Archivio | gennaio, 2024

Arnoldo Foà: arte come memoria 

31 Gen

L’intervento della figlia Orsetta e alcuni aneddoti, in un incontro svoltosi a Ferrara lo scorso 24 gennaio

«Mio padre era libero da condizionamenti e costrizioni, parlava liberamente e per questo spesso discuteva e veniva visto come “scomodo”». Così Orsetta Foà, figlia di Arnoldo, lo scorso 24 gennaio ha ricordato il padre, attore, regista teatrale e doppiatore, nell’incontro a Palazzo Roverella dal titolo “Ebraismo, cinema, teatro e vita ebraica”, organizzato da Istituto Provinciale Nastro Azzurro di Ferrara, Circolo Negozianti e Associazione De Humanitate Sanctae Annae. «Oggi se fosse qui in questa sala direbbe: “parlate, dite ciò che non va, parlate coi vicini e coi lontani”», ha proseguito. «Lui diceva quel che riteneva fosse giusto dire. Era scomodo, però la sua scomodità creava un’opportunità di crescita, riflessione, rielaborazione: ogni crisi è un’opportunità. Grazie, non dimenticate mio padre!», ha concluso.

Circa 120 i presenti all’incontro – fra cui gli Assessori Marco Gulinelli e Andrea Maggi -, che ha visto gli interventi di Riccardo Modestino e Carlo Magri e un finale in musica con Francesco Petrucci e Nicola Callegari: quest’ultimo ha incantato il pubblico con musiche della tradizione yiddish.

Modestino ha raccontato la storia del teatro ebraico, che nasce a fine ‘800-inizio ‘900 anche in vista «dell’acquisizione di un’identità nazionale» dentro il sogno della creazione di quello che diventerà lo Stato di Israele. “Habima” è la prima compagnia teatrale ebraica, nata a Mosca nel ’17 e nel ’31 trasferitasi a Tel Aviv, per poi diventare nel ’58 Teatro Nazionale di Israele. Modestino ha poi ricordato alcuni dei protagonisti del teatro ebraico, come Joshua Sobol (classe ‘39), Rina Yerushalmi, Edna Mazya e Semel Nava. «Il teatro in Israele – ha riflettuto – si è fatto interprete, anche critico, dei processi storico-sociali e culturali del Paese e della cultura ebraica. Arnoldo Foà è in comunione con questa grande storia artistica».

Magri ha invece riflettuto su come «spesso chi si dichiara ateo, in realtà nel suo intimo è alla ricerca di una grande spiritualità. E ciò vale anche per Arnoldo Foà». A seguire, vi è stata la proiezione di un documentario che lo stesso Magri ha dedicato a Foà. Tante le suggestioni di una vita raccolte nel video: dalla prima poesia da lui scritta all’età di 8 anni dopo una fuga notturna da casa («Cigola, cigola, macchina mia / Sai come piange l’anima mia»), all’impegno civile. Dall’intervista a Otto Frank, padre di Anna, alla sua lettura dell’Ariosto al Ridotto del Comunale di Ferrara. «Per essere un attore, bisogna innanzitutto essere», diceva Foà. E Foà non si può dire non sia stato, non abbia cioè vissuto fino in fondo la propria esistenza. 

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce” del 2 febbraio 2024

La Voce di Ferrara-Comacchio

«Un angelo ci parla del Paradiso»: la piccola Elena e la sua vita in Cristo

24 Gen

È tornata alla Casa del Padre a 17 anni la ragazza vittima di un grave incidente nel 2016. Ecco la sua esistenza spesa nella fede nel Signore, nell’amore e nella preghiera. Tante le persone che grazie a lei hanno riaperto il cuore a Gesù

di Andrea Musacci

In quel tempo Gesù disse: «Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli». (Mt 11, 25)

Elena piccola e fragile, Elena forte e matura. Elena bambina, Elena modello di fede. Elena immobile, Elena che cammina nelle vite delle persone. Elena che è morta e risorta mille volte, Elena sempre viva.

È una storia straziante e magnifica quella che ci arriva dalle porte di Ferrara: è la storia di Elena Marangon, una bambina mai diventata donna, un’anima speciale, il cui calvario, la cui forza, la cui fede genuina stanno portando a Cristo sempre più persone.

L’INCIDENTE

È il 7 settembre 2016, siamo in provincia di Rovigo: un terribile incidente stradale tra Adria e Corbola costa la vita a Gino “Angelo” Firenzuola, 72 anni, residente a Cologna vicino Berra. “Angelo” è il nonno affidatario della nostra piccola Elena, 10 anni, che nell’incidente si salva assieme ad altri due nipotini, un maschio e una femmina, e alla nonna Maria Rita Smanio (che passerà tre mesi in ospedale).

Natascia, figlia di Gino e Maria Rita, in un colpo solo rischia di perdere i genitori e una delle sue figlie in affido. Intubata e caricata a bordo dell’elicottero per essere trasportata all’Ospedale di Padova, Elena subirà diversi interventi che le salveranno la vita ma rimarrà con un forte deficit motorio fino al 20 dicembre 2023, giorno del suo ritorno alla Casa del Padre. 

Proprio nel trigesimo, sabato 20 gennaio, il nostro Arcivescovo ha presieduto la S. Messa in sua memoria nella chiesa di Santo Spirito. 

RINASCERE, SEMPRE

Natascia Firenzuola e il marito Riccardo Vassalli sono i genitori affidatari di Elena. In particolare, Natascia ha lavorato come educatrice e operatrice sanitaria con minori, anziani e disabili e oggi si occupa appunto di minori in difficoltà. Elena nasce l’11 luglio 2006 e quando ha appena 20 giorni viene affidata alla coppia: «è la cosa più bella che il Signore mi ha donato», ci racconta Natascia. 

Una grazia vera e propria, una vita appena nata ma già da far rinascere. Fin dai primi anni di vita, Elena si dimostra una bambina particolarmente affettuosa, legata ai genitori e ai nonni affidatari. «Con me – ci racconta la nonna Maria Rita – amava lavorare a maglia, cucinare, pulire, assistermi quando tiravo il collo alle galline…». Una bambina sempre obbediente e molto più matura e responsabile della sua età anagrafica. Una maturità e genuinità che le facevano dire, spesso anche agli adulti, ciò che pensava, anzi ciò che andava detto, la verità delle cose.

Poi inizia il periodo della scuola con le Materne, le Elementari e le Medie. Fino all’incidente di quel maledetto 7 settembre 2016, che segnerà la vita di Elena e della sua famiglia in maniera irreversibile. Ma che aprirà gli occhi e il cuore di tante persone. 

