Archivio | Fumetti – cartoni animati – illustrazioni RSS feed for this section

Quei ferraresi in Texas: Camp Hereford durante la seconda guerra mondiale

16 Feb

Si intitola “Hereford. Prigionieri italiani non cooperatori in Texas” il nuovo libro dello storico Flavio Giovanni Conti. La cronaca agrodolce del biennio ’43 al ’45 che segnò il futuro di diversi ferraresi, tra cui Gaetano Tumiati, Ervardo Fioravanti e Giovanni Rizzoni

Ufficiali prigionieri a Hereford. Gaetano Tumiati è il sesto in piedi da sx. Seduti da sx: il terzo è Giuseppe Berto, il quinto Fioravanti (foto Floretta Ravaglioli e Anna Rizzon)

di Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 19 febbraio 2021

http://www.lavocediferrara.it

Un dolce che riproduce il Castello di Ferrara e un serpente divorato dopo averlo cotto nella brillantina per capelli.
Sono solo due aneddoti riguardanti i ferraresi fatti prigionieri dagli Americani durante la seconda guerra mondiale e detenuti a Camp Hereford in Texas. Un capitolo agrodolce della storia del Novecento, che segnerà nel bene e nel male la vita di tanti italiani, divenuti poi celebri intellettuali, docenti, artisti, giornalisti, imprenditori e politici.
Ne parla lo storico Flavio Giovanni Conti nella sua ultima fatica, “Hereford. Prigionieri italiani non cooperatori in Texas” (Il Mulino, gennaio 2021). Negli anni Ottanta Conti fu il primo a realizzare studi scientifici prima sui prigionieri di guerra italiani, poi nello specifico su quelli negli Stati Uniti. Quest’ultimo libro si basa principalmente su fonti d’archivio italiane, statunitensi e vaticane, oltre che su memorie e testimonianze orali e scritte dedicate a questo luogo nel tempo erroneamente etichettato come “campo fascista”. L’ingiusto marchio fu affibbiato nel ’48, anno di uscita del libro del ferrarese Roberto Mieville intitolato “Fascists’ Criminal Camp”, il primo dedicato a Camp Hereford.
Sono stati circa 1milione e 200mila i militari italiani prigionieri durante la seconda guerra mondiale, di cui metà catturati dai tedeschi e l’altra metà dagli Alleati. Di questi circa 560mila, ben 51mila furono inviati negli Stati Uniti, la maggior parte dei quali fu trasferita dopo la resa italiana del maggio ’43 in Africa settentrionale, su suggerimento del generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate nel Mediterraneo. Nell’ottobre del ’43 gli Alleati avviarono un programma di cooperazione in base al quale i prigionieri italiani che si fossero offerti volontari per svolgere determinati lavori, avrebbero ricevuto in cambio alcuni miglioramenti nel trattamento. I prigionieri che non aderirono alla cooperazione furono separati dagli altri e internati soprattutto nel campo di Hereford (oltre 3mila), nelle Hawaii e in alcuni campi dello Utah.
Sei furono i ferraresi detenuti a Camp Hereford: Gaetano Tumiati, Luigi Deserti, Ervardo Fioravanti, Roberto Mieville, Giovanni Rizzoni (detto Gioriz) e Lorenzo Rolli. Nonostante alcuni periodi di razionamento dei viveri e alcuni soprusi, la vita nel campo era più che dignitosa, seppur segnata dall’angoscia per la situazione nel nostro Paese e la nostalgia dei propri cari. Così Deserti descrive gli edifici dove vivevano: «Baracche di materiale tipo faesite con tetti incatramati e il pavimento interno in legno, ognuna d’esse divisa in cinque spazi, a loro volta divisi in due box ciascuno con due letti a reti metalliche con materasso e lenzuola. Nell’ingresso vi era una stufa e quattro armadietti».

Lorenzo Rolli, rugbista sfortunato
Sottotenente nato a Ferrara il 20 aprile 1916, convinto fascista, a Ferrara ”porta” il rugby, che egli stesso gioca e per il quale organizza un club. Lavora all’INPS ma muore giovane, nel 1958, di infarto.

Luigi Deserti, il repubblichino divenuto imprenditore
Fu lui a raccontare il sopracitato aneddoto del dolce lungo un metro e mezzo di lato – realizzato dal prigioniero Gaetano Giusberti -, che riproduceva il Castello di Ferrara, con il cortile pieno di bignè alla crema. Nel campo è tra i pochi insieme a Tumiati a dichiararsi aderenti alla Repubblica Sociale Italiana. Nel 1950 fonda la D&C, importante società di distribuzione di prodotti alimentari di qualità. Presidente dell’Industry Cooperative Programme della FAO dal ’74 al ’76, dal ’78 all’82 è anche presidente dell’Istituto per il commercio con l’estero (ICE). Nel ’60 crea l’“Oltremare”, società specializzata nella realizzazione di impianti per la lavorazione degli anacardi, che ha costruito 15 stabilimenti in Africa e uno in America Latina. Dal ’64 al ’70 è Consigliere comunale a Bologna per il Partito Liberale Italiano. Tra le onorificenze ricevute, quella dalla regina Elisabetta di Ufficiale dell’impero britannico.

Ervardo Fioravanti, artista instancabile
Nato a Calto (RO) nel 1912, giunge nel campo alla fine di giugno del ’43 con altri prigionieri catturati a Pantelleria. Si ritrova in baracca con, tra gli altri, Tumiati, Alberto Burri, Giuseppe Berto (che in questo periodo scrive il suo romanzo d’esordio, “Il cielo è rosso”), lo scrittore e magistrato Dante Troisi. Artista comunista, a Camp Hereford fa parte del gruppo dei “collettivisti”. Nell’agosto ’45 nel campo partecipa a una collettiva di arte figurativa con 14 opere, di cui sette acquerelli, due illustrazioni per racconti, tre disegni a penna, due oli. In un’altra occasione realizza la scenografia di un dramma di Troisi, “Sperando la vita”. Con quest’ultimo dirige anche una delle riviste del campo, “Argomenti”. Collabora anche con “Olimpia”, periodico sportivo, con i quaderni d’arte “Chiaroscuri” e con altre riviste artistico-culturali. Insegna nel corso di arte e durante la prigionia realizza diversi disegni, perlopiù caricaturali, sulla vita dei prigionieri a Hereford.
I primi mesi dopo il rimpatrio non sono per nulla facili. Lui stesso scrive nell’agosto ’46 all’amico Renzo Barazzoni: «Io non faccio (…) che sentire nostalgia della prigionia». Nel ‘50 è tra i fondatori del circolo artistico-culturale “Il Filò”. In seguito insegnerà all’Istituto d’arte Dosso Dossi di cui divenne Direttore nel ’60. È morto a Ferrara nel ’96.


