Archivio | dicembre, 2019

Tutto il Novecento nel PAC di Ferrara: in mostra la Collezione di Franco Farina

23 Dic
Warhol, Vedova, Schifano e molti altri grandi artisti esposti al Padiglione di Arte Contemporanea. Fra due anni le opere a Palazzo Massari, a breve la catalogazione delle sue lettere e fotografie. Aneddoti inediti su Farina e il suo studio. E quel misterioso bozzetto delle “Muse inquietanti” di De Chirico…
 
di Andrea Musacci
farina 2Estro, tecnica e intelligenza sono doti necessarie per un artista ma anche per chi l’arte la colleziona, la espone, la rende patrimonio della comunità. Ed estro, tecnica e intelligenza erano caratteristiche che appartenevano a Franco Farina, non solo Direttore dal 1963 al 1993 di Palazzo dei Diamanti, ma anche colui che, in questo trentennio, ha sconvolto la monumentale quiete di un Palazzo antico e di un’intera città, portando ogni anno a Ferrara i maggiori e più coraggiosi artisti internazionali contemporanei.
 
Ora, è possibile passeggiare in queste tre decadi – o meglio, nell’intero Novecento – attraverso le sale del PAC, il Padiglione d’Arte Contemporanea di Ferrara (attiguo a Palazzo Massari), in occasione della mostra “La collezione Franco Farina / Arte e avanguardia a Ferrara 1963/1993″, che raccoglie un’ampia selezione delle opere a lui donate o da lui cercate nel corso della carriera (in tutto, quasi 200 tra dipinti, disegni, sculture e opere polimateriche). Patrimonio che la scorsa primavera Lola Bonora, erede, compagna di una vita ed ex direttrice del Centro Video Arte di Diamanti, ha donato al Comune di Ferrara. Donazione che – come ha ricordato oggi, 20 dicembre, giorno dell’inaugurazione, proprio la Bonora nella conferenza stampa in Municipio – lo stesso Farina desiderava fortemente: “sono fortunato a poter avere queste opere in casa mia, ma quando non ci sarò più vogliono che tornino ai cittadini”, diceva. E così è stato. “In questa mostra c’è lui, la sua storia”, ha proseguito la Bonora.
 
“E’ stato tanto amato dalla sua Ferrara, anche dai semplici cittadini: diverse persone, fino all’ultimo, lo fermavano per strada per salutarlo”.
Così, ora, dopo almeno sei mesi di ricerca e preparazione, la mostra è realtà, grazie alla Fondazione Ferrara Arte e Gallerie d’arte moderna e contemporanea di Ferrara, con la cura di Maria Luisa Pacelli, Ada Patrizia Fiorillo, Chiara Vorrasi, Lorenza Roversi e Massimo Marchetti. In parete, capolavori di Carlo Carrà, Giorgio de Chirico, Lucio Fontana, Emilio Vedova, Robert Rauschenberg, Mimmo Rotella, Mario Schifano, ma anche Andy Warhol, Renato Guttuso, Man Ray, Mario Sironi, e, tra i ferraresi, Fabbriano, recentemente scomparso. Una collezione, quella di Farina, spiega Fiorillo nel catalogo, che nasce “dagli incontri, dagli scambi, dalle amicizie, dalla stima offerta e ricevuta, insomma da quel ‘disegno’ che non divideva l’uomo dal professionista”.
 
Prossima tappa: la catalogazione delle sue lettere e fotografie. E fra due anni le sue opere saranno a Palazzo Massari
 
OLYMPUS DIGITAL CAMERAA breve inizierà l’inventariazione dello sterminato insieme di documenti, lettere e fotografie appartenute allo stesso Farina, alcune delle quali presenti in mostra. Come spiegano a “la Voce” le curatrici Pacelli, Roversi e Vorrasi, “si tratta di oltre un centinaio di faldoni contenenti alcune migliaia di documenti. La speranza – ma è presto per dirlo – è di riuscire a concludere l’inventariazione entro sei mesi, quindi circa a metà 2020. Il nostro intento – proseguono – è anche quello di svolgere un lavoro ragionato, sottolineando ad esempio le diverse relazioni di Farina con i vari destinatari delle missive”.
 
Inoltre, Pacelli ha spiegato come non ci si limiterà al pur ottimo catalogo già disponibile, ma “il lavoro continuerà – con lo stesso gruppo di ricercatori – per realizzare prossimamente un vero e proprio libro”.
Chiediamo alla Pacelli se Palazzo Massari al momento della riapertura a fine lavori – prevista nel 2022 – potrà ospitare una sezione con le opere della Collezione Farina. “Non è questa l’idea che abbiamo – ci spiega -, ma quella di arricchire con anche le opere appartenute a Farina, la futura Sezione del Museo dedicata al Novecento”. Parole che, ancora di più, permettono di assaporare questa “piccola” ma intensa mostra al PAC come un anticipo di quello che sarà al Massari.
 
Il misterioso bozzetto delle “Muse” dechirichiane
 
antolini-farina-brunelli-copiaDi De Chirico in mostra si può ammirare l’opera “Due cavalli” (tempera su cartoncino degli anni ’50). Non abbiamo trovato, invece, un bozzetto delle “Muse inquietanti”, che nel novembre 2015 – in contemporanea con la mostra “De Chirico a Ferrara. Metafisica e avanguardie” -, la Maria Livia Brunelli Home Gallery aveva esposto per alcune settimane. Si tratta di un olio su tela forse del 1918 donato da De Chirico a Farina. Chi scrive, insieme alla Brunelli, aveva tentato di “indagarlo”: analizzando avevo scoperto come il bozzetto, rispetto all’originale, non presenti la statua-manichino e la scatola “esoterica” nella parte destra in ombra. Questo fa pensare che probabilmente il bozzetto sia una delle prime intuizioni del dipinto del 1918, e non una delle repliche realizzate successivamente all’opera, a scopo di vendita. L’intuizione potrebbe essere confermata dal fatto che l’opera non è firmata (non presenta nessuna scritta) e quindi non finalizzata al mercato. Lola Bonora ha voluto conservare questo bozzetto nella propria collezione personale, scegliendo quindi di non donarlo al Comune.
Tra l’altro, fu quella sera del 21 novembre 2015 che Farina, nella MLB home gallery di corso Ercole I d’Este annunciò: “dopo la mia morte tutte le opere della mia Collezione andranno al Comune di Ferrara”.
 