Elena sarà ricoverata tre settimane in terapia intensiva pediatrica all’Ospedale di Padova, poi 11 mesi al Centro San Giorgio di Ferrara per la riabilitazione, alternando alcuni periodi in pediatria. E poi, a parte due mesi di ricovero al Sant’Orsola, sarà sempre a casa, curata e amata dalla sua famiglia. 

Fondamentale sarà anche l’aiuto della fisioterapista Barbara Bellagamba, che ha seguito la ragazza per sei anni. Elena, piccola guerriera, continuerà a rimanere sempre lucida, consapevole, comunicando solo con gli occhi. All’inizio, grande è il dolore e lo shock in tanti amici e conoscenti: il suo allenatore di pallavolo, ad esempio, dopo quell’episodio decide di non allenare più. Dopo due anni di sosta obbligata, Elena riprende anche gli studi, concludendo le Medie e iscrivendosi a un Istituto Superiore di Ferrara, dove sta collegata in dad 4 ore al giorno per seguire le lezioni. Lo scorso ottobre, Elena ha fatto in tempo ad andare a visitare i propri compagni di classe, appena due mesi prima di morire: «avrebbe dovuto starci 15 minuti – ci racconta Natascia -, ma alla fine è rimasta lì 1 ora e mezza, tante erano le domande e tanto l’affetto dei compagni». 

Ora riposa nel cimitero di Mezzogoro (paese d’origine dei genitori naturali), ma una sua foto è stata posta nella cappella della famiglia di Natascia, di fianco all’amato nonno Gino.

TESTIMONE DELLA FEDE

Una bambina avvolta dalla grazia era Elena. «Sempre altruista – ci racconta Natascia -, portava a scuola due merende, una per sé e una per una sua compagna, nel caso questa non l’avesse avuta». A 5 anni i genitori scoprono la sua celiachia: «desiderava fare l’Istituto alberghiero per aiutare le persone che come lei soffrivano di questa malattia». 

Ma tanti cuori, Elena, ha toccato anche con quel suo naturale senso religioso, quell’inclinazione, che sembra innata, alla preghiera: «diverse persone grazie al suo esempio – prosegue Natascia – hanno ricominciato ad andare a Messa, a comunicarsi. Persone che da tanti anni avevano perso la fede o non l’avevano mai avuta, hanno riaperto i loro cuori a Gesù». Per la sua Prima Confessione il parroco le diede, come da tradizione, un libricino per imparare a recitare il Santo Rosario. Elena se ne innamorò: fu, quella, una delle fonti della sua grande forza. «Aveva fatto sua l’importanza della preghiera», prosegue Natascia. «Nei momenti di sconforto andava a pregare davanti a una grande statua con la Madonna e Gesù Bambino». Si tratta di una scultura lignea – un tronco intero in noce – scolpita da Fratel Giuseppe Piccolo (morto nel 2021, Direttore della Città del Ragazzo dal 2000 al 2003), posta nel porticato della casa dei nonni Maria Rita e Gino. Una statua strappata all’abbandono essendo stata trovata nel cortile dell’ex studentato in via Borsari a Ferrara fino ad allora gestito dall’Opera “Don Calabria”. 

Un bisogno di un dialogo col Signore, quello di Elena, che la seguiva ovunque: «Nel 2016, qualche giorno prima dell’incidente, si ruppe un braccio in piscina: nel tragitto verso l’ospedale pregava la Madonna invece di piangere e urlare», come avrebbe fatto qualsiasi bambino. «Oppure, quando andavamo in gita, se in macchina passavamo davanti a una chiesa si voleva sempre fermare per entrare e accendere una candela, dire una preghiera. E sgridava i propri compagni se in chiesa non cantavano», lei che adorava cantare per il Signore. «Una bambina di altri tempi, insomma». 

LUCENTEZZA DIVINA

Elena nei suoi 17 anni di vita ha sofferto tutte le sofferenze immaginabili: emotive, psicologiche, fisiche. Un vero e proprio calvario, il suo. «Ma mai – proseguono Natascia e Maria Rita – le è venuta meno la voglia di vivere e la fede in Dio». Elena non solo convertirà, grazie al suo esempio, diverse persone ma spingerà molti a pregare per lei: il gruppo di preghiera del suo paese dieci giorni dopo l’incidente organizza un pellegrinaggio al santuario di Chiampo, nel vicentino; per un lungo periodo, sempre dopo l’incidente, la mattina alle 7 a casa di Natascia si recita il Santo Rosario, con diverse persone presenti fra cui il parroco. E don Alessandro Denti, a inizio 2017, poco prima di morire, l’ultima Messa la celebra proprio per Elena e nonno Gino. La stessa Elena, pochi giorni prima di tornare al Padre, riceve la Comunione a Cona, dove trascorrerà due giorni ricevendo la visita, fra gli altri, dell’allora cappellano don Andrea Martini e dei medici di famiglia Francesco Turrini e Matilde Turchetti. Anche il nostro Vescovo mons. Perego prenderà a cuore la vicenda di Elena, incontrandola più volte sia a casa sia in ospedale.

Ciò che rimane come segno dell’Eterno è «la purezza e lucentezza negli occhi di Elena, pietra scartata che è diventata pietra d’angolo», aggiunge Natascia fra quelle lacrime che però non le tolgono il sorriso nel ricordare il suo «angelo». «Elena è ancora molto presente, col suo spirito è sempre con noi». Continua la sua “opera” con le tante conversioni e con le testimonianze di chi ha imparato la gioia vera, imperitura grazie al suo sorriso, alla sua fede semplice e inscalfibile. «Elena ora ci assiste da Lassù e ci dice che il Paradiso esiste». I suoi occhi ne erano una dolce anticipazione.

S. Messa e testimonianze a Santo Spirito

Sabato 20 gennaio a Santo Spirito Elena ha radunato tante persone, segno dell’amore che ha sparso in tanti cuori: le compagne e i compagni delle Elementari, delle Medie e delle Superiori, oltre alle maestre, agli insegnanti, ai presidi e dirigenti scolastici. Alcuni di loro hanno accompagnato la liturgia – celebrata da mons. Gian Carlo Perego assieme a don Giacomo Granzotto – con le chitarre e un flauto e le letture sono state curate da persone che l’hanno conosciuta, mentre la liturgia è stata accompagnata dal coro parrocchiale dove ha vissuto. Dopo la Messa, un grande pallone con una pergamena contenente le firme dei suoi ex compagni è stato fatto volare sopra la chiesa e a seguire, il Cinema parrocchiale ha ospitato un filmato con diverse foto e video di Elena, realizzato da un suo ex compagno di scuola assieme a Natascia e ad alcune mamme, nel quale si racconta la vita della ragazza dalla nascita fino alle ultime settimane di vita. 