Roberto Mieville, «baffetti neri e movenze angolose»
Caldo, fame e bastonate: è cupo il racconto di Mieville dalla cattura alla detenzione. È invece Tumiati, con poche pennellate, a raffigurare così il compagno di prigionia: «segnato dai baffetti neri, quegli occhi a spillo, quelle movenze angolose, tutte a scatti». Secondo il racconto di Aurelio Manzoni, nel campo si aggrega al gruppo dei “collettivisti”. Al rientro in patria chiede l’iscrizione al PSIUP di Ferrara, ma la sua domanda viene respinta perché era stato uno dei responsabili dell’incendio della Sinagoga di Ferrara, e, come ricorda Manzoni, «allora…passò al MSI». Di questo partito diviene deputato dal ’48 al ’55, anno in cui muore in un incidente stradale.

Giovanni Rizzoni (Gioriz), che convinse Burri a dipingere
Nato a Bondeno il 15 aprile 1911, tenente e architetto, ha una fidanzata di nome Italia. A lei e ai famigliari scrive numerose lettere dal campo rassicurandogli sulla vita più che dignitosa e anzi mostrando continua preoccupazione per il conflitto nel nostro Paese. In una lettera a Italia del 3 luglio 1944 scrive: «Alla sera spesso faccio lentamente il giro del campo quando la visione del reticolato è resa meno urtante dalla luce del tramonto e i riflettori non sono ancora accesi, come se ti seguissi da lontano, come se tu mi potessi apparire di là dove fisso, ma non vedo». Partecipa anche lui alla mostra di arte figurativa dell’agosto 1945 con sei sue opere. Dirige una delle rivista del campo, “Il Poviere” (da POW, Prisoner Of War) e collabora con altre. Insieme a Fioravanti e ad altri insegna nel corso di arte ed è tra i primi a incoraggiare Alberto Burri a iniziare a dipingere. Nel ’46, tornato dall’America, si sposa con Italia e l’anno successivo si laurea in Architettura a Roma. In seguito svolge l’attività sia come libero professionista sia sotto l’INAM. Solo nel ’69 riprende a dipingere e a disegnare. Muore a Roma il 23 ottobre 1972.

Gaetano Tumiati: il serpente mangiato e le tante attività
Nato il 6 maggio 1918 a Ferrara, si arrende nel maggio ’43 mentre si trova a Enfidaville, in Tunisia. La nave Santa Rosa porta lui e altri il 5 luglio ’43 in America. Racconta dei maltrattamenti compiuti dai soldati americani. Così descrive il paesaggio all’arrivo del treno: «Non c’erano paesi, non c’erano città, si vedeva solo questa immensa prateria […] come quelle che si vedono nei film western, girati da John Ford, sterminate, senza nessun segno di abitazione. Si vedevano soltanto in distanza, a quattro o cinque chilometri, delle luci molto chiare come se fosse una raffineria, o come se fosse un aeroporto […] e arrivammo al campo perché quelle erano le luci del campo». Calciatore appassionato, collaboratore di “Argomenti” e altre riviste, pur avendo all’inizio aderito alla RSI, nel campo partecipa alle riunioni dei “collettivisti”, ma in seguito viene espulso dal gruppo con l’accusa di “revisionismo”. È lui a raccontare, in seguito al calo delle razioni nella primavera/estate del ’45, del serpente mangiato insieme ad Alberto Burri dopo averlo cotto nella brillantina per capelli. Nel gennaio ’44 riceve la prima lettera, delle sorelle Roseda e Caterina alloggiate a Viserba, vicino Rimini, dove con la famiglia si sono recate per due settimane per sfuggire al caldo di Ferrara. È da una lettera di uno zio che viene a conoscenza della morte del fratello partigiano Francesco, detto Francino, fucilato dai fascisti a Cantiano (PU). Quella del campo è in ogni caso un’esperienza indimenticabile: «Quei due anni e mezzo di prigionia», scrive, «non dico che li rimpiango perché, ahimè, furono molto duri […] però sono stati sicuramente i più formativi della mia vita e hanno contribuito, più di ogni altra esperienza, più della guerra, più della educazione…anzi l’educazione fascista ha nuociuto […] più di qualsiasi educazione, anche quella invece onestissima familiare, di mio padre che era un rigoroso professore risorgimentale». Tornato in Italia, rimane in contatto con ex compagni di prigionia tra cui Mieville, Berto e Manzoni, diventa giornalista, prima per il “Corriere del Po”, poi per “L’Avanti”, “La Stampa”, “Panorama”, è direttore della “Illustrazione Italiana”, inviato in URSS negli anni di Stalin e nella Cina di Mao. Come scrittore ha vinto il Premio Campiello nel ’76 con “Il busto di gesso”. Le sue memorie le ha raccolte nella pubblicazione dell’85 “Prigionieri nel Texas”.

Trasformare il dolore in dono: nuovo libro con la Via Crucis di Franco Morelli

1 Feb

“Di ciò che ci hai donato”: il libro con la Via Crucis di Franco Morelli e le meditazioni di don Saverio Finotti

