Archivio | ottobre, 2020

Incubo università a distanza “Evitiamola se non necessaria”

26 Ott

Utile per l’emergenza ma non può diventare abitudine: parlano le associazioni studentesche di Unife

A cura di Andrea Musacci
In parte perché già preparata, in parte perché incline alla prudenza, l’Università degli Studi di Ferrara sta garantendo, con l’inizio del nuovo anno accademico dopo l’estate, in modo discretamente efficace la didattica online. Una modalità che, se i numeri dell’emergenza sanitaria continueranno a galoppare, tornerà, come nel periodo da fine febbraio a maggio, l’unico modo per le studentesse e gli studenti del nostro Ateneo di accedere alla vita universitaria.
Uno scenario desolante all’interno di una drammatica pandemia. Ma se la didattica a distanza (in streaming e/o tramite registrazioni) si è presentata e potrebbe ripresentarsi come necessaria, la paura di molti studenti e dei loro rappresentanti è che diventi norma, una cattiva abitudine anche nel nostro Ateneo.

Le scelte di Unife
A metà luglio scorso, l’Università ferrarese dirama un comunicato riguardante lezioni e laboratori: le attività didattiche di tutte le lauree triennali, magistrali e magistrali a ciclo unico saranno video-registrate o erogate in streaming. Nello specifico, per gli studenti iscritti al primo anno (di ogni corso), si organizzeranno approfondimenti didattici in presenza sugli argomenti svolti durante le lezioni online per consentire di interagire con il docente e fra di loro. Per gli altri anni di corso e per il post laurea, le attività di didattiche saranno svolte con modalità a distanza, seguite da approfondimenti didattici, se possibile in presenza o in alternativa in streaming. In ogni caso, ai singoli Dipartimenti è data libertà di gestire la situazione. Le attività di laboratorio potranno essere svolte in presenza a gruppi e potranno essere precedute e/o integrate da videoregistrazioni di attività pratiche.
Questo sulla carta. Nella realtà la situazione è in parte diversa: non tutti i laboratori sono in presenza, molte lezioni sono registrate e non in streaming, e in alcuni casi sono solo audioregistrate, senza nemmeno la possibilità di vedere il volto del docente.
Nella settimana in cui incontriamo le quattro principali associazioni studentesche di UniFe, sono usciti a breve distanza i due Dpcm del Governo (quelli del 13 e del 18 ottobre), che, pur non imponendo nuove disposizioni per gli Atenei, aumentano il livello di allerta e la conseguente preoccupazione in molti, spingendo, al di là delle singole norme, a una sempre maggiore prudenza. La situazione, infatti, è quella di un continuo ed esponenziale aumento dei contagi, dei decessi e di persone in terapia intensiva per il Covid-19. In ogni caso, in molti si chiedono perché Unife non abbia permesso che molte più lezioni potessero avvenire in presenza, pur con tutte le limitazioni necessarie.

Link. “La ripartenza del Paese deve avvenire dai luoghi del sapere”
Le falle della didattica online, DSA e disabili, la crescita integrale dello studente

C’è un concetto che torna sempre nel corso della nostra chiacchierata, quello della centralità della relazione diretta, “in presenza”, fra gli studenti e con i loro docenti, e la critica, invece, di rapporti umani inautentici, dominati da forme di «alienazione» di cui le nuove tecnologie di comunicazione sono una causa importante. Incontriamo due giovani studentesse, Virginia Mancarella, III° anno di Chimica e Gabriella Angelillis, II° anno di Biotecnologie mediche, rappresentanti di LINK, Coordinamento Universitario nato dal movimento studentesco l’Onda dell’autunno 2008.
Già a fine febbraio «Unife si è attivata subito e bene per la Didattica a distanza (Dad)», ma «non sempre il materiale didattico – slide, libri ecc. – era facilmente reperibile per colpe e negligenze di una parte dei docenti. Sicuramente – proseguono – il lockdown ha evidenziato ancora di più il ruolo importante delle associazioni degli studenti e dei loro rappresentanti».
Nei mesi scorsi, invece, sia a livello regionale sia comunale «abbiamo provato a ottenere risultati per calmierare i costi degli abbonamenti dei treni e gli affitti» per studenti con maggiori difficoltà economiche. Riguardo agli affitti «qui a Ferrara il contributo erogato dal Comune di Ferrara è stato insufficiente, perché l’ISEE non può essere uno strumento aggiornato di valutazione dell’effettivo calo di reddito sopraggiunto quest’anno in molte famiglie».
Riguardo alla didattica, «i Dipartimenti sono deserti in questo periodo. Il fatto che molte lezioni siano a distanza, addirittura videoregistrate, può portare per molti studenti un calo dell’attenzione, a perdersi. Per ora solo alcune lezioni di approfondimento sono in presenza, ma non è sufficiente».
«Per noi la Dad può essere utilissima se affiancata a quella in presenza, perché magari molti studenti non riescono a seguire perché lavorano o abitano lontano. D’altra parte, però, molti di loro hanno una connessione debole o problemi a seguire con calma le lezioni perché vivono con familiari o coinquilini». E poi ci sono problematiche legate ai singoli Dipartimenti, come quello di Gabriella, dove i laboratori in presenza verranno attivati solo a partire dal secondo semestre. «E ci chiediamo: perché Unife ha scelto di fare la Dad in presenza solo per le matricole?».
«Per moltissimi studenti si perde il contatto col docente, non c’è possibilità di confronto e discussione con gli altri studenti, e anche in streaming non sempre c’è la possibilità di porre domande». Un uso eccessivo della Dad «rischia di far diventare ancor più distaccata la figura del docente, di ridurlo quasi a una voce, senza possibilità di relazione e di confronto con gli studenti». Invece, «non ci può essere sapere senza dialogo».
Un capitolo di questa discussione, quasi mai trattato a livello mediatico e di rappresentanza, lo inaugura Virginia, direttamente impegnata su questo tema anche in quanto membro del Consiglio di Parità d’Ateneo: è quello riguardante gli studenti disabili o con disturbi specifici di apprendimento (DSA): «per loro, se manca la didattica in presenza, è una difficoltà ancora maggiore. Il nostro Ateneo è attento alle loro esigenze, ma diversi docenti non li riconoscono come persone da aiutare, e con una loro diversità, ma li ignorano e li discriminano».
In generale manca – continuano -,«l’idea dell’università come luogo di crescita integrale della persona, e non invece solo in vista di un futuro professionale, che non fa che accentuare di anno in anno la settorializzazione del sapere, perdendo l’idea dello studente soprattutto come persona e cittadino. Importante è quindi «che la pandemia non diventi una scusa per modellare diversamente la società, eliminando momenti e luoghi di relazione in presenza, anche riguardo alla Dad».