A fine Messa, in chiesa sono stati letti alcuni ricordi, fra cui quello della sorella di Elena: «il tuo ricordo mi terrà compagnia nelle notti insonne, resterà la tua anima ad amarmi». E ancora: «grazie a te mi sono ritrovata quando mi ero persa, con te mi sentivo a casa». Un’altra lettera molto toccante è quella scritta da una persona che ha voluto bene ad Elena, immaginando fosse proprio la ragazza a scriverla alla mamma Natascia: «Tu mi hai insegnato a parlare, a camminare, a ridere. Mi hai insegnato a vivere», è un passaggio. «Ma soprattutto mi hai insegnato che cosa significhi volere bene, e che per farlo, a volte, è necessario mettersi da parte». «Elena per me è stato un fiore di grazia, una grande testimonianza di come la verità nasca dalla carne», scrive invece Francesco Turrini. «È stata mia paziente nel suo ultimo anno di vita, nel mio primo anno come Medico di Famiglia a Ferrara. Il mio caso più “complesso”. Sono stato spesso a casa di Elena e tutta la sua famiglia. Ho avuto il privilegio di stare di fronte alla sua “carne”, vederla, toccarla e ascoltare il suono di quei polmoni che vibravano di una risonanza che è quella del nostro corpo segno dell’Infinito che porta dentro». 

«Elena non è stata guarita fuori – ha detto il Vescovo in un passaggio dell’omelia -, ma è stata guarita e liberata dentro da tutto ciò che allontana. Elena è stata purificata dall’amore di Dio e dall’amore dei familiari, del prossimo. Cari fratelli e sorelle, guardando ad Elena, oggi nella casa del Padre, ma in comunione con noi, impariamo a desiderare sempre qualcosa di più dalla nostra vita».

Pubblicato sulla “Voce” del 26 gennaio 2024

La Voce di Ferrara-Comacchio

Quei cieli padani porte verso l’Eterno

20 Gen

“Il cielo parla” è il volume di fotografie di Paola Volpe, con testi di don Graziano Donà: un invito ad alzare lo sguardo e il cuore

di Andrea Musacci

Pezzi di anima che la nostra immaginazione illuminata dal cuore proietta in alto, in una visione speciale, più interiore che esteriore. Sono i cieli che Paola Volpe ha fotografato e raccolto in un volume in uscita questo mese, “Il cielo parla” (Faust edizioni, euro 20). Un progetto ideato assieme all’amica e collaboratrice Olga Nacu e che vede la prefazione, i commenti alle immagini e la conclusione affidate a don Graziano Donà, parroco di San Martino-UP del Poggetto.

UNO SGUARDO DI SPERANZA

Un centinaio le foto contenute nel libro, scatti unici realizzati con un semplice smartphone da cui emerge la capacità di Volpe di perdersi nell’ammirare quel luogo sconfinato che è il cielo. O meglio, i cieli. Quei cieli così cangianti e imprevedibili da rapire chi conserva il desiderio di farsi tutt’uno con loro, catturandone la maestosità, scorgendovi richiami, figure, volti. Tutte porte di accesso verso l’Eterno, verso il Cielo. Nessuno “spettacolo” fine a sé stesso, dunque, ma una forma di preghiera contemplativa.

I cieli padani e del Delta del Po diventano, dunque, luogo di ricerca spirituale. Il libro, per don Donà «non è semplicemente un catalogo di foto ma un’opportunità per fare un viaggio che ci rieduca ad alzare gli occhi verso il cielo, in cui possiamo trovare suggestioni e risposte; capace di dare speranza, di stimolare le idee di cambiamento, di assaporare qualche momento di consolazione e di ritrovare il desiderio profondo della pace». «Il nostro cammino è verso il cielo – scrive ancora – e in questo viaggio abbiamo bisogno di consolazione e di coraggio». A questo servono gli angeli, ai quali è dedicata la prima parte del volume. Il cielo, dunque, «ci invita alla Speranza, cioè all’intima certezza che, oltre ciò che vediamo e ciò che viviamo, c’è un Bene più grande che vogliamo e dobbiamo raggiungere».

SE IL CIELO È DIO

Che la bellezza stia nello sguardo del soggetto è un’iperbole. Ma come tutte le iperboli contiene un nocciolo di verità: senza un cuore aperto e due occhi vivi, è impossibile cogliere la bellezza e la verità che sempre la accompagna, e dunque è come se non esistessero. Associamo tra loro bellezza e verità perché lo stesso volume di Volpe non è un catalogo di capricci estetici, ma un progetto, come detto, fortemente impregnato di spiritualità. Possiamo quindi riflettere su come nella Sacra Scrittura il cielo non sia tanto il firmamento quanto il “luogo” delle creature spirituali – gli angeli – e di Dio. Ma Dio non può stare in un luogo delimitato: il cielo è, quindi, Dio stesso, l’Eterno, la gloria escatologica. È un modo di essere, il fine ultimo dell’uomo, la felicità suprema e definitiva: è la vita in Cristo, la piena comunione in Lui, la Patria eterna alla quale dobbiamo tornare. Non a caso, nella Lettera a Diogneto (testo anonimo del II secolo), i cristiani vengono chiamati «cittadini del cielo».

«“Cieli” è parola che significa la modalità in cui il Dio santo è con sé stesso», scrive Romano Guardini in “La preghiera del Signore”, commento al Padre nostro. «I cieli sono l’inaccessibilità di Dio, sono la beata e inviolabile libertà, in cui Egli appartiene a sé medesimo, come Colui che Egli è (…). Il cielo è l’essere-altro di Dio; ma proprio in questa alterità sta la nostra patria con le “dimore eterne” (Lc 16,9)». Il cielo «non è un luogo che sussista per sé, “in” cui Dio si trovi (…)», prosegue il teologo. «Il cielo è Dio, in quanto Egli dimora presso sé medesimo».

Benedetto XVI in “Gesù di Nazaret” pone ancora più in risalto la nostra nostalgia del cielo/Dio Padre: «Se la paternità terrena separa, quella celeste unisce», scrive. «Cielo significa dunque quell’altra altezza di Dio, dalla quale tutti noi veniamo e verso la quale tutti noi dobbiamo essere in cammino». Un cammino che Volpe compie nella propria esistenza e che con le sue fotografie ci invita a non dimenticare, a compierlo assieme, da pellegrini dell’Eterno.