di Andrea Musacci

La morte e la sua attesa come luogo di memoria e orizzonte eterno di salvezza. La morte dell’umile, del misero come estrema e sublime immagine del dono totale.
È un dialogo tra arte e parola quello contenuto nel volume appena edito “Di ciò che ci hai donato. Via Crucis per l’uomo comune” (Graphe.it, 2021, 88 p., ill.), che raccoglie le riflessioni di don Saverio Finotti, sacerdote della nostra Diocesi in servizio a Roma, e le illustrazioni di Franco Morelli, figura unica di artista, scomparso nel 2004.
Un volume ulteriormente arricchito dalla prefazione di mons. Vincenzo Paglia e da un testo di Gianni Cerioli, indimenticato critico d’arte scomparso lo scorso 22 maggio a 77 anni. Cerioli che nel 2014 presso la Sala espositiva del Liceo “Dosso Dossi” di Ferrara aveva curato la mostra con i disegni della Via Crucis di Morelli e nello stesso luogo nel 2017 la retrospettiva “Franco Morelli e il libro della Genesi”, con opere realizzate nel 1987, 1989 e 1993. E proprio Cerioli nel testo del volume appena uscito rifletteva: l’arte di chi, come Morelli, è scomparso e «l’azione della morte all’interno dell’arte delle immagini» ridonano alle cose del quotidiano «quel mistero che era stato smarrito». Il consueto e il divino quindi si annodano tra loro, richiamandosi a vicenda nei disegni e nelle meditazioni di Morelli e Finotti.
Protagonista – possiamo dire – della Via Crucis e della storia della salvezza «è l’uomo comune che, coinvolto nel suo dolore, vive veramente la passione del Signore; dinnanzi a questo comune dramma non è la fede che rivendica autorevolezza, ma la comunione umana», scrive il sacerdote.
Nelle stesse illustrazioni di Morelli, quindi, Gesù è il povero e l’anziano, è l’operaio e il viandante, il malato e il derelitto. È la figura dalle braccia forti e dallo sguardo ora fiero ora chino. È colui il cui corpo – disegno dopo disegno, man mano che si avvicina il Golgota, un’amena stanza d’ospedale -, si piega sempre di più, il cui passo si fa incerto fino all’ultima, estrema elevazione nella croce (in Morelli è distensione nel letto dell’agonia, il corpo avvolto da un impalpabile sudario come il “Cristo velato” di Sanmartino).
È una figura di operaio, forse edile, sospeso fra dignità del lavoro e solitaria miseria. Una figura che forse omaggiava quella del padre, morto proprio mentre lavorava. Ma non si pensi a un’opera riduzionista: il Cristo di Morelli e le parole di Finotti sono tratto e nota della condizione umana, concreta e quotidiana ma mai epidermica, non contingente ma essenziale: «La caduta, ogni caduta – scrive Finotti in una delle meditazioni -, è uno dei momenti in cui l’uomo è più indifeso ed esposto (…); ma forse, proprio per questo, la terra è uno dei luoghi e momenti in cui si è autenticamente solo uomini». L’uomo caduto, nella sua «totale impotenza», è l’uomo piegato non, come in Rodin, dalla gravità del pensiero ma dal peccato che pare vittorioso, che oblia persino il bene compiuto, che Dio, solo Dio può contare e salvare a pieno.
Ma quanto importante sarebbe, nell’ordinario delle nostre vite, non dimenticare ciò che Dio non dimentica? Così vi medita Finotti: il bene «riflette la speranza, quale attesa di consolazione, e la fede, come unica soluzione di senso». Non dimenticare il bene, non perdersi lungo la “via crucis” che porta alla salvezza, significa, dunque, non perdere per strada la speranza, non far svanire la fede, non ignorare la pietà negli occhi dell’altro, né il suo dolore. Significa non dimenticare il cammino – non scritto – del nostro cercare. Non dimenticare di donarsi.

Vita e aneddoti su Franco Morelli

Franco Morelli, nato a Ferrara nel 1925, frequenta per un solo anno l’Istituto d’arte Dosso Dossi. Ragioni di forza maggiore (la morte del padre prima e del nonno poi) lasciano lui e il fratello minore senza aiuti finanziari e i due ragazzi debbono trovarsi un lavoro per mantenersi. Nel 1945, nei mesi successivi alla Liberazione, dà vita a Ferrara a un Circolo Artisti Dilettanti che poi l’anno successivo apre una sezione anche a Cento. Solo nel 1951 presenta la sua prima personale di pittura. Negli anni ‘50 si mette in contrasto con il sistema delle arti dominanti a Ferrara e alla fine del decennio decide di non esporre più, relegandosi in un isolamento volontario. Nel suo studio continua con fervore a dedicarsi alla pittura e soprattutto all’illustrazione, creando oli, tempere e tavole disegnate con la penna biro, rimaste nascoste fino alla morte avvenuta nel 2004. Dopo la sua scomparsa, infatti, la vedova Anna Luisa Bianchi (deceduta il 23 marzo 2020) trova le sue opere in un armadio a muro: su sollecitazione di don Franco Patruno, e poi di Cerioli, la sua opera comincia a essere conosciuta, e l’intera collezione viene donata alla Galleria d’Arte Moderna Bonzagni di Cento. Solo i pezzi della serie sulla “Divina Commedia”, su cui l’artista lavorò per un trentennio, sono 1.048, su un totale di più di 2mila. Come ci raccontò Marina Accardi, amica di famiglia, nonostante il morbo di Parkinson che lo afflisse negli ultimi anni, Morelli continuò a disegnare: l’ultima sua opera rappresenta una mano di Cristo col chiodo della crocifissione. «La voleva stracciare, perché la considerava imperfetta a causa della malattia, ma riuscii a conservarla».
«Migliaia e migliaia sono le creature mie alle quali ho dato segno e forma – scrisse Franco Morelli – e che mi sorreggono nei tanti momenti di tristezza e che, solo a volte, riescono perfino a farmi capire che non sono nato solo per morire, ma che ho avuto vita per dedicarmi esclusivamente a loro».

La Divina Commedia di Franco Morelli: ecco tre inediti

Tre disegni a bic nera su carta datati 1992 raffiguranti altrettanti momenti della Divina Commedia, sono il regalo che circa 10 anni fa la vedova di Morelli, Anna Luisa Bianchi, fece a Gianfranco Tumiati e al figlio Giorgio. Quest’ultimo ha ereditato la guida della filiale Fideuram in viale Cavour a Ferrara dopo la morte del padre lo scorso dicembre. I tre disegni sono su una delle pareti dell’ufficio di Tumiati: «la signora Bianchi ce li donò chiedendoci che venissero esposti. Così abbiamo sempre fatto».
Fanno parte delle opere che l’artista non voleva venissero catalogate, ritrovate solo dopo la sua morte.

