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Procida e i suoi Misteri, «ecco la nostra mostra»

20 Apr

Maria Grazia Dainelli e Carlo Midollini hanno immortalato la suggestiva processione del Venerdì Santo nell’isola napoletana. A “La Voce” raccontano questa esperienza

di Andrea Musacci

Un evento collettivo, manifestazione profonda della cultura di una terra, alchimia originale di fede e folclore, storia e devozione popolare. Dal 23 al 28 aprile, l’ex chiostro olivetano di San Giorgio fuori le Mura a Ferrara ospita la mostra fotografica dedicata alla processione dei “Misteri” che ogni Venerdì Santo si svolge a Procida. La mostra – finora esposta solo nell’isola a cui è dedicata – sarà inaugurata alle 10.30 del 23 aprile prima della S. Messa presieduta dall’Arcivescovo mons. Perego alle ore 11.15. Trenta gli scatti in bianco e nero esposti, oltre alla proiezione di un audiovisivo sulla costruzione degli stessi Misteri. Abbiamo contattato i due autori di questo progetto, i fiorentini Maria Grazia Dainelli e Carlo Midollini, fotografi e giornalisti per il mensile di arte e cultura “La Toscana Nuova” (di cui lei è anche Caporedattrice), per farci raccontare il loro progetto. 

CHE COSA SONO I MISTERI

Procida – appena 4 km2, a 40 km dal capoluogo Napoli – è un’isola che solo negli ultimi anni sta diventando un’ambìta meta turistica, dopo che, dal XVIII secolo fino al secolo scorso, è stato un importante centro cantieristico navale. Quella dei Misteri è un’antica tradizione che si svolge fin dal XVII secolo (ai tempi in funzione penitenziale, con anche autofustigazioni). Durante le prime ore del mattino del Venerdì Santo, al risuonar di tre squilli di tromba (che richiamano quelli per i condannati a morte in epoca romana) a cui si risponde con altrettanti colpi di tamburo, da Terra Murata (il centro medievale dell’isola, sul suo punto più alto, dove si trova l’Abbazia di San Michele Arcangelo) parte la processione: a sfilare sono proprio i Misteri, “carri” allegorici costruiti dai procidani, che rappresentano la Passione di Gesù e altri episodi del Nuovo e dell’Antico Testamento. I Misteri sono costituiti da una o più tavole di legno (dette “basi”) lunghe fino a 8 metri e larghe 2, sulle quali vengono allestite le rappresentazioni scultoree. I materiali utilizzati sono perlopiù poveri: cartapesta, legno e stoffa. In passato, i Misteri venivano costruiti nei portoni delle case e svelati solo il Venerdì Santo.

INNAMORARSI DI PROCIDA

Maria Grazia e Carlo iniziano a frequentare l’isola due anni fa: «da lì si è aperto un mondo», ci dicono. La prima mostra che le dedicano è su Palazzo d’Avalos, edificio del XVI secolo, dal 1830 fino al 1988 adibito a carcere, esposta nello stesso Palazzo e a Firenze (una terza mostra su Procida è prevista per il 2025). «Alcuni procidani iniziarono a raccontarci la storia dei Misteri del Venerdì Santo», tipici di varie località del Meridione. L’interesse per questa antica tradizione li cattura, e contattano, quindi, le associazioni che nell’isola li organizzano. L’anno scorso viene loro permesso di assistere alla costruzione dei Misteri, un lavoro collettivo che coinvolge, oltre alla Congregazione dell’Immacolata Concezione dei Turchini, parrocchie e associazioni laiche e dura tutto l’anno. Un grande momento aggregativo, quindi, che vede lo stesso Comune sempre più coinvolto. «Siamo stati in più occasioni a Procida – proseguono i due fotografi – intervistando molte persone che ci hanno permesso di comprendere l’intreccio fra religione, storia e associazionismo sia religioso che laico».

TRADIZIONE E ATTUALITÀ

Il silenzio è ciò che domina la lunga processione dei Misteri lungo le strade procidane. Nel serpentone del corteo risalta la “divisa” canonica della sopracitata Congrega dei Turchini, con saio bianco e “mozzetta” (mantellina) turchese. E poi ci sono i bambini, angioletti addobbati a lutto coi loro abitini neri arricchiti da ricami d’oro. Ma nei Misteri non c’è spazio solo per la storia: «negli ultimi anni – ci spiegano Maria Grazia e Carlo – non danno solo un’interpretazione strettamente religiosa ma li attualizzano: quest’anno, ad esempio, vi erano anche riferimenti alla guerra in Ucraina e alla violenza sulle donne». Negli anni scorsi, anche la pandemia è stata protagonista della processione. «Vi è quindi – proseguono i due – un pensiero, una progettualità, la ricerca di idee e temi sempre nuovi».

Una creazione collettiva, dunque, fra arte e artigianato, mai identica a sé stessa: «dopo ogni processione, i Misteri vengono distrutti. A volte, alcune componenti più artistiche rimangono come cimelio nel museo dei Misteri, ma il ciclo si rinnova e dopo la Pasqua inizia la progettazione per l’anno successivo». 

LO SGUARDO SEMPRE AL FUTURO

L’antica “penitenza” legata ai Misteri rimane nella dedizione appassionata, nei tanti sacrifici necessari per la sua realizzazione, nelle notti bianche, nel peso di questi manufatti da portare in processione lungo le strade dell’isola, un tempo anche dai detenuti. Il segno, indelebile, della tradizione come traccia viva nell’anima di chi la custodisce. Com’è viva nelle mani e nelle menti di queste persone, eredi degli operai e progettisti della stagione dei gloriosi cantieri navali.

Ma l’anima di un popolo, si sa, è sempre difficile da conservare, soprattutto in questi decenni in cui l’abisso fra generazioni si fa sempre più profondo e minaccioso. «Ora – proseguono i due fotografi – i Misteri sono poco più di 40, un tempo erano un centinaio. Negli anni è cresciuta la disaffezione dei più giovani, ma le associazioni dei Misteri cercano comunque di coinvolgerli, di farli maturare attraverso questa esperienza e di tenerli nella vita della comunità».

DA PROCIDA A FERRARA

La nostra città ha, come anticipato, l’onore di essere la prima a ospitare questa mostra sui Misteri al di fuori di Procida. Lo scorso settembre, in occasione della festa della Madonna del salice, il chiostro di San Giorgio ospitò un’altra mostra fotografica dedicata alla devozione popolare nel Meridione, “Matera in cammino: tra fede e cultura” di Cristina Garzone, sulla Festa della Bruna. E per Dainelli e Midollini si tratta di un ritorno nella nostra antica Cattedrale dopo che nel settembre del 2021 vi esposero la mostra “L’informalità. Cuba tra sogno e realtà”, sempre grazie all’intraprendenza del diacono olivetano Emanuele Maria Pirani, curatore delle esposizioni a San Giorgio. Pirani che ha presenziato, dopo Pasqua, al finissage a Procida della stessa mostra dei due fotografi fiorentini. All’inaugurazione del 23 sarà presente anche mons. Perego, la cui attenzione verso i migranti è nota: Procida è anche terra di accoglienza, e ospita il Muro dei Migranti dedicato a chi, oggi come ieri, lascia la propria terra per un futuro migliore.

Ma se San Giorgio richiama anche un’altra isola, quella veneziana (sede della Fondazione intitolata al ferrarese Giorgio Cini), così Procida richiama, in parte, il passato dell’antico borgo ferrarese: nel “Polesine di San Giorgio”, infatti, nell’antica biforcazione del Po nei rami del Volano e del Primaro (la “Punta di San Giorgio”), venne edificata nel 540 d. C. la prima chiesa di San Giorgio. Ora, le radici del nostro passato si intrecciano in profondità con quelle della lontana, ma solo fisicamente, isola dei Misteri.

