Archivio | gennaio, 2023

Ebrei e cattolici, tre esempi di grande umanità

30 Gen

Donna Gracia Mendes Nassì, Emanuel Merdinger e Vittorio Cini: dal XVI secolo al Novecento, avventure e aneddoti per capire l’importanza delle libertà religiosa e culturale

A cura di Andrea Musacci

Una trama complessa di relazioni, sempre illuminate dal desiderio di libertà e verità. Sono le storie raccontate il 25 gennaio, in occasione del Giorno della Memoria, a Palazzo Roverella a Ferrara. L’incontro “Muri confini dialoghi incontri” – organizzato da “De Humanitate Sanctae Annae”, Assoarma Ferrara, Circolo Negozianti e Istituto del Nastro Azzurro – ha visto al centro le vicende di Donna Gracia Mendes Nassì, Emanuel Merdinger e Vittorio Cini. Introdotto e moderato da Riccardo Modestino, il pomeriggio ha visto le conclusioni affidate a don Claudio Vanetti, parroco del Gesù: «la cultura è la chiave per costruire un ponte, anzi è il ponte stesso. E la cultura è anche un luogo teologico, aprendo nell’uomo lo spazio per Dio. Sono le religioni, non le fedi, a fare la guerra», ha aggiunto. «Le prime, infatti, fan Dio sulla loro misura, mentre la vera fede cerca di fare l’uomo a misura di Dio». Le storie che vi raccontiamo sono esempi di persone che hanno scelto quest’ultima possibilità.

Donna Gracia Mendes Nassì, pioniera dello Stato di Israele

Nata nel 1510 a Lisbona, battezzata con il nome di Beatrice De Luna a causa delle imposizioni dei “cristiani” sovrani portoghesi, a 18 anni diventa sposa di uno zio importante commerciante di spezie. Dopo essere rimasta vedova giovanissima e con una figlia, e a causa dell’Inquisizione, si trasferisce ad Anversa dove aiuterà i Mendes a far espatriare tanti marrani. Ma non rimane ferma, Beatrice, spostandosi prima a Venezia e, nel 1548, a Ferrara. Qui potrà tornare, grazie agli Este, Donna Gracia Nassì, ebrea. Sarà l’unica donna che nella Ferrara del XVI secolo potrà godere di ampia autonomia. Per tre anni vive a Palazzo Roverella. La tappa successiva della sua vita diventa Costantinopoli, dove ha buoni rapporti col sultano Solimano, sempre continuando a gestire gli affari di famiglia e ad aiutare i propri correligionari.

Ma vi è un aneddoto poco noto riguardante il destino degli ebrei in Israele, solo appena accennato da uno dei relatori della giornata, Carlo Magri. Donna Gracia a fine anni ’50 ha, infatti, un’idea: offre al Sultano di ricostruire la città di Tiberiade, ormai in rovina, aumentando così, per l’impero ottomano, le ricchezze ricevute dalle tasse. Di fatto, Donna Gracia diviene governatrice della città. Il suo progetto era destinato a entrare nella storia: far convogliare tutti gli ebrei sparsi nel mondo finalmente nella Terra d’Israele. Sogno che, in buona parte, si realizzerà invece solo dopo il 1948. Nel 1561 Don Yosef Nasi (successivamente nominato “Signore di Tiberiade”) e il rabbino Yosef Ben Aderet iniziano la costruzione delle mura della città, poi abbellita e resa ricca. Come fecero poi i loro eredi nel Novecento, il loro primo progetto è quello di piantare alberi – aranci, pini e soprattutto gelsi – e di introdurre l’apicoltura per produrre miele. Ebrei iniziano ad arrivare dalla Spagna e dal Portogallo, e Donna Gracia vi fa costruire anche una sinagoga e una Bet HaMidrash, una casa di studio della Torah.

Purtroppo, però, la situazione si complica quando diversi musulmani iniziano a condannare il fatto che gli ebrei vivono non più sottomessi a un potere islamico (e solo così tollerati), ma che stanno diventando indipendenti. Qualcosa che non piace nemmeno a molti ambasciatori europei. Alla fine, dunque, il Sultano cede  e il glorioso progetto si conclude.

A Donna Gracia lo Stato di Israele ha dedicato un francobollo e alcune medaglie, mentre nel 2018 Amos Gitai ha realizzato un film su di lei, proiettato in anteprima al MEIS, e nel 2020 le è stato dedicato un fumetto, “L’ebrea errante” (uscito su Lanciostory), oltre ad alcuni cartoons e filmati reperibili su You Tube.

Emanuel Merdinger, ebreo coraggioso e amico dei cristiani

Lo stesso Magri, insieme a Francesco Paparella, ha parlato anche delle vicende di Emanuel Merdinger (nella foto, insieme a Bruno Paparella), a cui i due hanno dedicato il libro “Distillare o essere distillati” (Ed. Carmelina, 2021). Merdinger, ebreo, nasce nel 1906 a Suceava in Bucovina, regione allora parte dell’Impero austro-ungarico, oggi tra Ucraina e Romania, e nel ’31 si laurea in farmacologia all’Università di Praga. Si traferisce a Ferrara dove nel ’34 e ’35 consegue all’Università le lauree in Farmacia e Chimica. Diviene docente e amico di molti in città, anche cattolici. «A fine anni ’30 – ha raccontato Magri – un giorno si reca alla Casa del Fascio per fare un’offerta per i poveri, ma i fascisti li rispondono che a Ferrara i poveri non esistono…Allora la donazione la fa tramite la Chiesa. A Ferrara – ha proseguito – era talmente famoso che nella corrispondenza indicavano solo nome e cognome, senza bisogno di aggiungervi l’indirizzo». 

Nel ’38, a causa delle leggi razziali, diventa “apolide” in quanto straniero ebreo, ma riesce a rimanere a Ferrara due anni grazie alle amicizie, che arrivano fino al Prefetto di Ferrara. «Si manterrà con piccoli lavoretti – ha raccontato Paparella -, ad esempio insegnando il tedesco ad alcuni sacerdoti». Il 20 maggio 1940 viene, però, cacciato dall’Italia e finisce nei campi di concentramento delle sue zone d’origine, prima prigioniero dei tedeschi poi dei russi, ma nel luglio ’45 riesce a tornare a Ferrara, sua patria d’adozione. È mons. Bovelli, su spinta di Alighiero Paparella, amico di una vita di Merdigner, a informarsi sulle sue condizioni di prigionia: vengono coinvolti anche la Santa Sede e la Croce Rossa. Un comandante del campo dove l’avevano imprigionato, esclamò a ricevere la missiva vaticana: «Come spiega il fatto che il Vaticano sia interessato a Lei?». Grazie a questo intervento, riesce a tornare a Ferrara: «qui – ha proseguito Paparella – arriva con le scarpe rotte e risuolate con pezzi di pneumatico. Appena giunto in città va subito a suonare a casa dell’amico Alighiero», padre di Bruno, Ercolino, Edmondo e Lydia.

Proprio dai racconti di quest’ultima, 94 anni, l’unica rimasta dei quattro figli, sono nate le ricerche e quindi l’idea della pubblicazione su Merdinger. Quest’ultimo nel ‘47 si trasferisce negli Stati Uniti dove diviene un ottimo ricercatore universitario. Muore 50 anni dopo, nel 1997.

Le riunioni ferraresi di Cini che fecero cadere Mussolini

A Vittorio Cini (1885-1977), politico, imprenditore e mecenate nato a Ferrara in quella che oggi è Casa Cini, sulla “Voce” del 13 gennaio scorso abbiamo dedicato un ampio servizio, soffermandoci in particolare sulla sua “riconversione” al cristianesimo (servizio citato da Francesco Scafuri il 25 gennaio).

A Palazzo Roverella tre interventi hanno cercato di delineare questa figura eclettica, imprevedibile, decisiva per la storia d’Italia. Un aneddoto, in particolare, è ancora poco noto. Ne ha parlato il nipote Giovanni Alliata di Montereale: «tra giugno e il 25 luglio del 1943 mio nonno Vittorio (per due mesi Ministro delle Comunicazioni, ndr) si incontrò diverse volte con altri Ministri, tra cui Grandi e Bottai, a Casa Cini a Ferrara» per decidere della caduta del governo Mussolini. Casa Cini fu, dunque, luogo simbolo della maturazione di quella svolta che cambiò la storia del nostro Paese.