L’opera su tessuto nel suo studio, nell’aria profumo di mandorle e champagne
 
La vita di una persona è composta dagli aneddoti più originali, spesso più utili di tante parole a descrivere una personalità, come nel caso di Farina.
Il critico e curatore Lucio Scardino a “la Voce” sottolinea come egli fosse “attentissimo alla moda e al mercato, avendo un fiuto straordinario per le tendenze e le innovazioni artistiche. Era intelligente anche perché spesso – e nella mostra si nota – si faceva donare dagli artisti che esponeva a Diamanti, l’opera scelta per essere inserita sul manifesto dell’esposizione stessa”. Scardino ci regala anche un aneddoto – “ ‘Tu sei un feticista’, mi diceva scherzando, per il mio intenso interesse per gli artisti ferraresi” – e ricorda la sua collaborazione, durata alcuni anni, con Farina per la schedatura delle oltre 8mila opere d’arte del Comune di Ferrara. “L’opera ‘Interrogazioni sull’arte’, una stampa su tessuto di oltre 3 metri realizzata da Léa Lublin – ci racconta ancora Scardino -, ricordo che Franco l’aveva appesa nel proprio studio dietro la scrivania dove siedeva, donando alla vista una forte impressione”.
Anche la Pacelli, nel corso della conferenza stampa, ha ricordato le numerose visite nello studio di Farina, dove insieme mangiavano mandorle salate e bevevano champagne. Particolare, questo, ricordato a “la Voce” anche da Maria Livia Brunelli: “a chi lo andava a trovare negli anni d’oro nel suo studio a Palazzo dei Diamanti, offriva sempre un bicchiere di champagne”. Inoltre, “indossava spesso una tunica e aveva un pappagallo bianco che gli si posava sulla spalla”.
“Farina era una figura evanescente, in lui il concetto, il pensiero dominavano sulla materialità, sulla fisicità”, ha ricordato invece Vittorio Sgarbi, Presidente di Ferrara Arte. “La curiosità, il sapersi creare rapporti con i musei più importanti, i legami con i mercati ‘laici’, nel senso di privi di pregiudizi, erano le caratteristiche” che gli permisero di far diventare Diamanti quel che è diventato: in quel periodo immortale, in quei “30 anni di ‘dittatura’ farininana” – sono ancora parole di Sgarbi – nei quali egli, con la sua “produzione compulsiva” e con il suo “gusto impersonale (finalizzato soprattutto a testimoniare il contemporaneo in questa città)”, ha rivoluzionato la mistica e assonnata Ferrara.
 
Ferrara centro nazionale dell’arte fotografica?
 
E’ questa la proposta, e al tempo stesso la sfida alla città lanciata, sempre il 20 dicembre in Municipio, da Sgarbi. Nel presentare la mostra “La fotografia ha 180 anni! Il libro illustrato dall’incisione al digitale / Italo Zannier fotografo innocente” (in programma tra febbraio e marzo ’20 al MART di Rovereto e il prossimo autunno al PAC di Ferrara), il presidente di Ferrara ha raccontato la propria esperienza, nel ’74, come assistente di Zannier: “così, grazie a lui, quasi per caso, ho scoperto la fotografia”. Dunque, l’annuncio: “in Italia, quindi anche a Ferrara, c’è bisogno di un ‘terremoto fotografico’, attraverso la nascita di centri. Ferrara può diventare uno di questi centri della fotografia, è un dovere storico. Sarebbe importante che questa rivalutazione assolutamente necessaria dell’arte fotografica partisse da Ferrara, com’è stato – ha proseguito – il progetto del MEIS. Insomma, speriamo che Ferrara possa essere all’avanguardia nel riconoscimento della fotografia come arte fondamentale della modernità, della contemporaneità e della vita quotidiana di ognuno”.
Presenti in Municipio, per l’occasione, lo stesso Zannier, l’Assessore alla Cultura Marco Gulinelli e Gianfranco Maraniello, Direttore del MART di Rovereto.
 
 
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“Un carcere più attivo e aperto”