Chi è Paola Volpe 

Paola Volpe, nata a Lendinara (Rovigo), classe ‘67, vive a Ferrara, ha due figli e, da oltre dieci anni, si occupa di fotografia con soggetto principale il Cielo. In sinergia con Olga Nacu, amica e ideatrice del progetto, l’Artista ha partecipato ad alcune esposizioni di rilievo nazionale e internazionale. Tra le personali: “Il cielo non ha limiti”, Centro Culturale di Palazzo Pisani Revedin a Venezia (settembre 2023); quella al “Dosso Dossi” di Ferrara in programma per marzo 2024.

Olga Nacu, classe ’74, moldava d’origine, è ideatrice del progetto. Vive a Ferrara, è sposata e ha due figlie.

Pubblicato sulla “Voce” del 19 gennaio 2024

La Voce di Ferrara-Comacchio

Achille Funi «operaio sognatore» nostalgico della Bellezza pura

19 Gen

Ritratto dell’artista a cui è dedicata la mostra a Palazzo Diamanti: l’idiosincrasia per la meschina modernità, l’amore per l’antico, quel progetto per la chiesa di san Benedetto…

di Andrea Musacci

Più che un rifiuto della modernità, un suo oltrepassamento. Più che un’idealizzazione del passato, la ricerca di un’essenza pura, di quell’ineffabile che trascende luoghi, ere, linguaggi. La pittura di Achille Virgilio Socrate Funi rappresenta una sintesi felice di aspirazioni neoclassicistiche, reinterpretazione della tradizione artistica ferrarese e nuove suggestioni.

Un’alchimia originale, associata a un nome famoso ma non celeberrimo, che non lo rende ancora (per fortuna?) un artista iconico, non richiamando a Palazzo Diamanti folle alla ricerca di sensazioni estemporanee, di fuggitive occhiate. Era tutt’altro, Funi, e la sua arte. “Achille Funi. Un maestro del Novecento tra storia e mito” – la mostra visitabile a Diamanti fino al 25 febbraio 2024 – dice molto bene di cosa attendersi. Dentro, ci sono tutte quelle parole “pesanti” che spesso non riusciamo più a sopportare: c’è la scuola/il mestiere come luogo dell’autorità e della fatica, c’è il secolo breve ma non effervescente, c’è la gravità di un tempo che precorre e nelle aspirazioni più alte ricorre. Quelle di Funi le spiegò bene l’amica Margherita Sarfatti: «Pittore della dignità severa e della povertà nobile è il Funi. Aspira sì alla bellezza, e così alto è il sospiro, e puro, e sinceramente intero e disinteressato, che la raggiunge per vie imprevedute, non imitabili».

NELLA FOLLIA, VERSO LA BELLEZZA

«Vie imprevedute», inimitabili. De Chirico, che di misteriose chiavi di accesso alla realtà se ne intendeva, così racconta quelle di Funi: le «anomalie mentali» tipiche dei ferraresi in lui hanno portato a «infinite nostalgie verso la bellezza e la perfezione», scrive in un libricino che gli dedicò nel ’40; «Achille Funi è un operaio sognatore». «La pazzia di Funi – prosegue De Chirico – si traduce, nella sua attività pittorica, in un costante andare verso la bellezza. Vi è nella sua mentalità d’artista un che di platonico, di ermafroditico e di ineffabilmente gentile; qualcosa che a volte sconfina felicemente in quell’aspetto profondo e grazioso che in francese con parola intraducibile si chiama “joliesse”».

Si raccontava dei loro incontri al Caffè Biffi in Galleria a Milano: dialoghi spesso muti, per non disperdere pensieri in quel legame profondo. Un legame antico, con radici granitiche, di quelle che affondano nello spirito senza tempo.

MAESTOSA ANTICHITÀ E FASTIDIOSA MODERNITÀ

«La sua caparbietà, unitamente all’aspetto fisico piuttosto massiccio e nerboruto, lo facevano assomigliare a un antico romano. Di statura appena al di sotto della media, aveva spalle larghe, un viso dai grandi occhi espressivi, una voce baritonale e labbra marcate, tra le quali era solito tenere una pipa o un sigaro». Così scrive di lui Serena Redaelli, una delle curatrici della mostra ferrarese, nel catalogo della stessa di cui è co-curatrice, organizzata da Ferrara Arte e Servizio Musei d’Arte Comune di Ferrara.

Nella sopracitata opera, De Chirico racconta di un Funi in perenne ricerca di «sistemi perduti e perduti segreti» e per lo scultore Alik Cavaliere, egli «seguì con ossessiva, puntigliosa precisione la “grande” missione di un totale ritorno all’antico. L’antico costituì per lui l’unico modo di vivere il presente e lo portò alla scelta di regole rigorose che seguì per tutta la vita con coerenza».

Gli stessi sguardi dei soggetti nelle sue opere sembrano esprimere quell’invincibile malinconia e quella ancor più ostinata consapevolezza di chi sa di non appartenere al proprio tempo, pur attraversandolo. Sono sguardi pervasi, in ogni istante, dal fragore della storia.

Un andare a ritroso che è immersione nelle viscere della bellezza. Nel mezzo, la contemporaneità che già da decenni mette in mostra le proprie meschinità, che delle proprie bassezze non solo fa mercato, ma vanto: «qui ormai non c’è più fede in nulla: non si pensa che a far quattrini ed a superare la crisi il meglio possibile», scrive Funi di Parigi, nel ’31, durante un soggiorno nella capitale francese.

«Epoca assurda la nostra, in cui si crede di perdere il tempo, quando lo si guadagna contemplando […]», scriveva nel 1972 l’esegeta e amico Raffaele de Grada. «Funi lo sapeva e viveva da uomo. La metodicità della sua vita – la passeggiata, lo studio, il caffè, la lettura, il riposo, il lavoro – era il registro dell’orologio della sua vita sul quadrante della storia. Egli conosceva il gusto di quello che i francesi chiamano il flâner, il non avere uno scopo immediato, la sottrazione del vivere al concetto dell’utile, del profitto».