(Foto: i due fotografi ai lati, al centro Emanuele Pirani)

Pubblicato sulla “Voce” del 19 aprile 2024

La Voce di Ferrara-Comacchio

Achille Funi «operaio sognatore» nostalgico della Bellezza pura

19 Gen

Ritratto dell’artista a cui è dedicata la mostra a Palazzo Diamanti: l’idiosincrasia per la meschina modernità, l’amore per l’antico, quel progetto per la chiesa di san Benedetto…

di Andrea Musacci

Più che un rifiuto della modernità, un suo oltrepassamento. Più che un’idealizzazione del passato, la ricerca di un’essenza pura, di quell’ineffabile che trascende luoghi, ere, linguaggi. La pittura di Achille Virgilio Socrate Funi rappresenta una sintesi felice di aspirazioni neoclassicistiche, reinterpretazione della tradizione artistica ferrarese e nuove suggestioni.

Un’alchimia originale, associata a un nome famoso ma non celeberrimo, che non lo rende ancora (per fortuna?) un artista iconico, non richiamando a Palazzo Diamanti folle alla ricerca di sensazioni estemporanee, di fuggitive occhiate. Era tutt’altro, Funi, e la sua arte. “Achille Funi. Un maestro del Novecento tra storia e mito” – la mostra visitabile a Diamanti fino al 25 febbraio 2024 – dice molto bene di cosa attendersi. Dentro, ci sono tutte quelle parole “pesanti” che spesso non riusciamo più a sopportare: c’è la scuola/il mestiere come luogo dell’autorità e della fatica, c’è il secolo breve ma non effervescente, c’è la gravità di un tempo che precorre e nelle aspirazioni più alte ricorre. Quelle di Funi le spiegò bene l’amica Margherita Sarfatti: «Pittore della dignità severa e della povertà nobile è il Funi. Aspira sì alla bellezza, e così alto è il sospiro, e puro, e sinceramente intero e disinteressato, che la raggiunge per vie imprevedute, non imitabili».

NELLA FOLLIA, VERSO LA BELLEZZA

«Vie imprevedute», inimitabili. De Chirico, che di misteriose chiavi di accesso alla realtà se ne intendeva, così racconta quelle di Funi: le «anomalie mentali» tipiche dei ferraresi in lui hanno portato a «infinite nostalgie verso la bellezza e la perfezione», scrive in un libricino che gli dedicò nel ’40; «Achille Funi è un operaio sognatore». «La pazzia di Funi – prosegue De Chirico – si traduce, nella sua attività pittorica, in un costante andare verso la bellezza. Vi è nella sua mentalità d’artista un che di platonico, di ermafroditico e di ineffabilmente gentile; qualcosa che a volte sconfina felicemente in quell’aspetto profondo e grazioso che in francese con parola intraducibile si chiama “joliesse”».

Si raccontava dei loro incontri al Caffè Biffi in Galleria a Milano: dialoghi spesso muti, per non disperdere pensieri in quel legame profondo. Un legame antico, con radici granitiche, di quelle che affondano nello spirito senza tempo.

MAESTOSA ANTICHITÀ E FASTIDIOSA MODERNITÀ

«La sua caparbietà, unitamente all’aspetto fisico piuttosto massiccio e nerboruto, lo facevano assomigliare a un antico romano. Di statura appena al di sotto della media, aveva spalle larghe, un viso dai grandi occhi espressivi, una voce baritonale e labbra marcate, tra le quali era solito tenere una pipa o un sigaro». Così scrive di lui Serena Redaelli, una delle curatrici della mostra ferrarese, nel catalogo della stessa di cui è co-curatrice, organizzata da Ferrara Arte e Servizio Musei d’Arte Comune di Ferrara.

Nella sopracitata opera, De Chirico racconta di un Funi in perenne ricerca di «sistemi perduti e perduti segreti» e per lo scultore Alik Cavaliere, egli «seguì con ossessiva, puntigliosa precisione la “grande” missione di un totale ritorno all’antico. L’antico costituì per lui l’unico modo di vivere il presente e lo portò alla scelta di regole rigorose che seguì per tutta la vita con coerenza».

Gli stessi sguardi dei soggetti nelle sue opere sembrano esprimere quell’invincibile malinconia e quella ancor più ostinata consapevolezza di chi sa di non appartenere al proprio tempo, pur attraversandolo. Sono sguardi pervasi, in ogni istante, dal fragore della storia.

Un andare a ritroso che è immersione nelle viscere della bellezza. Nel mezzo, la contemporaneità che già da decenni mette in mostra le proprie meschinità, che delle proprie bassezze non solo fa mercato, ma vanto: «qui ormai non c’è più fede in nulla: non si pensa che a far quattrini ed a superare la crisi il meglio possibile», scrive Funi di Parigi, nel ’31, durante un soggiorno nella capitale francese.

«Epoca assurda la nostra, in cui si crede di perdere il tempo, quando lo si guadagna contemplando […]», scriveva nel 1972 l’esegeta e amico Raffaele de Grada. «Funi lo sapeva e viveva da uomo. La metodicità della sua vita – la passeggiata, lo studio, il caffè, la lettura, il riposo, il lavoro – era il registro dell’orologio della sua vita sul quadrante della storia. Egli conosceva il gusto di quello che i francesi chiamano il flâner, il non avere uno scopo immediato, la sottrazione del vivere al concetto dell’utile, del profitto».

IL FASCISMO E L’ALTO IDEALE

Necessitante chiarimenti è il rapporto di Funi col ventennio fascista, epoca di ambiguità, di violenze, di idee criminali e di altre che, nonostante tutto ciò, cercavano una via di uscita dalla soffocante legge del denaro. La successiva demonizzazione dell’arte fascista colpì anche Funi. La sua arte, scrive Sgarbi nel catalogo della mostra, voleva invece essere una «pittura civile, capace di trasmettere i valori della grande tradizione classica italiana». «Con un “Novecento” in crisi e in netta discesa – spiega invece Nicoletta Colombo, co-curatrice -, all’inizio degli anni Trenta si faceva sempre più urgente la necessità di sostenere un’epica nazionale mediante un linguaggio artistico di destinazione sociale e non più quindi esclusivamente individuale e borghese».

Funi sicuramente partecipò ai Fasci di Combattimento di Piazza San Sepolcro a Milano nel 1919, ma in seguito se ne allontanò venendo per questo fortemente criticato da Roberto Farinacci. Non fu, quindi, mai un fascista militante. Lui stesso nel ’71 scrisse: «i punti di convergenza col fascismo potevano forse riconoscersi unicamente in talune rivalutazioni del passato storico e umanistico nazionale […]. Ma noi non facevamo politica e […] pensavamo unicamente a cercare nuove vie di rinnovamento». E Alik Cavaliere raccontò come dopo l’8 settembre Funi respinse dall’Accademia di Brera i militari, nascondendo alcune persone considerate irregolari in una cantina dell’edificio. Raffale de Garda spiegò, invece, come durante la guerra Funi gli affidò il proprio appartamento in piazzale Fiume, 9 (oggi Piazza della Repubblica) a Milano «perché io vi abitassi e sapeva che quella casa sarebbe diventata un rifugio per gli antifascisti».

QUELLE LUNETTE DI SAN BENEDETTO

E proprio in un anno simbolo del fascismo, quel ’22 della Marcia su Roma, Funi, durante il suo ritorno a Ferrara da Milano, conosce De Pisis. Quest’ultimo gli dedica un articolo sulla “Gazzetta ferrarese” dell’11 novembre dello stesso anno, dove racconta come Funi «avrebbe da poco ricevuto l’incarico di decorare le tre lunette esterne poste nella chiesa di San Benedetto a Ferrara, non sappiamo se ad affresco oppure con quadri o pannelli centinati». È Lucio Scardino a raccontare questo aneddoto nel catalogo della mostra di Diamanti, ma ne accenna anche in quello della mostra di Funi esposta al MART di Rovereto da ottobre ’22 a febbraio ’23: «Sinora a molti è sfuggito che, nel fatidico (per più versi) 1922, Achille Funi aveva ricevuto l’incarico di dipingere le lunette esterne per la chiesa di San Benedetto a Ferrara: nella facciata della chiesa rinascimentale, rifatta filologicamente nel 1954 dopo i bombardamenti di dieci anni prima, compaiono ancora oggi tre lunette sopra altrettanti portali d’ingresso». Scardino ipotizza che destinate a queste tre lunette furono le tavole “Imago Pietatis” (1920-1922 c.) (forse per la lunetta centrale), “Autoritratto con brocca blu” (1920) e “La sorella Margherita con brocca di coccio” (1920), quindi con Cristo al centro, lui e la sorella ai lati a rappresentare rispettivamente San Benedetto e la sorella Santa Scolastica. Un enigma che forse non troverà mai una risposta definitiva.

L’ENIGMA DI UN «MONDO FELICE»

Enigma come fu la sua vita, com’è ogni esistenza consacrata allo sposalizio tra bellezza e verità. «Credeva nelle idee, ed era convinto che la forma è vita», disse alla sua morte il critico e scrittore Alberico Sala. Occorre oltrepassare le linee consuete, ridecifrare i nostri codici per comprendere Funi. Un altro che di «vie imprevedute» se ne intendeva, l’artista Alberto Savinio, scrisse di lui: «La testa di Funi che dorme è nel buio della camera un globo luminoso, e in trasparenza vi appaiono le immagini di un mondo felice che la memoria vi ha raccolto, e che lui, da sveglio, ripete via via nelle sue pitture». A quel «mondo felice» e irraggiungibile Funi ha dedicato la propria vita. Un’esistenza venata di joliesse, di contraddizioni, ma capace di elevarsi alla ricerca di quella Forma pura, di quell’Ideale che mai del tutto cogliamo, di quel Mistero che sempre ci pervade e ci guida.

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce” del 19 gennaio 2024

La Voce di Ferrara-Comacchio

Una vita dedicata all’arte

Achille Funi nasce a Ferrara 1890. Dai 12 ai 15 anni frequenta la civica scuola d’arte Dosso Dossi nella sua città natale, si diploma nel 1910 all’Accademia di Belle Arti di Brera (dove poi insegnerà dal 1939 al 1960), nel 1914 aderisce al movimento futurista, elaborandone una particolare versione e mantenendone una certa distanza. Nel 1922 nasce il gruppo “Novecento” e lui è tra i suoi fondatori. La linea teorica del gruppo si orienta verso un recupero della tradizione classica italiana rivisitata alla luce delle esperienze delle avanguardie degli inizi del secolo. L’interesse per la figura come soggetto principale dell’opera e l’attenzione al mestiere sono le caratteristiche dominanti del classicismo degli anni ‘20. Ora si parla di “umanità”, di centralità dell’uomo nella pittura. Importante anche la sua opera di affrescatore e di mosaicista: decorazioni ad affreschi per la Triennale di Milano dal 1930 al 1940, affreschi nella chiesa del Cristo Re a Roma, in S. Giorgio Maggiore e nel Palazzo di Giustizia a Milano, e un grande mosaico nella Basilica di S. Pietro a Roma. Nel 1945 ha la cattedra di pittura all’Accademia Carrara di Bergamo e successivamente ne diviene direttore. Negli anni ’50 torna ad insegnare a Brera. Muore ad Appiano Gentile nel 1972.

Ultimi incontri a Diamanti

Queste le ultime due conferenze legate alla mostra: 18 gennaio, ore 17, Palazzo Diamanti, Sala Rossetti: “Achille Funi e le suggestioni di Cézanne, Picasso e Derain”.Interviene Chiara Vorrasi, curatrice della mostra, Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea di Ferrara.

25 gennaio, ore 17, Palazzo Diamanti, Sala Rossetti:“Achille Funi e le mostre all’estero del Novecento Italiano di Margherita Sarfatti”. Interviene Daniela Ferrari, Mart, Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto.

Dramma e salvezza: a San Giacomo Apostolo l’arte del gesuita Anselmo Perri

29 Set

“Nzermu. Accesa è la notte. Una biografia per immagini” è il progetto (mostra e documentario) che inaugura il 30 settembre all’Arginone. Ecco chi era l’artista-religioso 

di Andrea Musacci

Un piccolo crotonese, un operaio del Sud più povero che cerca fortuna nelle fabbriche del Nord e vi trova, invece, Cristo. Fra le nebbie delle nostre terre e i fumi delle industrie chimiche, Anselmo “Nzermu” Perri cercava una via a lui consona per fondare una società socialista, e invece trovò molto di più, quella fiamma della fede che non si spegne. E la troverà, lui pittore, anche attraverso la forma artistica, una passione che mai lo abbandonerà.

A questo gesuita speciale, tornato alla Casa del Padre nel dicembre 2021, l’Ufficio Comunicazioni Sociali (UCS) della nostra Arcidiocesi insieme all’Associazione “Amici di Nzermu” (nata nel 1986 e presieduta da Giovanni Dalle Molle) dedica un progetto espositivo che verrà inaugurato il 30 settembre alle ore 20.30 nella chiesa di S. Giacomo Apostolo a Ferrara. Per l’occasione, il Vicario Generale e Direttore dell’UCS mons. Massimo Manservigi presenterà il suo nuovo documentario “Nzermu accesa è la notte”. Ma chi era padre Anselmo?

DA OPERAIO MILITANTE AD ARTISTA E UOMO DI DIO

Anselmo Perri nasce nel 1931 a Strongoli, nel crotonese, in una famiglia numerosa e in una terra arida di possibilità di riscatto. «Già da ragazzo – racconta nel documentario “Luci dell’anima” di Luigi Boneschi – dipingevo di notte perché mia madre non vedeva bene questa mia eccessiva passione. Dalla “Domenica del Corriere” amavo copiare le famose tavole». Dopo aver lavorato come operaio a Crotone, nel ’49 si trasferisce a Ferrara, dove lavora alla Montecatini, e poi a Ravenna. Il suo lavoro è strettamente connesso con la militanza politica e sindacale comunista. «La mia prima abitazione a Ferrara fu in un’ex caserma bombardata (l’ex Caserma “Gorizia”, ndr), dove c’erano in genere ex sfollati, prostitute. E anche lì quindi avevo difficoltà a dipingere di giorno, perché l’ambiente non me lo consentiva». Nel 1956, la sua prima mostra personale, al “Ridotto” del Teatro Comunale di Ferrara.

Ma è a inizio degli anni ’60 che matura in lui la conversione che lo porterà nel ’63 a entrare nella Compagnia di Gesù. Una scelta per nulla scontata. A quei tempi, da molti – racconta – «la Chiesa era vista come nemica del popolo. Entrando nella Compagnia di Gesù constatai che non era assolutamente vero quello che si diceva dei preti». In fabbrica vi erano due gesuiti come cappellani. «Ricordo bene che una volta un mio collega operaio mi disse: “vedi che quei due non fanno niente…”, e io gli risposi: “piuttosto che diventare prete mi sparo!”». Ma nel tempo «dentro di me maturava un desiderio profondo di volermi dedicare in modo diverso alle persone». Anselmo constata che i due gesuiti «erano persone oneste, rette e molto aperte, io pensai quindi che bisognava convertirli al comunismo. Ma la cosa si è verificata in modo inverso…». Dopo un periodo trascorso in Brasile come missionario dal ’65 al ‘67, va a Urbino, Napoli (dal ’68 al ’71, dove studia teologia e viene ordinato sacerdote), Ferrara e poi definitivamente a Bologna (dagli anni ’70), dove fonda la “Comunità Giovanile” nella “Casa Cavanna” dei gesuiti in via Guerrazzi (oggi sede del Centro Astalli e del Centro Poggeschi), dove dagli inizi degli anni ’90 pone anche una Vetrina Figurativa con le sue opere, senza intenti commerciali. In questa Comunità autogestita, Perri ospiterà prima gli operai meridionali emigrati al Nord, poi i giovani extracomunitari (soprattutto georgiani) venuti per studiare, ma anche ex tossici. Una Comunità speciale dove ogni ospite si abitua a una vita sobria, fatta di condivisione, in pieno spirito evangelico. 

Fra le sue varie mostre in Italia e all’estero (fra le quali due in Georgia), nella primavera del ‘92 Perri ha esposto una sua personale a Casa Cini, curata da don Franco Patruno e con il contributo di Angelo Andreotti, mentre nel 2012 ha portato la sua “Scintille di un unico fuoco”, con catalogo, su più sedi tra Ferrara e Ro Ferrarese. Quest’ultima venne curata da Giovanni Dalle Molle, che nella sua “Casa di Ro” ha allestito una sala espositiva permanente con le opere di padre Perri, e che da lui venne accolto, giovane studente, proprio a “Casa Cavanna”.

IL DOCUMENTARIO E LA MOSTRA A S. GIACOMO APOSTOLO

Il documentario “Accesa è la notte” – come ci spiega il suo autore – intende essere «una riflessione su Nzermu, a poca distanza dalla morte, quasi a caldo, attraverso alcune testimonianze di chi l’ha conosciuto e amato, con l’intento di dare qualche spunto per la comprensione della ricca e articolata figura di un uomo, artista e religioso, che ha cercato un dialogo tutto suo con l’intera umanità, in un tempo segnato da migrazioni apocalittiche, disorientamento e sofferenza di proporzioni bibliche». L’iniziativa parte dagli “Amici di Nzermu” per rilanciare la sua figura e la sua produzione artistica immeritatamente poco conosciuta, presentandola al grande pubblico, e portando l’evento di Ferrara anche in altre città (fra cui Bologna, Roma e Crotone).

Il documentario e il relativo progetto espositivo rappresentano, dunque, un tentativo di «fare sintesi della personalità di padre Perri oltre la sua esistenza terrena». Esistenza, la sua, come cammino in cui rappresentazione artistica e ricerca di Dio arrivano ad incontrarsi per intrecciarsi e mai più lasciarsi. Da questo abbraccio, e da una provocazione di Dalle Molle, nasce la sfida di portare l’arte di padre Perri all’interno di una chiesa. Sfida raccolta dalla nostra Arcidiocesi e in particolare dall’UCS.

Un progetto, “Accesa è la notte”, pensato anche per le scuole e in generale per i giovani, ai quali lo stesso padre Perri era particolarmente legato, lasciando, nei commossi ricordi di molti ragazzi da lui accolti a “Casa Cavanna”, la parola “padre” a lui rivolta come segno di profonda gratitudine.

NELL’“ERRARE” DEI SEMPLICI ABITA LA SALVEZZA

Era un’arte antiborghese, quella di padre Perri, una sorta di teologia resa attraverso la creazione artistica. Nel catalogo della mostra alla Porta degli Angeli, lui stesso critica l’arte informale, definendola «un alto, geniale artigianato mentale, con funzione estetica ornamentale», «come lo è un geniale tappeto». L’arte autentica, invece, ha come scopo quello di «fotografare in modo impietoso, con crudo “realismo”, l’instabilità del nostro tempo». 

Ambienti cupi, ma come attraversati da un fuoco sempre vivo, dominano le sue tele, ricche – nelle varie fasi – delle cromìe aride e infuocate o di quelle – via via, dopo la sua conversione – sempre più lucenti. La vita è quel flusso che le attraversa, è la fiamma dello Spirito. Sui volti, nei corpi, il segno dell’ingiustizia, della passione. Il sangue, in un vortice eterno, avvolge le figure, apparentemente inghiottite nel loro smarrimento, ma in realtà mai del tutto perdute, sempre in ricerca, in un cammino costante, in quella condizione che appartiene a ogni donna e a ogni uomo perché, come diceva lui stesso, «siamo tutti clandestini sulla terra», in attesa di abitare nella casa del Padre.

La dimensione esistenziale di queste folle inquiete è la stessa vissuta nella carne dall’immigrato Anselmo. Un’esperienza di sofferenza trasfigurata nelle sue opere drammatiche che risaltano per la forte espressività. Come ha dichiarato nel sopracitato documentario di Boneschi, «il modello al quale ho sempre guardato – nel passato inconsapevolmente, oggi con delle chiarezze dentro di me – sono i semplici. I semplici sono quelli destinati a essere salvati, a salvarsi».

Questo vagare sofferto – oggi come ieri – è quello di un popolo smarrito, della persona che vive la perdita – della propria terra, delle sicurezze che credeva immutabili -, e che in questo errare, però, incontra sempre una nube di luce che su di lui vigila e un volto, quello di Cristo, nel quale ritrovarsi, accolti da quella Promessa che non delude.

Pubblicato sulla “Voce” del 29 settembre 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

Wish for a baby: figli, maternità… Ma manca l’amore (non i profitti)

23 Mag

Due avventori nello stand di Cryos (“World’s largest Egg Bank and Sperm Bank”, così si presenta) alla fiera “Wish for a baby” di Milano (foto tempi.it)

Confermati gli allarmi sulla fiera della riproduzione assistita “Wish for a baby”, tenutosi lo scorso fine settimana a Milano. I racconti dei giornalisti infiltrati negli stand: un mercato sfacciato

La scorsa settimana vi avevamo illustrato, con un ampio servizio (v. “La Voce” del 19 maggio, pag. 4), che cosa avrebbe rappresentato la fiera della riproduzione assistita svoltasi a Milano il 20 e 21 maggio . “Wish for a baby” – questo il nome dell’iniziativa – ha raccolto da ogni parte d’Italia e d’Europa cliniche e società specializzate nel combattere l’infertilità e in pratiche di commercio di gameti (spermatozoi e ovociti) e di maternità surrogata: pratiche, queste ultime, vietate nel nostro Paese.

Vi proponiamo ora una piccola rassegna stampa attingendo dai siti e quotidiani i cui giornalisti si sono “infiltrati” nella fiera per testimoniare come, al di là delle promesse, al suo interno si facesse promozione di pratiche illegali in Italia.

«TI PROPONIAMO L’ACQUISTO DI OVULI»

Viviana Daloiso su “Avvenire” del 20 maggio racconta di Laura e Stephan, coppia di attivisti che fanno capo alla Rete per l’inviolabilità del corpo femminile, movimento femminista che raccoglie numerose associazioni in Italia e all’estero, contrario all’utero in affitto e a ogni mercificazione del corpo:«Stephan – si racconta nell’articolo – dopo una breve tappa allo stand della Pronatal, dove gli assicurano donatrice, inseminazione e maternità surrogata, ma solo con donne della Repubblica Ceca – s’è spostato dai consulenti ateniesi del Garavelas medical group. Qui gli viene spiegato candidamente che può acquistare ovuli ed eventualmente anche il seme da altri e trasferirli in una clinica in Grecia dove potrà presentarsi con una donna che può fingere d’essere la sua compagna (e che può dimostrare d’essere sterile con un certificato ottenuto da un qualsiasi medico) e procedere alla maternità surrogata. Gli viene suggerita la possibilità di trovare qualche agenzia albanese, magari su Facebook, visto che lì è facile incontrare donne particolarmente “altruiste”. In alternativa gli viene prospettato sottovoce anche un facile, sebbene altrettanto costoso, trasferimento di ovuli fecondati negli Stati Uniti “dove non avrete alcun problema sotto il profilo legale”».

UN PRODOTTO “SANO”, SENZA DIFETTI

Caterina Giojelli e Leone Grotti su tempi.it, invece, scrivono:«Il bambino da sogno nasce su internet, “dovete solo creare un account sul nostro sito e potrete accedere ai profili dei nostri donatori”, dicono a Tempi le gentilissime referenti di Cryos (banca internazionale del seme, ndr) rimandandoci al portale che propone il seme di studenti, uomini d’affari, appassionati di musica e sport, tutti “mentalmente stabili, fisicamente sani” e con “un seme di alta qualità” garantito da tutte le certificazioni del caso.

C’è il profilo “base” – prosegue l’articolo -, con informazioni su etnia, altezza e peso, colore di pelle, occhi e capelli, titolo di studio e storia medica, oppure c’è il profilo “esteso” grazie al quale si può sapere anche il numero di piede, il colore di barba e sopracciglia, che tipo di capelli ha “e soprattutto vedere le foto del donatore da bambino, osservare la sua calligrafia, ascoltare una registrazione della sua voce, scoprire il suo quoziente intellettivo, il suo albero genealogico”, continuano.

Il bambino da sogno non può essere “difettoso”: il medico del Barcelona Ivf continua a ripetere in conferenza: “noi vogliamo un bambino sano”, “vogliamo selezionare un embrione sano”, “ovociti di qualità”, “gravidanze di qualità”. Scongiurare la possibilità di creare un “bambino malato”, ovvero un prodotto guasto, è l’obiettivo di tutti a Wish for a Baby, in ogni segmento della catena di montaggio. La referente di Ivf Couriers, che fornisce trasferimenti internazionali di embrioni, sperma, ovuli in tutto il mondo ci assicura che con 15 mila euro la qualità del trasporto fino alla Grecia, meta ambita, è garantita: “Facciamo tutto a mano, non siamo mica FedEx”.

Il loro portale si apre con una cicogna in volo che invece di un fagotto ha annodato al becco un contenitore di azoto liquido diretto alle più blasonate cliniche di Pma o maternità surrogata del mondo. Lo stesso contenitore d’acciaio che la signora smonta davanti a noi per mostrarci dove alloggerà senza sbalzi di temperatura il nostro “prezioso materiale genetico” fino a destinazione: penseranno loro a tutto, dai permessi alla burocrazia».

PREZZARIO IVA INCLUSA

Anche Nicolò Rubeis per “Il Giornale” è stato in fiera e nello specifico nello stand di Cryos, sulla cui brochure «invita a ordinare direttamente online scegliendo da un catalogo la foto del donatore e richiedere il suo seme in esclusiva. Gli esponenti di FdI denunciano che sul sito web dell’azienda c’è un listino di ovuli e gameti in cui “è singolare che vi sia un prezzario Iva inclusa, indirizzato al mercato italiano – dice Grazia Di Maggio (giovane deputata di FdI, ndr) – Una commercializzazione vietata dalla legge 40 del 2004”».

PER AFFITTARE UN UTERO BASTANO 5 MINUTI

Infine, riportiamo alcuni stralci dell’inchiesta in incognito compiuta da Francesco Borgonovo per il quotidiano “La Verità”:«a prendere un appuntamento per organizzare l’affitto di un utero all’estero, per la precisione in Grecia o a Cipro, impiego circa cinque minuti (…). Vado quasi a colpo sicuro allo stand della clinica Garavelas. Mi regalano una bella agenda e una brochure in italiano in cui, a pagina 25, illustrano il loro servizio di surrogazione (…). 

Anche alla clinica Acibadem, come previsto, sono ben disponibili a organizzare tutta la procedura al di fuori dei confini italiani. Possono provvedere loro a tutto: dal viaggio al soggiorno. In fiera, in ogni caso, c’è solo il proverbiale imbarazzo della scelta». E «più o meno tutte le società presenti si occupano di donazione di ovuli, manco a dirlo una pratica che in Italia è proibita ma che Barcelona Ivf reclamizza con apposito flyer».

Come riporta Borgonovo, Roberta Osculati, consigliera comunale Pd di Milano, ha dichiarato: Nel nostro ordinamento giuridico «non esiste un modello di genitorialità diverso da quello fondato sul legame biologico tra genitore e figlio o di quello alternativo che passa dall’adozione. Non c’è un paradigma genitoriale fondato esclusivamente sulla volontà degli adulti di esser genitori».

Dichiarazioni che si accompagnano a quelle di diversi esponenti di Lega, Fratelli d’Italia e di alcuni di Alleanza Verdi-Sinistra, a dimostrazione di come questa possa essere una battaglia bipartisan, trasversale agli schieramenti politici e all’appartenenza di fede.Anche se, è la nostra impressione, non ci sia ancora una consapevolezza così generalizzata sulla reale posta in gioco di una visione della vita e dell’umano totalmente alla mercè della logica del profitto e del mero desiderio egoistico.

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 26 maggio 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

Purezza e silenzio nelle foto di Cristina Garzone

24 Apr

La mostra “Misticismo copto” esposta nella Basilica di San Giorgio fuori le Mura

Purezza e silenzio, una preghiera fatta anche di gesti lenti, impercettibili.

Sono forti le emozioni che trasmette la mostra di Cristina Garzone, “Misticismo copto”, esposta dal 21 al 25 aprile nell’ex chiostro olivetano della Basilica di San Giorgio fuori le Mura. In occasione della Festa del patrono, la nostra città ha ospitato le fotografie della fotoreporter di fama internazionale. Foto scattate nella città di Lalibela nel nord, patrimonio UNESCO dal 1978, con le sue 11 chiese monolitiche ipogee costruite nel XII secolo e collegate da un intricato sistema di tunnel sotterranei.

«Abbiamo pensato che questo chiostro, per secoli luogo del silenzio, potesse essere adatto per questa mostra», ha detto il diacono Emanuele Pirani durante l’inaugurazione del 21. «Il silenzio e l’osservazione – ha proseguito – sono caratteristiche necessarie perché ogni fotografia sappia cogliere sentimenti, azioni, storia e cultura delle persone, dei luoghi, dei popoli». 

«Lasciamoci prendere dal silenzio, dal fascinosum di queste fotografie», ha aggiunto padre Augusto Chendi, Amministratore parrocchiale di San Giorgio.

Presente all’evento inaugurale anche il nostro Arcivescovo mons. Gian Carlo Perego: «sono stato due volte in Etiopia, la prima per un progetto Caritas Italiana legato alla guerra, la seconda da Direttore della Migrantes. Nei miei viaggi ho potuto ammirare anche queste meravigliose chiese. È una mostra importante – ha proseguito – anche perché ci fa riflettere sui monasteri presenti nella nostra città, una città storicamente religiosa e di preghiera, fortemente mistica». 

Dopo un breve saluto da parte di don Lino Costa, amico da anni di Garzone, ha preso la parola proprio quest’ultima: «nei sotterranei che ho visitato e fotografato sono venuta in contatto con la gente di queste tribù. Persone dure, difficili, ma devote e che trasmettono un senso di purezza da cui mi sono fatta trasportare. Persone che ho avvicinato considerandole non cose, oggetti del mio lavoro, ma con una dignità. Mi sono avvicinata a loro, quindi, in punta di piedi, mettendomi “al loro livello”. Ero diventata la loro fotografa, ho anche regalato loro una foto scattata da me».

Garzone ha quindi donato due copie della sua foto della chiesa di San Giorgio a Lalibela in Etiopia, una al Vescovo e una a padre Chendi come rappresentante della parrocchia. A lei, invece, padre Chendi ha regalato una statuetta di San Giorgio. Poi, il giro con mons. Perego per presentargli la mostra, attraversando le immagini della processione di Santa Maria, della luce che filtra nelle fessure, del bacio della croce prima dell’ingresso in chiesa, delle scarpe tolte prima di entrarvi. Del profondo raccoglimento e stupore di questo popolo così profondamente – è il caso di dire – immerso nel divino.

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 28 aprile 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

Misticismo copto, l’Etiopia tra Matera e San Giorgio: mostra di foto a Ferrara

17 Apr

Dal 21 al 25 aprile la Basilica di San Giorgio fuori le Mura a Ferrara ospita la mostra di Cristina Garzone, fotoreporter di fama internazionale. Le abbiamo rivolto alcune domande

di Andrea Musacci

La Basilica di San Giorgio fuori le Mura ospita la mostra personale di una fotoreporter di livello internazionale, Cristina Garzone. Dal 21 al 25 aprile, in occasione della Festa di San Giorgio, nell’ex Chiostro Olivetano sarà esposto il progetto fotografico dal titolo “Misticismo copto”. Inaugurazione il 21 aprile alle ore 18.45. Protagonista delle opere in parete, la città di Lalibela nel nord dell’Etiopia (a oltre 2600 metri di altezza), patrimonio UNESCO dal 1978, con le sue 11 chiese monolitiche ipogee costruite nel XII secolo e collegate da un intricato sistema di tunnel sotterranei. Come ha scritto Carlo Ciappi a proposito del progetto della Garzone, «è proprio in quell’interiorità della terra che gli Etiopi cercano di immedesimarsi in quell’Uno, di avvicinarsi al suo esempio ideale poggiando mani e volto a pareti non levigate o in presenza di sontuosi arazzi o pregiate rappresentazioni di ogni genere». 

“Misticismo copto” è anche il titolo del suo libro fotografico con contributi, fra gli altri, di Derres Araia (Segretario Diocesi ortodossa Eritrea in Italia) e mons. Antonio Giuseppe Caiazzo (Arcivescovo Diocesi Matera-Irsina). È stato realizzato anche un audiovisivo, a cura di Lorenzo de Francesco (https://www.youtube.com/watch?v=v49yHeP5Wso).

Garzone, originaria di Matera e residente in provincia di Firenze, negli anni ha conseguito numerosi riconoscimenti nei più importanti concorsi internazionali. Fra questi, nel 2010, ha ottenuto il 1° Premio nel concorso “3° Emirates Photographic Competition” in Abu Dhabi, e nel 2014 ha conquistato il Grand Prize nell’8a edizione dell’“Emirates Award of Photography”, sempre in Abu Dhabi: qui, è risultata prima assoluta fra 8500 partecipanti di 58 Paesi, presentando il portfolio “Pellegrinaggio a Lalibela”. Ad aprile 2020 le è stata conferita la più alta onorificenza della fotografia internazionale MFIAP (Maitre de la Federation Internationale de l’Art Photographique): Garzone è ancora la prima ed unica donna fotografa italiana ad aver conseguito un titolo così importante. Infine, nel Luglio 2021 le è stata conferita l’onorificenza EFIAF (Eccellenza della FIAF) e nel marzo 2023 l’onorificenza EFIAF/b. Sue mostre personali sono state esposte in Italia e all’estero.

L’abbiamo contattata per rivolgerle alcune domande.

Dove nasce il progetto “Misticismo copto”?

«Il progetto parte da lontano, nel 2011, quando scelgo di “abbandonare” la mia macchina analogica per iniziare a usare quella digitale, e il mio amato Oriente – sono stata, ad esempio, una decina di volte in India – per visitare il sud dell’Etiopia, alla ricerca delle antiche tribù. Successivamente ho scelto di visitare anche il nord del Paese, in particolare la città di Lalibela, famosa per le sue chiese monolitiche scavate nella roccia».

Cos’ha scoperto qui?

«Ho scoperto innanzitutto queste chiese splendide, scavate nel tufo. Fin da subito mi ha impressionato vedere tanti fedeli così profondamente assorti nella preghiera, molti di loro all’esterno delle strutture, dato che le chiese sono piccole: alcuni di loro – avvolti in mantelli bianchi così da trasmettere una sensazione di purezza – gli ho visti baciare le pareti in segno di devozione». 

Da qui, l’idea del progetto…

«Esatto. Una volta tornata a casa, mi sono confrontata con un noto studioso di storia delle religioni, che mi ha incitato a realizzare un progetto di questo tipo sui copti, mai realizzato prima». 

Com’è nata l’idea di esporre a Ferrara?

«Sono venuta in contatto col diacono Emanuele Pirani tramite don Lino Costa, che conosco da diversi anni e più volte mi ha coinvolto nelle sue iniziative “In viaggio con don Lino”».

Il legame con San Giorgio è profondo…

«Sì, sembra che San Giorgio mi segua ovunque: la chiesa più importante a Lalibela è proprio la chiesa di San Giorgio (Bet Giorgis, ndr), la cui foto aprirà la mia mostra a Ferrara. Tra l’altro, il prossimo 7 settembre tornerò a San Giorgio fuori le Mura per esporre il mio progetto fotografico dedicato alla Festa della Bruna a Matera».

Avremo modo di riparlarne. In ogni caso, Matera per lei non rappresenta solo il luogo di nascita…

«Sì, questo progetto mi fu suggerito da un mio cugino: nel realizzarlo, ho provato emozioni molto forti, ricordi e sensazioni di quando ero bambina e ogni anno tornavo a Matera coi miei genitori. Ho deciso così di lasciare qualcosa d’importante di me nella mia terra, anche in memoria di mio padre, morto quando aveva 58 anni. Sono entrata in contatto anche con diversi artigiani del luogo, fra cui Francesco Artese, maestro dei presepi. Inoltre, lo scorso settembre ho partecipato al Congresso eucaristico nazionale di Matera come fotografa per Logos, la rivista della Diocesi».

A livello di spiritualità, esiste qualche legame tra una terra come Matera e l’Etiopia?

«Sì, a Matera come in tutto il Sud Italia la spiritualità è molto forte, la fede è molto sentita, vissuta in maniera intensa, come in Etiopia. Spesso, invece, al Nord Italia ad esempio, è ridotta a un fatto d’apparenza». 

In generale, qual è il suo rapporto con la fede?

«Sono credente, spesso amo “rifugiarmi” nel convento di S. Lucia alla Castellina a Sesto Fiorentino, perché sento il bisogno di staccarmi dalla quotidianità e perché la vita a volte ti mette davanti a dure prove. Da qui, il mio bisogno di avvicinarmi a Dio, di sentirmi vicino a Lui».

***

Festa di San Giorgio, tante iniziative fino al 25 aprile

Lunedì 24 importante Rassegna corale e strumentale diretta da Davide Vecchi

La Festa di San Giorgio, patrono della città di Ferrara, prevede venerdì 21 aprile alle ore 18.45 l’inaugurazione della mostra “Misticismo copto” di Cristina Garzone.

Sabato 22 aprile alle ore 18, S.Messa solenne presieduta dal nostro Arcivescovo mons. Gian Carlo Perego, mentre domenica 23 aprile, S. Messe alle ore 11.15 (solenne) e 18 (in memoria dei contradaioli di San Giorgio).

Lunedì 24 aprile alle ore 21, I^ Rassegna corale & strumentale “San Giorgio, Patrono di Ferrara”, diretta da Davide Vecchi.Si esibirannoCoro della Basilica di S. Giorgio in Ferrara (Dir. Davide Vecchi), Coro dell’Arengo, Bologna (Dir. Daniele Sconosciuto), Ensemble strumentale “Otto e mezzo” Accademia Corale Teleion, Mirandola (MO) (Dir. Luca Buzzavi),Coro da camera del Conservatorio “G. Frescobaldi” di Ferrara (Dir. Manolo Da Rold).

Ma sono tanti anche gli eventi organizzati dalla Contrada di San Giorgio col Palio di Ferrara:fra questi, “Le Taverne all’ombra del campanile” (dal 21 al 25 aprile), il 22 alle 18 l’inaugurazione dei nuovi giardini della Contrada diSan Giorgio con spettacolo del gruppo sbandieratori e musici; il 23 aprile alle 9.30 è invece in programma la “Caminada Par San Zorz – Trofeo AVIS”. Infine, il 25 aprile sul piazzale San Giorgio alle ore 10, XI Trofeo dell’Idra, Torneo Sbandieratori e Musici.

Pubblicati sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 21 aprile 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

Mostra di Matteo Venturini alla Galleria del Carbone

20 Feb

La genesi, la chiamata, il ritorno. Un cammino animato da una sana inquietudine il cui approdo è in parte incerto (come la stessa genesi?).

Fino al 26 febbraio nella Galleria del Carbone di Ferrara è visitabile la mostra di Matteo Venturini “Non sei di segno minore”. In quella che è la sua prima personale, l’artista espone due cicli pittorici: “Genesi” e “Mare dentro” ed alcune altre opere.

Venturini nasce a Ferrara nel 1988. Laureato in Quaternario, Preistoria e Archeologia a Ferrara, in vita ha fatto diversi mestieri tra cui, oggi, quello di educatore. La sua ricerca pittorica sboccia da una passione costante per il disegno, ereditata dal padre Francesco. Il suo percorso è stato poi perfezionato grazie alla conoscenza di alcuni artisti come Gianni Cestari, Marcello Darbo e Laura Zampini, oltre alla frequentazione dell’Accademia di Belle Arti di Bologna. La mostra gode del Patrocinio del Comune ed è visitabile dal mercoledì a domenica ore 17-20.

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 24 febbraio 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

Al Carbone le foto dell’indicibile e antica Ferrara

17 Gen

Una Ferrara antica e monumentale, grandiosa nel proprio incanto. Una fascinazione che rischiamo di perdere, annacquati come siamo nelle abitudini quotidiane, o avvezzi a vedere vacuità invece che bellezza. Anche per questo sono importanti mostre  come “Concrete visioni – Ferrara a passi lenti”, visitabile fino al 29 gennaio (ore 17-20) alla Galleria del Carbone di Ferrara.

La rassegna è il risultato del lavoro del Fotoclub Vigarano nella scia del libro “Nuova guida di Ferrara” di Carlo Bassi in cui l’architetto propone una serie di itinerari di lettura della città. La mostra – che ha il patrocinio del Comune di Ferrara e del Comune di Vigarano Mainarda – ospita 28 foto in bianco e nero, mentre sono 82 quelle nel catalogo, con testo di Lucia Bonazzi e acquistabile al Carbone. «La rinuncia al colore – scrive Bonazzi – valorizza l’incisività delle ombre, mentre le luci conferiscono tridimensionalità ai particolari architettonici, le cui forme e linee diventano più attrattive». L’occhio può quindi posarsi in un preciso punto, su un dettaglio, una fenditura, un minuscolo frammento. Oppure nell’ampiezza di un varco. E fare esperienza, ancora una volta e come non mai, dell’indicibile mistero di Ferrara.

Le foto sono di Alessandro Berselli, Andrea Gallesini, Andrea Giorgi, Davide Occhilupo, Enrico Testoni, Fabio Belmonte, Liana Caselli, Lino Ghidoni, Marco Andreani, Marisa Caniato, Massimo Cervi, Maurizio Marchesini, Sonia Campanelli, Tonina Droghetti, Ulrich Wienand Valentina Mazza, Yolanda D’Amore.

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 20 gennaio 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

Lo squadrista Italo Balbo: una mostra per indagare le origini del Fascismo

21 Nov

Nel centenario della Marcia su Roma, una mostra del Centro Studi del Museo del Risorgimento e della Resistenza raccoglie a Ferrara documenti e testimonianze della violenza nei primi anni ’20 nel nostro territorio. Il ruolo decisivo del gerarca

Una mostra esposta nel Centro Studi del Museo del Risorgimento e della Resistenza (MRR), a Porta Paola, arricchisce ulteriormente il dibattito nel centenario della Marcia su Roma.

“Lo squadrismo raccontato dai fascisti. Il diario di Italo Balbo e altre fonti” – questo il titolo dell’esposizione a Ferrara, a cura di Antonella Guarnieri in collaborazione con l’ANPI provinciale – cerca di inquadrare storicamente, attraverso documenti dell’epoca e successive ricerche, il ruolo di Italo Balbo nello squadrismo padano, di cui fu uno dei maggiori artefici assieme a Dino Grandi, Roberto Farinacci e pochi altri.

Ricordiamo che una volta conclusi i lavori di ristrutturazione, la sede del MRR sarà nella Casa della Patria Pico Cavalieri, in Corso Giovecca 165. Il Centro Studi del Museo è a Porta Paola dal settembre 2020, mentre la sua storica sede è stata in Corso Ercole I d’Este 19, dove dovrà nascere il nuovo bookshop di Palazzo Diamanti.

«Al Fascismo, sin dagli inizi, incombeva il destino della conquista integrale e rivoluzionaria del potere»

Nel suo “Diario 1922” – pubblicato dalla Mondadori il 6 ottobre 1932, poco prima del decennale della Marcia su Roma – Italo Balbo, è scritto in mostra, «manifestava con evidenza la volontà di strizzare l’occhio a quella parte del fascismo che era stata fondamentale per il raggiungimento del potere ed era stata poi collocata in pensione da Mussolini». 

Nell’introduzione al “Diario” Balbo stesso scrive: «A chi mi chiedeva quale fosse il segreto di una organizzazione volontaria così perfetta, rispondevo…esaltazione della violenza come il metodo più rapido e definitivo per raggiungere il fine rivoluzionario». E più avanti parla della «certezza che al Fascismo, sin dagli inizi, incombeva il destino della conquista integrale e rivoluzionaria del potere. Integrale: cioè senza compromessi, e su tutto il fronte della vita pubblica italiana; rivoluzionaria: cioè un atto violento, insurrezionale che segnasse un netto distacco, anzi un abisso, tra il passato e il futuro». Due anni fa – lo ricordiamo – a Ferrara riesplose una polemica legata alla presunta legittimazione di Balbo, dopo la dichiarazione di Vittorio Sgarbi di voler allestire una mostra a lui dedicata – soprattutto come aviatore – a Palazzo Barbantini-Koch in Corso Giovecca, sede della direzione territoriale della BPER Banca. La polemica coinvolse soprattutto – da una posizione critica – Anna Quarzi, Presidente dell’Isco locale.