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 5 febbraio 2021

https://www.lavocediferrara.it/

“Il covid? Colpa degli ebrei” L’antisemitismo nell’epoca della pandemia

18 Gen

Indagine nella quotidianità dell’odio contro gli ebrei, fra web, tv e carta stampata. Dal Brasile all’Iran, dalla Turchia agli USA, suprematismo bianco, antisionismo di sinistra e islam si intrecciano in una spirale di disprezzo e violenza tanto arcaica quanto contemporanea. A rimetterci sono sempre loro, colpevoli di tutto. Anche di esistere

di Andrea Musacci

In un libro scritto nel 2018, Deborah E. Lipstadt, storica della Shoah, riflette: «Al cuore di tutte le teorie del complotto c’è l’idea di una congrega segreta di potenti, un’élite demoniaca che controlla elementi cruciali di una determinata società. I teorici del complotto si affidano a un ragionamento tortuoso: proprio il fatto che non si possa identificare con precisione i cospiratori “prova” l’esistenza del complotto» (“Antisemitismo. Una storia di oggi e di domani”, Luiss University Press, gennaio 2020).
Il libro non poteva certo immaginare l’arrivo del Coronavirus, ma in quella citazione l’autrice intuisce cosa la pandemia avrebbe portato nell’odio millenario contro gli ebrei in quanto tali. Quale occasione migliore, infatti, per folle sparse in ogni angolo del globo per marchiare ancora una volta gli ebrei come responsabili e approfittatori della nuova “peste”.

Gli ebrei untori: dai territori palestinesi agli USA (passando per la Germania)
La storia non è certo nuova a complotti di questo tipo: negli anni della peste nera in Europa (1347-1351) le accuse contro gli ebrei di essere gli untori causarono pogrom che portarono alla distruzione di 200 comunità ebraiche in tutta Europa. Gli ebrei vennero accusati di avvelenare pozzi e fontane, così da permettere la diffusione della “morte nera”. Qualche secolo più tardi, solo per fare qualche esempio, nel 1719 a Udine un proclama reiterava il divieto del 1556: agli ebrei, accusati dell’introduzione della peste in città, fu proibito di abitarvi e di condurre attività di prestito, pena sanzioni pecuniarie e il sequestro dei beni, compresi i depositi presso il Monte di pietà. Le cronache del 1556 riferiscono che il contagio fu introdotto a Udine da masserizie infette trasportate da ebrei della città che si erano recati a Capodistria. Questi deliri furono riproposti dalla propaganda nazista nel 1941 quando si diffuse la voce che gli ebrei polacchi fossero colpevoli della diffusione del tifo.
Ma veniamo ai giorni nostri. Sull’edizione italiana di “Pars Today”, sito di notizie di proprietà del feroce regime iraniano, un articolo del 12 marzo 2020 accusa Israele di usare il virus per uccidere i prigionieri palestinesi: «Israele ha inviato un medico malato tra i prigionieri palestinesi della prigione di Ashkelon in modo da contagiarli tutti con il coronavirus», spiega il delirante articolo. «Dopo il contagio dei prigionieri palestinesi con il coronavirus, le autorità carcerarie israeliane si sono rifiutate di fornire qualsiasi tipo di assistenza medica lasciando morire i carcerati». Naturalmente tutto falso: il medico seppe solo dopo la visita di essere positivo al Coronavirus e nessuno mai provò che avesse contagiato altre persone.
Carlos Latuff è un fumettista brasiliano osannato nell’area della sinistra antisionista. Nel 2006 ha partecipato (vincendo il secondo premio) all’International Holocaust Cartoon Contest, concorso negazionista promosso per la prima volta nel 2014 dal quotidiano iraniano Hamshahri. L’estate scorsa ha realizzato una vignetta in cui si vede un soldato israeliano che, dopo aver demolito un presunto “Covid-19 testing centre” a Hebron in Cisgiordania, sorride vittorioso all’ormai noto simbolo del Coronavirus con sembianze umane. Alcuni funzionari del ministero della Salute dell’Autorità Palestinese hanno dichiarato al Jerusalem Post di non essere a conoscenza dei piani per costruire un “Covid-19 testing centre” a Hebron. Si è poi scoperto, infatti, che l’edificio costruito illegalmente sarebbe dovuto diventare la sede di una concessionaria di auto.
Spostandoci in Europa, ad Amburgo in Germania, il 7 aprile nei vagoni della metropolitana sono stati scoperti alcuni adesivi rappresentanti la stella di David che i nazisti applicarono agli indumenti degli ebrei durante la Seconda guerra mondiale. L’adesivo ha al centro il simbolo che indica “rischio biologico” e due scritte – “infetto” e “Coronavirus” -, per porre in relazione gli ebrei con la diffusione del Covid-19.
Un altro esempio, fra i tanti, della teoria degli “ebrei untori” lo peschiamo negli USA: il 12 marzo l’ex-capo del Ku Klux Klan David Duke ha twittato l’ipotesi che Donald Trump fosse rimasto contagiato, incolpando di ciò Israele e «l’elite sionista globale». I gruppi di estrema destra statunitensi, servendosi di social e altri siti web, affermano regolarmente che il loro Paese è governato da quello che definiscono ZOG (Zionist Occupied Government, “Governo d’occupazione sionista”), un gruppo internazionale di ricchi ebrei che ha come obiettivo un unico governo mondiale guidato da loro.