IL FASCISMO E L’ALTO IDEALE

Necessitante chiarimenti è il rapporto di Funi col ventennio fascista, epoca di ambiguità, di violenze, di idee criminali e di altre che, nonostante tutto ciò, cercavano una via di uscita dalla soffocante legge del denaro. La successiva demonizzazione dell’arte fascista colpì anche Funi. La sua arte, scrive Sgarbi nel catalogo della mostra, voleva invece essere una «pittura civile, capace di trasmettere i valori della grande tradizione classica italiana». «Con un “Novecento” in crisi e in netta discesa – spiega invece Nicoletta Colombo, co-curatrice -, all’inizio degli anni Trenta si faceva sempre più urgente la necessità di sostenere un’epica nazionale mediante un linguaggio artistico di destinazione sociale e non più quindi esclusivamente individuale e borghese».

Funi sicuramente partecipò ai Fasci di Combattimento di Piazza San Sepolcro a Milano nel 1919, ma in seguito se ne allontanò venendo per questo fortemente criticato da Roberto Farinacci. Non fu, quindi, mai un fascista militante. Lui stesso nel ’71 scrisse: «i punti di convergenza col fascismo potevano forse riconoscersi unicamente in talune rivalutazioni del passato storico e umanistico nazionale […]. Ma noi non facevamo politica e […] pensavamo unicamente a cercare nuove vie di rinnovamento». E Alik Cavaliere raccontò come dopo l’8 settembre Funi respinse dall’Accademia di Brera i militari, nascondendo alcune persone considerate irregolari in una cantina dell’edificio. Raffale de Garda spiegò, invece, come durante la guerra Funi gli affidò il proprio appartamento in piazzale Fiume, 9 (oggi Piazza della Repubblica) a Milano «perché io vi abitassi e sapeva che quella casa sarebbe diventata un rifugio per gli antifascisti».

QUELLE LUNETTE DI SAN BENEDETTO

E proprio in un anno simbolo del fascismo, quel ’22 della Marcia su Roma, Funi, durante il suo ritorno a Ferrara da Milano, conosce De Pisis. Quest’ultimo gli dedica un articolo sulla “Gazzetta ferrarese” dell’11 novembre dello stesso anno, dove racconta come Funi «avrebbe da poco ricevuto l’incarico di decorare le tre lunette esterne poste nella chiesa di San Benedetto a Ferrara, non sappiamo se ad affresco oppure con quadri o pannelli centinati». È Lucio Scardino a raccontare questo aneddoto nel catalogo della mostra di Diamanti, ma ne accenna anche in quello della mostra di Funi esposta al MART di Rovereto da ottobre ’22 a febbraio ’23: «Sinora a molti è sfuggito che, nel fatidico (per più versi) 1922, Achille Funi aveva ricevuto l’incarico di dipingere le lunette esterne per la chiesa di San Benedetto a Ferrara: nella facciata della chiesa rinascimentale, rifatta filologicamente nel 1954 dopo i bombardamenti di dieci anni prima, compaiono ancora oggi tre lunette sopra altrettanti portali d’ingresso». Scardino ipotizza che destinate a queste tre lunette furono le tavole “Imago Pietatis” (1920-1922 c.) (forse per la lunetta centrale), “Autoritratto con brocca blu” (1920) e “La sorella Margherita con brocca di coccio” (1920), quindi con Cristo al centro, lui e la sorella ai lati a rappresentare rispettivamente San Benedetto e la sorella Santa Scolastica. Un enigma che forse non troverà mai una risposta definitiva.

L’ENIGMA DI UN «MONDO FELICE»

Enigma come fu la sua vita, com’è ogni esistenza consacrata allo sposalizio tra bellezza e verità. «Credeva nelle idee, ed era convinto che la forma è vita», disse alla sua morte il critico e scrittore Alberico Sala. Occorre oltrepassare le linee consuete, ridecifrare i nostri codici per comprendere Funi. Un altro che di «vie imprevedute» se ne intendeva, l’artista Alberto Savinio, scrisse di lui: «La testa di Funi che dorme è nel buio della camera un globo luminoso, e in trasparenza vi appaiono le immagini di un mondo felice che la memoria vi ha raccolto, e che lui, da sveglio, ripete via via nelle sue pitture». A quel «mondo felice» e irraggiungibile Funi ha dedicato la propria vita. Un’esistenza venata di joliesse, di contraddizioni, ma capace di elevarsi alla ricerca di quella Forma pura, di quell’Ideale che mai del tutto cogliamo, di quel Mistero che sempre ci pervade e ci guida.

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce” del 19 gennaio 2024

La Voce di Ferrara-Comacchio

Una vita dedicata all’arte

Achille Funi nasce a Ferrara 1890. Dai 12 ai 15 anni frequenta la civica scuola d’arte Dosso Dossi nella sua città natale, si diploma nel 1910 all’Accademia di Belle Arti di Brera (dove poi insegnerà dal 1939 al 1960), nel 1914 aderisce al movimento futurista, elaborandone una particolare versione e mantenendone una certa distanza. Nel 1922 nasce il gruppo “Novecento” e lui è tra i suoi fondatori. La linea teorica del gruppo si orienta verso un recupero della tradizione classica italiana rivisitata alla luce delle esperienze delle avanguardie degli inizi del secolo. L’interesse per la figura come soggetto principale dell’opera e l’attenzione al mestiere sono le caratteristiche dominanti del classicismo degli anni ‘20. Ora si parla di “umanità”, di centralità dell’uomo nella pittura. Importante anche la sua opera di affrescatore e di mosaicista: decorazioni ad affreschi per la Triennale di Milano dal 1930 al 1940, affreschi nella chiesa del Cristo Re a Roma, in S. Giorgio Maggiore e nel Palazzo di Giustizia a Milano, e un grande mosaico nella Basilica di S. Pietro a Roma. Nel 1945 ha la cattedra di pittura all’Accademia Carrara di Bergamo e successivamente ne diviene direttore. Negli anni ’50 torna ad insegnare a Brera. Muore ad Appiano Gentile nel 1972.

Ultimi incontri a Diamanti

Queste le ultime due conferenze legate alla mostra: 18 gennaio, ore 17, Palazzo Diamanti, Sala Rossetti: “Achille Funi e le suggestioni di Cézanne, Picasso e Derain”.Interviene Chiara Vorrasi, curatrice della mostra, Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea di Ferrara.

25 gennaio, ore 17, Palazzo Diamanti, Sala Rossetti:“Achille Funi e le mostre all’estero del Novecento Italiano di Margherita Sarfatti”. Interviene Daniela Ferrari, Mart, Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto.