Da lì inizia una delle “riconversioni” di Cini, quella politica, che lo portò anche a finanziare, come ha spiegato Scafuri, la Resistenza veneta, donandole 5milioni di lire al mese. «Mio nonno Vittorio – ha raccontato Giovanni Alliata – «aiutò anche diversi ebrei, fra cui il critico e storico dell’arte Bernard Berenson, intervenendo presso la Prefettura di Firenze. Non era davvero un fascista, fu obbligato da Mussolini a diventare Ministro» e dopo due mesi, appunto, «si ribellò cercando di convincere il Duce a uscire dalla guerra».

La seconda parte dell’intervento di Scafuri e poi quello di Marialucia Menegatti si sono, infine, concentrati sulle questioni riguardanti Ferrara – con Palazzo Renato di Francia donato da Cini al Comune per dedicarlo all’istruzione (e infatti divenne sede del Rettorato, ma dal 2012 è chiuso per lavori) -, e sul suo ruolo di mecenate. Qui Menegatti ha citato il riconoscimento ricevuto da Cini nel ’64, il Premio Assostampa Ferrara, ex aequo con Giovanbattista Dell’Acqua – e una sua espressione, emblematica dell’amore del conte per il sacro e per il bello: bisogna accogliere la bellezza con «devozione fervente», difenderla e conservarla. Un bell’insegnamento da chi ha cercato di modellare la propria vita su Dio.

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 3 febbraio 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

Artisti ferraresi dietro le quinte: da Melli a Berselli

30 Gen

Gli artisti Roberto Melli, Severo Pozzati e Laerte Milani, oltre alla costumista Adriana Berselli nel libro di Scardino “Cinema Pittura Ferrara”

«I film dovranno diventare disegni viventi», profetizzava un secolo fa Hermann Warm, scenografo de “Il gabinetto del dottor Caligari”. Tecnici, artigiani, scenografi, costumisti. E ancora: attrezzisti, tappezzieri, falegnami, stuccatori, fabbri e sarte. Dietro un film effettivamente vi è un mondo variegato di professionisti spesso poco considerati ma in realtà fondamentali per la realizzazione dell’opera. Un concerto di creatività che fa essere un film qualcosa di infinitamente più complesso e affascinante di una mera sequenza di riprese. 

Lo ricorda Lucio Scardino, critico e storico dell’arte, nel suo libro da poco edito “Cinema Pittura Ferrara. Quattro artisti ferraresi prestati alla Settima Arte” (Ed. La Carmelina, 2022).

L’autore si sofferma in particolare su quattro creativi del nostro territorio che hanno tentato, con alterne fortune, di realizzarsi anche nell’ambito cinematografico. Parliamo di Roberto Melli (1885-1958), Severo Pozzati (1895-1983), Laerte Milani (1913-1987) e Adriana Berselli (1928-2018).

Un crescendo, temporalmente parlando, di riconosciuta fama: si parte con Melli, pittore e scultore che riscosse ben poco successo nel suo tentativo: fu direttore artistico della San Marco Film, sceneggiatore e scenografo de “La piccola fioraia”, co-regista de “La cugina d’Alcantara” e “La casa dei libri”, regista de “Il fiore del destino”. 

Poi, Pozzati, detto Sepo, artista comacchiese, che collaborò con la Felsina Film, prima come insegnante nella scuola per attori e tecnici, poi realizzando alcune scenografie. Successivamente, firmò soggetto e regia di “Fantasia bianca”, film ben presto dimenticato.

Sicuramente più successo ebbe lo scultore Milani, originario di Mezzogoro: dagli anni ’40 realizzò prima documentari scientifici per il GUF (Gruppo Universitario Fascista) ferrarese, poi, con altri (grazie allo “Studio Milani” o “Pubblicine”), alcuni shorts, cortometraggi pubblicitari d’animazione proiettati nei cinema locali prima dei film, e una pellicola animata, “Destinazione errata”. In seguito, si concentrò su cartoons, scenografie, fondali e disegni animati.

Infine, la vera “diva” del quartetto: Berselli, costumista, nata nell’ospedale dei bambini di via Savonarola, considerata – da un articolo di “Repubblica” – «regina dei costumi del cinema italiano degli anni Sessanta e Settanta». Lavorò tra l’altro per “La voce del silenzio” di Georg Wilhem Pabst, “L’avventura” di Antonioni (foto), altre pellicole con Virna Lisi, Peter Seller, Sylva Koscina, Michel Piccoli, o dirette ad esempio da Roman Polanski e Carlo Lizzani. 

Modi diversi, dunque, di tentare di dare il proprio contributo alla Settima Arte. In ogni caso, un tassello importante di ricerca di un ambito ben poco noto del legame tra Ferrara e il cinema.

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 3 febbraio 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

Religioni e omosessualità: quale dialogo?

17 Gen

Incontro con la persona, nella verità e nella carità, e attenzione alla relazionalità: le parole di don Alessio Grossi

L’incontro con la persona, nella verità e nella carità, e la valorizzazione della sua dimensione relazionale. Da questo, non da altro, bisogna partire se si intende affrontare seriamente il delicato e complesso tema dell’omosessualità e della transessualità. 

Ed è questo l’approccio proposto da don Alessio Grossi, Direttore del Consultorio familiare “InConTra” della nostra Arcidiocesi, invitato a confrontarsi sulla questione lo scorso 13 gennaio al Centro Culturale Cappuccini di Argenta, per l’incontro “Dialogo: un ponte che unisce. È possibile un dialogo fra religioni e omosessualità?”. L’occasione è stata la – poco nota – “Giornata per il dialogo fra religioni e omosessualità”, in questo modo valorizzata dall’Assessorato organizzatore, quello per le politiche sociali.

La posizione di don Grossi si è posta ad un maggiore livello di profondità, non cadendo né in facili moralismi né in altrettanto pericolosi sentimentalismi. «In questi anni la Chiesa Cattolica – ha spiegato – sta vivendo un periodo di vitalità interna, con posizioni tra loro diverse e a volte contrastanti». Una posizione di chiusura e di mera condanna, ha proseguito, «spesso ha provocato molta sofferenza nelle persone omosessuali e nelle loro famiglie», trasformandosi in «vera e propria discriminazione, facendo sentire queste persone sbagliate». Un’esperienza, quella di don Grossi, diretta: «da psicanalista accompagno diverse persone o coppie omosessuali». Novità positiva, questa nella nostra Chiesa, che vive anche una «fioritura della ricerca teologica sul tema, e della pastorale». Il tutto con un unico grande fine: «il bene della persona e la ricerca della verità». Come riferimenti, don Grossi, oltre al testo “Che cos’è l’uomo” della Pontificia Commissione Biblica (dicembre 2019) ha citato “Amoris laetitia” di papa Francesco (in particolare il n. 250), nella quale «si riconosce la necessità di accogliere e accompagnare sia le famiglie con persone omosessuali sia le famiglie omosessuali», perché possano «vivere una vita veramente umana». Così, si ripensa la persona in un ambito relazionale (in quanto immagine e somiglianza di Dio): «gli atti non hanno un valore in sé ma dentro una dimensione relazionale», vale a dire «nella capacità di relazionarsi con l’altro, di non usarlo, nella capacità di progettazione e nella generatività». Anche le persone omosessuali, quindi, «sono capaci di amare e di una generatività diversa, in altre forme». Infine, don Grossi ha spiegato come a Ferrara ancora non esistano gruppi o associazioni cristiane di persone omosessuali o di genitori di persone omosessuali: ma in diverse parti d’Italia negli ultimi anni sono nate diverse realtà di questo tipo, centrate su un percorso condiviso di ricerca, preghiera e lettura della Parola.

Molto più liquidatorio l’approccio di Hassan Samid, Coordinatore del Centro culturale islamico di Ferrara: «l’omosessualità è peccato, quindi anche il matrimonio tra persone omosessuali non potrà mai essere riconosciuto nel mondo musulmano, perché nell’Islam il matrimonio è un contratto», non un sacramento, «importante per regolarizzare il rapporto sessuale. È tecnicamente impossibile, quindi, perché un peccato non si può regolarizzare». Per Samid alla base di certe idee vi è «un laicismo esasperato che considera ogni desiderio un diritto. Di questo passo si arriverà al poliamore». Non vi sono, quindi, per Samid, «i presupposti per un dialogo sull’omosessualità, perché le religioni non soddisfano ogni desiderio trasformandolo in diritto, ma al contrario, nell’Islam ogni aspetto della vita è regolato da dettami religiosi, dalla volontà di Dio». 