«Un complotto giudaico mondiale»
Gli ebrei come eterni “burattinai” che controllano le redini del mondo, cospirando di continuo a tal fine, è uno dei tropi più diffusi nella storia.
Negli ultimi mesi gli esempi si sprecano. Lo scorso 6 marzo in Turchia Fatih Erbakan, leader della formazione islamista Nuovo Partito del Benessere (Yeniden Refah Partisi) in un intervento pubblico ha affermato: «Anche se non ne abbiamo la prova certa, questo virus serve gli interessi del sionismo, che sono quelli di diminuire il numero degli esseri umani e di impedire che cresca. Il sionismo è il batterio vecchio di cinquemila anni che ha causato la sofferenza di tanta gente». Sempre in Turchia, l’ex colonnello dell’esercito, Coskun Basbug, sul canale televisivo A-Haber, di proprietà della famiglia del presidente Erdogan, ha sostenuto che gli ebrei avrebbero inventato e diffuso il Coronavirus «per modellare il mondo a loro piacimento e neutralizzare il resto della popolazione».
Sempre a marzo in Iran vari organi di stampa hanno rilanciato l’intervista rilasciata dal complottista americano James Fetzer, professore di filosofia in pensione dell’Università del Minnesota, alla catena televisiva iraniana in lingua inglese Press TV, di proprietà della Irib, la TV di Stato: «credo che quello a cui stiamo assistendo, sotto il mantello della pretesa epidemia di coronavirus, è un attacco con armi batteriologiche contro l’Iran da parte di elementi sionisti che sfruttano la situazione».
Anche in questo caso il nostro Continente si dimostra tutt’altro libero da certe nefandezze. Il report di un ente di consulenza indipendente del governo britannico ha studiato 28 popolari forum NO VAX sui social media: «molti di questi post – è scritto nel report – suggeriscono che gli ebrei abbiano creato il coronavirus e che stiano tramando dietro le quinte per destabilizzare banche e Paesi attraverso la diffusione del virus».
In Spagna il 14 marzo sul sito di estrema sinistra “Kaosenlared”, vicino agli indipendentisti baschi, è uscito un articolo secondo il quale «il coronavirus è uno strumento per la Terza Guerra Mondiale rilasciato dall’imperialismo yankee sionista. L’elite anglosassone capitalista e sionista, nemica di tutta l’umanità, ha compiuto un ulteriore passo nella sua offensiva criminale e genocida».
Nella vicina Francia, Alain Mondino, capogruppo del partito RN (successore del Front National) nel comune di Villepinte vicino Parigi, ha postato sul social network russo VK un video secondo cui il virus è stato creato dagli ebrei «per imporre la loro supremazia».

Le tesi antisemite sul vaccino anti Covid
In queste settimane grande diffusione su ogni media ha avuto la notizia – poi rivelatasi una fake news – secondo cui Israele stia negando ai palestinesi la distribuzione del vaccino anti Covid-19. Una forma aggiornata, insomma, dell’“ebreo untore” che ora, al contrario, non contagerebbe il resto del mondo ma impedirebbe agli altri di curarsi. Sul Jerusalem Post, a inizio gennaio è stato il giornalista arabo israeliano Khaled Abu Toameh a ristabilire la verità dei fatti: «i palestinesi non si chiedono che Israele venda loro, o acquisti per loro, il vaccino da qualsiasi paese. I palestinesi affermano che riceveranno presto quasi quattro milioni di vaccini di fabbricazione russa. L’Autorità Palestinese dice che, con l’aiuto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, è riuscita ad assicurarsi il vaccino da altre fonti». L’Autorità Palestinese, infatti, come altri Paesi mediorientali vicini, a febbraio inizierà a ricevere dosi di vaccini Sputnik V e AstraZeneca. Inoltre, gli Accordi di Oslo del ’93 tra israeliani e palestinesi stabiliscono che l’Autorità Palestinese è responsabile dell’assistenza sanitaria per i palestinesi in Giudea, Samaria e striscia di Gaza, comprese le vaccinazioni. Da allora l’Autorità Palestinese tutela gelosamente questa sua prerogativa.
Come scrive Uri Pilichowski sul Times of Israel del 4 gennaio scorso, «gli accusatori di Israele (…) esigono che Israele dia massima autonomia ai palestinesi e allo stesso tempo pretendono che Israele garantisca ai palestinesi tutto ciò che garantisce ai propri cittadini. È un’argomentazione che ignora i fatti. I fatti sono che i palestinesi hanno voluto l’autonomia anche per quanto riguarda l’assistenza sanitaria della propria gente».
II 16 marzo scorso un profilo Twitter legato alla statunitense “Nation Of Islam”, il gruppo islamico afroamericano suprematista e antisemita di cui fece parte Malcolm X, ha insinuato che il virus sia stato creato da Israele come arma biologica. Diversi mesi dopo, il 27 dicembre, Ishmael Muhammad, Assistente nazionale del leader della “Nation of Islam” Louis Farrakhan, ha messo in guardia i neri contro i vaccini per il Covid-19 durante una recente serie di conferenze intitolate “American Wicked Plan” (“Il piano perverso dell’America”). Citando Farrakhan, Muhammad ha detto: «Negli anni Sessanta (…) Elijah Mohammed (che guidò la “Nation of Islam” prima di Farrakhan, ndr) consigliò ai suoi seguaci di non assumere il vaccino per la polio». Farrakhan – ha aggiunto Muhammad – aveva scoperto che esistono due tipi di vaccini per l’influenza, uno che contiene il mercurio e altri additivi e un altro, privo di queste sostanze, «per gli ebrei e per coloro che sono al corrente degli additivi chimici presenti in questi vaccini».
Sempre a marzo 2020 un anonimo lettore ha recapitato al quotidiano “Libero” un messaggio dove spiegava che il coronavirus è stato diffuso dal Mossad, i servizi segreti israeliani, in modo che gli israeliani stessi potessero poi produrre «un vaccino che, essendo ebrei, venderanno al miglior offerente».

«Gli ebrei? Non sono cittadini»: pensieri dall’Italia di oggi
A breve ricorrerà il Giorno della Memoria per commemorare le vittime dell’Olocausto. Furono 6.806 gli ebrei italiani deportati nei campi di sterminio nazisti, dai quali ne sono ritornati soltanto 837. Sono stati 322, invece, gli ebrei italiani arrestati e uccisi nel nostro Paese tra il 1943 e il 1945. Dei 6.806 sopracitati, 1.023 furono le vittime del rastrellamento del ghetto di Roma, deportate direttamente al campo di sterminio di Auschwitz. Soltanto 16 di loro sopravvissero.
Il 21 febbraio del 2020 Sergio Mattarella si è recato alla Sinagoga di Roma per incontrare la Comunità ebraica della capitale, la più antica di Europa, che ancora oggi conta 13mila membri, oltre un terzo di quelli in tutta Italia. Sempre Deborah E. Lipstadt nel sopracitato libro spiega come «l’antisemitismo non è semplicemente l’odio per qualcosa di “straniero”, ma l’odio per un male perpetuo che agisce nel mondo. Gli ebrei non sono un nemico, ma il nemico per eccellenza».
Come darle torto. Passato e presente si fondono in un unico turbine di disprezzo e violenza. “Dalla vostra parte” è un gruppo Facebook di “discussione politica” (si fa per dire) seguito da 33.400 persone. Alcuni dei 120 commenti di risposta al post sulla visita di Mattarella alla Sinagoga romana recitano così: «Per Mattarella [gli ebrei] sono i veri romani. Contenti loro…», scrive ad esempio Massimo L. . «A Mattarella interessano tutti tranne noi italiani», è il pensiero di Manuela C. .
Persone normali che, nel 2020, un secolo dopo le squadracce fasciste, credono, esternandolo senza problemi, che gli ebrei non siano cittadini italiani, e che quindi non abbiano gli stessi diritti degli altri.
Ancora un esempio del “quotidiano” e diffuso odio antisemita. Novembre 2019: nello stesso gruppo Facebook, sotto un post denigratorio nei confronti di Liliana Segre, rivolgendosi a lei, Leonardo R. commenta: «Purtroppo 80 anni fa qualcuno non ha fatto bene il suo mestiere, è per questo che la finanza mondiale, della quale la tua gente è a capo, sta strangolando il mondo».
Continue dimostrazioni di come purtroppo storia e presente siano uniti in un’unica terribile ossessione antiebraica.
Buon Giorno della Memoria, allora. Ce n’è davvero bisogno.