Caino e Abele tra sangue e peccato, vendetta e perdono

17 Gen

Conferenza di Piero Stefani lo scorso 13 gennaio in Biblioteca Ariostea a Ferrara: «la fratellanza qui si intende come luogo della responsabilità, del prendersi cura»

Un’oscura forza esterna che fa scorrere sangue fraterno, sangue di uomo per la prima volta nella storia dell’umanità. È il racconto di Caino e Abele, oggetto di un’interessante e originale conferenza dal titolo “Caino e Abele nella Bibbia e nel Corano”, ideata e tenuta dal biblista ferrarese Piero Stefani la mattina del 13 gennaio nella Sala Agnelli della Biblioteca comunale Ariostea di Ferrara. 

L’incontro, a cura di “Biblia” (Associazione laica di cultura biblica di Firenze di cui Stefani, studioso dei rapporti tra ebraismo, cristianesimo e islam, è presidente), Istituto Gramsci e Gruppo SAE di Ferrara, può essere rivisto anche sul canale You Tube “Archibiblio web”.

NELLA BIBBIA

«Abele è il primo umano che sperimenta la finitezza, la morte, non solo nel senso di mortale ma di uccidibile», ha spiegato Stefani analizzando il capitolo 4 di Genesi. «Dal punto di vista etico, l’uccisione di Abele da parte di Caino sta a significare che ogni omicidio è un fratricidio, per la comunanza fra le creature. Dal punto di vista dell’antropologia culturale, invece, emerge la reciproca sottrazione tra le due figure, in quanto una, Caino, agricoltore, è sedentario e custodisce, mentre l’altra, Abele, in quanto pastore è mobile e “invadente”».

Inoltre, è in questo capitolo che «per la prima volta nella Bibbia appare il termine peccato» («il peccato è accovacciato alla tua porta», Gen 4,7). E appare in riferimento a Caino. In questo senso, quindi, per Stefani, «il peccato non significa una trasgressione della legge ma una forza che dall’esterno rispetto al soggetto lo spinge a compiere un’azione violenta, lo minaccia costringendolo a resistervi».

Questa minaccia porterà, dunque, Caino a compiere il noto fratricidio: Stefani ha quindi proseguito spiegando come in questo capitolo di Genesi il termine “fratello” ricorra sette volte e sempre in riferimento a Caino. «La fratellanza qui si intende come luogo della responsabilità, si manifesta cioè nell’atto di prendersi cura dell’altro» («Dov’è Abele, tuo fratello?». Egli rispose: «Non lo so. Sono forse il guardiano di mio fratello?»). Il non prendersi cura, inoltre, non porta solo all’omicidio ma, in relazione al concetto di sangue, «all’eliminare la potenziale discendenza della vittima».

E un’ulteriore conseguenza di questo atto, oltre all’uccisione in sé – ha proseguito Stefani – sta anche «nel disperare dopo, come fa Caino, di ottenere perdono» («Troppo grande è la mia colpa per ottenere perdono!», grida).

NEL CORANO

Di Caino e Abele si narra anche nel testo sacro dell’Islam, per la precisione nella sura V dal titolo “La tavola imbandita”.

«A differenza della Bibbia – ha proseguito il relatore -, qui Abele parla, cerca cioè di contrapporre alla violenza fisica del fratello la parola, anche se inutilmente. Non risponde, quindi, alla violenza con la violenza ma si appella al giudizio, alla punizione di Dio».Un concetto, questo, particolarmente valorizzato da certi pensatori – molto minoritari – della nonviolenza islamica, fra cui Jawdat Said, autore di “Vie islamiche alla nonviolenza”.

NELL’ICONOGRAFIA

Dopo i due testi, Stefani ha deciso di concludere la propria riflessione analizzando due opere artistiche raffiguranti le vicende legate a Caino e Abele.

La prima, presente nello “scalone dei morti” della Sacra di San Michele a Sant’Ambrogio di Torino, è un capitello raffigurante Caino che sta per uccidere il fratello: «in questa raffigurazione – ha spiegato Stefani -, il bastone di Caino non tocca la testa di Caino, forse a voler simboleggiare un’uccisione potenziale, quell’ultimo decisivo istante in cui ci si può arrestare, in cui la violenza può non essere compiuta». 

La seconda immagine scelta è quella della lastra “Morte di Caino” realizzata da Wiligelmo nel XII secolo e conservata nel Duomo di Modena: «qui – sono ancora parole del relatore – si riprende un’interpretazione secondo cui Caino sarà vendicato alla settima generazione. La logica della vendetta non viene quindi del tutto espunta, ma solo rimandata, dalla tradizione cristiana». 

Ma parole di speranza sono state pronunciate da don Andrea Zerbini nel suo intervento introduttivo alla relazione di Stefani: «in questa vicenda – ha detto – c’è sì la violenza ma anche il riaprire alla vita e all’alleanza creaturale di Caino. Insomma, c’è sempre un’alternativa alla violenza» (v. Gen 4, 17-26).

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce” del 19 gennaio 2024

La Voce di Ferrara-Comacchio

Creativo, prudente e indagatore: il consigliare nella Chiesa. Un dibattito a Ferrara

15 Gen

Ecco com’è andata la Giornata del Laicato del 13 gennaio: l’unicità della Chiesa, le difficoltà e le prospettive positive nella nostra Diocesi. Confronto aperto tra il Vescovo e i laici

Le sfide per la Chiesa e nello specifico per la nostra Diocesi, sono ormai davanti agli occhi di tutti: crisi vocazionali, calo dei fedeli, abbandono da parte dei più giovani. E, di conseguenza, una necessaria ma salutare prospettiva di riorganizzazione (già avviata), ripensando spazi e stili, a partire dalle Unità pastorali. Di questo e di molto altro si è discusso in Seminario nel pomeriggio del 13 gennaio scorso in occasione della Giornata del Laicato diocesana dedicata al tema del “consigliare”.

L’incontro si è avviato con la Preghiera dell’Adsumus d’invocazione dello Spirito Santo e a seguire la lettura del brano biblico – Esodo, 18, 5-23 – da cui è stato tratto il tema della Giornata («Ora ascoltami: ti voglio dare un consiglio e Dio sia con te!»). A seguire, il Vescovo ha proposto una breve meditazione per poi dialogare con due rappresentanti dell’Equipe sinodale diocesana – don Michele Zecchin e Alberto Mion – e con i presenti (una 30ina di persone).

Se nel proprio intervento introduttivo Giorgio Maghini (organizzatore dell’iniziativa) ha spiegato come «nella Chiesa il consigliare non significa fare scelte col 50%+1 dei consensi né delegare ad altri le decisioni», mons.Perego ha ripreso questa riflessione distinguendo il consiglio/Consiglio dentro la Chiesa tanto dalla delega quanto dalla concezione democratica: «dentro la Chiesa – ha spiegato -, ognuno può dare il proprio contributo» in ogni ambito. Il dialogo tra il Vescovo, gli altri relatori e i presenti in sala, è stato inizialmente sollecitato da alcune domande poste da Maghini.