Un dibattito importante, quindi, questo svoltosi ad Argenta, e moderato da Piero Stefani. Dialogo che meriterebbe molte più occasioni, come ha auspicato Manuela Macario, presidente di Arcigay Ferrara, intervenuta anche per specificare come «la nostra associazione non fa differenze di credo religioso fra i propri iscritti», e per riflettere su quanto sia importante «il dialogo con persone omosessuali credenti che si pongono domande su come poter  vivere la loro fede». Insomma, è lo stile da modificare, perché un approccio sbagliato è anche quello che «a molti fa pensare l’omosessualità solo come comportamenti sessuali e non anche, e soprattutto, come dimensione sentimentale e relazionale». La tavola rotonda si è conclusa con gli interventi di Annalisa Felletti (Consigliera di parità della Provincia di Ferrara) e Walter Nania (Coordinatore Cidas Servizio Sistema Accoglienza Integrazione – Comune di Argenta).

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 20 gennaio 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

«So di non essere mai sola»: Giulia Gabrieli esempio di fede

17 Gen

Il 13 gennaio a S. Benedetto il racconto sulla giovane Serva di Dio, tornata alla Casa del Padre a 14 anni: «ha vissuto la malattia da testimone di qualcosa di più grande»

«I farmaci non bastano, ci vuole Qualcun altro.Se non sei guarito nell’anima, non sei davvero guarito». Parole di un’adolescente, la Serva di Dio Giulia Gabrieli, originaria di Bergamo, morta di tumore il 19 agosto 2011 a 14 anni.

La sera dello scorso13 gennaio la chiesa di SanBenedetto a Ferrara ha ospitato l’incontro “Santità si può. Un gancio in mezzo al cielo”, dedicato alla sua testimonianza di fede soprattutto durante i due anni di malattia, incontro nel quale sono intervenuti il padre Antonio e un’amica di famiglia, Alessandra (al posto della madre Sara, impossibilitata a partecipare). Presenti molte persone, fra cui diversi giovani.

«Giulia ha vissuto la propria malattia – ha detto il padre -, pur nella sua normalità di ragazza, nella lucida consapevolezza di essere testimone di qualcosa di più grande».  Quel “gancio in mezzo al cielo” che dà il titolo al libro da lei scritto prima di morire, citazione da “Strada facendo” di Baglioni, canzone che lei amava nella versione cantata da Laura Pausini. Una strada, quella della vita, che si percorre, sapendo «che non sei più da solo», ma con Dio, con la Madonna, «la mia mammina», e con la beata Chiara Luce Badano, «come una sorella per me», diceva Giulia. 

«È stata davanti al Signore – hanno proseguito Antonio e Alessandra -, e a Lui è andata incontro, sempre col sorriso». Quel sorriso vero, specchio della Bellezza, che i presenti hanno potuto ammirare anche nel filmato proiettato nel quale Giulia viene intervistata, due mesi prima di morire, sulla propria esperienza. «È stata lei a prenderci per mano e a farci comprendere come la morte non è la fine di tutto: grazie a lei, come genitori, abbiamo capito la bellezza di quel che ci era stato donato e non la disperazione di quel che ci veniva tolto».

«In ospedale – racconta la ragazza nel filmato – ho visto tanta sofferenza, anche dei bambini, ma ho capito che l’amore è il sentimento più grande, quello che racchiude tutti gli altri. Tutto porta all’amore».

Ma nella sua malattia, com’è normale, Giulia ha vissuto anche il dubbio e la disperazione: «A un certo punto mi sono chiesta: “se Dio mi è veramente vicino, perché sta a guardare?”». A sbloccarla, ancora, è stato un incontro, quella con una signora nella Basilica di S.Antonio a Padova (dove si trovava per le cure) che le prese la mano e le disse: «sii forte, va’ avanti, ce la farai…». Per questo, ha spiegato il padre, «negli incontri che facciamo in tutta Italia non facciamo memoria di Giulia, ma continuiamo a camminare con lei». Le stesse testimonianze, la giovane, le faceva quand’era ancora in vita. Ed era stata anche a S. Benedetto, il 1° novembre 2010, come ha ricordato Paolo Polizzi, salesiano cresciuto proprio nella parrocchia ferrarese e che un anno fa ha emesso la Professione Perpetua a Bologna. «Era lei – ha raccontato – a darci serenità: quel giorno ho pranzato al suo fianco e sembravo io il malato, non lei…».

Il cammino di Giulia prosegue anche grazie all’Associazione “conGiulia Onlus” (nata dai genitori e dagli amici), per realizzare progetti da lei desiderati, rivolti in particolare ai giovani e ai bambini malati, con un’attenzione speciale alla realtà della Scuola in Pigiama dell’Ospedale di Bergamo. 

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 20 gennaio 2023

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San Benedetto, avanti coi lavori nell’antico convento

17 Gen

È una storia tormentata quella del recupero del complesso di corso Porta Po a Ferrara: ecco le vicende conclusesi (si spera) col cantiere avviato lo scorso maggio. Diventerà la nuova sede dell’Agenzia delle Entrate (ma il progetto era un altro)

di Andrea Musacci

La vicenda riguardante i lavori di restauro e risanamento conservativo del complesso “Ex Convento San Benedetto” è una di quelle che sembrano non aver fine. 

Siamo su corso Porta Po a Ferrara, alle spalle della chiesa e del complesso diretti dai salesiani. Qui dietro, fervono i lavori per ridare stabilità e bellezza a quest’enorme area – due chiostri, piano terra e due piani rialzati – fatta edificare nel XII secolo per volere di Matilde di Canossa. Il cantiere, avviato lo scorso maggio, vede l’impresa Lupo Rocco spa di Roma come aggiudicataria e il Provveditorato alle Opere Pubbliche per l’Emilia Romagna-Marche come stazione appaltante dei lavori. Parliamo di 7300 metri quadri destinati da quasi 10 anni a diventare la nuova sede degli uffici dell’Agenzia delle Entrate attualmente in affitto in via Maverna (zona Arginone) e in viale Cavour. La durata dei lavori prevista è di due anni e mezzo, quindi fino a fine 2024, per un importo di 7milioni e 966mila euro. Alla guida del cantiere, l’ing. Antonio Costigliola (Direttore Tecnico), il geom. Alberto Coianiz (Capocantiere) e l’arch. Maurizio Ciampa (Direttore dei lavori). 

Lavori tanto attesi non solo dai residenti del quartiere, ma dall’intera cittadinanza, vista l’importanza storica, artistica e strategica del complesso. Per anni, i chiostri e gli interni sono stati infestati da erba alta, cumuli di macerie, buchi, crolli di parte della copertura. Le colonne erano rovinate, i cotti d’ingresso alla Sala Capitolare deteriorati. Non sono mancate rimostranze da parte di cittadini e polemiche a carattere politico. Ma ripercorriamo brevemente l’ultimo secolo di vita. 

Da centro di tante attività a luogo abbandonato

Nel 1912 il Demanio tratta la cessione della proprietà con il Seminario Arcivescovile e il Convento è concesso in uso gratuito per 29 anni ai Salesiani. Durante la seconda guerra mondiale la chiesa viene quasi completamente distrutta e il primo chiostro subisce danni talmente gravi da essere in seguito demolito. Dopo i lavori, il 21 marzo 1954 il tempio di S. Benedetto viene riconsacrato da mons. Bovelli e dal Card. Schuster. 

Nel dopoguerra la corte del convento diventa anche la casa della storica coppa di calcio “Don Bosco”. Nel 1965 lo Stato autorizza la vendita di una parte del convento a favore dell’Istituto Salesiani della Beata Vergine di S. Luca. Nel ’74 viene ristrutturato ad uso scolastico mentre la casa dell’ortolano ospita l’ostello della Gioventù. Nel ‘78 torna al Demanio e nell’84 il Comune chiede al Demanio il trasferimento patrimoniale dell’ex‑collegio e contemporaneamente l’uso immediato per installare al piano terra la scuola alberghiera e ai piani superiori ricavare delle aule per gli istituti scolastici. Ma non se ne farà niente. 

Fino al 2002, lì avrà la sua sede la Contrada di San Benedetto e fino al 2015 il SAV – Servizio Accoglienza alla Vita. È del ’91, invece, il progetto di riconversione a studentato, che poi però l’università ricaverà lì vicino, in via Ariosto. Nel frattempo, tra autunno ’98 e fine 2000 si concludono il ripristino del sagrato della chiesa, la sistemazione dei campi sportivi dell’oratorio e la ricostruzione ex novo di un nuovo oratorio.