17 Dic
Il Report dell’Associazione “Antigone” e i dati aggiornati del Ministero sulla Casa Circondariale di Ferrara: al 30 novembre, sono 264 i detenuti. Il problema del lavoro che non c’è. Moltiplicate, però, le attività e in aumento gli studenti. Le parole della Garante dei diritti dei detenuti di Ferrara, Stefania Carnevale: “le loro lamentele riguardano salute, lavoro, affetti e reinserimento”
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Ben 364 detenuti, di cui 143 stranieri (circa il 40% del totale), per una capienza totale di 244 posti, con un tasso di affollamento del 145,5%.
Sono i dati della Casa Circondariale di Ferrara, provenienti dal Ministero della Giustizia e aggiornati al 30 novembre scorso. Rispetto al totale delle persone detenute nelle varie carceri della Regione, sono meno di un decimo, essendo il dato aggiornato arrivato a 3.856 detenuti in Emilia-Romagna. Di questi numeri, in relazione soprattutto alla “qualità” della detenzione, si è discusso il 10 dicembre nella Factory Grisù di Ferrara, per la presentazione del Primo Rapporto sulle condizioni di detenzione in Emilia Romagna realizzato dalla sede regionale dell’Associazione “Antigone”.
lI carcere “Arginone” di Ferrara
Da alcuni anni “Antigone” anche in Emilia Romagna garantisce che ciascun carcere sia visitato almeno una volta all’anno. Così è stato fatto anche per la Casa circondariale ferrarese “Costantino Satta” (aperta nel 1992), visitata lo scorso 25 giugno. Al momento della visita erano 355 i detenuti (350 a inizio 2019), di cui 143 stranieri (circa il 40%, Nigeria, Romania, Marocco, soprattutto). In totale, 7 sono in semilibertà, 24 collaboratori di giustizia, 6 in Alta Sicurezza, 7/8 in osservazione per radicalizzazione livello medio-basso. 185 sono, invece, gli agenti di Polizia penitenziaria presenti, su 212 agenti previsti.
“Si nota subito il cambio di direzione e salutiamo con soddisfazione l’espressa volontà di applicare l’isolamento solo come extrema ratio”, è scritto nella Scheda di Antigone (disponibile su antigone.it). “L’istituto si presenta, come sempre, pulito ed efficiente ma sconta l’eccessiva circuitazione”, che rende “difficile l’offerta trattamentale stante la necessità di tenere separati molti dei detenuti tra loro e nonostante gli sforzi della direzione e dell’equipe trattamentale e l’aumento di attività negli ultimi anni. Diverse le convenzioni per lavori di pubblica utilità e numerosi gli art. 21 sebbene l’offerta di lavoro per datori di lavoro esterni sia invero contenuta a sole due unità. Numerosi i corsi scolastici – è scritto ancora -, tra cui degni di nota l’istituto alberghiero e quello agrario così come la possibilità di iscriversi a corsi universitari. La palestra è pulita e dotata di attrezzi, ma non riesce a soddisfare le numerose richieste dei detenuti”.
“Molte le aree destinate a produzioni orticole – sono ancora parole della Scheda -, destinate prevalentemente all’autoconsumo da parte dei detenuti e/o rivendute al personale al fine di finanziare l’attività medesima”. In generale, “l’istituto si trova in buone condizioni dal punto di vista strutturale, anche a seguito dei lavori di restauro successivi al terremoto che ha colpito la zona nel 2012. Le sezioni visitate non presentavano evidenti problemi di manutenzione, ad eccezione delle docce che sono collocate in locale separato dalla cella ove apparivano evidenti segni di umidità e delle schermature alle finestre”. “L’Area sanitaria è pulita e la palestra efficiente e con attrezzature per vari esercizi, l’area pedagogica è pulita e luminosa, vi sono 6 aule per le lezioni scolastiche (con 50 detenuti coinvolti in corsi, ndr) e una biblioteca con sala lettura (con 800 volumi, usata anche come sala lettura e per presentazioni letterarie, e nella quale è attivo anche il servizio interbibliotecario, ndr). Nelle salette per la socialità vi sono dei lavelli e nelle salette della socialità delle lavatrici. I semiliberi hanno a disposizione un refettorio per consumare i pasti tutti insieme”. Ricordiamo, infatti, che il carcere ferrarese è diviso in diverse sezioni: Sezione dei detenuti comuni, AS2,  “Protetti”, “Collaboratori di giustizia” (Sez. C), Congiunti dei collaboratori di giustizia (Sez. Z), “Nuovi giunti” (della quale una parte è utilizzata anche come repartino di isolamento), oltre alle 5 e 6 per condannati definitivi con pene superiori ai 5 anni.
“L’istituto di Ferrara – prosegue il testo – si caratterizza per l’ampiezza degli spazi esterni: molte le aree verdi che, gestite prevalentemente da una cooperativa (Viale K), sono state destinate alla coltivazione di ortaggi e frutta (Progetto “Galeorto”). L’ampio campo sportivo è frequentato anche da 100 detenuti alla volta”. Fra gli “eventi critici”, “Antigone” segnala: “secondo quanto riferito dalla polizia penitenziaria, i detenuti di origine magrebina comunicano il dissenso attraverso la pratica dell’autolesionismo. Invero, secondo quanto ci viene riferito, spesso l’autolesionismo si sostanzia nella protesta per la mancata somministrazione di psicofarmaci per lo più destinati allo spaccio interno”. Proseguendo, “dal 2010 è attivo il Laboratorio RAEE, volto allo smontaggio e pretrattamento di RAAE R2 (lavatrici, lavastoviglie, forni, ecc.) nell’ambito del quale sono stati assunti due detenuti: uno dal 2012 a tempo indeterminato e l’altro a tempo determinato di 6 mesi a ciclo continuo e scelto a rotazione dalla Coop. “Il Germoglio” di Ferrara”. Inoltre, “nel 2018 è stato aperto il Laboratorio Ricicletta dedito alla riparazione dei telai e delle camere d’aria delle biciclette. Inoltre, “dal 2005 è stata attivata, per la sola distribuzione interna ed in collaborazione con l’Asp di Ferrara, la Rivista periodica “l’Astrolabio”, e, in convenzione con l’Amministrazione comunale di Ferrara, un laboratorio teatrale. Esiste anche la squadra di calcio “Garegol” composta da 50 detenuti di tutte le età e le etnie. Infine, riguardo alla “sorveglianza dinamica”, “mancano le apparecchiature idonee […]. Sono state fatte richieste al Dipartimento”.
Stefania Carnevale, Garante dei Diritti dei detenuti del Comune di Ferrara, nell’incontro del 10 dicembre a Grisù, riguardo al carcere ferrarese ha spiegato come di positivo vi sia “che negli ultimi anni si sono moltiplicate le iniziative di socializzazione ed educazione per i detenuti, e la struttura si è aperta molto alla città”. Dall’altra parte, però, “è un carcere dove le persone detenute hanno poche possibilità di lavorare per esterni. Dai miei colloqui coi detenuti di Ferrara emergono principalmente quattro tipi di lamentele”; ha proseguito: “la prima riguarda la salute, soprattutto per le lunghe liste d’attesa e la difficoltà di prenotare visite specialistiche; la seconda, il lavoro, in quanto tutti vorrebbero lavorare, e alcuni lamentano anche la poca trasparenza sui criteri riguardanti eventuali assunzioni; terzo, gli affetti, lamentando principalmente la distanza dalle famiglie; infine, il reinserimento sociale a fine pena, con situazioni anche drammatiche, per la mancanza di una casa dove andare a vivere, di un lavoro, e magari con le proprie famiglie lontane o disgregate”.
“Puntare sulla qualità della detenzione”: il dibattito a Spazio Grisù lo scorso 10 dicembre organizzato da “Spazio della Ragione” e “Antigone”
_5671L’iniziativa del 10 dicembre a Grisù, promossa dalla “Società della Ragione” e da “Antigone”, moderata e presentata da Leonardo Fiorentini, ha visto il saluto di Marcello Marighelli, Garante regionale dei detenuti (ed ex Garante del Comune di Ferrara), che ha sottolineato come “ancora troppo spesso vi è distanza tra il modello di carcere espresso nella nostra Costituzione e nelle leggi, e quello delle realtà concreta”. Ha preso poi la parola Andrea Pugiotto, Ordinario di Diritto Costituzionale dell’Università di Ferrara, che ha posto l’accento sull’importanza, come fa “Antigone”, “del monitoraggio, dell’osservazione, della denuncia, del fornire criteri di giudizio e della conseguente proposta di soluzioni ai problemi”. La detenzione, infatti, “è spesso considerata come qualcosa fuori dal mondo, dalla realtà, quindi anche dalle leggi, ma non è così. E fortunatamente a livello nazionale, europeo e mondiale negli anni è stato riconosciuta, ad esempio, l’importanza della prevenzione della tortura ai danni di persone detenute, con la possibilità quindi di poter svolgere visite – da parte di figure professionali riconosciute -, anche senza preavviso, nei luoghi di detenzione. “Tutto ciò è fondamentale non solo per la tutela della persona detenuta, ma anche per l’apparato di sicurezza – perché, se avvengono abusi, non si possa generalizzare nell’assegnare eventuali responsabilità – e per lo stesso Stato. Il carcere, dunque – ha concluso Pugiotto – è un problema che riguarda ogni cittadino, l’intera comunità”. Infine, hanno preso la parola Alvise Sbraccia, Coordinatore del comitato scientifico di Antigone, e Giulia Fabini, fra le curatrici del rapporto per “Antigone” Emilia Romagna. I due hanno riflettuto sul tema del sovraffollamento delle carceri, e in particolare sulla questione della qualità della detenzione, in particolare riguardo al lavoro, alle cure sanitarie e all’organizzazione degli spazi interni.
Andrea Musacci
Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 20 dicembre 2019

Vite spezzate, vite salvate: a Ferrara storie di bimbi nella Shoah

17 Dic

“Stelle senza un cielo. Bambini nella Shoah” è il nome dell’esposizione aperta al MEIS fino al prossimo 1° marzo, un progetto didattico curato dallo Yad Vashem di Gerusalemme, in collaborazione con il MEIS, l’Assemblea legislativa della Regione Emilia-Romagna e il CDEC. Il 10 dicembre la presentazione pubblica

a cura di Andrea Musacci

gemellineGiovani, spesso giovanissime vite sconvolte, inghiottite dalle tenebre del male, vissute dentro l’orrore. Esistenze a volte distrutte per sempre, altre, invece, salvate.