IL VESCOVO: IL CONSIGLIO FRA STORIA E FUTURO

Nelle proprie riflessioni il Vescovo ha preso le mosse da Lumen Gentium 37 (v. testo in fondo), capitolo fondamentale dal quale prende avvio «una nuova ecclesiologia» ma che anche affonda le proprie radici nella secolare tradizione della Chiesa e nelle Sacre Scritture, come ad esempio in Siracide, a dimostrazione «dell’importanza nella storia di Israele degli strumenti di consiglio», in particolare i Consigli degli anziani. «Nel Nuovo testamento – ha proseguito mons.Perego – si vedrà il limite di questi Consigli, che saranno quelli che metteranno a morte Gesù e Paolo.Anche quest’ultimo, però, nelle prime comunità cristiane da lui fondate capirà la necessità di questi strumenti». E, come detto, nella storia della Chiesa, svolgeranno un ruolo fondamentale «i cardinali, i capitolari a livello diocesano e le fabbricerie a livello parrocchiale. «Il Concilio Vaticano II – sono ancora parole del Vescovo – non ha, quindi, inventato nulla» ma ha modificato questi strumenti.Da qui nasceranno il Collegio dei consultori, il Consiglio presbiteriale diocesano, il Consiglio degli affari economici e quello pastorale. «Paradossalmente, però, questi ultimi due hanno avuto anche meno potere rispetto alle antiche fabbricerie, come molti contestarono dopo il Concilio», così come avvenne a livello diocesano in rapporto al Vescovo.

Venendo agli aspetti essenziali del “consigliare”, mons.Perego ha poi ricordato come il consiglio sia uno dei sette doni dello Spirito Santo e un dovere di ogni credente.«Chiunque abbia ricevuto la Confermazione, può sempre dare un proprio contributo, ad esempio nella vita pubblica, anche se nel corso della propria vita si è allontanato dalla Chiesa», ha specificato incalzato da una domanda.

Consigliare che, quindi, dovrebbe essere sempre accompagnato dalla virtù della prudenza, vale a dire «dalla capacità di dare sempre un giudizio su una situazione specifica partendo non da preconcetti ma dalla situazione stessa. È il concetto, molto caro allo stesso Papa Francesco, della superiorità della realtà rispetto all’idea».

«Il consiglio, in quanto dono – ha proseguito il Vescovo -, ha bisogno della preghiera e deve rifuggire la superficialità e abbracciare la complessità; deve approfondire, indagare, non fermarsi alla propria indagine». E deve sempre accompagnarsi  alla «creatività» e, questa, a «un’ottima organizzazione e capacità programmatica». 

EQUIPE SINODALE E LAICI: TANTI GLI SPUNTI DI RIFLESSIONE

La creatività è emersa anche dai contributi sinodali raccolti nella nostra Diocesi: «il consigliare – ha spiegato Mion –  è stato un tema caldo, molto sentito tra i tanti che in Diocesi hanno partecipato al cammino sinodale (350 i contributi arrivati perlopiù da gruppi, quindi da alcune migliaia di persone). È emersa quindi «molta voglia di partecipare e altrettanta creatività. Importante – ha aggiunto don Zecchin – è non solo riflettere assieme ma anche fare esperienze condivise con gli altri: ilSinodo è un cammino, non un fine».

Tanti gli interventi dai presenti in Seminario con testimonianze concrete nelle proprie realtà: si è partiti dall’importanza nelle parrocchie e nelle UP di «sgravare i sacerdoti da incombenze amministrative, affidandole a professionisti, ancor meglio se giovani» all’importanza che il consigliare sia un «rassicurare la persona, tirando fuori il meglio di questa». Ma per fare ciò, c’è bisogno di «stabilità, costanza e concretezza» nei rapporti.

Nel dibattito con mons.Perego si sono poi affrontati diversi altri argomenti riguardanti la gestione delle parrocchie e delle Unità pastorali, il ruolo in esse dei Consigli, la loro gestione pastorale e amministrativa.Dal “ruolo” del verbale nei Consigli, alle decisioni sulla vendita di determinate proprietà, passando per l’importanza della formazione per i Consiglieri stessi, il confronto, com’è giusto, si è calato nella carne delle nostre comunità ecclesiali, a dimostrazione dell’importanza di momenti come questo del 13 gennaio, dove potersi liberamente e reciprocamente “consigliare”.

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce” del 19 gennaio 2024

La Voce di Ferrara-Comacchio

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“I laici e la gerarchia” (Lumen Gentium, 37): il testo sulla corresponsabilità nella Chiesa

«I laici, come tutti i fedeli, hanno il diritto di ricevere abbondantemente dai sacri pastori i beni spirituali della Chiesa, soprattutto gli aiuti della parola di Dio e dei sacramenti; ad essi quindi manifestino le loro necessità e i loro desideri con quella libertà e fiducia che si addice ai figli di Dio e ai fratelli in Cristo. Secondo la scienza, competenza e prestigio di cui godono, hanno la facoltà, anzi talora anche il dovere, di far conoscere il loro parere su cose concernenti il bene della Chiesa. Se occorre, lo facciano attraverso gli organi stabiliti a questo scopo dalla Chiesa, e sempre con verità, fortezza e prudenza, con rispetto e carità verso coloro che, per ragione del loro sacro ufficio, rappresentano Cristo. I laici, come tutti i fedeli, con cristiana obbedienza prontamente abbraccino ciò che i pastori, quali rappresentanti di Cristo, stabiliscono in nome del loro magistero e della loro autorità nella Chiesa, seguendo in ciò l’esempio di Cristo, il quale con la sua obbedienza fino alla morte ha aperto a tutti gli uomini la via beata della libertà dei figli di Dio. Né tralascino di raccomandare a Dio con le preghiere i loro superiori, affinché, dovendo questi vegliare sopra le nostre anime come persone che ne dovranno rendere conto, lo facciano con gioia e non gemendo (cfr. Eb 13,17).

I pastori, da parte loro, riconoscano e promuovano la dignità e la responsabilità dei laici nella Chiesa; si servano volentieri del loro prudente consiglio, con fiducia affidino loro degli uffici in servizio della Chiesa e lascino loro libertà e margine di azione, anzi li incoraggino perché intraprendano delle opere anche di propria iniziativa. Considerino attentamente e con paterno affetto in Cristo le iniziative, le richieste e i desideri proposti dai laici e, infine, rispettino e riconoscano quella giusta libertà, che a tutti compete nella città terrestre.