Pochi anni dopo, nel 2002, l’Università degli studi di Ferrara – attraverso il DIAPReM – Centro Dipartimentale per il Restauro dei Monumenti, Dipartimento di Architettura – compie un rilievo dettagliato della struttura, in vista del progetto di restauro e di riqualificazione. Lo stato di abbandono dà, giustamente, scandalo: nel 2003 Maria Chiara Lega (volontaria del SAV) crea un Comitato spontaneo di cittadini per la salvaguardia dei chiostri e dell’intero ex convento. Fra gli aderenti, Giorgio Franceschini e Giuseppe Gorini. Diverse sono le diatribe tra Comune e Demanio sull’appartenenza dei vari spazi attigui alla canonica e alla chiesa. Nel 2006 si parla anche di un interessamento del Conservatorio per trasferirvi lì la propria sede. Ma l’allora Sindaco Gaetano Sateriale ha già un accordo con l’Agenzia delle Entrate, che nel 2008 riceve dal Demanio l’ex Convento per la realizzazione del Centro di Formazione Nazionale dell’Agenzia, con aule studio, una sala convegni, aule di formazione, una biblioteca, un ristorante, camere per gli ospiti. A bando nel 2013 ci sono ben 13milioni e 600mila euro di lavori. Ma la spending review bloccherà tutto. Inutile il tentativo fatto dall’allora Amministrazione comunale con il governo Renzi di inserire il progetto nello “Sblocca Italia”. 

Arriviamo agli ultimi anni: nell’aprile 2019 esce un nuovo bando di gara per la “Verifica della progettazione esecutiva dei lavori di restauro Ex Convento San Benedetto”. L’anno successivo viene assegnata la gara d’appalto. Ma è dovuto passare un altro biennio per vedere l’apertura del tanto agognato cantiere. 

La struttura e i lavori da svolgere

L’accesso principale al convento di San Benedetto avviene da corso Porta Po, 81. Il primo chiostro –  detto “delle colonne quadrate” –  è collocato lungo il fianco della chiesa e si presenta a pianta quasi quadrata con porticato e un pozzo al centro. Il secondo chiostro, invece – detto “della grande cisterna” per la presenza di un pozzo con cisterna al centro della corte – è rettangolare e più grande rispetto al primo. Scavi archeologici hanno portato alla luce l’antica pavimentazione del chiostro in mattoni. I due chiostri sono uniti da un doppio porticato, demolito e ricostruito negli anni ’50 del secolo scorso dopo i bombardamenti.

Per quanto riguarda gli interni, al piano terra, in alcuni punti rimane qualche lacerto di decorazione a calce e a tempera. Nella parte orientale (antirefettorio) spicca la Sala Pomposia con affreschi cinquecenteschi, attribuiti forse in modo non corretto a Dosso Dossi: in particolare, il soffitto affrescato nel 1578 con la “Gloria del paradiso” (dov’è ritratto anche l’Arisoto), è stato “incerottato” nel 2004 per evitarne la rovina. Altre tracce di decorazioni originali si notano nella “Sala Verdi” al secondo piano.

Perché il restauro è necessario

Al piano terra sono state rilevate gravi patologie di degrado – anche degli elementi decorativi in cotto, degli elementi lapidei, delle superfici intonacate – connesse con fenomeni di risalita capillare di umidità dal terreno (la cosiddetta “umidità di risalita”), con conseguente insorgenza di fenomeni di disgregazione delle superfici, esfoliazione e parziali distacchi. 

Ancor più rilevanti sono le problematiche relative ai dissesti strutturali, derivanti sia Dall’azione antropica e dagli interventi di trasformazione succedutisi, sia dallo stato di degrado dovuto all’abbandono e all’incuria, sia dagli eventi sismici recenti.

Tutte le coperture antiche sono gravemente danneggiate ed esercitano importanti carichi sulle colonne del chiostro, mentre quelle di recente fattura non rispondono comunque alle attuali normative antisismiche. Gli orizzontamenti in legno sono ammalorati e per la maggior parte interessati da crolli diffusi.

Il Recupero avrà quindi lo scopo di tutelare il complesso monumentale nel suo insieme e consentirne la leggibilità storica, con riguardo alla complessità delle sue fasi cronologiche. L’intervento conservativo servirà a preservare i caratteri architettonici e decorativi del monumento per il loro corretto mantenimento e trasmissione al futuro.

I primi 4 secoli Da Ercole I a Napoleone

Nel 1457 il duca Ercole I d’Este concede il complesso ai benedettini della Congregazione Cassinese di S. Giustina che venne poi unita a quella di Pomposa.

La costruzione del tempio di San Benedetto inizia nel 1496 in un’area donata dal duca Ercole I d’Este ai Benedettini. I primi capimastri chiamati a lavorare alla costruzione sono Girolamo da Brescia e Leonardo da Brescia, anche se lo schema generale e i muri perimetrali vengono attribuiti a Biagio Rossetti. Nel 1501 il primo chiostro “dell’Abate”, al quale si accede direttamente dal sagrato della chiesa, è concluso. L’anno successivo viene iniziato il secondo chiostro, detto delle “Colonne Quadrate”. I lavori sul convento riprendono nel 1517, con l’ultimazione dei chiostri e dei dormitori necessari per ospitare i monaci dell’Abbazia di Pomposa. Nel 1551 viene realizzato il terzo chiostro, più monumentale, denominato “della cisterna grande”.

Nel 1553 i Benedettini si trasferiscono nel nuovo convento, quasi completamente ultimato e dieci anni più tardi viene consacrata la chiesa. Nel 1797 i frati vengono cacciati dalle truppe napoleoniche, che trasformano il complesso in caserma e ospedale militare con il conseguente degrado di opere d’arte e arredi. Nel 1801 la tomba di Ludovico Ariosto viene solennemente traslata da S. Benedetto a Palazzo Paradiso, per ordine del comandante delle truppe francesi generale Mirollis.

Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del secolo successivo il complesso viene utilizzato sempre meno, sino a versare in completo stato di degrado.

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 20 gennaio 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

Al Carbone le foto dell’indicibile e antica Ferrara

17 Gen

Una Ferrara antica e monumentale, grandiosa nel proprio incanto. Una fascinazione che rischiamo di perdere, annacquati come siamo nelle abitudini quotidiane, o avvezzi a vedere vacuità invece che bellezza. Anche per questo sono importanti mostre  come “Concrete visioni – Ferrara a passi lenti”, visitabile fino al 29 gennaio (ore 17-20) alla Galleria del Carbone di Ferrara.

La rassegna è il risultato del lavoro del Fotoclub Vigarano nella scia del libro “Nuova guida di Ferrara” di Carlo Bassi in cui l’architetto propone una serie di itinerari di lettura della città. La mostra – che ha il patrocinio del Comune di Ferrara e del Comune di Vigarano Mainarda – ospita 28 foto in bianco e nero, mentre sono 82 quelle nel catalogo, con testo di Lucia Bonazzi e acquistabile al Carbone. «La rinuncia al colore – scrive Bonazzi – valorizza l’incisività delle ombre, mentre le luci conferiscono tridimensionalità ai particolari architettonici, le cui forme e linee diventano più attrattive». L’occhio può quindi posarsi in un preciso punto, su un dettaglio, una fenditura, un minuscolo frammento. Oppure nell’ampiezza di un varco. E fare esperienza, ancora una volta e come non mai, dell’indicibile mistero di Ferrara.

Le foto sono di Alessandro Berselli, Andrea Gallesini, Andrea Giorgi, Davide Occhilupo, Enrico Testoni, Fabio Belmonte, Liana Caselli, Lino Ghidoni, Marco Andreani, Marisa Caniato, Massimo Cervi, Maurizio Marchesini, Sonia Campanelli, Tonina Droghetti, Ulrich Wienand Valentina Mazza, Yolanda D’Amore.

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 20 gennaio 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

Vittorio Cini «proteso verso la luce di Dio»: Ferrara e la fede ritrovata

11 Gen

Il conte che si riscoprì cattolico. Imprenditore, politico e mecenate ferrarese, negli anni ’40 ritrovò la sua fede cristiana. Un aspetto della sua vita ancora poco indagato

di Andrea Musacci

Vittorio Cini (1885-1977), politico, imprenditore e mecenate nasce proprio in quella che poi diventò Casa Cini in via Boccacanale di Santo Stefano, 24 a Ferrara. La sua, è stata una vita grandiosa e tragica, che ha segnato la storia della nostra città e dell’Italia per buona parte del Novecento. Massone, poi cattolico “rinato”, ministro fascista e poi sostenitore della Resistenza, uomo d’affari e amante del bello, Cini non perse mai il suo profondo legame con la città natale. 

Casa Cini e i dialoghi coi gesuiti

Dopo la seconda guerra mondiale, la deportazione a Dachau e, soprattutto, la morte del figlio Giorgio, fanno maturare in Vittorio Cini una non scontata rinascita del sentimento religioso. Una “nuova conversione” che lo porta ad abbandonare la Massoneria – a cui fu legato per molti anni nella nostra città -, a creare la Fondazione Giorgio Cini nell’isola di San Marco a Venezia e, a Ferrara, nel ‘50 a donare il palazzo di Renata di Francia all’Università e la casa di famiglia di via S. Stefano alla Provincia Romana della Compagnia di Gesù in onore del figlio scomparso. Con una clausola: di farne un centro culturale e di formazione educativa e morale dei giovani.