“Stelle senza un cielo. Bambini nella Shoah” è il nome dell’esposizione aperta al MEIS dall’11 dicembre fino al prossimo 1° marzo, un progetto didattico, pensato quindi soprattutto per le scuole, curato dallo Yad Vashem, l’Ente nazionale per la Memoria della Shoah di Gerusalemme, in collaborazione con il MEIS, l’Assemblea legislativa della Regione Emilia-Romagna e il Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea (CDEC). Storie di bambine e bambini raccontate attraverso le loro immagini, a volte le loro stesse testimonianze e il racconto storico, una narrazione inevitabilmente commovente fatta di spezzoni di vita quoditiana, segni di storie di famiglie, di un popolo. La mostra è stata inaugurata ufficialmente nel pomeriggio del 10 dicembre scorso, anticipata, la mattina stessa, da una conferenza. Raccogliamo qui alcune vicende di bambine e bambini, le prime due accennate durante la conferenza stessa da Liliana Picciotto del CDE, le altre presenti in mostra.

Dino (classe 1929) ed Esther Molho, di Magenta (MI), che nel ’44, insieme ai genitori, imprenditori, dovettero nascondersi per 13 mesi in una stanza segreta (ideata da loro stessi insieme ad alcuni dipendenti) dello stabilimento di famiglia che produceva minuterie. La stanza era all’interno del magazzino, nascosta alla vista da una pila di casse alte fino al soffitto. Un sistema simile a quello usato dagli amici di Anna Frank.

Massimo Foa, nato l’8 novembre 43, torinese: la madre Elena Recanati è una sopravvissuta al campo di Bergen Belsen, mentre il padre Guido è morto, forse in una marcia della morte: Massimo, prima della deportazione dei genitori, è affidato a Suor Giuseppina De Muro, che lo fa uscire dalla prigione dov’è rinchiusa la madre in mezzo alle lenzuola sporche e viene affidato a una povera vedova di Cuorgnè di nome Tilde (Clotilde) Roda Boggio.

Leone (1930), Mirella (1932) e Davide Pecar (1935): tre fratelli milanesi che, insieme alla madre Ghenia vengono arrestati nel ’43 e portati al carcere di San Vittore, poi deportati ad Auschwitz, dove muoiono.

Franco Cesana, nome di battaglia “Balilla”, figlio di Felice e Ada Basevi, nato il 20 settembre 1931 a Mantova. A 13 anni si arruola nella brigata Scarabelli della seconda divisione Modena Montagna. Partecipa a numerosi scontri con i tedeschi e in uno di questi resta ucciso a Gombola (Polinago-Modena) il 14 settembre 1944.

Yehudit Czengery e Leah Czengery, gemelle rumene, hanno 6 anni nel ’44 quando vengono deportate con la madre Rosi nel campo di Auschwitz Birkenau. Il dottor Mengele le definì “le bellissime gemelle”: furono portate direttamente nel laboratorio riservato ai suoi esperimenti. La madre riuscì di nascosto a procurar loro del cibo. Si salvarono.

Marta Winter, classe 1935, polacca: nel ’43 la madre la affida a un amico di famiglia fuori dal ghetto. Fu poi deportata anche lei in un campo di concentramento ma si salvò.

Stefan Cohn, tedesco, nato nel ‘29: nel giugno ‘43 è deportato con la madre Bertha a Birkenau. Questa viene uccisa, Stefan fatto lavorare nella fabbrica di mattoni. Si salva e nel ’45 realizza 79 disegni raffiguranti la vita nei campi.

Sissel Vogelmann, torinese, nata nel ‘35, torino: il padre Shulim dirigeva la Giuntina editrice. Lei e la madre vennero uccise subito all’arrivo ad Auschwitz nel ’44, dopo esser state deportate dalla Stazione di Milano.

Henryk Orlowski e Kazimierz Orlowski, fratelli polacchi, rispettivamente del ‘31 e del ‘33.

Regina Zimet, classe ’33, nata a Lipsia. Nel ’39 con la famiglia fugge dalla Germania verso Israele, ma in Libia sono arrestati, riportati in Italia nel campo di Ferramonti. Poi rilasciati, sono costretti a vivere in clandestinità. Ma si salvano, e nel ’45 raggiungono Israele.

Sorte simile per Meir Muhlbaum, 1930, tedesco, e la sua famiglia, che nel ’44 riuscirono ad arrivare a Tel Aviv.

Adriana Revere: nasce alla Spezia il 18 dicembre 1934; i genitori Emilia De Benedetti ed Enrico Revere vengono arrestati in Vezzano Ligure per appartenenza alla “razza ebraica” ; la piccola viene catturata insieme ai genitori e inviata con loro al Campo di concentramento di Fossoli. Il 22 febbraio 1944 la famiglia è deportata al Campo di Auschwitz; il padre, trasferito a Flossenburg, è ucciso otto mesi dopo l’arrivo; la piccola e la madre sono uccise il giorno stesso dell’arrivo ad Auschwitz, il 24 febbraio 1944.

Maud Stecklmacher, cecoslovacca, classe ‘29: viene raccontata la sua amicizia con Ruth Weiss, poi proseguita nel ghetto di Terezin. Ma Ruth fu deportata in Polonia e non fece ritorno. Maud andò poi a vivere in Israele.

Marcello Ravenna, nato il 14 ottobre 1929 a Ferrara: figlio di Letizia Rossi e Gino Ravenna, fratello minore di Franca ed Eugenio. Nel ‘38 inizia a frequentare la scuola ebraica di via Vignatagliata. Il 12 febbraio ‘44 con la famiglia è deportato nel campo di Fossoli, insieme ad altre 500 persone, poi deportate ad Auschwitz. Marcello fu tra quelli che non tornò più. Non si ebbero notizie precise sulla sua deportazione e morte.

“Tenere accese più luci possibili”: memoria, didattica e ricerca

della setaLa mattina del 10 dicembre al MEIS, dopo i saluti del Direttore del Museo Simonetta Della Seta, di Alessandro Criserà (Assemblea legislativa della Regione Emilia-Romagna), Anna Quarzi (Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara) e Daniela Dana Tedeschi (vicepresidente Associazione “Figli della Shoah”), sono seguiti gli interventi di Liliana Picciotto (CDEC), Marcella Hannà Ravenna (Comunità ebraica di Ferrara), Rita Chiappini (collaboratrice dello Yad Vashem come contatto in Italia), e Cesare Finzi.

“La mostra – ha spiegato Della Seta – è dedicata a bambini che da un certo punto in poi non hanno più avuto un cielo, né luce: per questo, è importante anche oggi accendere più luci possibili. Vedere la Shoah attraverso gli occhi dei bambini che l’hanno vissuta, significa vederla con ancor più lucidità”. Dopo un omaggio a Piero Terracina, morto lo scorso 8 dicembre, uno degli ultimi sopravvissuti italiani ad Auschwitz, Della Seta ha ricordato anche i propri genitori, “anche loro ‘bimbi della Shoah’”. Dopo l’intervento di Criserà, che ha ricordato l’importanza della Legge regionale “Memoria del Novecento”, e l’intervento di Quarzi, ha preso la parola Tedeschi, la quale ha auspicato che la collaborazione tra l’associazione da lei rappresentata (e presieduta dalla Senatrice Liliana Segre) e il MEIS, ora iniziata, possa proseguire negli anni. “La Shoah – è stata la sua riflessione – ha negato tutti i diritti fondamentali dei bambini, compresi quella alla libertà, all’identità, all’educazione”. Ricordiamo che il 10 dicembre era l’anniversario dell’adozione della dichiarazione universale dei diritti umani da parte delle Nazioni Unite, avvenuta nel ’48.