Student Office. “Non ci riconosciamo in un’università dove si impara solo una professione, senza poter vivere pienamente luoghi e relazioni”

Elena Ferrucci, III° anno di Scienze della Comunicazione e Filippo Tiozzo Bon, studente di Fisioterapia, sono i due membri di Student Office che accettano di parlare con noi di didattica e futuro dell’Ateneo.
«Durante il lockdown, Unife, nonostante le normali difficoltà iniziali, ha risposto bene. Con la Dad vengono però meno la socialità, molte dinamiche di relazione, spesso si è soli davanti al computer a seguire una lezione. Il lockdown è stato comunque, per quanto ci riguarda, un periodo attivo, molti studenti ci contattavano per avere aiuto, informazioni sulla didattica e non solo. Questo ci ha fatto sentire in maniera ancora più forte l’importanza di stare di fronte alle esigenze di tutti. Avevamo anche aperto un profilo su Instagram, “The Place”, dove raccogliere e condividere idee, citazioni, riflessioni di artisti e letterati. Abbiamo quindi cercato di usare bene il tempo, senza rimanere passivi». «La pandemia – proseguono – ci ha insegnato molto, facendoci vedere le cose in modo diverso, a non darle per scontate».
Una volta conclusa la quarantena, «abbiamo riflettuto insieme dentro Student Office, condividendo l’idea che l’università dovesse tornare, se possibile, luogo di incontro, senza accontentarci di seguire la lezione e ricevere un voto». Centrale – proseguono – è la possibilità «di incontrarci per approfondire alcune materie studiate» e in generale il senso del vivere l’università, «per avere uno sguardo più ampio sulle cose». Così anche i tradizionali pre-test estivi – ai quali hanno partecipato una 60ina di matricole, equamente distribuiti tra Medicina e Architettura, – «abbiamo scelto di farli in presenza, per l’importanza, soprattutto per una matricola, della conoscenza diretta con gli altri studenti, in particolare in questo periodo difficile».
Con la ripresa delle attività, sono ancora parole di Elena e Filippo, «sentivamo quindi in maniera forte la voglia di tornare a vivere l’università insieme, a pieno, condividendo esperienze» con amici e colleghi. E poi -, aggiunge Elena – «anche solamente in una lezione vi può essere l’inaspettato, come, banalmente, la domanda di un tuo collega che ti spiazza. C’è quindi la possibilità di crescere, di essere educati come persone».
Purtroppo nei corsi ai quali sono iscritti come durante la quarantenale le lezioni sono ancora registrate, non in streaming. «La lezione in diretta, pur a distanza, almeno permette a docenti e studenti un approccio immediato, di avere dei riscontri, mentre nella lezione registrata – in tanti casi nemmeno video, ma composta solo dall’audio e dalle slide del docente – c’è molto meno coinvolgimento».

Rua-Udu. “Attività via web peggiorate e non rese sostenibili”. La malagestione di Unife

«L’impressione che permane è che, per quanto all’inizio Unife si sia dimostrata reattiva nell’organizzare la Dad, si sia poi adagiata sugli allori, facendo fattivamente poco, o nulla, perché l’esperienza telematica ne uscisse implementata e sostenibile». Non usa giri di parole Mariantonietta Falduto, iscritta al III° anno di Biotecnologie della salute, che incontriamo come rappresentante di RUA (Rete Universitaria Attiva) – UDU.
«La Dad si è dimostrata di grande aiuto ma non può sostituire la vita universitaria canonica. Fare lezione in presenza, studiare in biblioteca, poter condurre attività laboratoriali a pieno ritmo sono tutte esperienze che la telematica non permette. Parecchio svilente e preoccupante, invece – prosegue -, rimane la gestione personale delle relazione umane, duramente inficiata dagli eventi e certamente non sanata dall’esperienza online per sua definizione solitaria».
Capitolo ancora peggiore quello degli esami: «dopo una partenza tardiva – ci spiega – si è pensato di sopperire le prime confuse sessioni scritte andando ad istituire appelli straordinari. Questi ultimi, però, essendo a discrezione del docente, sono rimasti spesso un miraggio». Per non parlare dei tirocini, inizialmente sospesi e poi svolti «in discutibili modalità online per gli studenti prossimi al conseguimento del titolo».
Con l’avvio dell’anno accademico 2020/2021, ben pochi sono rimasti i momenti in presenza. Scelta questa – continua Mariantonietta – presa dall’Ateneo anche in conseguenza delle «sregolate aperture dei numeri universitari» attuate negli ultimi anni da Unife, «più per una questione di entrate nelle casse d’Ateneo», ma con «poca attenzione per la qualità didattica». Critiche RUA le rivolge anche ai «pochi laboratori settimanali, in realtà momenti cruciali, accompagnati da qualche focus groups, a prenotazione fino a esaurimento posti, concordato sull’asse docente/studenti». E, prosegue Mariantonietta, «le tesi di laurea triennali vengono ancora discusse online con la proclamazione ridotta a una mail recante il voto di laurea».
Le sedi dei Dipartimenti, ci testimonia anche lei, sono diventate deserte, prive di tante attività quotidiane e non: «tutti quelli che erano punti focali d’aggregazione come mense, aule studio, biblioteche e corridoi ora non sono altro che spenti fabbricati di muratura. Per noi è soprattutto cambiato il modo di fare rappresentanza e, nel momento in cui gli studenti avevano più bisogno facessimo da ponte tra loro e i professori, abbiamo dovuto cambiare completamente il nostro modo di approcciarci: i social, rapidamente, hanno visto accresciuto il loro ruolo andando a sostituire stand, banchetti, workshop e apertitivi che era nostra abitudine organizzare».

Azione Universitaria. “Il lockdown periodo buio per molti fuori sede. Ma noi c’eravamo”

Edoardo Luigi Manfra, Gianpaolo Zurma, Giulio Braccioni, iscritti a Giurisprudenza, sono i tre ragazzi che incontriamo come portavoce di Azione universitaria (AU).
«Unife ha gestito bene l’emergenza iniziale, è stato uno dei primi atenei a chiudere (l’ultima settimana di febbraio, ndr) e a organizzare le lezioni online. Noi e altre associazioni studentesche abbiamo distribuito mascherine negli studentati. E in generale abbiamo cercato di sopperire alle difficoltà degli studenti, ad esempio legati alla connessione internet, o agli esami, realizzando anche una guida per l’emergenza».
«Anche personalmente abbiamo sentito di diversi casi di depressione tra gli studenti universitari. Molti fuori sede, ad esempio, sono rimasti a Ferrara, spesso magari in appartamento da soli. Ci chiamavano spesso, quindi l’assistenza di noi rappresentanti è stata ancora più importante durante il lockdown. In generale in città, soprattutto per le matricole, purtroppo mancano amcora luoghi di aggregazione».
In estate, invece – proseguono – «abbiamo organizzato alcuni eventi anche su tematiche non strettamente universitarie, come il concerto di Skoll, abbiamo realizzato e diffuso una guida per le matricole e raccolto firme per aiutare gli studenti in affitto, raccogliendone molte». A maggio il Comune ha stanziato 36mila euro per studenti con morosità incolpevole, valutando l’ISEE sotto i 35mila euro come criterio principale di accesso al fondo».
Con l’inizio del nuovo anno accademico, di positivo c’è che dal «15 ottobre, pur con le limitazioni, sono state riaperte biblioteche d’ateneo, importanti luoghi di ritrovo per gli studenti». Per il resto, «la vita universitaria è molto cambiata, ci sono meno punti di ritrovo, con conseguente perdita di molti contatti tra le persone».
«Come AU siamo per la didattica in presenza – sono ancora loro parole -, in quanto possibilità di convivialità, ma accettiamo queste regole come necessarie, e così è per molti studenti».
Guardando al futuro, l’auspicio è che «si ritorni alla normalità, alle lezioni in presenza e magari per i corsi molto frequentati dagli studenti si assicuri lo streaming, utile soprattutto per i fuori sede.
Negli ultimi Dpcm del Governo – riflettono con amarezza – purtroppo non si parla di università, mentre ad esempio nel Consiglio Nazionale Studenti Universitari, AU e altre associazioni hanno avanzato diverse proposte concrete».