La donazione della casa paterna («la mia casa», continuò poi a chiamarla) ai Gesuiti avviene per esplicito interessamento dell’Arcivescovo Bovelli. Presenza, quella dei Gesuiti, che si concluderà nel 1984 con la donazione dell’immobile, degli arredi e della biblioteca all’Opera Archidiocesana della Preservazione della Fede e della Religione, che ancora l’amministra. Due lettere presenti nell’Archivio storico della nostra Diocesi attestano del rapporto tra Cini e l’allora Vescovo Bovelli. Quest’ultimo il 13 febbraio 1950 gli scrive a tal proposito: «Ferrara ha bisogno, estremo bisogno di queste opere: la Provvidenza si è servita di Lei ed io ne gioisco e ringrazio dal profondo del cuore. Però la gioia del dono è diminuita al pensiero che ella voglia rompere completamente i legami con la città natale: ciò sarebbe per me veramente doloroso. Penso però che se anche lontano colla persona, ella sarà con noi col cuore. Vicino all’amato figliuolo che ancora ricordiamo e raccomandiamo al Signore». Il 29 dicembre dello stesso anno, il conte scrive al Vescovo: «Sono sicuro che l’opera affidata al fervido zelo dei benemeriti Padri della Compagnia di Gesù darà frutti sempre più fecondi di bene, tali da confortare la Ecc. Vostra nel Suo apostolato».

Ma il legame di Cini con Ferrara non si interrompe con la donazione della casa di famiglia. Racconta Alessandro Meccoli su “Ferrara. Voci di una città” (n. 7/1997): «Vi si recava, puntualissimo com’era in tutto, ogni primo venerdì del mese. Qualche volta l’ho accompagnato: si andava al cimitero, dove oggi anch’egli riposa accanto ai suoi cari; poi a gustare la salama da sugo dal notaio Brighenti; quindi nella sua casa natia, da lui donata alla Curia e trasformata in centro culturale». Il gesuita p. Vincenzo D’Ascenzi scrive sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 25 novembre 1978: «veniva a Ferrara puntualmente ogni mese, ogni primo del mese, con qualunque stagione entrava di mattina presto in Certosa, ascoltava la Messa in suffragio dei suoi cari Giorgio padre, Giorgio figlio e Lyda Borrelli consorte, la nota attrice (…). In questa occasione veniva spessissimo a rivedere la sua casa paterna che amava come la “sua casa”, ne conosceva la storia mattone per mattone. Si intratteneva volentieri in conversazione con i padri di Casa Cini scherzando amabilmente e argutamente». Sembra che dormisse nel suo vecchio “appartamento”, dove ora ha sede la Cattolica assicurazioni. Ma in questa testimonianza, più unica che rara, emerge la fede del conte Cini: «Mai che avesse parlato di problemi economici e amministrativi», continua D’Ascenzi; «amava parlare piuttosto dell’uomo, del futuro del mondo, della necessità di portare gli uomini ad incontrarsi al livello mondiale; della funzione della cultura per l’unificazione e la pace dei popoli. Ma spesso parlava di temi religiosi: della fede, dei valori, e della sua fede inquieta». 

Molto più riservato, su questo tema, era con altre persone, come ci testimonia Maurizio Villani, storico frequentatore di Casa Cini, dove ha anche insegnato nell’Istituto di Scienze Religiose: «da giovane lo conobbi personalmente ed ebbi con lui diversi incontri, tutti di argomento storico, economico o artistico. Sulla sua “conversione” ha sempre mantenuto assoluto riserbo». Coi padri di Casa Cini, invece, l’approccio era diverso: «Specialmente quando ci si trovava in conversazione intima era capace di affrontare il discorso della fede in termini del tutto personali e inediti», scrive ancora p. D’Ascenzi nel sopracitato articolo. «Cini, dietro quel sorriso aperto e accogliente, era un uomo inquieto e l’inquietudine più profonda era forse quella della fede; voleva credere come un bisogno istintivo che non riusciva a giustificare razionalmente. Un animo profondamente pascaliano; a Pascal infatti si riferiva spessissimo. Era anche innamorato di Teilhard de Chardin (…). Non potrò dimenticare l’intensità e la profondità di questo animo – prosegue – capace di entrare spietatamente entro sé stesso giudicandosi con estrema severità; capace di guardare il mondo e la storia (…) oltre la contingenza; capace soprattutto di guardare oltre la storia, verso la Trascendenza, proteso chiaramente verso la luce di Dio». 

Prosegue poi D’Ascenzi: «Si occupava del resto, del mondo finanziario, sì; ma quel mondo era fuori della dimensione del suo spirito; anzi oso dire che guardava quel mondo con un certo occhio di disgusto e di disprezzo, come la zavorra che ci portiamo dietro nella vita come terreno del peccato». 

Donazioni per la nostra Diocesi

Il sostegno economico di Cini per la Chiesa di Ferrara non si concluse con la donazione della Casa di S. Stefano. Lo attestano alcune lettere che abbiamo ritrovato nel nostro Archivio diocesano. Partiamo dagli aiuti economici che Cini fece nel 1942 a favore degli Olivetani di San Giorgio e delle Benedettine di Sant’Antonio in Polesine. In una missiva a Cini del 25 agosto 1942, l’allora Vescovo  Bovelli scriveva: «Le buone Monache Benedettine, come pure i Monaci Olivetani a S. Giorgio mi hanno messo al corrente dei progetti magnanimi che V. E. ha ideato per venire incontro alla indigenza di quei poveri locali da essi abitati. Sento quindi il dovere di rivolgermi (…) a V. E. e dopo aver ringraziato Iddio che ha saputo ispirare a sì munifico benefattore tale urgente indispensabile necessità, ringraziarvi dal più profondo del cuore».

Undici anni dopo, sarà una delle figlie di Cini, Yana, a offrire donazioni alla nostra Chiesa locale. Da tramite farà il padre, che il 12 febbraio 1953 scrive a mons. Bovelli: «in occasione delle sue nozze mia figlia Yana desidera fare alcune elargizioni benefiche: e non può, naturalmente, dimenticare Ferrara. Le invia, mio tramite, l’accluso assegno di E. 2.000.000, che La prega distribuire come Ella meglio crederà, avendo presenti anche la Parrocchia di S. Stefano e la “Casa Giorgio Cini”».

Una settimana dopo, il Vescovo gli risponde che oltre a S. Stefano e a Casa Cini («una fucina di bene intelligente e fattiva e sta imponendosi alla Città»), hanno beneficiato dell’elargizione di Yana le Benedettine, il «povero» Monastero delle Carmelitane di Borgo Vado, «le quali versano in miseria e sono tutte malate», il Seminario «ed alcuni chierici poveri che sono a carico della Diocesi». Le Monache di entrambi gli ordini scriveranno al Conte per ringraziarlo dell’aiuto.

Progetto mancato a San Giorgio?

Un aneddoto molto interessante riguarda anche il Monastero di San Giorgio a Ferrara. In un’intervista al nostro Settimanale del 28 maggio 2021, padre Roberto Nardin, olivetano, ci spiegò perché, probabilmente, il conte alla fine scelse Venezia e non Ferrara per il suo progetto del polo culturale e della Fondazione: «Dalla testimonianza di alcuni monaci che hanno vissuto nel monastero di S. Giorgio di Ferrara durante la seconda guerra mondiale e nell’immediato dopoguerra, si può affermare che Vittorio Cini avesse intenzione di ricostruire completamente il monastero olivetano quasi totalmente distrutto a seguito delle soppressioni di fine ’700, per riportarlo allo stato originario, con l’intento, probabilmente, di costituirvi una fondazione, come poi avvenne a Venezia, dedicandola al figlio di nome Giorgio, prematuramente scomparso in un incidente aereo nel 1949. È doveroso precisare – prosegue – che la testimonianza dei monaci, che io stesso ho sentito, riferiva dell’intenzione del Cini di ricostruire il monastero, non della Fondazione. Tuttavia è molto verosimile che l’intento ultimo fosse proprio la costituzione della Fondazione, perché essa divenne realtà a Venezia dopo pochi anni, nel 1951, e in un monastero ancora dedicato a S. Giorgio, lo stesso nome del figlio, dopo ampi lavori di ristrutturazione. Il progetto che Cini intendeva realizzare con il monastero di S. Giorgio di Ferrara lo possiamo concretamente vedere, quindi, in ciò che è stato realizzato nel monastero di S. Giorgio a Venezia».