“Nel fascismo e nel nazismo – sono invece parole di Picciotto – l’educazione era militarizzata, i bimbi venivano cresciuti come soldati obbedienti, non vi era più posto per l’educazione civile e al senso critico”. Nel ripercorrere i tragici passaggi della discriminazione e repressione antiebraica, la relatrice ha posto l’accento sulle conseguenze di tutto ciò per i più piccoli, in termini di “fame, freddo, spavento e terrore, promiscuità, fetore dei vagoni usati per la deportazione”.

Senza dimenticare la frequente separazione dai genitori, la vita clandestina, la falsificazione dei documenti d’identità, il dover dare nome e cognome inventati – non ebrei – per non essere riconosciuti ed evitare quindi l’arresto.

Sorte, questa, toccata anche a Eugenio Ravenna (1920-1977), uno dei cinque ebrei ferraresi sopravvissuti al campo di Auschwitz. La figlia Marcella ha analizzato come le leggi razziste iniziarono concretamente con l’espulsione dalle scuole di studenti e insegnanti ebrei, ricordando, per quanto riguarda la scuola di via Vignatagliata, alunni come Cesare Finzi, Corrado Israel De Benedetti, Giampaolo Minerbi, Donata Ravenna, Franco Schönheit, Maurizia Tedeschi e Gianfranco Rossi; tra i maestri, Giorgio Bassani, Matilde Bassani e Primo Lampronti.

“Da un lato, dalle testimonianze di alcuni studenti – ha spiegato – emerge tristezza, una sensibilità ferita nel sentirsi trattati come diversi, il senso di inferiorità; dall’altra, l’ammirazione per gli insegnanti, il poter stare insieme, i legami molto forti instauratisi, il poter svolgere attività coinvolgenti, come lo spettacolo teatrale diretto da Giorgio Bassani”. Ma dal ‘43 vi saranno gli arresti, le fughe, le deportazioni. La scuola verrà chiusa, Lampronti e i Bassani arrestati.

Ravenna ha ricordato uno per uno i bambini deportati nei campi di sterminio i cui nomi sono impressi sulle lapidi di via Mazzini: bambine e bambini che non hanno fatto ritorno: Marcella Bassani, Bruno Farber, Carlo Lampronti, Camelia Matatia, Roberto Matatia, Amelia Melli, Novella Melli, Marcello Ravenna, Roberto Ravenna, Vittorio Ravenna, Nello Rietti, Walter Rossi (studente alla scuola di via Vignatagliata, non indicato nella lapide perché non ferrarese), Adele Rothstein, Giorgio Rothstein, Wanda Rothstein, Cesarina Saralvo.

Dopo l’intervento di Chiappini, che ha spiegato il fondamentale ruolo informativo e didattico dello Yad Vashem di Gerusalemme, ha portato la sua testimonianza Cesare Finzi, scampato al campo di concentramento, la cui storia abbiamo raccontato nel numero del 13 settembre scorso e accennato – legato alla profumeria di famiglia (presente nella mostra “Ferrara ebraica” ancora visitabile al MEIS) – in quello del 22 novembre scorso.

Finzi nel suo racconto ha mostrato anche una foto della sua classe del ’36, quando aveva 6 anni, e una dell’autodenuncia, in quanto ebrei – ai tempi, obbligatoria – dei genitori: “hanno dovuto autodenunciare se stessi e i propri figli come ebrei, quindi come esseri inferiori”, ha spiegato.

Fra gli aneddoti, “il viso viola di rabbia di Giorgio Bassani quando – già escluso dal Tennis Club Marfisa in quanto ebreo – sentiva il rumore delle palline da tennis nel campo vicino”, o i documenti falsi che lui e i famigliari erano riusciti ad avere una volta fuggiti a Gabicce, nel ’43, dove il cognome era stato trasformato in “Franzi”. Traumi non da poco, per un 13enne, costretto a dover “rinnegare” il proprio nome, dunque la propria più profonda identità.

Il 16 gennaio Furio Colombo a Ferrara

Il 16 gennaio al MEIS è in programma un’intera giornata di incontri:

ore 10: “Dalle carte le vite. Gli archivi raccontano gli effetti delle leggi razziste del 1938”. Progetto nato dal Fondo Egeli della Compagnia di San Paolo, a cura della Fondazione 1563 per l’Arte e la Cultura.

Intervengono: Walter Barberis, Elisabetta Ballaira, Piero Gastaldo.

Ore 16: Inaugurazione della mostra “1938: L’umanità negata”. Lancio del progetto didattico con il MIUR sulle leggi razziali, la Shoah e l’antisemitismo.

Ore 18.30, Ridotto del Teatro Comunale: “20 anni dalla Legge della Memoria: riflessioni per il futuro”, con Furio Colombo, promotore della Legge, in collaborazione con Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara.

Pubblicati su “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 20 dicembre 2019

http://lavoce.epaper.digital/it/news

https://www.lavocediferrara.it/

Corpi e luoghi della città: interazioni da ridefinire collettivamente

17 Dic

Del ricchissimo programma del VII Convegno Nazionale di Antropologia Applicata, svoltosi a Ferrara dal 12 al 14 dicembre, abbiamo scelto di raccontare alcuni frammenti: quello – a Casa Cini e in Arcivescovado – sulla relazione tra lo sguardo dei migranti e quello degli “indigeni” nella città che condividono, e quello sulle periferie urbane. Con uno spunto interessante sulla Ferrara di oggi, che Scandurra di UniFe spiega a “la Voce”

brini vescovoLe nostre città spesso si trasformano, o vengono vissute come spazi anonimi, freddi, disegnate non sulle persone e i loro bisogni ma seguendo logiche diverse, divenendo così ambienti dove a dominare sono la diffidenza reciproca e l’individualismo. Uno sguardo diverso sulla città è dunque quello che riesce a immaginarla come luogo vivo, non mero spazio utilizzabile, e dunque costruire un futuro differente, fatto anche di incontri, di interazioni tra diversità. Ferrara, dal 12 al 14 dicembre, ha ospitato per la prima volta il VII Convegno Nazionale di Antropologia Applicata, organizzato dalla Società Italiana di Antropologia Applicata (SIAA), con l’Università degli Studi di Ferrara e l’Associazione Nazionale Professionale Italiana di Antropologia (ANPIA), e il patrocinio del Comune. Un’occasione per uscire dall’autoreferenzialità accademica e spendere le competenze acquisite in ambiti specifici di lavoro (accoglienza, scuola, socio-sanitario e altri). Anche l’Istituto “Casa Cini” ha ospitato alcuni incontri, in particolare il 12 quello dal titolo “Luoghi comuni. Uno sguardo sulla città”, legato alle quattro esposizioni fotografiche – sul tema dell’accoglienza dei migranti – che hanno “invaso” i vari ambienti della sede di via Boccacanale: “Luoghi Comuni” (esposta anche al festival di “Internazionale”), con foto delle attività per l’integrazione realizzate dalla coop. CIDAS nell’ambito dei progetti SPRAR/SIPROIMI (per titolari di protezione Internazionale e per i Minori stranieri non accompagnati) per persone vulnerabili a Ferrara e a Bologna; “A casa loro. Ri-tratti di famiglia”, con foto di Michele Lapini delle famiglie che accolgono i rifugiati nelle loro case, nell’ambito del progetto Vesta; “Futuri Prossimi” (esposta anche al festival di “Riaperture”) che racconta l’idea di passato, presente e futuro delle ragazze e dei ragazzi, tra cui richiedenti asilo e rifugiati, che hanno partecipato al laboratorio organizzato da “Riaperture”, curato da Giacomo Brini; infine, “Bologna d’aMer”, collettiva su Bologna realizzata attraverso gli sguardi di chi giunge da lontano. Maria Luisa Parisi (CIDAS) e Brini hanno illustrato le mostre allo stesso Vescovo mons. Gian Carlo Perego. “E’ un esempio positivo di coesione tra le persone”, ha spiegato Brini, spiegando come “centrale sia il tema del futuro. E’ stato, quello per ‘Riaperture’, un laboratorio umanamente molto importante”. “Il nostro intento – hanno spiegato i rappresentanti di CIDAS – era di incrociare lo sguardo dei migranti col nostro sguardo, il loro sguardo su loro stessi e su noi, sulla città che insieme viviamo. Un altro aspetto importante – hanno proseguito – è stato l’averli aiutati a riappropiarsi delle parole, attraverso la riscoperta di storie e favole tipiche dei loro Paesi d’origine. L’idea è di ricavarne un libro per bambini. Per noi, città e corpi dei migranti sono strettamente intrecciati, preferiamo per questo parlare di ‘interazione’ più che di ‘integrazione’ ”. Mons. Perego, nell’elogiare questi progetti virtuosi di accoglienza diffusa, ha ricordato invece un esempio negativo di accoglienza, quando nel 2014 150 migranti minori furono radunati, appena sbarcati in Italia, tra l’altro senza mediatori culturali, nella scuola “Verdi” di Augusta a Palermo. “Il differenziare volti e storie – ha spiegato – è un passaggio fondamentale, e progetti come i vostri sono molto importanti per valorizzare le capacità di ogni singola persona migrante: loro, infatti, possono rappresentare un vero e proprio tesoro, che sta già trasformando le nostre città, anche per combattere le frequenti falsificazioni: ogni ragazzo ha una storia, una storia che cambia la città. Nella mia lunga esperienza con i migranti – ha concluso -, ho letto circa 15mila testimonianze, e la parola più ricorrente è ‘futuro’. Il loro e il nostro futuro passano quindi anche dall’incontrarci reciprocamente”. Durante l’iniziativa è intervenuto anche Luca Mariotti di CIDASC per spiegare il progetto “Migrantour” svoltosi di recente a Ferrara. Alcuni incontri del Convegno si sono svolti nella Sala del Sinodo del Palazzo Arcivescovile, fra cui quello sul tema “Rifugiati e richiedenti tra spazi urbani e non urbani: processi, dinamiche e modalità di accoglienza in Italia e nel mondo”, per ragionare sul rapporto tra città, urbano/non urbano e forme di vivere migrante dentro e fuori dal sistema di accoglienza. Maria Carolina Vesce, tra gli altri, ha presentato una ricerca-azione sull’accoglienza di persone transessuali e transgender titolari di protezione internazionale a Bologna. “Nello spazio della casa e nei luoghi della città le persone trans esprimono il loro genere ispirandosi a modelli socio-culturali diversi – ha detto Vesce – che l’antropologia può aiutare a comprendere ed esplorare. La sfida sta nel costruire politiche di intervento orientate ai bisogni, che tengano conto delle diverse esperienze di queste persone, dei loro desideri e delle loro aspirazioni”.

“La Ferrara contemporanea andrebbe raccontata dal punto di vista antropologico”

Giuseppe Scandurra dell’Università di Ferrara è stato uno dei tre coordinatori del Convegno di Antropologia Applicata svoltosi nella nostra città. “Ferrara – spiega a “la Voce”- ha una lunga tradizione legata alle scienze sociali, ma non è mai stata raccontata, nella sua contemporaneità, dal punto di vista antropologico”. Una mancanza alla quale lo stesso Scandurra, insieme ad altri colleghi, sta già cercando di porre rimedio: “io, ad esempio, sto portando avanti una ricerca sulla Ferrara degli anni ’70-’80 del secolo scorso”. Citiamo alcuni lavori virtuosi svolti sulla Ferrara contemporanea: nel 2017 UniFe, tramite Mimesis, ha edito il volume “Arte contemporanea a Ferrara”, a cura di Ada Patrizia Fiorillo, che, però, ripercorre il Novecento sotto l’ottica artistico-culturale, non etno-antropologica. Alfredo Alietti, sociologo di UniFe, il 12 dicembre scorso, nell’ambito del Convegno, ha anticipato alcune ricerche di un lavoro sul Grattacielo di Ferrara, e la sera stessa Ferrara Off ha ospitato il collettivo Wu Ming 1 per uno spettacolo dedicato al Delta ferrarese. Insomma, qualcosa si muove, senza dimenticare il progetto “Views 2.0. Narrazioni liquide”, la cui seconda edizione è in programma la prossima primavera.

Raccontare le periferie attraverso le voci di chi le vive: il 12 dicembre a Feltrinelli presentato il libro “Quartieri. Un viaggio al centro delle periferie italiane”, tra ricerca etnografica e graphic novel

feltrinelliAmbienti periferici di grandi città, spesso oggetto del racconto mediatico/politico come meri quartieri degradati e abbandonati. Due giovani ricercatori hanno invece deciso di raccontarne cinque (lo Zen di Palermo, San Siro a Milano, Tor Bella Monaca a Roma, Arcella a Padova e Bolognina a Bologna) incontrando direttamente chi ci abita, cercando di cogliere la loro relazione con gli spazi urbani che vivono. Da questo è nato il volume “Quartieri. Un viaggio al centro delle periferie italiane”, presentato il 12 dicembre in occasione del Convegno di Antropologia Applicata nella Libreria Feltrinelli di via Garibaldi a Ferrara. I curatori del volume corale, e autori di uno dei cinque racconti, Adriano Cancellieri (sociologo urbano all’Università IUAV di Venezia) e Giada Peterle (che insegna Geografia all’Ateneo patavino), ne hanno discusso con Roberto Roda, per tanti anni Responsabile del Centro Etnografico del Comune di Ferrara. Dopo un’approfondita analisi di quest’ultimo su vari aspetti del volume, ad esempio sul rapporto tra ricerca etnografica, fotografia e graphic novel, ha preso la parola Peterle, per raccontare il lavoro svolto insieme a Cancellieri ad Arcella. Il capitolo sul quartiere di Padova è nato unendo ricerca sul campo, interviste, ricerche etnografiche, partecipazione attiva a certe trasformazioni, e il racconto di tutto ciò attraverso il testo (Cancellieri) e il fumetto/graphic novel (Peterle). “Lo stile realistico usato – ha spiegato la ricercatrice – è stata una scelta ben precisa, come anche l’idea di inserirci noi stessi come personaggi nei racconti, la cui voce narrante è proprio quella del quartiere coi suoi abitanti. Abbiamo anche scelto il cammino come metodo, svolgendo molte interviste camminando, potendo così meglio incontrare le persone interessate”. “All’Arcella di Padova, dove io abito da anni e Giada ha abitato per diverso tempo – ha spiegato Cancellieri – abbiamo cercato di andare oltre due raffigurazioni speculari ma entrambe errate: quella che lo racconta come un quartiere solo degradato, e quello invece che lo presenta come sempre ricco ed effervescente di iniziative”. Un lavoro lodevole, che sarebbe importante svolgere anche in determinate zone della città di Ferrara.

Pubblicati su “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 20 dicembre 2019

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Morto il pittore “Fabbriano”, da Ferrara alla Grande Mela

14 Dic

Ivano Fabbri, 83 anni, era ammalato da tempo. Il ricordo di artisti e amici. Il suo talento scoperto da Oscar Kokoschka, poi le mostre in Italia e all’estero

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In molti, anche fra gli ex amici e colleghi, hanno appreso della sua scomparsa solo nella tarda mattinata. Perché Ivano Fabbri, in arte Fabbriano, classe ‘ 36, era noto, oltre che per la sua bontà, anche per il carattere estremamente riservato. Caratteristica che l’ha accompagnato, possiamo dirlo, fino all’ultimo.
La notizia del suo decesso, a 83 anni, avvenuto la notte scorsa, ha iniziato a diffondersi nelle prime ore di ieri. Fabbri, aggravatosi per una malattia che lo accompagnava da tempo, da alcuni mesi era ricoverato al “Betlem” di Ferrara. Le sue ultime mostre le ha ospitate Ferrara, città che non sempre ha saputo dedicargli lo spazio che meritava: subito dopo due esposizioni a Copparo (Villa Bighi e galleria A. Costa), nell’ottobre 2015 l’ultima personale, e tra febbraio e marzo 2016 una sua opera nella collettiva dedicata a S. Sebastiano, entrambe negli spazi della Banca Mediolanum di via Saraceno.
“E’ a inizio anni ’60 che diventa ‘Fabbriano’…”: a raccontarcelo è un suo amico di lungo corso, Giampietro Macalli, storico restauratore e corniciaio in via Ripagrande. “Dal 1957, quando avevo 15 anni, ho iniziato a lavorare nella bottega con mio padre Carlo. Ivano l’ho conosciuto nei primissimi anni ’60, quando ancora lavorava come operaio alla Montedison”. Dopo poco decide di licenziarsi per lavorare a tempo pieno come pittore. Da qui inizia a firmare col suo nome d’arte.
A fine sessanta, il grande pittore Oscar Kokoschka nota i suoi quadri in una galleria di Monaco di Baviera: decide quindi di segnalarlo, permettendogli così di esporre nel 1970 alla Galerie Eichinger in Maximilianstrasse. Esporrà anche in Spagna, in Austria, a Mosca, a New York (solo per citarne alcune), in importanti gallerie italiane, da Cortina a Matera, e, nel ’74, con una personale al Centro Attività Visive di Palazzo dei Diamanti.
“Ha precorso i tempi”, ci spiega il critico e curatore Lucio Scardino. “Volevo coinvolgerlo nel progetto espositivo collettivo su San Giorgio dei mesi scorsi, ma non sono mai riuscito a contattarlo, perché stava già molto male”. “Una persona squisita, e un artista non sempre compreso nella sua patria, Ferrara”, commenta invece Gianni Cerioli.
Fabbriano era, come detto, noto per il suo carattere schivo. “Ero – ci racconta ancora Macalli – uno dei pochi che poteva andare nel suo studio, una specie di scantinato in via Mentessi, vicino al Boldini. Lo ricorderò sempre come un uomo di una serietà e professionalità infinite”.
Fabbri lascia la moglie, Adriana Mastellari, scultrice. Sarà possibile dargli l’ultimo saluto domenica mattina e lunedì nella camera mortuaria di Cona. Alle 10.30 di lunedì il feretro verrà accompagnato verso la chiesa della Certosa per una breve cerimonia con inizio alle 11.
“Conoscere Fabbriano – scriveva nel 2014 Elena Bertelli, curatrice della mostra copparese all’Alda Costa – ha fatto maturare in me la consapevolezza che certi segreti, in Arte come in Natura, per quanto possano essere indagati, vogliono restare impenetrabili”. E così era Fabbriano, impenetrabile per carattere, ma che ha saputo lasciare in amici e colleghi un ricordo vivo e carnale, lo stesso che emanano le sue opere sempre all’insegna di un originale espressionismo.

Andrea Musacci

Pubblicato su “la Nuova Ferrara” il 14 dicembre 2019

De Nittis indaga la modernità, tra nebbie antiche e nuovi sfarzi

9 Dic

Fino ad aprile Palazzo dei Diamanti ospita la personale del pittore barlettano divenuto celebre a Parigi

di Andrea Musacci

Giuseppe De Nittis, Westminster, 1878Un viaggio agli albori della modernità, tra paesaggi incontaminati e maestose metropoli europee. A compierlo, in pochi decenni, è stato il pittore barlettano Giuseppe De Nittis (Barletta, 25 febbraio 1846 – Saint-Germain-en-Laye, 21 agosto 1884), “ospite” a Palazzo dei Diamanti a Ferrara fino al prossimo aprile. Si tratta dell’ultimo progetto espositivo prima dell’avvio del cantiere che riqualificherà le sale espositive e il giardino interno, e che obbligherà alla chiusura fino al 2021 o ’22. Un motivo in più per godersi questi capolavori, inaugurati il 1° dicembre nella mostra dal titolo “De Nittis e la rivoluzione dello sguardo”, organizzata in collaborazione con il Comune di Barletta, e a cura di Maria Luisa Pacelli, Barbara Guidi (conservatrici delle Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea di Ferrara) e Hélène Pinet (già responsabile delle collezioni di fotografia e del servizio di ricerca del Musée Rodin di Parigi). Un’interessante esposizione che mette bene in risalto la capacità dell’artista di indagare la nascita di un’epoca, lo sviluppo delle moderne città: anche per questo, le curatrici hanno scelto di porre l’accento sulla correlazione tra le opere di De Nittis – davvero innovative – e la tecnica fotografica.