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 30 ottobre 2020

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Ligabue artista fra grazia e miseria

26 Ott

Ritratto del pittore a cui è dedicata la prossima mostra a Palazzo Diamanti: anima reietta e sofferente, talento limpido in un’esistenza di dolori rivolta alla creazione di tante opere traboccanti bellezza e inquietudini

di Andrea Musacci


«Gli sarebbe piaciuto / contro il vento camminare / con un gran cane a lato / i gambali e i risvolti larghi / di una divisa, l’occhio aggressivo che / si intenerisce e chiede / pietà per tutti»
(Cesare Zavattini, “Ligabue”, 1967)

“Antonio Ligabue. Una vita d’artista” è il nome della mostra visitabile a Palazzo dei Diamanti dal 31 ottobre al 5 aprile, a cura di Marzio Dall’Acqua e Vittorio Sgarbi con la supervisione di Augusto Agosta Tota, e organizzata da Ferrara Arte e Fondazione Archivio Antonio Ligabue di Parma.
Non è semplice cercare parole per questo artista unico nel panorama moderno italiano, celebre per le sue “giungle padane” costellate di animali feroci più o meno esotici, e noto per i suoi malinconici autoritratti.


Destino di preda
La malinconia di un’anima derisa da tutti, fin dall’infanzia, lui bambino gracile, isolato come un appestato, buono solo per le ingiurie dei ghigni tronfi dei compagni. Nei suoi animali pur privi di pietà non vi era, a differenza degli umani crudeli, alcun autocompiacimento ma solo il suono sordo della ferinità. Sì, perché a “Toni al mat” – come scrive Giuseppe Amadei nel catalogo di una retrospettiva organizzata ad Alba nel 2003 – «tra i tanti mali che gli sono capitati, il più grande è stato quello – nei momenti di maggiore lucidità – di conoscere il doloroso capire tutte le cose».
Era lui quella bestia azzannata che faceva emergere dalle sue tele, suo il terrore nello sguardo della vittima ormai disarmata, nuda di fronte all’esistenza, al male, al duro patire violento e insaziabile. Come quella «furtiva volpe rossa» che seppe cogliere «tra il terrore della morte e lo stupore / del tramonto intramontabile», come scrisse Cesare Zavattini nell’opera sopracitata. Un grido di movimenti e cromie simili alla vendetta di un demone maligno, all’irrompere cieco e per questo tremendo – come un destino – della realtà.
Paesaggi, quelli dei suoi quadri, che così spesso assomigliano, almeno di primo acchito, a eden vivaci e stralunati fino all’onirico, ma che in un lampo rivelano una luce troppo tagliente, un movimento di un corpo minaccioso tutto pelle, nervi e ferocia. E obbligano l’occhio di chi osserva, come nel rapidissimo susseguirsi di frammenti in un incubo, a scovare un’altra bestia più minuta, una minaccia ulteriore, e scoprirsi, come la vittima, come Toni, inermi, senza propulsione nelle gambe, senza più ripari psicologici. Come piegati, siamo costretti dinnanzi alle fauci spalancate, sentendoci noi stessi divorati. Oppure lui, Ligabue – «rosa vergine e selvatica» come lo definì l’artista Luigi Bartolini – si sentiva preda scelta del mondo e al tempo stesso concupito e logorato da tarli e smanie interiori, terrori vivi, frementi, tesi come i corpi lucenti delle sue tigri. Una paura famelica nascosta, come dietro la vegetazione dei suoi dipinti, dentro ognuno di noi, in ombra, come dormiente dietro un ramo, di un sonno torvo e ingannatore.


Apolide e solitario
Ligabue era nomade, apolide per natura, sempre straniero e quindi sempre ospite, mai di casa. Corrucciato e scostante, sempre pària, estraneo, si dice consumatore occasionale di cani e gatti lessati dopo averli conservati sotto la neve, ma anche amante di automobili e motociclette che, dopo il successo, iniziò a collezionare.
Mai familiare, dicevamo, ma capace di contatto, come in quel documentario di Andreassi dove, con fare a un tempo infantile e morboso, elemosina un bacio da una giovane donna a cui accarezza il viso, grato e stupito come fosse la prima femmina avvicinata. Implorante sì, patetico certo, ma umanissimo perché fragile, bisognoso, spigoloso e scorticato dalla vita, lui che si travestiva da donna – «nella sua solitudine Ligabue si inventava la compagna, la donna che non possedette mai nella realtà», racconta Andreassi. Ambiguo e non etichettabile, di certo non come pittore. Ma poco importa, perché ciò che conta è, come scrisse Luigi Carluccio nel 1965 sulla “Gazzetta del popolo”, che Ligabue «nelle sue opere ha trasposto il sentimento della vita, stravolto e crudele, che egli doveva sentire bruciare effettivamente nelle vene». Un sentire che defluiva, prima di iniziare a pennellare, e che diventava gestualità misteriosa, propiziatoria, accompagnata da nenie tribali, nemmeno loro dimentiche di quella sofferenza palpabile.


Corpo dannato, corpo di grazia
Vittima della diversità, dunque, un marchio accollatogli addosso dal mondo, che tardi e forse mai del tutto lesse in lui un certo senso divino in quella vertigine che è la creazione artistica. Senso offuscato da quel corpo di reietto, sporco e maleducato, fascio di impulsi e vizi, Ligabue aveva occhi scavati – così piccoli – dentro due nere conche, strette e atipiche.
In un insieme irregolare nei segni, nella pelle, nel cadenzare, in quelle orecchie troppo grandi, spiccavano labbra granata, una bocca piena di carie, sgraziata e incerta, se non nell’imprecare. Bocca nera di sigaretta, avara di parole, gradino dove incespicavano le parole, idiomi di offesa, millantatori, irridenti, miscuglio di tedesco, italiano e reggiano, ma anche parole che sapevano ritrarsi pudiche davanti ai bambini a cui dava del “voi”.
Labbra che sputavano bestemmie ma che chiesero il battesimo, poi gli altri sacramenti, fino, poco prima di spirare, l’estrema unzione. E che nella Pasqua dello stesso anno, vedendosi rifiutate nel chiedere la comunione, chiesero al prete: “Perché a me no? Suntia na bestia me?” (Sono una bestia, io?). E – come racconta Marzio Dall’Acqua – «quando il prete gli chiese se sapeva cosa fosse l’eucarestia, rispose: “Nostar Signur!”». Sembra di rivederlo dentro quel cappotto troppo grande, quel corpo minuto e venoso, quelle mani piccole e tozze che forse sapevano mal implorare, vittime tanto di un oscuro sortilegio quanto di una grazia oscura.
Grazia che conosce vie e trova sembianze assurde per mostrarsi a chi – Dio ci perdoni per questo – è di pietà sempre così digiuno.