Albino Luciani amico fraterno e quel sogno dell’isola

Accennavamo prima al rapporto di Vittorio Cini con Venezia, sua patria d’adozione, e luogo dove si spense nel ‘77.

Per onorare la memoria del figlio Giorgio – morto il 31 agosto 1949 nel rogo del suo aereo all’aeroporto di Cannes, sotto gli occhi della fidanzata Merle Oberon – Vittorio riscatta dal degrado la famosa isola di San Giorgio, dove dà subito inizio a imponenti lavori di restauro del vecchio convento dei Benedettini, riuscendo, inoltre, a rintracciare e recuperare, con una spesa enorme, le antiche biblioteche e rarissimi mobili sparsi in tutta Europa. Qui nasce la Fondazione Giorgio Cini che, come accennato, avrebbe forse dovuto nascere nel Monastero olivetano di S. Giorgio a Ferrara. Così, nel ’57, i Benedettini fanno ritorno a S. Giorgio a Venezia, dopo esservi stati sfrattati da Napoleone. Cini viene, inoltre, nominato Primo Procuratore di S. Marco tra il 1955 e il 1967 (la più prestigiosa carica vitalizia della Repubblica di Venezia, subito dopo il Doge), durante la quale appoggia importanti restauri nella Basilica di S. Marco. In questi anni instaura anche un intenso rapporto con i pontefici Giovanni XXIII e Paolo VI. Cini, inoltre, fu per oltre mezzo secolo parrocchiano della chiesa dei Gesuati alle Zattere.

L’amicizia con Albino Luciani

Albino Luciani, poi divenuto papa Giovanni Paolo I, dal ’69 al ’73 è Patriarca di Venezia. In quanto tale, era membro d’ufficio del Consiglio Generale della Fondazione Cini. Come citato da Stefania Falasca (articolo pubblicato nella rivista “Lettera da San Giorgio”, Fondazione Giorgio Cini, Anno XI, n. 21, settembre 2009 – gennaio 2010), il 27 aprile 1970, partecipando per la prima volta alla riunione del Consiglio Generale, così si espresse: «L’altro giorno il conte Cini ha avuto la bontà di accompagnarmi a visitare il complesso intero di San Giorgio in Isola. Non c’ero mai stato. Ne sono tornato via con un’idea veramente grandiosa di quello che è stato fatto qui». «Le affinità elettive che lo legarono ad essa – scrive Falasca – s’intrecciano indissolubilmente con quelle del suo primo ispiratore, con l’uomo Vittorio Cini, che dei tempi aveva saputo capire, interpretare e far vivere ciò che ha una validità profonda e duratura. Non bisogna dimenticare che negli ultimi anni del patriarcato di Luciani venne sancito, per volere di Cini, di trasmettere al patriarca protempore di Venezia i compiti che egli aveva riservato a sé stesso come fondatore». Inoltre, «il 5 aprile 1971 Albino Luciani, Vittorio Cini e Vittore Branca, ricevuti da Paolo VI, fecero omaggio al Papa del prestigioso volume sui tesori di San Marco, in occasione dei venti anni della Fondazione». 

Il giorno del funerale del conte nel settembre del 1977, Luciani lo ricorda con queste parole: «A me Vittorio Cini guardava più come a un figlio. Mi minacciava, scherzando, col dito, mi rimproverava: “lei non mi chiede mai nulla”; “lei non sa quanto bene le voglia”; “lei lavora troppo”. Devo confessare che mi piaceva riscontrare in lui un caso in cui l’intelligenza e la cultura aiutavano la fede, invece che ostacolarla. Vedere come alla raffinatezza sorridente e garbatamente ironica del gentiluomo, soggiacesse una vera e profonda umiltà. Quando ieri appresi la sua morte mi sono sentito un po’ orfano, non mi vergogno a dirlo. Ed è con cuore di figlio che prego il Signore affinché lo riceva presto nel suo Paradiso». 

E come ricorda p. Vincenzo D’Ascenzi in un articolo sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 25 novembre 1978, «il rito religioso (nel ’78, primo anniversario della morte, ndr) l’avrebbe dovuto celebrare il Card. Patriarca Albino Luciani; ma la sua imprevista elezione al Pontificato lo ha costretto a malincuore a delegare Mons. Loris Capovilla, già Segretario particolare di Papa Roncalli a cui Cini del resto era affezionatissimo». 

Il rapporto con La Pira

Nel libro “Lo specchio del gusto. Vittorio Cini e il collezionismo d’arte antica nel Novecento” (a cura di Luca Massimo Barbero, Marsilio, 2021) si narra anche del particolare incontro di Cini col Servo di Dio Giorgio La Pira, Sindaco di Firenze dal ’51 al ’57 e dal ’61 al ‘65. A metà degli anni ’50, in occasione della crisi delle Officine Galileo di Firenze, la cui proprietà era detenuta dalla SADE, (Società elettrica di cui Cini era presidente), «si intrecciò un rapporto particolare con il sindaco di Firenze, Giorgio La Pira, che coinvolse il comune sentire spirituale delle due personalità individuali e collettive in economia. La Pira, convinto e accorato sostenitore che “una fabbrica è sacra, come è sacra la Cattedrale”, supplicava Cini: “Non licenziare, ne avrai benedizione dal Cielo e dalla terra”; Cini rispondeva fermamente ricordando la distinzione del piano spirituale da quello laico: “Sensibile ai richiami del Vangelo, io credo di essere tra coloro che maggiormente avvertono le esigenze sociali ed umane; ma penso che in una società bene ordinata è funzione dello Stato creare le condizioni necessarie perché il diritto al lavoro possa essere esercitato, o di provvedere alle conseguenze di una eventuale disoccupazione”». Una divergenza che rispecchiava però reciproca stima, «testimoniata anche dagli incontri avuti in occasione dell’avvio e delle prime iniziative della Fondazione Giorgio Cini».

Cini in fuga dai nazifascisti fu accolto a Padova dai francescani?

Una tappa importante della rinascita religiosa del Conte Cini, sulla quale vogliamo soffermarci in conclusione di questa nostra ricerca, è quella che va dal 1943 al 1947 e che riguarda Padova e Monselice.

Da Dachau alla Svizzera

Dopo il discorso del 19 giugno 1943, nel quale Cini esterna l’impossibilità di continuare la guerra con la Germania, seguito dalle proprie dimissioni – richieste il 24 giugno e accettate da Mussolini solo un mese dopo, il giorno prima del Gran Consiglio – Mussolini intende vendicarsi dell’ex Ministro, come avvertimento per gli altri Ministri che avrebbero voluto schierarsi contro il Duce. Lo fa quindi arrestare a Roma, nell’Hotel Excelsior dove il senatore risiede, il 24 settembre dello stesso anno. Cini viene inviato nella prigione del campo di concentramento di Dachau, in Germania, con altri sei italiani. Grazie al figlio Giorgio, dopo sei mesi viene trasferito nella clinica del dottor Bieling, un sanatorio a Friedrichroda, in Turingia. Il figlio gli fa visita, corrompe le guardie tedesche e il medico, e scappa col padre. «Oggi sappiamo che Giorgio dovette corrompere il colonnello delle SS di Roma, Eugen Dollmann, per salvare il padre», scrive Anna Guglielmi Avati, nipote di Vittorio Cini (Dal libro “Vittorio Cini. L’ultimo Doge”, “Il Cigno GG Edizioni”, 2022). Dollman non volle soldi ma chiese i favolosi smeraldi di Lyda Borelli, moglie di Vittorio Cini. Fabrizio Sarazani su “Il Borghese” del 9 ottobre 1977 propone una versione diversa sulle donazioni: «A Kappler regalarono un sarcofago etrusco e questi concesse il “visto” per il viaggio di Giorgio, il quale riuscì a salvare il padre conducendolo in Svizzera. Non era facile, nell’inverno 1943-1944, anche possedendo lingotti d’oro, giade, sarcofaghi etruschi, aver coraggio con tipi come Kappler! Giorgio, partendo, sapeva di poter finire in un forno crematorio».