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 22 gennaio 2021

https://www.lavocediferrara.it/

Immagine

Claudio Gualandi in mostra al Dosso Dossi

16 Apr

art claudio

L’arte in parete: tante inaugurazioni nella nostra città

14 Mag

3398_32f921b07fb484121a8ea81f8a31a6c4

Chiara Sgarbi

La città di Ferrara questo sabato accoglierà numerose inaugurazioni artistiche.
La mostra di maggior rilievo è la personale di Maurizio Osti, “Ritmi di una cosmogonia individuale”, che inaugura alle 18 nella Galleria del Carbone in vicolo del Carbone, 18/a. Artista visuale, ex docente di Grafica all’Accademia di Belle Arti di Bologna, Osti presenta alcune “Miniature” e i Lybris. Il testo in catalogo è di Pasquale Fameli, e la mostra è visitabile fino al 28 maggio da mercoledì a venerdì dalle 17 alle 20, sabato e festivi dalle 11 alle 12.30 e dalle 17 alle 20.
Alle 18.30 nella Idearte Gallery di via Terranuova, 41, vernissage della personale di Simone Lingua con le sue composizioni optical-cinetiche, in parete fino al 25 maggio. Per l’occasione, Lucien Moreau (Eugenio Squarcia) suonerà brani elettronico-sperimentali.
“Vieni nel mio Giardino” è il titolo del progetto di Chiara Sgarbi presentato alle 18 nella sede dell’Associazione Rrose Sélavy in via Ripagrande, 46, all’interno del programma di Interno Verde. La mostra sarà visitabile fino a luglio il mercoledì, venerdì e sabato dalle 16 alle 20.
Alle 19, invece, nella sala espositiva “Dosso Dossi” in via Bersaglieri del Po, 25/b inaugura “Strutture sensibili” di Domenico Fatigati, con testi critici di Giorgio Agnisola e Caterina Pocaterra, e visitabile fino al 22 maggio dal lunedi alla domenica dalle 11 alle 13 e dalle 17 alle 20.
3398_c6b8f93b55d8296910252c86ea873319La Galleria Il Rivellino in via G. Baruffaldi, 6 oggi alle 17.30 presenta la personale della pittrice Livia Chieregato, visitabile fino al 26 maggio dalle 10.30 alle 12.30 e dalle 16 alle 19 (chiusa i pomeriggi di giovedì e domenica).
Alle 18 lo Spazio Aperto in via Carlo Mayr, 69 presenta “Unfold – L’universo narrativo di Altrosguardo”, mostra-racconto di Mara Melloncelli e Mattia Menegatti, in parete fino al 1° luglio.
“Habitat – Graffiti and street art project” è il nome del progetto (organizzato da collettivo Vida Krei in collaborazione con Servizio Giovani e ACER del Comune) in programma da oggi fino al 18 maggio: dalle 9.30 alle 19 street artisti interverranno nel quartiere Barco. Si tratta di Psiko (via Bentivoglio, 130), Alessio Bolognesi (via R. Maragno, 13), Stefano Capozzi (via Bentivoglio, 126), Mendez ed ESCK (via T. Solera, muro interno parcheggio).
Fuori città, alle 17 nella Casa della Società Operaia a Bondeno (viale Repubblica, 26) inaugura la mostra documentaria “Dal gelo russo alla prigionia tedesca”, a cura di Roberto Merighi. Con lettere e documenti (1942-’45) del fante Bruno Merighi, illustra il dramma dei soldati italiani prima nell’Armir e poi deportati nei lager nazisti.
Infine, domani dalle 18 alle 20 nell’Hotel de’ Prati in via Padiglioni, 5 a Ferrara inaugura “Filo conduttore” di Patrizia Panizzolo, in parete fino al 20 agosto, mentre a Palazzo Crema (via Cairoli, 13) le mostre di Stefano Faravelli, Lorenzo Dotti e Silvia Cariani del Festival “Diari di Viaggio” rimangono in parete oggi e domani dalle 10 alle 12 e dalle 17 alle 19.

Esperienza fuori mura, infine, per il pittore Giorgio Cattani, che oggi dalle 15 alle 19 partecipa alla performance di pittura e poesia “La pelle dei pittori e il sangue dei poeti”, all’interno del programma della seconda edizione del Festival Internazionale della Poesia di Milano – MuseoMudec di Milano.

Andrea Musacci

Pubblicato su la Nuova Ferrara il 13 maggio 2017

Tutto il mondo in un taccuino: col Festival “Diari di Viaggio” arrivano i reporter del colore

5 Mag

Manifesto-webUn viaggio è un’esperienza personale che segna nel profondo il vissuto di chi lo compie. Ma può diventare anche un’esperienza condivisa nella sua bellezza, e in questo l’arte, in diverse sue espressioni, rappresenta il mezzo ideale per veicolare l’anima del viaggiare. Da questa filosofia cinque anni fa a Ferrara è nata l’Associazione “Autori Diari di Viaggio”, che, come sua attività principale, ma non unica, ha l’organizzazione del Festival Diari di Viaggio, in programma da venerdì a domenica prossimi tra Palazzo della Racchetta, Palazzo Crema e la Galleria del Carbone. Attraverso mostre di carnettisti (da carnet, taccuino o libretto) da tutta Europa, conferenze, workshop per le scuole e non, incontri e due maratone, la nostra città diventerà la patria degli artisti viaggiatori

La 5° edizione del Festival, in programma a Palazzo della Racchetta (via Vaspergolo, 4), Palazzo Crema (via Cairoli, 13) e Galleria del Carbone (via del Carbone, 18/a), dal 2013 richiama da tutta Europa e non solo artisti e appassionati dell’arte di raccontare il viaggio attraverso l’uso dei codici dell’immagine e della parola.

Tante le mostre visitabili nei tre giorni dalle 9 alle 19: a Palazzo Racchetta, oltre alle varie collettive di carnet di viaggio e fotografia, vi sarà “Il viaggio dal punto di vista del fotografo paesaggista” di Andrea Burla, “Couchsurfers – Vivere il mondo viaggiando” di Simone Chiesa e Anna Luciani, “Buen camino peregrino” di Michele Pianeselli, “Černobyl 30 anni dopo” di Nicola Albanese, e “Around the Wall” di Danilo Malatesta. A Palazzo Crema, invece, “Intorno al verde stupore” di Stefano Faravelli, “Il Monferrato tra colline e risaie” di Lorenzo Dotti e “Tutti i segreti del volto umano” di Silvia Cariani. Infine, alla Galleria del Carbone da venerdì è possibile visitare “Ricordi” di Kjell Ekström. In mostra anche carnet storici di Giovanni e Vittorio Biasin.

Diversi anche i workshop: “Gli alberi, poemi scritti con le lettere di foglie” di Stefano Faravelli, “Tutti i segreti del volto – il ritratto” di Silvia Cariani, “Recenti wunderkammer, laboratorio di disegno naturalistico” di Lorenzo Dotti, “Occhiogioco, macchine per disegnare” di Maurizio Pizzo, “Smartphone Photography” di Giorgio Ranù, “Ferrara Social Landascape” a cura dell’Associazione Feedback, “Giochiamo a fare la carta” di Lorenzo Santoni, “Come usare la carta colorata…l’origami” di Maurizio Pizzo, “Disegniamo la città insieme” di Cedrine Bonami e Roberto Cariani. In programma anche sei conferenze con artisti ed esperti.

Abbiamo incontrato Riccardo Martinelli, Presidente dell’Associazione e tra gli organizzatori della rassegna.

In che cosa l’arte del racconto di viaggio trova la sua originalità?

Il carnettista si distingue soprattutto per un aspetto tecnico, in quanto non usa grandi tele ma album dove raccoglie più disegni, coi quali racconta il momento che vive, accompagnandolo spesso con altre tracce del suo viaggio – come può essere il biglietto del museo visitato o dell’autobus preso – e con testimonianze scritte.

Quando e come nascono l’Associazione e il Festival?

Cinque anni fa ci siamo incontrati io, Roberto Cariani, carnettista, Ernesto Sorghi, Paolo Volta, Lidia Moro e altri: vi era la necessità di dar vita a qualcosa che potesse essere significativo per la nostra città, una piccola chicca che merita di essere conosciuta. Nella prima edizione un posto centrale ce l’avevano gli sketchcrawler.

Quali sono le novità rilevanti di questa 5° edizione?

Due su tutte: una bravissima carnettista ferrarese in mostra, Silvia Cariani, e la presenza di molti giovani tra gli artisti.

Nel programma di quest’anno spiccano due maratone…

Sì, rappresentano per Ferrara un’occasione unica per farsi conoscere: vi parteciperanno persone da tutta Europa, che avranno l’opportunità di conoscere la città e di rappresentarla, per poi veicolarla nei loro Paesi d’origine. Vi saranno una circa 70 partecipanti dall’estero, per un totale di circa 300 iscritti. La prima maratona, “La Ferrara nascosta”, la guida Paolo Volta, ed è dedicata alle piccole specificità di Ferrara. L’altra, “La Ferrara bassaniana”, è organizzata insieme a Fondazione Carife e ad Archè, con Silvana Onofri che farà da Cicerone.

Un’attenzione particolare il Festival la rivolge agli studenti…

Quest’anno abbiamo lavorato tantissimo per le scuole, nei percorsi guidati, e con i worskhop, come quello di Maurizio Pozzi dedicato all’origami.

Perché la scelta di omaggiare Iliprandi attraverso il Festival?

Iliprandi, morto lo scorso settembre a 91 anni, è stato un importante designer, e il nostro ispiratore per il nostro Festival fin dalla 1° edizione. Lo ricordiamo inserendo un suo disegno sull’Africa nel manifesto della manifestazione, e allestendo una sua personale.

Andrea Musacci

Pubblicato su la Nuova Ferrara il 04 maggio 2017

 

L’artista Gualandi sbarca a Milano e abbraccia Felisi

6 Apr

3398_669c466f76282e58f987ceb1688e0722

Carlo Bassi e Claudio Gualandi a Milano

Un artista ferrarese è tra i protagonisti degli eventi espositivi collaterali al Salone del Mobile di Milano. Stiamo parlando di Claudio Gualandi, che con la sua personale “Souvenir d’Italie” allestita nel punto vendita Felisi in via Fiori Chiari, sta conquistando sempre più il cuore dei milanesi. Nella mattinata di martedì l’esposizione è stata inaugurata alla presenza dell’artista, accompagnato dalla moglie Linda Mazzoni, di Anna Lisa Felloni, proprietaria di Felisi, venuta appositamente da Ferrara insieme allo stilista Domenico Bertolani, a Chiara Biasini e Caterina Dondi.
A sorpresa ha partecipato al vernissage anche il noto architetto ferrarese Carlo Bassi, residente a Milano ma nostalgico della sua città natia. Molti anche i giornalisti presenti, in particolare di testate di moda nazionali come MF Fashion e Fashion Magazine, a coronamento di un successo meritato, ancora più in risalto in quanto parte di Fuorisalone, il programma di eventi ed esposizioni di contorno al Salone internazionale in programma fino a domenica nella città meneghina.
Tra i partecipanti al vernissage, tutti conquistati dallo stile unico di Gualandi e dai monumenti ferraresi da lui rappresentati, vi era anche il noto scultore e designer Gaetano Pesce, che venerdì scorso a due passi da via Fiori Chiari ha inaugurato, insieme, tra gli altri, a Vittorio Sgarbi, la propria monumentale scultura intitolata “Maestà tradita”.