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 30 ottobre 2020

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Un’eco-politica per non sprofondare nell’Inferno 2.0

26 Ott

Intervista ad Andrea Gandini (Cds) in occasione della presentazione dell’Annuario Socio-Economico: critica del neocapitalismo e proposte a partire da donne e giovani

La 33esima edizione dell’Annuario Socio-Economico Ferrarese – dedicata ai temi dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile dell’Onu – sarebbe dovuta uscire la scorsa primavera 2020, ma il Covid ha bloccato tutto.
L’Annuario 2020 è quindi stato pubblicato a marzo sul sito del Centro ricerche Documentazione e Studi (Cds) di Ferrara (https://www.cdscultura.com), Associazione presieduta da Cinzia Bracci. Successivamente, appena possibile, è stato anche stampato: un’edizione, quella cartacea, che raccoglie anche ulteriori contributi di alcuni degli autori presenti nella versione online e di nuovi, alla luce della sopravvenuta emergenza sanitaria ed economica. Cds Cultura ha presentato il volume il 9 e 10 ottobre scorso nella sede del Consorzio Grisù in via Poledrelli a Ferrara all’interno del Festival dello Sviluppo Sostenibile di ASviS (Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile). Una terza sessione di presentazione dell’Annuario si terrà il 13 novembre (Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne), interamente dedicata all’Obiettivo 5 – Parità di Genere.
Come accennato, l’Annuario 2020 è stato organizzato secondo i principi di Agenda 2030, come primo esperimento in Italia di rapporto elaborato a livello locale con il contributo di una molteplicità di autori provenienti da quella rete articolata che ASviS e la stessa Agenda 2030 auspicano: docenti, ricercatori, imprese, associazioni di categoria e sindacati, professionisti, rappresentanti delle categorie economiche, sindacali, dell’associazionismo e del volontariato. Ogni capitolo dell’Annuario corrisponde a un obiettivo di sviluppo sostenibile.
Se guardiamo all’imperversare di nazionalismi, all’acuirsi delle contraddizioni del neocapitalismo, alla crisi ecologica, aveva ragione Antonio Gramsci quando scriveva: «Il vecchio mondo sta morendo. Quello nuovo tarda a comparire. E in questo chiaroscuro nascono i mostri». Abbiamo interpellato Andrea Gandini, Direttore dell’Annuario e membro del Comitato direttivo del Cds, per analizzare questa grave situazione a livello globale e delineare alcune direttive per immaginare un sistema socio-economico differente.
«Con la fine del comunismo reale si è pensato che il capitalismo liberista e uno stile di vita consumista e individualista fosse l’unico “modello” positivo che avrebbe aumentato la ricchezza, una sua migliore distribuzione, la qualità della vita», riflette con noi Gandini. «Dopo 30 anni sappiamo che le cose sono andate molto diversamente. In alcuni Paesi poveri, in Cina, India almeno un miliardo di persone sono uscite dalla povertà e oggi hanno buoni salari, così come vantaggi enormi sono andati a tutti i ricchi del mondo (circa 50 milioni), ma i salari di operai, commercianti, artigiani e dei ceti medi europei e americani non sono cresciuti (circa 700 milioni). E sono soprattutto aumentate le minacce ambientali al pianeta al punto tale che, se dovesse proseguire questo tipo di produzione e consumo, porterebbe nell’ipotesi peggiore all’estinzione della specie umana e, in quella migliore, a un Inferno 2.0 che consegnerebbe ai nostri figli un mondo inospitale tra riscaldamento globale, crescenti alluvioni, siccità, tornado e pandemie prodotte dalla deforestazione e crescente urbanizzazione. In sostanza la qualità della vita di quasi tutti sta peggiorando».
Ma la gravità della situazione e il pessimismo a cui sembra portare riguardano anche altri ambiti. «Le grandi multinazionali del web e farmaceutiche – prosegue Gandini – “spingono” per portarci in un mondo dove domini il digitale (web, tv, virtuale) e tendono a farci credere che le cure debbano avvenire soprattutto attraverso farmaci e vaccini, anziché pensare innanzitutto a come migliorare la qualità della vita. Un mondo, insomma, che gradualmente distrugge la vita di relazione, le comunità locali, le famiglie e dove tutti saremo più soli e dipendenti».
Gli chiediamo allora se è ancora possibile – con la fine delle grandi utopie e un presente malato come quello che ci tocca vivere – immaginare un sistema più fraterno, e in che cosa sostanzialmente si distinguerebbe dall’attuale. Un sistema dove, come scrive il Papa in “Fratelli tutti”, «il diritto di alcuni alla libertà d’impresa o di mercato non può stare al di sopra dei diritti dei popoli e della dignità dei poveri; e neppure al di sopra del rispetto dell’ambiente» (FT 123). Un pianeta, quindi, quello dove abitare, «che assicuri terra, casa e lavoro a tutti», come «vera via della pace» (FT 127).
«Bisogna cambiare strada – riflette con noi Gandini -, come dice il Papa e come recita il titolo dell’ultimo libro di un grande vecchio, Edgard Morin. Un’economia basata sull’uso indiscriminato delle materie prime e dei rifiuti deve lasciare posto a un’economia circolare che produca pochissimi rifiuti. I ricchi devono tornare a pagare le tasse, almeno più di oggi se non proprio come una volta, l’iva deve alzarsi sui consumi che inquinano, i poveri devono essere aiutati localmente da chi – Comuni e associazioni di volontariato – li conosce e non dall’Inps e non solo con soldi ma con servizi personalizzati. Con il crollo della natalità – prosegue nell’analisi – dobbiamo programmare flussi di immigrazione legale in modo che, come avviene negli altri Paesi europei, gli immigrati lavorino, siano integrati nella nostra cultura e portino benessere a tutti. Le aziende devono tornare ad aiutare i propri dipendenti e la comunità locale. La politica deve investire nella sanità territoriale, nei medici di famiglia, nella scuola, il cui modello di apprendimento va cambiato integrandolo con laboratori manuali, artistici, con uscite all’aperto, rafforzando l’alternanza scuola-lavoro, pagando di più i maestri, facendo seri concorsi».
Infine, ma non certo meno importante, «gli anziani possono rimanere più anni al lavoro con un part-time in modo da aiutare i colleghi e i giovani, mentre le donne devono essere assunte – insieme agli stessi giovani – in maggior numero perché da loro dipende il futuro del Paese. Politiche che i Governi devono fare se non vogliamo continuare a declinare».
E della concretezza il Cds fa la propria ragione d’essere, senza mai fermarsi ad analisi pur precise e profonde. Di riforme praticabili, frutto di concrete sperimentazioni e ampiamente trattate nell’Annuario 2020, Gandini ha accennato anche intervenendo nel sopracitato incontro del 9 ottobre scorso a Grisù.
Oltre a quelle condivise con noi, citiamo «l’allargamento dell’ascolto e della partecipazione alle istanze della società civile organizzata che hanno esperienze consolidate e l’apprendere dalle buone pratiche», oltre a «un nuovo Piano del lavoro sostenibile nazionale, regionale e comunale – anche come leva per rinnovare le stesse burocrazie -, che porti all’inserimento di giovani con contratti di Prima Esperienza, all’implementazione della transizione dagli studi al lavoro (partendo da Istituti Tecnici e Professionali), al potenziamento dell’alternanza scuola-lavoro».
«Non ci salverà la crescita di un capitalismo tecno-economico – conclude Gandini – ma solo i cambiamenti negli stili di vita personali uniti a un’eco-politica basata sul lavoro e la creatività dei nostri giovani e delle donne».
Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 30 ottobre 2020

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Da luoghi di morte a luoghi di bellezza: riutilizzo sociale dei beni confiscati alle mafie

19 Ott

Intervista a Donato La Muscatella referente del Coordinamento ferrarese di “Libera”: numeri e storie in Italia ed Emilia-Romagna

A cura di Andrea Musacci

Si può dire che la confisca dei beni e il loro riutilizzo per finalità sociali come arma nella lotta alle mafie e alle organizzazioni criminali faccia parte dell’anima di Libera fin dalla sua nascita nel 1995.
Proprio 25 anni fa lanciò, infatti, la prima campagna nazionale con una raccolta firme che portò l’anno successivo alla 109, legge che rende finalmente la società civile protagonista della lotta alle mafie, attraverso la possibilità di riappropriarsi di spazi e crearne di nuovi. Una ricerca di Libera ha censito finora 865 soggetti diversi impegnati nella gestione di beni immobili confiscati alla criminalità organizzata, ottenuti in concessione dagli enti locali, in ben 17 regioni su 20.
Il tema del riutilizzo sociale dei beni confiscati è stato al centro della Festa della Legalità e della Responsabilità a Ferrara, che ha visto Libera tra gli organizzatori insieme ad altri soggetti (Ufficio Stampa del Comune di Ferrara, Avviso Pubblico, Presidio di Libera del Centopievese, Camera di Commercio di Ferrara, Comitato Ferrarese Area Disabili, Biblioteca popolare Giardino, Comune di Voghiera, Pro loco di Voghiera, Factory Grisù, Hangar Birrerie). L’evento si è svolto dal 15 al 17 ottobre negli spazi di Factory Grisù. Per l’occasione abbiamo intervistato Donato La Muscatella, referente del Coordinamento di Ferrara di Libera.