Vittorio e Giorgio raggiungono quindi l’Italia: dopo un mese di clandestinità (in una casa di cura presso Padova, scrive la Treccani, ma vedremo come forse non è del tutto esatto), nel settembre 1944 vanno in Svizzera per raggiungere il resto della famiglia. Rimangono lì in esilio fino al 3 luglio 1946 (secondo la Treccani, fino al dicembre ’46). Nella cittadina svizzera di Tour-de-Peilz, vicino Vevey, dove vivono, Vittorio Cini – scrive ancora Avati – «incontrò colui che divenne per sempre suo consigliere e confessore, suo amico spirituale: il padre gesuita don Mario Slongo, all’epoca cappellano militare della Svizzera romanda». Durante il soggiorno svizzero, don Slongo celebra sempre la Messa per la famiglia Cini. «La spiritualità del senatore, uomo di mondo, poco religioso, era accresciuta durante la prigionia a Dachau. Qui, un prete cattolico, prigioniero anch’egli, gli aveva regalato un libretto di preghiere e gli distribuiva regolarmente la comunione (con del pane all’interno del quale erano nascoste delle ostie). Tutto questo era stato per Cini di grande conforto. Più tardi, padre Slongo confessò Cini perfino a Roma tutte le volte che questi glielo chiese: del resto, il senatore aveva l’abitudine di chiedergli consiglio per ogni cosa che faceva».

Don Slongo svolge un ruolo importante anche nella vita sentimentale di Cini. Una giovane, Maria Cristina Dal Pozzo D’Annone, conosce il senatore nel 1932 e si infatua di lui, ma solo il 16 febbraio 1967 don Slongo li unisce in matrimonio nella Cappella della Missione cattolica italiana a Muttenz, vicino a Basilea. «Da quel giorno in poi – scrive ancora Avati -, ad ogni anniversario del loro matrimonio, Cini e la nuova moglie si recarono a Muttenz, a casa della sorella di don Mario per pranzare, partecipare alla Messa e ricevere la comunione dalle mani del loro fidato amico».

Ma un mistero, legato al periodo tra il ’44 e il ’46, riguarda il conte Cini e i Frati Minori di Padova.

Cini ospite dei francescani a Padova?

Fra’ Graziano Marostegan, vicentino d’origine, da una decina di anni si trova nella Basilica di San Francesco a Ferrara, guidata dai Frati Minori, proveniente dalla Comunità religiosa di Sanzeno, nella Val di Non. È lui a raccontarci un aneddoto difficilmente verificabile in maniera integrale ma di particolare interesse, riguardante il periodo di clandestinità di Vittorio Cini tra il 1944 e il 1946: «il Conte Cini è stato ospitato clandestinamente al Convento del Santo a Padova, ai tempi guidato dal suo amico, il Padre Provinciale Andrea Eccher. Me lo raccontarono alcuni frati ora deceduti». Il periodo potrebbe essere tra il ’45 e il ’46, ma è forse più probabile nell’estate del ’44 prima della fuga in Svizzera. «In quel periodo – prosegue fra’ Graziano – alcuni giovani frati erano malati di tubercolosi, allora padre Eccher chiese aiuto a Cini, il quale diede loro in comodato d’uso il suo castello di Monte Ricco, vicino Monselice». Un luogo salubre dove poter curare i giovani infermi. Nel corso della Prima guerra mondiale il castello venne requisito per scopi militari dal Regio Esercito, che lo lascerà, completamente devastato, nel 1919. Vittorio Cini, entratone in possesso per asse ereditario (dalla nonna paterna Domenica Giraldi, che sposò il ferrarese Paolo Cini, e che ereditò anche delle cave nel monselicense), lo fa interamente restaurare, divenendo così una delle residenze di famiglia. Lì nascono anche le sue figlie. E Cini vuole che la chiesetta venga dedicata alla memoria di nonna Domenica, che di fatto lo allevò. Come detto, nel ’47 Cini lo dona ai Francescani di Padova, che lo trasformano in una casa di ritiro spirituale, l’eremo di Santa Domenica (in memoria della nonna di Cini), con possibilità di ospitare 60 persone. Nel 1981 passa di proprietà alla Regione Veneto e nel 2003 i frati lo trasformano in comunità terapeutica per il recupero di tossicodipendenti e alcolisti e per l’accoglienza di alcune famiglie in difficoltà. I frati si sono trasferiti nella sede principale della comunità a Monselice (fra’ Graziano è stato l’ultimo a lasciare l’eremo), ma la comunità va avanti sotto altra gestione. 

Abbiamo contattato i frati minori di Padova per cercare ulteriori conferme sul periodo di clandestinità di Cini a Padova ospite degli stessi frati. «Non ho mai trovato conferme di una sua ospitalità qui al Santo in qualche documento scritto», ci spiega padre Alberto Fanton, archivista della Provincia Italiana di Sant’Antonio. «Non nego che sia successo, ma erano sempre atti che “si-facevano-ma-non-si-documentavano”, non si lasciava, cioè, traccia formale in documenti, cronache, atti, verbali di capitoli conventuali. Ed è anche facile capirne il perché…».

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 13 gennaio 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

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Biografia: la carriera, il fascismo, Dachau, la morte del figlio Giorgio

Nato a Ferrara il 20 febbraio 1885, in quella che oggi è Casa Cini, figlio di Giorgio Cini, farmacista ferrarese, e di Eugenia Berti, eredita dalpadre alcune cave di trachite nel Veneto e alcuni terreni nel Ferrarese. 

Studia economia e commercio in Svizzera, e in Italia è il primo a intraprendere importanti opere di bonifica. Compie lavori di canalizzazione e progetta una rete per la navigazione interna della Valle Padana. Trasferitosi a Venezia, dove acquista il palazzo sul Canal Grande a San Vio, intreccia un saldo legame soprattutto con Giuseppe Volpi, sviluppando interessi in imprese elettriche (SADE), del turismo d’élite (CIGA), di costruzioni, comunicazioni e trasporti. 

Il 19 giugno 1918 sposa l’attrice Lyda Borelli (dalla quale avrà quattro figli: Giorgio nato nel 1918, Mynna nel 1920, le gemelle Yana e Ylda nel 1924). Tra le numerose cariche, è stato Presidente dell’ILVA (dal 1921 al 1939), “fiduciario del governo” per il riassetto della struttura agraria del ferrarese (1927), senatore del Regno dal 1934 e, dal 1936, commissario generale dell’Ente esposizione universale di Roma. 

Si dissocia dal regime fascista nel giugno 1943, dopo essere stato per circa quattro mesi Ministro delle comunicazioni, anticipando il pronunciamento del Gran Consiglio del 25 luglio e per questo viene catturato dopo l’8 settembre dai tedeschi e internato nel campo di concentramento di Dachau, da dove viene liberato grazie al figlio. Vittorio si ritrova, quindi, con Volpi in Svizzera e nel loro esilio stringono amicizia con personaggi della futura DC. Vittorio poi sostiene, anche con consistenti contributi finanziari, il movimento della Resistenza. 

Sul suo legame col fascismo, Alessandro Meccoli scrive (su “Ferrara. Voci di una città – n. 7 / 1997”): «Mi narrava (…) di Italo Balbo, che nel 1926 gli aveva portato la tessera del Fascio a casa, per essere sicuro che l’accettasse (attenzione dunque: di chiare origini liberal-giolittiane, Vittorio Cini, al pari del suo fraterno amico e socio Giuseppe Volpi a Venezia, aderì formalmente al fascismo soltanto nel Ventisei, a cose fatte)». 

Il 5 marzo 1946, il Consiglio dei ministri, per impulso di Alcide De Gasperi e di Carlo Sforza, restituisce a Cini la legittimità del titolo di senatore, per aver egli preso «netta posizione contro le direttive del regime» e aver dimostrato «vivo patriottismo e violenta avversione al fascismo e al tedesco invasore».  

Il 31 agosto 1949, a soli 30 anni, il figlio Giorgio muore in un incidente di volo presso Cannes: il padre in sua memoria istituisce il 20 aprile 1951 la Fondazione che ne porta il nome, a Venezia, e Casa Cini a Ferrara. Vittorio Cini muore a Venezia il 18 settembre 1977 ed è sepolto alla Certosa di Ferrara insieme alla moglie Lyda Borelli, deceduta il 2 giugno 1959 a Roma.

Benedetto XVI, sempre con lo sguardo fisso su Gesù Cristo

9 Gen

È l’Amore a poter salvare dall’abisso della morte. È solo un Dio che ha sofferto per noi, a poter dare una risposta alle nostre angosce più profonde: l’insegnamento di Papa Benedetto XVI

di Andrea Musacci

«Lo pregherò di essere indulgente con la mia miseria». Era il 2016 quando Papa Benedetto XVI rispose così a una domanda su cosa avrebbe detto all’Onnipotente una volta terminati i propri giorni terreni. Erano passati tre anni dalla rinuncia al ministero petrino, annuncio imprevisto che sconvolse il mondo. La profonda umiltà mostrata davanti alla Chiesa, al Popolo di Dio, al mondo intero, mai era venuta meno. 