Andrea Musacci

Pubblicato su la Nuova Ferrara il 06 aprile 2017

La città vista nelle incisioni di Mimì

2 Apr

mqb

Mimì Quilici Buzzacchi

Alle incisioni “ferraresi” di Mimì Quilici Buzzacchi è dedicata la mostra di punta tra quelle che inaugurano oggi in città. Alle 17.30, infatti, nell’Idearte Gallery in via Terranuova 41, viene presentata la retrospettiva dal titolo “Italia antica e nuova. Incisioni degli anni ferraresi (1927-1943)” di Mimì Quilici (al secolo Emma Buzzacchi), moglie di Nello Quilici, direttore del Corriere Padano e padre di Folco e Vieri. Il critico e storico dell’arte Lucio Scardino è il curatore dell’esposizione che vede 15 xilografie, 12 delle quali di grandi dimensioni, la maggior parte delle quali raffiguranti scorci di Ferrara e si trovano immortalate altre località. Fra le opere in mostra, anche una stampa a due colori, “Lavori al Canale Boicelli” del 1927, e la celebre “Leggenda ferrarese” del ’43, con San Giorgio che uccide il drago davanti al Castello. Nel progetto i curatori hanno voluto sottolineare le due anime dell’artista, che nel campo della grafica seppe unire ad una tecnica eccezionale una particolare capacità di sintesi espressiva, con un linguaggio non estraneo alle ricerche di una irrequieta modernità, ma interessato alla classicità.
Sempre oggi, alle 11, alla Biblioteca Bassani di via Grosoli 42 inaugura la mostra fotografica “La mia gente – Il Polesine” di Edoardo Terren, presente con il delegato provinciale Afi-Afiap (Federation internationale de l’art photographique) Maurizio Tieghi. La mostra resterà in parete, a ingresso libero, fino al 29 aprile, da martedì a sabato, 9-13 e nei pomeriggi di martedì mercoledì e giovedì 15-18.30.
Alle 17, invece, nella galleria Dosso Dossi in via Bersaglieri del Po 25/b, inaugura la mostra “Franco Morelli e il libro della Genesi”, curata da Gianni Cerioli. Nasce dalla collaborazione tra il liceo e Anna Luisa Bianchi Morelli, vedova dell’artista, ex allievo del Dosso morto nel 2004. In mostra, otto tavole a penna biro nera su carta del 1987-’89 e due grandi composizioni del ’93. Visitabile fino al 17 aprile tutti i giorni (festivi compresi) orari 10-12.30 e 16.30-19.30.
“Algorithmic” è il nome del progetto del performer e artista Andrea Amaducci, presentato oggi alle 17 alla Porta degli Angeli di Ferrara. Ricreando simbolicamente lo studio dell’artista, Amaducci tenta una commistione tra varie espressioni creative.
Alle 17.30 alla Galleria il Rivellino di via Baruffaldi 6 inaugura la mostra di pittura di 4 autori provenienti dall’Accademia d’arte San Nicolò: Cristina Rizzi, Duilio Nalin, Maria Livia Grazzi e Michele Altamura.
Alle 18 nella casa d’arte Il Vicolo in vicolo della Posta 9 a Bondeno inaugura “QomunismoeBarbarie” di Carlo “Alo” Andreoli, mostra organizzata dall’Associazione Bondeno Cultura. Sempre a Bondeno, all’Auxing in via per Zerbinate, apre “AudioSlaves” di Sandro Chiozzi, mostra fotografica legata alla musica, aperta fino al 30 aprile.
Alle 17.30 l’artista ferrarese Rosy Locatelli inaugura “L’incanto dell’irreale” a Villa Contarini a Piazzola sul Brenta (Pd).
E ricordiamo che da ieri nella sede dell’associazione Rrose Selavy di Ferrara (via Ripagrande 46) è possibile visitare la collettiva di Stefano Babboni, Lorenzo Romani e Piermaria Romani, mentre al Lazzaretto di Milano (via Lazzaretto 15), è aperta “La casalinga mannara. Il lato oscuro del femminile”, a cura di Maria Livia Brunelli, in parete fino al 9 aprile, con opere di Barbara Capponi, Silvia Camporesi, Anna Di Prospero, Alfred Drago Rens e Stefano Scheda.

Andrea Musacci

Pubblicato su la Nuova Ferrara il 1° aprile 2017

Mercato, vecchi maestri, giovani talenti: viaggio nel mondo artistico ferrarese

3 Feb

Gli articoli delle mie due pagine uscite su la Nuova Ferrara del 03 febbraio 2017 si possono leggere più facilmente cliccando su questi due link:

Andrea Musacci

«Il vescovo Caffarra apprezzò e oggi Monsignor Negri dice sì»

1 Dic

index

Duomo realizzato da Claudio Gualandi

L’idea è nata circa un mese fa, durante uno degli incontri pubblici nella Sala dell’Arengo del Palazzo Municipale, dedicati alla figura di Rossetti. «Ammiro la facciata del Duomo dalla finestra e penso: sarebbe bello poter coprire il telone del cantiere col mio Duomo illustrato», ci racconta. Ora, in occasione della presentazione dell’Albero di Natale della solidarietà, in programma sabato dalle 17 in Piazza Cattedrale, per circa un’ora verrà proiettata la facciata della Cattedrale illustrata da Gualandi, realizzando così, almeno in parte, la sua intuizione.

La proiezione, delle dimensioni di circa 12×8 metri, permetterà di sovrapporre la facciata illustrata sulla parte centrale di quella reale, evitando così l’impalcatura di legno posta alla base dell’edificio. L’organizzazione dell’evento, come degli altri eventi in programma, sono a cura di Made eventi, SuonoeImmagine e Delphi International.

L’opera è stata realizzata da Gualandi nel 2000 in occasione del Giubileo. Nello stesso anno riuscì a donare una copia della stessa all’allora Arcivescovo di Ferrara-Comacchio, il Card. Carlo Caffarra, il quale, racconta Gualandi, «lo guardò con attenzione, sorrise e disse: “a pieno titolo diventerà proprietà della Diocesi ferrarese». Al centro in basso un Vescovo regge il crocifisso, usato da Papa Giovanni Paolo II, per celebrare l’Anno Santo. Ai lati, su vari livelli, si affastellano angeli e demoni, beati e dannati, musici e operai.

Andrea Musacci

Pubblicato su la Nuova Ferrara il 01 dicembre 2016