Dalle lotte sindacali alla violenza squadrista

Lo sviluppo dei sindacati che organizzarono la vasta massa di lavoratori – circa 71mila -, l’allargamento del suffragio e le conseguenti vittorie socialiste nelle elezioni del 1919-1920 preoccuparono gli agrari che temevano di perdere il loro potere indiscusso sui lavoratori. Per migliorare le condizioni di lavoro dei braccianti e togliere egemonia agli agrari, le leghe rosse «con le buone o le cattive, reclutarono anche elementi recalcitranti», viene spiegato nell’esposizione. «L’uso della violenza da parte dei socialisti, in alcuni casi fu evidente, ma non deve essere esagerato come fu invece abitudine della propaganda padronale. Le armi più usate furono il boicottaggio, l’isolamento dei crumiri, raramente la violenza fisica». Fu invece «organizzato, programmato, costante, militarizzato» l’uso della violenza da parte dello squadrismo fascista.

Un pannello cita anche l’opinione dello storico Emilio Gentile, allievo di De Felice, che su “Repubblica” del 27 ottobre 2012 scrive: «non c’è alcun rapporto diretto tra la violenza del massimalismo socialista e la violenza fascista. Quando in Italia si afferma lo squadrismo, il pericolo bolscevico non esiste più (…). Finché dura il cosiddetto “biennio rosso” il fascismo è un fenomeno marginale. Esso cominciò ad affermarsi quando il socialismo entra in crisi. E poi non c’è proporzione tra violenza rossa e violenza nera: i socialisti non hanno mai assaltato le case della borghesia né i circoli degli altri partiti; i fascisti applicano alla politica le pratiche da guerra civile».

«La verità – scrive invece Gaetano Salvemini nel suo “Le origini del fascismo. Lezioni di Harvard” – è che sia da una parte sia dall’altra vi furono aggressori e aggrediti, assassini e vittime, imboscate ed assalti su terreno aperto, atti di coraggio e di tradimento; ma i fascisti, sostenuti economicamente da industriali, proprietari terreni e commercianti, e politicamente da polizia, magistratura e autorità militari, godettero di una forza schiacciante».

Alcuni tragici episodi nel Ferrarese

La strage di Palazzo d’Accursio, avvenuta il 21 novembre 1920 a Bologna, fu scatenata da un nutrito gruppo di squadristi fascisti che attaccò la folla riunitasi in occasione dell’insediamento della nuova giunta comunale presieduta dal socialista massimalista Enio Gnudi. Fu un episodio decisivo, con conseguenze anche per il nostro territorio.

Gli scontri, la cui dinamica non è mai stata interamente chiarita, portarono alla morte di dieci sostenitori socialisti e del consigliere comunale liberale Giulio Giordani, oltre che al ferimento di circa sessanta persone.

Un mese dopo, il 18 dicembre, l’avvocato socialista Adelmo Niccolai, appena uscito dal Palazzo di Giustizia di Ferara, dove aveva difeso alcuni organizzati, fu bastonato a sangue da un gruppo di fascisti, e alzarono le mani anche sulla madre accorsa in strada sentendo le urla del figlio.

Due giorni dopo, il 20, i fascisti ferraresi scesero in piazza contro le amministrazioni socialiste che guidavano il Comune e la Provincia. Negli scontri vennero uccisi i fascisti Franco Gozzi, Natalino Magnani, Giorgio Pagnoni e Giuseppe Salani, e i socialisti Giovanni Mirella e Giuseppe Galassi (morto il 22 febbraio ’21 per le ferite riportate). La sera del 30 dicembre dello stesso anno gli squadristi aggredirono l’assessore comunale ing. Girolamo Savonuzzi, poi costretto a scrivere una lettera di dimissioni dalla carica.

La mostra mette in risalto anche il ruolo dell’allora Prefetto Samuele Pugliese (incarico che ebbra dal 1° febbraio ‘21 al 31 agosto dello stesso anno), la cui azione nel caso Savonuzzi «fu così poco incisiva che venne pesantemente redarguito dal Direttore generale della Pubblica Sicurezza on. Vigliani». In mostra si parla anche del «coinvolgimento in più di un’occasione delle forze dell’ordine che spesso affiancarono, sostennero e facilitarono l’azione squadrista». Emblematiche le devastazioni fasciste il pomeriggio e la notte del 15 aprile 1921 delle Case del popolo di Burana, Lezzine, Pilastri e Gavello, nel bondenese, attacchi anticipati un’ora prima dalle perquisizioni da parte dei carabinieri nelle case dei lavoratori dei paesi alla ricerca di armi non trovate.

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 25 novembre 2022

La Voce di Ferrara-Comacchio

(Foto: Italo Balbo – in piedi al centro, coi baffi -, insieme ad altri squadristi a Venezia nel 1921, dopo alcuni assalti compiuti)

Chi era Italo Balbo

Italo Balbo (Quartesana, 6 giugno 1896 – Tobruch, 28 giugno 1940) è stato un politico, generale e aviatore italiano.

Iscritto al Partito Nazionale Fascista dal 1920, fu uno dei quadrumviri della marcia su Roma, diventando in seguito comandante generale della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, quindi nel 1925 sottosegretario all’economia nazionale e poi alla Regia Aeronautica. Nel 1929 assunse l’incarico di Ministro dell’aeronautica. Fu insignito del grado di Maresciallo dell’aria. 

Considerato un potenziale rivale politico di Benito Mussolini a causa della grande popolarità raggiunta, Balbo fu nominato nel 1934 governatore della Libia. Allo scoppio della Seconda guerra mondiale organizzò voli di guerra per catturare alcuni veicoli del Regno Unito, e proprio durante il ritorno da uno di questi voli, il 28 giugno 1940, fu abbattuto per errore dalla contraerea italiana sopra Tobruch.

L’inafferrabile consistenza del reale nelle opere di Guarienti

7 Nov

La mostra “La realtà del sogno” esposta nel Castello di Ferrara fino al 22 gennaio. Mistero e malinconia nell’antologica dell’artista 99enne 

di Andrea Musacci

È la realtà che svanisce nell’oblio, oppure è l’oblio che svanisce grazie al (ri)emergere delle figure? 

È questo uno degli interrogativi che suscita l’interessante mostra antologica “La realtà del sogno”, ospitata fino al 22 gennaio nel Castello di Ferrara, e organizzata da Fondazione Ferrara Arte e Servizio Musei d’Arte del Comune.

Carlo Guarienti, artista 99enne in bilico fra surrealismo e metafisica, viene così omaggiato dalla nostra città, la cui stagione autunno-invernale è cornice perfetta per le sue opere dolenti.

Un velo sembra coprire, dunque, lo sguardo dell’uomo moderno, soprattutto dal 1960, con l’opera Ritratto di Faldivia: le certezze razionali svaniscono come spettri, e le fantasticherie e gli incubi dell’artista – di un’epoca? – prendono forma, evocano malinconici paesaggi esistenziali. Una caligine spessa, materica avvolge le figure o le inonda, informandole di sé. Via via, i volti, i corpi si fanno più sfumati, irregolari, angoscianti. Appaiono nel loro sparire. In Guarienti tutto ha, dunque, l’aspetto della malattia, della consunzione. L’occhio – si veda ad esempio le opere Un gioco d’azzardo (1975) o Madame de la crepaudière (idem) – che scruta famelico e osceno lo spettatore, così come il tema del doppio, che a volte ricorre, non fanno che aumentare questo senso di perturbamento.

L’artista sembra, dunque, suggerirci che la realtà è molto più evanescente, contraddittoria e inafferrabile di quanto possiamo pensare. Difficile dire se la nostra vita sia sogno oppure abbia diversa, misteriosa, consistenza.

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” dell’11 novembre 2022

La Voce di Ferrara-Comacchio