Parole, queste citate, presenti nello stupendo libro-intervista “Ultime conversazioni”, e che ci sono tornate alla mente dopo aver ricevuto la notizia del suo ritorno alla Casa del Padre. Parole in un certo senso riecheggiate anche nel finale dell’omelia esequiale pronunciata da Papa Francesco lo scorso 5 gennaio: «Benedetto, fedele amico dello Sposo, che la tua gioia sia perfetta nell’udire definitivamente e per sempre la Sua voce!». Come a pregare, lui stesso, il Padre di quell’indulgenza suprema che Benedetto XVI ha sempre implorato.

TESTIMONIANZA DI UN UOMO

La Parola del Vangelo «non si può rinunciare a diffonderla, non può diventare insignificante» 

(“Ultime conversazioni”)

Si è già detto molto di Papa Ratzinger, anche se forse mai si riuscirà a dire davvero tutto di una figura così discreta e grandiosa. Altro, invece, si è voluto, da più parti, tacere in queste ultime due settimane: che la Verità e il suo annuncio scatenano anche il male. Così è accaduto, per fare due esempi, con la furia di buona parte del mondo islamico che seguì alla sua lectio magistralis nel 2006 a Ratisbona; e la censura, che subì un anno dopo, quando un manipolo di docenti, intellettuali e studenti gli impedì, invitato, di intervenire all’inaugurazione dell’anno accademico alla “Sapienza” di Roma.

Anche con la testimonianza, dunque, ha servito la sua Chiesa, sempre con uno stile ammirabile, pur nella fermezza delle idee. “Al cuore della fede” è il titolo di uno dei suoi libri ed è stata la sua missione di una vita, quella di un Papa, di un teologo, di un uomo. Il tornare sempre a Lui.

LA FEDE E LE SUE INQUIETUDINI

«L’amore richiama e chiede eternità»

Al centro non del suo pensiero, ma della sua vita intera, c’è sempre stato l’incontro personale con Cristo. «Nella liturgia, nella preghiera e nelle meditazioni per l’omelia domenicale lo vedo proprio davanti a me», confessò nell’intervista sopracitata. «È sempre grande e misterioso, ovvio. Molte parole del Vangelo le trovo ora, per la loro grandezza e gravità, più difficili che in passato». Emerge, quindi, anche nel suo racconto personale, il sentirsi inadeguati davanti alla Sua maestosità: «si percepisce quanto si è lontani dalla grandezza del mistero», anche se, proseguiva, «non è che io abbia la sensazione che Lui sia lontano. Posso sempre parlargli nel mio intimo. Ma sono comunque una piccola, misera creatura che non sempre riesce ad arrivare fino a Lui».

L’avvicinarsi della morte donava alla sua fede e alle sue inquietudini una densità ancora maggiore: «alcune parole che esprimono l’ira, la riprovazione, la minaccia del giudizio diventano più inquietanti, impressionanti e grandi di prima». E ancora: «pur con tutta la fiducia che ho nel fatto che il buon Dio non può abbandonarmi, più si avvicina il momento di vedere il suo volto, tanto più forte è la percezione di quante cose sbagliate si sono compiute. Perciò uno si sente oppresso dal peso della colpa, sebbene naturalmente la fiducia di fondo non venga mai meno».

Sulla morte rifletté anche nell’Udienza generale del 2 novembre 2011: «(…) abbiamo timore davanti alla morte perché abbiamo paura del nulla, di questo partire verso qualcosa che non conosciamo, che ci è ignoto. E allora c’è in noi un senso di rifiuto perché non possiamo accettare che tutto ciò che di bello e di grande è stato realizzato durante un’intera esistenza, venga improvvisamente cancellato, cada nell’abisso del nulla. Soprattutto noi sentiamo che l’amore richiama e chiede eternità e non è possibile accettare che esso venga distrutto dalla morte in un solo momento».

UN DIO CHE SOFFRE, UN DIO CHE AMA

«Vivi di noi: / Sei / la verità che non ragiona: / un Dio che pena / nel cuore dell’uomo» 

(David M. Turoldo, “Vivi di noi”)

Cosa può, quindi, salvare, tutto ciò che ognuno di noi è stato, ha vissuto, di cui ha goduto e di cui ha sperato? Non “cosa” ma Chi. «Non è la scienza che redime l’uomo», scrive in “Spe salvi” 26. «L’uomo viene redento mediante l’amore». Ma nemmeno quello umano basta, «l’essere umano ha bisogno dell’amore incondizionato».

È l’Amore, unico, a poter salvare dall’abisso della sofferenza e della morte. È solo un Dio che si è fatto carne e che ha sofferto con noi, per ognuno di noi, che può dare una risposta alle nostre angosce più profonde. «Dio è un sofferente – scrive Papa Ratzinger in “Guardare al Crocifisso” -, poiché è un innamorato: la tematica del Dio che soffre deriva dalla tematica del Dio che ama e rimanda immediatamente ad essa. Il vero e proprio superamento del concetto antico di Dio da parte di quello cristiano sta nella conoscenza che Dio è amore». Dalla Passione di Gesù in modo pieno, quindi, «si diffonde in ogni sofferenza la con-solatio, la consolazione dell’amore partecipe di Dio e così sorge la stella della speranza» (“Spe salvi” 39).

L’UNICA LIBERAZIONE

«Benché noi non siamo in grado di erompere dall’angustia della nostra coscienza, Dio può però irrompere in questa coscienza rivelando sé stesso» 

(“Introduzione al cristianesimo”)

«Credere significa sempre: uscire con Gesù Cristo, non temere il caos, poiché egli è il più forte. Egli è uscito e noi lo seguiamo». È questo l’irrompere di Dio nella nostra vita. Un moto dall’esterno all’interno – semplificando – che in realtà richiama il moto contrario. Ratzinger ne parla in tre commoventi meditazioni raccolte nel libro “Guardare al Crocifisso”, edito da Jaca Book.

«La vera alienazione, la non libertà e la prigionia dell’uomo – scrive – sta nella sua assenza di verità. Se egli non conosce la verità, se non sa chi egli è, per che cosa esiste, che cosa è la realtà di questo mondo, allora brancola solo nel buio, allora è un prigioniero e non un uomo libero nell’essere». Senza totalità, senza fine in ogni nostra parola, azione, aspirazione, non possiamo dirci davvero liberi. Ma questa libertà è possibile nella Chiesa, corpo di Cristo, il cui muro «è consolidato dal sangue del vero agnello, Gesù Cristo»: «La vera azione liberatrice della Chiesa consiste nel conservare la verità nel mondo»; perché «chi salta la questione della verità e la ritiene insignificante amputa l’uomo». Al tempo stesso la Chiesa, pur essendo luogo che ci protegge dalle forze del male, «non è un fortino o una fortezza chiusa», ma «una città aperta». E non può essere altrimenti.

Con la Pasqua, infatti, Dio «ci precede (…) e regge la fiaccola all’interno di un’estensione inesplorata per farci coraggio, per seguirlo». L’uomo è integralmente sé stesso «quando è divenuto perfetta apertura verso Dio», riflette, invece, in “Introduzione al cristianesimo”: «L’uomo perviene a sé stesso uscendo da sé stesso», «presso il totalmente Altro che è Dio».

Ma fino alla nostra morte terrena, ciò, per noi, «rimane una sortita nell’ignoto» (d’ora in poi di nuovo citiamo da “Guardare al Crocifisso”). «Guardiamo stupiti i segni della morte a cui in precedenza non avevamo mai prestato attenzione e sorge il sospetto che l’intera vita propriamente sia solo una variazione della morte; che noi siamo ingannati e che la vita propriamente non è un dono, ma una pretesa». Chi, però, «ha visto l’agnello – Cristo in croce – sa: Dio ha provveduto». In questo agnello «intravvediamo lontana, nei cieli, un’apertura; vediamo la mitezza di Dio, che non è né indifferenza né debolezza, ma suprema forza».

La gioia che ne consegue, è riflesso debole – eppur vero – di quella con l’incontro con l’Onnipotente, davanti al quale ognuno si presenterà nudo nella propria miseria, come nelle parole di Papa Benedetto XVI citate all’inizio. Il Giudizio – per usare parole di Guardini in “Le cose ultime” -, «significa che nella luce santa di Dio l’uomo ha una visione completa di sé stesso (…). Tutto ciò che di solito rende insensibili – orgoglio, vanità, distrazione, indifferenza – è assente. L’animo è aperto, sensibile, raccolto. E l’uomo vuole. Sta dalla parte della verità contro sé stesso. (…) Il cuore si mette a disposizione del pentimento e si consegna così alla potenza santificante dello spirito creatore».

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 13 gennaio 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio