, il limite.


3. Il perturbante. In tedesco heimlich è ciò che è familiare ma “tenuto nascosto”, rimosso. Al contrario, unheimlich è lo svelamento del rimosso, il perturbante, il traumatico, ciò che disturba. Gli attentatori dell’11 settembre 2001, pur non residenti negli USA, da diversi mesi vi soggiornavano, nascosti, “camuffati” nelle loro reali intenzioni. La loro emersione, l’affiorare del loro desiderio di morte ha rotto, in maniera inaudita e incontrollabile, la stabilità delle nostre esistenze.


4. Far diventare famigliare ciò che non lo è. Nel romanzo di Don DeLillo, L’uomo che cade (Falling Man), il piccolo Justin – figlio dei due protagonisti – e due suoi amici di giochi chiamano “Bill Lawton” colui che hanno sentito nominare ai telegiornali come “Bin Laden”. La pronuncia simile ha fatto mal intendere ai bambini il nome del terrorista, oppure si tratta di un inconscio bisogno di riportare alla normalità, traslando in un rassicurante inglese, l’estraneo e incomprensibile nome arabo? 


5. Nel regno dell’immagine, del mediatico, del virtuale, il corpo tornò centrale. Tanto quello distruttore quanto quello inerme da distruggere (insieme alla maestosa impotenza della torre, luogo fisico sfacciato nella propria grandezza) si riprese la scena. Quasi a dire che vi è qualcosa che resiste al dominio del digitale, dell’istantaneo, del rimovibile. 


6. Il dolore e la passione sono sempre di carne e sangue, prossime. Hanno odore e consistenza, pregnanza, e sono possibili, quindi sempre a noi vicine. E per questo ricercano condivisione, apertura, comunità. Così è stato, l’11 settembre 2001 e nei mesi successivi, sotto quella nube di distruzione, in quella valle di macerie, sangue e strazio. E condiviso non può non essere un discorso sulle profondità del nostro essere umani, del male che ci abita e di che speranza poter vivere.


7. Il Covid-19, per molti aspetti, è opposto alla violenza jihadista. È subdolo nella sua invisibilità, silenzioso, lento e potenzialmente infinito nella propagazione. Si diffonde, non si concentra. Strazia il corpo dall’interno. La guerra che ci invita a fare è falsa, al massimo metaforica, impossibile. Non è, come i truci stragisti di 20 anni fa, un nemico reale, non ha corpo né nome. Allora, nel 2001, l’aria della metropoli fu attraversata da quegli aerei mortiferi. Ora, nella pandemia ormai quasi endemica, l’aria è campo intangibile per il propagarsi del virus. Allora, vivevamo la paura concreta del potenziale terrorista, in aeroporto e non solo. Ora, la fobia che ogni persona a noi fisicamente prossima, possa essere vettore di male, di contagio.


8. “Nulla sarà più come prima”. Tante volte lo si è ripetuto dopo l’11 settembre. Facciamo in modo che sia così, con consapevolezza e conseguente ricerca, sofferta ma inevitabile, su come porsi davanti al dolore inevitabile. La pandemia, di nuovo, ci mette di fronte al limite e al deperimento. Siamo di nuovo disarmati, non tanto di fronte al virus in sé, ma all’imprevisto negativo che trova la nostra società fiacca, sazia e pur vuota, insensibile a tutto ciò che è trascendenza del dato e del materiale.


9. Facciamo che non sia più così. Che non si dimentichi la matrice di quel male – lucida e fanatica nella sua falsa religiosità -, che non si rimuova, ancora, la grande domanda sul vivere e sul morire. Sul mistero insondabile, ineliminabile. Sull’Inatteso e su come ci troverà.

Pubblicato su “La Voce di Ferrrara-Comacchio” del 10 settembre 2021

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