Da questi familiari rapporti tra i laici e i pastori si devono attendere molti vantaggi per la Chiesa: in questo modo infatti si afferma nei laici il senso della propria responsabilità, ne è favorito lo slancio e le loro forze più facilmente vengono associate all’opera dei pastori. E questi, aiutati dall’esperienza dei laici, possono giudicare con più chiarezza e opportunità sia in cose spirituali che temporali; e così tutta la Chiesa, forte di tutti i suoi membri, compie con maggiore efficacia la sua missione per la vita del mondo».

Festa dei popoli: la nostra Epifania multietnica

8 Gen

Il 6 gennaio a San Francesco centinaia di persone da tutto il mondo unite nella gioia

di Andrea Musacci

L’Epifania è la festa dei popoli che accorrono per ammirare la manifestazione di Nostro Signore, fratelli e sorelle unite in Cristo pur nella diversità di lingua e cultura.

Da diversi decenni in Italia assume  concretamente la forma colorita di un grande evento di fede, svoltosi lo scorso 6 gennaio anche nella nostra Diocesi con la Santa Messa presieduta da mons. Gian Carlo Perego nella Basilica di San Francesco a Ferrara.

L’iniziativa è stata preparata dall’Ufficio per la Pastorale dei migranti – coadiuvato dai Cappellani di lingua straniera -, Ufficio diretto da don Rodrigo Akakpo, il quale  durante la liturgia ha guidato il coro multietnico presente.

L’evento – che ha seguito il tema dell’anno, suggerito da Papa Francesco, “Liberi di migrare o restare” – ha visto la presenza di alcune centinaia di persone, fra cui un nutrito gruppo proveniente da Bergamo in occasione del gemellaggio della nostra Arcidiocesi con l’Ufficio Migrantes di quella Diocesi, presente con un centinaio di persone accompagnate dal direttore don Sergio Gamberoni. Il gemellaggio è stato suggellato a fine Messa sul sagrato con il lancio di due palloncini.

VOLTI E COLORI DI UNA GRANDE FESTA GLOBALE

È stato srotolato da alcuni giovani di Bergamo lo striscione “Io+tu+noi+loro…Il mondo migliora”. Un semplice ed efficace slogan per un evento di questo tipo. Altri, invece, hanno esposto l’insegna del Sermig con la scritta “Pace”. Fra i fedeli, poi, spiccavano gli scout del Doro, anche loro con l’immancabile divisa a contraddistinguerli.

A un certo punto, si è visto avanzare lungo la navata centrale un uomo con la bandiera ucraina alta sopra le teste, per raggiungere alcuni suoi connazionali nelle prime file. Quella romena, poggiava invece tranquilla su uno dei banchi a ridosso dell’altare maggiore. E a proposito dell’Ucraina, i segni della sofferenza e dell’orgoglio sono vivi sui volti pur festosi dei presenti, oltre che in alcune immagini che cogliamo casualmente, come quella di un giovane militare che una donna, forse la madre, conserva sullo sfondo del proprio smartphone.

Nella nostra liturgia c’è spazio per l’invocazione a Dio perché difenda il «debole» e il «misero» come per il giubilo più incontenibile: dai canti africani più movimentati a quelli ucraini o a quelli più solenni in latino (antico), la liturgia è dunque stata fortemente segnata da melodie diverse, provenienti da regioni del globo a noi più o meno lontane, tanto quanto le epoche nelle quali han preso vita.

Un viaggio fra i vari continenti grazie al coro multietnico che ha cantato in italiano, spagnolo, francese, inglese, tagalog (lingua filippina), rumeno e ucraino, così come nelle diverse lingue sono state pronunciate le preghiere dei fedeli e alcune letture. Fra queste, la lingala, lingua bantu tipica del Congo, protagonista dell’offertorio nel quale alcune donne e uomini della comunità francofona africana di Ferrara hanno attraversato in tutta la sua lunghezza la navata centrale portando, nei loro abiti tipici, i doni all’altare attraverso una danza trascinante. Un originale e variopinto viaggio verso il Signore, come allora fu quello dei Magi d’Oriente.

Originali anche alcuni degli strumenti musicali utilizzati: oltre a quelli più classici – batteria, basso e pianole -, hanno animato la liturgia anche tre strumenti a percussione di origine nigeriana, l’oromi, l’udu e l’igba.

A fine Messa, un altro momento speciale con un gruppo di ragazze e ragazzi ucraini, in abiti tipici, ai piedi dell’altare a intonare un commovente canto natalizio, “Dobryi vechir tobi pane gospodarou” (“Buonasera a te,Signore”).

Dopo la Santa Messa, i partecipanti hanno condiviso in sagrestia i cibi tipici offerti dalle varie comunità. Ma prima, il tripudio finale: il “Gloria” finale si è dilatato per una ventina di minuti con voci e danze a trascinare, come in un torrente inarrestabile, i tanti presenti ai piedi dell’altare. Un crescendo nella gioia, nella comunione, uniti e animati dalla forza viva dello Spirito. Un grande abbraccio finale a sigillare una grande festa della fede universale.

«NEI MAGI C’È IL DESIDERIO DI USCIRE E INCONTRARE IL SIGNORE»

«La luce di Cristo ci permette di alzare lo sguardo – afferma il profeta Isaia – e guardarci attorno, guardare il mondo e accorgerci che la luce di Cristo illumina tutti, accompagna tutti a quella grotta». Così il nostro Arcivescovo in un passaggio dell’omelia a SanFrancesco. «Questa “ricchezza delle genti” è la destinataria della salvezza che il Dio con noi porta. Tutti proclamano il “Gloria a Dio”. Il cammino sinodale di quest’anno ci deve non far dimenticare questo “tutti” a cui è destinata la salvezza, perché il nostro cammino non si fermi nei recinti ecclesiali, ma raggiunga la città, il mondo, con un grande spirito missionario». Il Natale è «una festa di popoli», ha detto poi mons.Perego. «Nei Magi riconosciamo il desiderio di Dio, di uscire e incontrare il Signore.  Il loro cammino non fa perdere la fede, la loro libertà, ma le arricchisce. Il loro cammino indica il cammino di una “Chiesa in uscita”, aperta alle sfide del mondo, certa di portare un valore aggiunto, i doni di Dio».

(Foto di Alessandro Berselli)

Pubblicato sulla “Voce” del 12 gennaio 2024

La Voce di Ferrara-Comacchio