Beni confiscati trasformati in “bene comune”: perché la scelta di questo tema per la vostra tre giorni?
Come Libera, all’interno dello spazio che ci è stato concesso, abbiamo deciso di tornare a parlare di beni confiscati per poterne approfondirne il valore, non solo economico, ma soprattutto civico e sociale, assieme a relatori qualificati. Si tratta di un modo per raccontare come potersi impegnare concretamente, restituendo libertà e bellezza a territori che sono stati depredati e dominati da una contro-cultura che non significa solo crimine, ma anche potere, presunzione di essere al di sopra delle regole, di tutto e di tutti.
Viviamo in una Regione, peraltro, che ha preso a cuore questa tematica, vedendo nascere un Protocollo per la gestione dei beni che, attivando sinergie positive tra tutte le Istituzioni coinvolte, sta facendo scuola su scala nazionale.


Un po’ di numeri a livello nazionale per inquadrare meglio il tema?
I dati sono in costante evoluzione e questa tendenza deve essere letta, a mio avviso, in una duplice ottica: da un lato, dimostra, purtroppo, la significativa consistenza del patrimonio prodotto dalle attività delle organizzazioni di stampo mafioso; dall’altro, testimonia l’impegno degli inquirenti nell’agire con gli strumenti a loro disposizione, per contrastare anche sul piano patrimoniale la criminalità organizzata.
Concentrandoci sui beni immobili, protagonisti della legge che ne consente la ridestinazione a finalità sociali, sono 16.446 quelli già destinati e 17.376, invece, quelli ancora in gestione e in attesa di nuovo utilizzo (in base ai dati più recenti dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, ANSBC).


Nella nostra Regione, invece, quali e quanti beni sono stati confiscati e restituiti alla collettività?
In Emilia-Romagna sono entrati nel circuito di gestione supervisionato dall’ANSBC 631 immobili, mentre 144 sono già stati destinati, tornando a disposizione alle diverse comunità.


Nello specifico, ci può fare qualche esempio in Emilia-Romagna? E quali sono gli 8 nella nostra provincia di Ferrara?
Il panorama è ampio: si va da un’abitazione rurale nel Comune di Salsomaggiore Terme (Parma), che è ora lo spazio dove svolge le proprie attività istituzionali e divulgative il Consorzio del Parco Fluviale Regionale dello Stirone, alla nuova sede della Casa per la donna in via San Vitale a Bologna, sino a cinque appartamenti riconsegnati al Comune di Sorbolo (Parma) lo scorso luglio, alla presenza della Ministra Lamorgese, affinché possano ospitare famiglie in difficoltà.
In provincia di Ferrara, tra gli 8 beni immobili già in uso per le finalità previste dalla legge n. 109 del 1996, tre sono divenuti alloggi di servizio per militari dell’Arma dei Carabinieri; uno, invece, è un’abitazione che ospita donne vittime di violenza domestica, sostenuta dal Centro Donna e Giustizia di Ferrara e dallo Sportello Antiviolenza; le tre restanti unità immobiliari (una delle quali con un piccolo terreno pertinenziale), vengono utilizzate per gestire casi di emergenza abitativa.

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Crisi sociale e criminalità nel tempo dell’emergenza Covid: Un seminario svoltosi il 17 ottobre nella Factory Grisù di Ferrara

“Illegalità e criminalità organizzata al tempo del Coronavirus: l’impatto economico su cittadini e imprese” è il titolo dell’incontro pubblico svoltosi sabato 17 ottobre nella sede del Consorzio Factory Grisù di via Poledrelli a Ferrara.

Il Seminario, parte della Festa della della Legalità e Responsabilità organizzato dal Comune di Ferrara, è stato proposto da Ordine dei Giornalisti, Fondazione Giornalisti dell’Emilia-Romagna in collaborazione con l’Ufficio stampa del Comune di Ferrara e Avviso Pubblico.
Ha preso le mosse dal Rapport Caritas uscito il giorno stesso, il Prefetto di Ferrara Michele Campanaro, prima di ripercorrere la gestione del lockdown nel nostro territorio: l’anomalia della pandemia, ha spiegato, «ha reso tutto più difficile, in quanto ha necessitato di una gestione straordinaria». Per Campanaro, in ogni caso, «non vi è nulla di strano nel ricorso all’uso di decreti governativi», perché è prassi «nei casi di emergenza di Protezione Civile come l’attuale». Nello specifico, «la chiusura delle attività produttive nel lockdown ha rappresentato anche per la nostra Prefettura un lavoro importante, per le tante richieste pervenuteci». Nell’attuale fase, ha concluso, pur nell’incertezza, «non saranno, come nella fase 1, gli strumenti repressivi a dominare, perché siamo, almeno per ora, ancora nella fase della ricostruzione. Complessivamente comunque nel nostro territorio il sistema è sano, ma non bisogna adagiarsi sugli allori» e mantenere alta l’attenzione.
«È molto importante – ha invece riflettuto Pierpaolo Romani, coordinatore nazionale di Avviso Pubblico – organizzare una rete di presenza degli enti locali, soprattutto in questa che è anche un’emergenza sociale ed economica». Anche perché «la storia ci insegna che nei momenti di emergenza le mafie trasformano le difficoltà in opportunità» a loro vantaggio. In particolare Regioni e Comuni devono quindi saper unire «celerità e trasparenza» nelle decisioni, «sempre nel rispetto delle regole». Infine, un monito: «attenzione anche al forte aumento negli ultimi mesi del gioco d’azzardo on line».
Dopo l’intervento di Andrea Migliari, responsabile Servizio Qualità, Comunicazione e Progetti speciali Camera di commercio di Ferrara, ha preso la parola Gianni Belletti, responsabile Comunità Emmaus di Ferrara, che è partito dal concetto di “vulnerabilità”: «non tutte le persone criminali sono vulnerabili, ma di certo la vulnerabilità spesso porta alla criminalità». Emmaus è un esempio importante di come la vulnerabilità possa essere accompagnata e aiutata ogni giorno: 20 persone vivono nella comunità locale, che si mantiene esclusivamente col mercatino dell’usato. Infine, sull’emergenza sociale Belletti ha brevemente presentato la proposta, a suo parere urgente e necessaria, del reddito di base.
La mattinata si è conclusa con una tavola rotonda sul tema “Raccontare la cronaca nera e quella giudiziaria durante il lockdown per l’emergenza sanitaria Covid-19” con la partecipazione di alcuni giornalisti locali.

Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 23 ottobre 2020

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“Comunità e riscoperta del volto: da qui dobbiamo ripartire”

19 Ott

In vista dei nuovi corsi di aggiornamento, abbiamo incontrato mons. Vittorio Serafini, Direttore Ufficio IRC, per riflettere su com’è cambiato il ruolo degli insegnanti di religione nella scuola in tempo di covid. E per capire quali forme di resilienza adottare

di Andrea Musacci


“Il coraggio di andare oltre l’umano” è il titolo scelto quest’anno dall’Ufficio diocesano per l’Insegnamento della Religione Cattolica (IRC) per i corsi di aggiornamento 2020/2021 rivolti agli insegnanti di religione di ogni ordine e grado scolastico.
Abbiamo incontrato il Direttore dell’Ufficio diocesano IRC mons. Vittorio Serafini, per rivolgergli alcune domande sui temi scelti per i corsi.
Abbiamo incontrato il Direttore dell’Ufficio diocesano IRC mons. Vittorio Serafini, per rivolgergli alcune domande sui temi scelti per i corsi.


In un periodo così complicato – anche nella scuola – come quello che stiamo vivendo, quale può essere il valore aggiunto degli insegnanti di religione?
Il periodo del covid-19 non è un tempo complicato, ma complicatissimo. Da sempre si sottolinea che le finalità dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole italiane sono quelle di agevolare la ricerca di risposte di senso ai perché della vita. Il dramma mondiale del coronavirus esige delle risposte sia sul piano delle paure, sia sul piano della responsabilità nei comportamenti. L’insegnante di religione può offrire tanto di fronte alle contraddizioni del momento presente e di fronte alle incertezze che riguardano il futuro. Teniamo anche presente che nella nostra Arcidiocesi di Ferrara-Comacchio i ragazzi e i giovani che si avvalgono dell’insegnamento della religione cattolica sono circa l’80%.


Lei è in contatto con diversi di questi insegnanti: in questo primo mese di scuola in presenza dopo il lockdown, qual è l’umore prevalente? Quali situazioni si trovano ad affrontare?
Al termine dell’anno scolastico 2019-2020, dopo il periodo del lockdown, a seguito delle lezioni non in presenza, le lamentele sono state tante e forti. Molti insegnanti si sfogavano dicendo di essere stati costretti a lavorare il doppio, a ricorrere ad una tecnologia sulla quale non erano preparati, ad avere delle risposte inferiori da parte degli alunni rispetto alle lezioni in presenza. Con i primi mesi dell’anno scolastico 2020-2021 i disagi sono stati trasferiti sul piano dell’organizzazione generale degli istituti e delle singole classi: distanziamento nelle aule e nelle parti comuni, obbligo di indossare le mascherine, controllo di tutti gli spostamenti di entrata ed uscita. Una cosa comunque è certa: la scuola è per vocazione “in presenza”. Ogni altra soluzione è solo un’agevolazione ed un rimedio.


Venendo al corso d’aggiornamento: fra i temi che verranno trattati, mi soffermerei su quello del trauma e dell’educazione alla resilienza. Ci spiega come verrà declinato?
Il nostro Arcivescovo aveva suggerito di redigere un piano triennale dove prendere in esame tutte le principali religioni monoteiste. Avevamo pensato in questo primo anno lo studio della religione ebraica. Poi con la consulta ci abbiamo ripensato. Il coronavirus è stato un dramma per tutti e quindi anche per gli studenti e gli insegnanti che si sono trovati improvvisamente davanti ad un trauma che ha sconvolto il loro modo di vivere. Attraverso il corso di aggiornamento vorremmo far riflettere sul fatto che dobbiamo continuare a sentirci comunità. Con il lockdown infatti siamo andati contro il paradigma che ci si salva se si sta insieme, se si fa gruppo, se si sta uniti. Ora per diversi mesi si è predicato che solo stando lontani ed isolati possiamo sconfiggere il covid-19. È la prima volta che questo avviene in modo così esplicito e globale nella storia dell’uomo. Sono stati impediti, infatti, tutti i gesti che per cultura abbiamo sempre compiuto: darsi la mano, abbracciarsi, entrare in contatto fisico. Come risolvere il problema? Sarà fondamentale dare importanza agli sguardi, curare l’espressività del volto, esprimere gioia o dolore attraverso la luce degli occhi. Che cosa intendiamo per resilienza della quale vorremmo parlare? È la capacità di resistere agli eventi negativi, di superare le avversità in modo attivo e creativo. La persona resiliente è quella che trasforma uno svantaggio in un vantaggio.


Un altro tema, che verrà affrontato nei corsi, sarà quello delle religioni in tempo di covid. Mi ha colpito questa frase scelta per presentarlo: “L’epilogo più grigio sarebbe quello di lasciare cadere nell’irrilevanza l’esperienza vissuta”. Lei pensa che si stia correndo questo rischio, che nella società manchi un po’ una riflessione sul senso profondo di quello che abbiamo vissuto e che ancora stiamo vivendo?
L’esperienza dolorosa del coronavirus è stata vissuta dagli uomini di ogni religione. Tutti si sono organizzati nel continuare a pregare a distanza, sentendosi ancora comunità. I cristiani sono ricorsi a funzioni religiose con dirette via internet, con bollettini parrocchiali online o con conferenze video di sacerdoti e religiosi. Anche il suono delle campane ha aiutato a sentirsi uniti nella prova. So che molti buddisti hanno intensificato e rafforzato quegli esercizi della mente che aiutano a mantenersi tranquilli. In televisione si sono visti gli induisti pregare e meditare davanti ai loro piccoli templi domestici con le statue delle loro divinità. I musulmani, nella sofferenza per il fatto che la comunità non poteva riunirsi assieme per pregare, si sono rifugiati nella preghiera domestica e nello studio del Corano con i propri familiari. Insomma per tutti c’è stata la grande occasione per riscoprire i valori più autentici. Non è cosa da poco se in tanti hanno cominciato a discernere tra ciò che è superfluo e ciò che è indispensabile. Voglio credere che sia aumentata la compassione per chi soffre e che tanti abbiano recuperato l’importanza delle relazioni umane. Se il coronavirus non ha insegnato tutto questo, allora è stato un avvenimento traumatico e doloroso ma che …non ha educato a nulla.

Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 23 ottobre 2020

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Mons. Andrea Turazzi, gradito ritorno nella sua Ferrara

12 Ott
Foto Musacci

Il 9 ottobre Messa e presentazione del nuovo libro nella chiesa della Sacra Famiglia

Ritrovare le proprie radici, riscoprirsi a casa, in senso affettivo e spirituale.
È quello che ha rivissuto, seppur per poche ore, mons. Andrea Turazzi, da sette anni Vescovo di San Marino-Montefeltro, ma sempre rimasto legato alla nostra terra, lui originario del bondenese ma vissuto per quasi tutta la vita a Ferrara. E proprio qui, nella chiesa della Sacra Famiglia dove ha trascorso come parroco gli ultimi otto anni prima di essere ordinato Vescovo, lo scorso 9 ottobre, Solennità della Madonna delle Grazie, ha presentato il suo nuovo libro “Alle prime luci dell’alba”.
L’incontro è stato preceduto dalla S. Messa da lui presieduta e celebrata insieme al Vicario Generale mons. Massimo Manservigi, al parroco don Marco Bezzi, a don Michele Zecchin, don Luca Piccoli, don Joseph Sagahutu e Thiago Camponogara, ordinato sacerdote il giorno successivo. Le radici, dicevamo. Nella sua breve omelia mons. Turazzi ha preso le mosse dalla questione: quando nasce la Chiesa?
Nasce dalle parole di Maria all’angelo, «Eccomi, sono la serva del Signore» (Lc 1,38). «La Chiesa – ha commentato il Vescovo – nasce ogni volta che diciamo il nostro “sì” alla volontà del Signore». Ma per accettare la Sua volontà è fondamentale riscoprire «l’essenza della fede», come ha spiegato lui stesso nella successiva presentazione, svoltasi sempre in chiesa, sollecitato dalle domande di mons. Manservigi e alla presenza anche dell’Arcivescovo mons. Perego. Tra aneddoti – anche divertenti – e riflessioni teologiche, mons. Turazzi ha quindi accennato all’ossatura del suo saggio, imperniato sul Battesimo, la preghiera, la Riconciliazione – che significa il «godere della Misericordia di Dio» – e la devozione mariana. I pilastri della casa della nostra fede, insomma, con al centro, sempre, la Pasqua del Signore.

Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 16 ottobre 2020

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Luoghi liberati dietro il Duomo: piazzetta aperta e antica Sacrestia restaurata

5 Ott

Nuovi spazi agibili nell’area della Cattedrale di Ferrara:
il 3 ottobre è stata riaperta p.zzetta S. Giovanni Paolo II e inaugurata una mostra permanente di fotografie del Duomo. Presentata anche l’antica Sacrestia restaurata. Prossimamente, mostra coi busti degli Apostoli di Alfonso Lombardi

Parziali ma significativi passi in avanti, anche a livello simbolico, sono stati realizzati nel restauro dei luoghi annessi alla Cattedrale. La mattina di sabato 3 ottobre si è svolta la riapertura ufficiale dell’antica Sacrestia e della piazzetta San Giovanni Paolo II a ridosso del campanile: è stata tolta la recinzione che fino ad ora, per motivi di sicurezza, impediva l’accesso alla piazzetta e al cortile dell’abside e quindi lo sbocco in via Canonica. È stato mons. Ivano Casaroli, Presidente del Capitolo della Cattedrale, a presentare i lavori realizzati e ad anticipare come prossimamente avrà luogo una mostra coi busti dei quattro Apostoli realizzati dal ferrarase Alfonso Lombardi (nato intorno al 1497): le opere sono recentemente tornati al Capitolo della Cattedrale dopo essere stati in prestito al Polo Museale di Bologna, città dove Lombardi visse e fu molto attivo.


Mostra fotografica
La base del campanile ospita una galleria di grandi fotografie in bianco e nero – una quarantina – per tenere viva la memoria dell’interno della Cattedrale e ricordare i bombardamenti, in particolare quello del 28 gennaio 1944 che colpì la città causando la morte di 202 persone, almeno 12 delle quali rifugiatesi nel campanile, oltre ai danni ingenti subiti dall’abside. Allora venne colpita l’allora sede del Capitolo e l’antica Sacrestia venne in seguito abbandonata. In mostra, sia gli esterni dell’edificio sia gli interni, con le navate e tutti gli altari (centrale e laterali), l’abside e il coro ligneo, oltre ad alcune miniature del XV secolo dei Libri Corali conservati nel Museo della Cattedrale.
Oltre alla collaborazione con Dinamica Media e Digital Neon, è stato Giovanni Lamborghini, Archivista del Capitolo della Cattedrale, a compiere l’opera di ricerca e selezione delle fotografie dall’Archivio e dalla collezione dell’avv. Andrea Lodi, alcune realizzate negli anni ’70, ma la maggior parte scattate appunto negli anni ’40. Proprio quest’ultimo corposo gruppo fu realizzato dallo Studio “Vecchi e Graziani” di Giuseppe Vecchi e Ada Graziani. Lo Studio iniziò l’attività nel secondo decennio del ’900 in via Camposabbionario 11 per poi trasferirsi in via XX Settembre 131 e diventare nei decenni successivi uno dei più quotati in città. Giorgio Franceschini, assieme a don Giulio Zerbini, don Giuseppe Baraldi e don Alberto Dioli, per incarico dell’allora vescovo mons. Ruggero Bovelli documentò con estrema precisione lo scenario della Ferrara devastata dai bombardamenti: attraverso l’occhio fotografico di Vecchi, Franceschini e i sacerdoti del Seminario realizzarono un reportage intitolato “Bufere sul Ferrarese”, che fu mostrato anche a mons. Montini – futuro Paolo VI -, allora sostituto della Segreteria di Stato di Pio XII. Don Giulio Zerbini sul nostro Settimanale il 6 aprile 1969 nell’articolo “Compagni di messa del papa” scrisse: «All’indomani della fine del conflitto, l’arcivescovo di Ferrara mons. Ruggero Bovelli chiese ad un giovane studente: “…Sei appassionato di fotografia… preparami una documentazione sui danni arrecati dalla guerra alle chiese e alle opere ecclesiastiche…Roma vuol conoscere la reale situazione…”. Alla fine di dicembre 1945, grazie all’intensa collaborazione di Giuseppe Baraldi, Giulio Zerbini e Alberto Dioli, il lavoro era completato». Il volume “Bufere sul Ferrarese” fu stampato dalla Tipografia Artigiana di Ferrara nel 1981 con disegno in copertina di don Franco Patruno.


Antica Sacrestia ora agibile
Quattro mesi fa (v. “la Voce” del 12 giugno) avevamo presentato in anteprima la rinnovata Sacrestia dei canonici a ridosso del campanile della Cattedrale. La mattina di sabato 3 ottobre è stata ufficialmente presentata alla cittadinanza dopo il restauro, iniziato nell’autunno del 2017, reso possibile dalla collaborazione tra il Capitolo della Cattedrale e il Comune di Ferrara. L’inaugurazione avrebbe dovuto svolgersi tra marzo e aprile scorsi ma il Coronavirus ha bloccato tutto. A far da Cicerone è stato Giovanni Lamborghini, Archivista del Capitolo e dell’Archivio storico diocesano. Presenti tra gli altri il nostro Arcivescovo mons. Perego, l’Assessore Marco Gulinelli, oltre a Francesca Sbardellati e Chiara Montanari, rispettivamente ingegnere e architetto resposnsabili dei lavori. Un’Ave Maria ha chiuso l’inaugurazione.
Sopra l’altare si possono ammirare tre pregevoli opere d’arte (a destra): Una grande “Deposizione di Cristo” realizzata da Domenico Mona nel 1557, e portato dalla Cattedrale una volta aperta la Sacrestia, come anche l’affresco raffigurante il volto della Madonna, in origine dipinto a muro da artista ignoto. Infine, l’ottocentesco “Orazione di Cristo nell’orto” di Girolamo Scutellari.
L’antica Sacrestia settecentesca ha subìto interventi di riparazione dei danni post sisma e miglioramento sismico. Fondamentali anche i complessi lavori sugli imponenti armadi e sull’altare, per questo edificio per decenni usato come deposito.
I lavori, che hanno visto l’ex Amministratore del Capitolo della Cattedrale mons. Marino Vincenzi come primo promotore, sono stati progettati e diretti dall’arch. Maria Chiara Montanari, col cantiere guidato dal geom. Daniele Chiereghin della IBF Emilia di Ferrara, la supervisione tecnica dello studio “Struttura” srl e la sorveglianza della Soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio. Gli interventi strutturali sull’edificio sono stati eseguiti con i finanziamenti del MUDE (i contributi post sisma 2012, gestiti dal Comune di Ferrara), quasi 200mila euro spesi per consolidamento delle fondazioni, cuci/scuci delle murature, consolidamento, con iniezioni, dei muri, della volta, della parte strutturale della copertura, e per l’inserimento di un sistema di catene a due livelli.
Tutti gli altri lavori sono stati, invece, finanziati dal Capitolo della Cattedrale, per un’ulteriore spesa di poco inferiore rispetto a quella del MUDE.
L’ambiente sarà probabilmente utilizzato per lo svolgimento di incontri, ma è ancora tutto da decidere e di certo l’incertezza di questo periodo non aiuta.


Restauro del campanile
Per quanto riguarda i lavori sul Campanile – come ci spiega don Stefano Zanella dell’Ufficio Tecnico diocesano – il Comune di Ferrara, Stazione Appaltante, «sta approntando la gara per la progettazione. Sono un po’ in ritardo rispetto alla tabella di marcia causa emergenza Covid. Entro la fine del 2020 dovrebbero essere assegnati i lavori e la speranza è che entro un anno si possa avere l’autorizzazione per iniziarli concretamente».

Andrea Musacci

Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 9 ottobre 2020

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Un modo diverso di vivere la comunione cristiana

5 Ott
Foto di Sergio Isler

La preghiera ecumenica svoltasi il 1° ottobre: nella campagna entro le Mura è stata l’Associazione Nuova “TerraViva” a ospitare l’incontro che ha visto riunite le diverse comunità cristiane del nostro territorio. Il coro moldavo ha accompagnato la preghiera

di Andrea Musacci
Foto di Sergio Isler

In un ambiente raccolto – un piccolo nido di legno protetto da una corona di alberi e piante – lo scorso 1° ottobre una cinquantina di persone si sono ritrovate, nella prima penombra della sera, per la preghiera ecumenica del Tempo del Creato.
Grazie alla felice intuizione dei nostri Uffici diocesani per l’ecumenismo e per la Salvaguardia del Creato, quest’anno, infatti, l’appuntamento di preghiera e meditazione con le diverse comunità cristiane si è svolto all’interno dell’area gestita dall’Associazione “Nuova TerraViva” di Ferrara. Attraverso un dedalo di strade asfaltate prima – da via delle Erbe -, di sentieri poi, proveniendo da piazza Ariostea in pochi minuti ci si ritrova nel pieno della campagna dentro le Mura, quella vasta area nel cuore di Ferrara nata dall’utopia di Biagio Rossetti. Dopo il saluto di Marcello Panzanini, alla Guida dell’Ufficio diocesano per l’ecumenismo, è intervenuta Patrizia Spedo (foto a fianco), Presidente dell’Associazione ospitante che da 35 anni gestisce 4 ettari di verde, al cui interno l’area “Orti condivisi” è coltivata da soci e cittadini col metodo biologico, biodinamico e sinergico, e che vede anche la presenza di un allevamento di api e animali (capre, pecore, galline), un frutteto didattico e alcuni patriarchi/frutti antichi. Un esempio virtuoso di cura della natura e di una sua valorizzazione anche in senso pedagogico, viste le numerose attività ludiche e laboratoriali rivolte a bambini, ragazzi e persone con disagio.
Il momento di preghiera tra fratelli e sorelle cristiane è stato accompagnato da due magnifici canti (uno sulle Beatitudini, l’altro sul Gloria) eseguiti dal coro della comunità Ortodossa moldava “Uniti sub tricolor” (Uniti sotto il tricolore) – la bandiera della Moldavia -, coro composto da quindici donne e tre uomini, fra cui la guida padre Oleg Vascautan (foto in basso), il quale ha anche proposto una meditazione a partire dal passo del Libro dei Proverbi scelto per l’occasione (Pr 8,22-32). Passo, questo, che per padre Vascautan richiama a più riprese – in modo in parte misterioso – sia l’inizio di Genesi, sia alcuni passi del Vangelo secondo Giovanni. Una profonda riflessione sulla creazione e sull’essere umano come prima creatura – dunque “privilegiata” e con una maggiore responsabilità – all’interno del disegno di Dio “architetto”, creatura che conosce il proprio Creatore anche attraverso le Sue opere. E che è chiamato a sviluppare la sapienza, ciò che lo rende simile a Lui. La preghiera è stata guidata da padre Vascautan, padre Vasile Jora (comunità Ortodossa rumena), padre Igor Onufrienko (Chiesa ortodossa russa), Luciano Sardi (Chiesa Evangelica Battista) e dal nostro Arcivescovo.
Nella sua meditazione mons. Perego ha preso le mosse da quell’invito del Signore ai discepoli, “Non preoccupatevi”. Un invito a «non preoccuparsi di mettere al primo posto le cose materiali, ma di non perdere la relazione filiale con il Signore, il Dio Creatore di tutte le cose, Padre nostro. Infatti, Dio, Creatore di tutte le cose – che vede crescere ogni cosa, veste l’erba del campo – Creatore dell’uomo e della donna, Padre, potrebbe abbandonare chi si affida a Lui, chi cerca di realizzare il suo Regno, il suo disegno di salvezza? È questa domanda che deve guidare la nostra fede e lo stile della nostra vita». «La costruzione del Regno di Dio, regno di giustizia e di pace – ha proseguito -, non può essere indipendente dall’impegno per salvaguardare il creato, “il giardino” in cui il Signore ha posto l’uomo, la donna e tutte le creature. Da qui la necessità di riconoscere e leggere “Il Vangelo della creazione”, come una narrazione che accompagni l’educazione e la vita cristiana».
L’incontro in questo piccolo e refrigerante lembo di Creato si è concluso con un momento conviviale – grazie al rinfresco preparato dall’Associazione -, degno suggello di una comunione cristiana che prosegue nel suo complesso ma vivo sviluppo.

Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 9 ottobre 2020

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Una nuova casa per la comunità ortodossa rumena

5 Ott

Da un mese celebra nella chiesa dei SS. Cosma e Damiano in via Carlo Mayr a Ferrara

Quante volte passando di giorno o di sera abbiamo visto quell’edificio con la facciata a pietra vista al civico 44 di via Carlo Mayr, in pieno centro a Ferrara, chiuso e ancora più degradato dai rifiuti abbandonati dai vicini locali.
Un destino ancora più triste per quella che in passato, se pur per pochi decenni dopo la nascita, nel XVIII secolo, era stata un edifico religioso, la chiesa dei SS. Cosma e Damiano, consacrata nel 1738. Un edificio di rara bellezza che ora è tornato a vivere, diventando la casa della comunità ortodossa rumena di Ferrara, la Parrocchia di “San Nicodemo di Tismana” guidata dal 2009 da padre Vasile Jora. Una comunità nata nel 2006 sotto il Patriarcato di Bucarest e assegnata alla Metropolia Ortodossa Romena dell’Europa Occidentale e Meridionale con sede a Parigi.
Un gruppo molto consistente quello ferrarese, che raccoglie solo in città 2500 persone, e altre 6mila nel resto della provincia. Una comunità fin’ora nomade, dato che dopo diversi anni nella chiesa di Santa Chiara in corso Giovecca, da maggio ad agosto scorso ha celebrato nella chiesa di Santa Francesca Romana e che invece ora può dire di avere una propria chiesa. Un edificio di proprietà del Comune di Ferrara, venduto a fine 2015 alla comunità rumena, tre anni dopo quel sisma che aveva danneggiato la struttura, rendendola persino inadatta a rimanere deposito di giornali e riviste della Biblioteca comunale Ariostea.
Trecentodieci anni dopo l’inizio della sua costruzione sul progetto di Francesco Mazzarelli, realizzato dagli architetti Francesco e Angelo Santini, e dopo quasi 90 anni dalla sua sconsacrazione (avvenuta nel 1933), lo scorso 6 settembre, una domenica, una comunità cristiana è tornata a celebrare fra le quattro mura nuovamente consacrate: tanta l’emozione dei fedeli presenti, finalmente liberi di dire di aver trovato una loro casa.
Andrea Musacci

Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 9 ottobre 2020

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