Attraverso un raffinato e lirico realismo, l’esposizione di Diamanti inizia con paesaggi deserti, sfocati e malinconici, dove la nebbia li rende come cristallizzati, eterni, atemporali. La modernità incombe, però, inesorabile, e sarà lo stesso De Nittis a cercarla e raggiungerla: nel 1867 si traferisce a Parigi (mirabile l’opera “La traversata degli Appennini – Ricordo”) dove due anni dopo sposerà Léontine Lucile Gruvelle. La capitale francese, come quella inglese, sono rappresentate perlopiù in tele dove a dominare sono cieli piovosi, brumosi, grigi, d’argento e di fumo. Paesaggi anche campestri, immersi in una foschia perlacea, diafana – solo a tratti e timidamente rosacea o color ruggine. Fumo e nebbia, dunque, “fog&smog”, ad addormentare l’atmosfera urbana, diluendo edifici e persone, invadendone fin le figure, donne e uomini “distratti” – come in “Westminster” (1878) -, apparentemente incapaci di ammirare quella luce rossa fioca del tramonto, che in lontananza cerca di emergere come in una visione. “Formicolante città – cantava Baudelaire in “I sette vecchi” -, città piena di sogni, ove lo spettro in pieno giorno adesca il passante! […Città dove] ingigantite dalla nebbia le case avevan l’aria d’argini fiancheggianti un fiume gonfio”.

Giuseppe De Nittis, Il salotto della principessa Mathilde, 1883Proseguendo nel percorso insieme a De Nittis, man mano i paesaggi, urbani e non, si fanno, da una parte, sempre più rappresentativi del moderno – nelle architetture, negli abiti -, dall’altra, più nitidi e solari, segni forse dell’incontenibile ottimismo del progresso. In una Parigi non più nebbiosa, ma pur sempre umida e soverchiata di nuvole, o in una soleggiata Londra, è come se la moderna architettura urbana volesse imporsi allo sguardo, uscendo dalla foschia del passato, dell’antico, lasciandosi alle spalle quella romantica nostalgia che confonde, ottunde, quasi acceca, per presentarsi in tutta la sua sfacciata e disincantata novità, fatta di pesante perfezione. I cantieri, in alcune opere, sono segno di questa continua costruzione, di un erigere strutture su strutture, simbolo concretissimo della nascita e dello sviluppo della città moderna, lanciata verso il XX secolo: uno sguardo sulla sua ossatura – le impalcature -, sul suo germinare dall’acciaio e dal vetro. Ma quasi fosse una reazione, una fuga (o un semplice vezzo?), sempre dalla fine degli anni ’60 si nota in alcune opere del pittore barlettano un richiamo a certo naturalismo giapponese, etereo e sognante: i paesaggi, più o meno nevosi, con le loro montagne e laghi, e anche alcuni paesaggi urbani, sembrano voler smorzare la freddezza dell’urbanità di fine secolo, la sua industrializzazione, dando anche maggior risalto alla figura umana, con primi piani femminili. Volti e corpi di donne che sono centrali nella fase successiva, dalla seconda metà degli anni ’70, quella degli interni, raffinati ambienti artificiali (a parte le ricche composizioni floreali), fin sensuali, caldi in una penombra misteriosa, intorpidita e quasi sonnolenta. Sono donne dalle pelli biancastre, o meglio, perlacee, decisamente meno vestite rispetto ai gelidi dipinti di esterni, con eleganti abiti e corpetti alla moda, ciprie e ventagli, lussuose collane e graziosi bracciali.

Sfarzo che forse raggiunge il suo apice nelle opere ambientate negli ippodromi: dopo gli angusti e intimi spazi interni, un ritorno all’aperto, in ambienti ariosi ma dove la natura, sempre più domata, è rappresentata dai cavalli di razza in gara. L’equino, simbolo di glorie antiche è, nelle opere di De Nittis, trasformato in orpello, posto sullo sfondo di questa grande sceneggiata della modernità, in questa rappresentazione teatralizzata dove a interessare è l’eleganza e il compiacimento nello sfoggio dei propri ingombranti cappelli, dei propri abiti alla moda. Così, l’ultima parte dell’esposizione è dedicata alle realizzazioni “en plein air”, dove tutto si fa massimamente lucente e spensierato, ormai lontano dalle nebbie delle città polverose e indaffarate: ora a dominare sono i dolci pastelli luminosi e vivaci, quei colori “virginali” – oro, bianco e celeste – che pare quasi di vedere anche nel “bianco e nero” dei due commoventi filmati dei fratelli Lumière, del 1895 e del 1900: in uno, un padre imbocca il figlioletto neonato sotto lo sguardo amorevole della madre, nell’altro, una bimba seduta gioca con un gatto. Lo sguardo della tecnica, d’ora in poi, invaderà sempre più il reale: De Nittis l’aveva compreso, riuscendo a interpretarlo con originale sensibilità, dote tipica dello sguardo “rivoluzionario” dell’artista.

Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 13 dicembre 2019

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Sud, continua il grande esodo

2 Dic

Negli ultimi anni sono quasi 20mila gli insegnanti emigrati dal Sud al Nord Italia per poter lavorare: ne abbiamo incontrati alcuni impiegati nelle scuole di Ferrara, per farci raccontare come vivono questa situazione. Inoltre, in vista delle festività natalizie, nuova denuncia per l’aumento ingiustificato dei prezzi dei treni

esodoQuel che da un lato è un indubbio reciproco arricchimento, ormai perlopiù pacifico e consolidato, dall’altro rappresenta una sofferenza per tante persone, per chi deve partire e per chi rimane, lasciando spesso a centinaia di chilometri di distanza, mogli, mariti, figli, genitori e amici. E’ l’ormai crescente spopolamento che interessa diverse aree del nostro Meridione, in direzione Nord Italia, semplicemente per lavoro. Abbiamo scelto di parlarne raccogliendo un po’ di dati e alcune testimonianze di una categoria specifica, quella delle insegnanti “costrette” dal Sud a venire nella nostra provincia per poter lavorare nel mondo della scuola.

I dati

E’ a partire dagli anni ’90 che il fenomeno delle migrazioni dal Sud al Nord Italia sembra riprendere intensità dopo i grandi flussi degli anni ’50 e ’60 (dove i picchi furono tra il ’55 e il ’63 e tra il ’68 e il ’70). Gianfranco Viesti, economista all’Università di Bari, ha individuato il 1999 come l’anno della svolta, quando 160.000 persone si sono trasferite dal Mezzogiorno al Centro-Nord, mentre sono state circa 84.000 quelle che hanno compiuto il percorso inverso, con un saldo negativo dunque di oltre 75.000 unità. Dati poi confermati in modo costante negli anni successivi. Le regioni più colpite da questo “esodo” dei giorni nostri sono la Calabria, la Campania e la Basilicata. Una delle caratteristiche di questa nuova emigrazione è la forte componente giovanile. Dal Rapporto SVIMEZ 2019 su “L’economia e la società del Mezzogiorno”, emerge come le persone che sono emigrate dal Mezzogiorno sono state oltre 2 milioni nel periodo compreso tra il 2002 e il 2017, di cui 132.187 nel solo 2017. Di queste ultime, 66.557 sono giovani (50,4%, di cui il 33,0% laureati, pari a 21.970). “La ripresa dei flussi migratori rappresenta la vera emergenza meridionale, che negli ultimi anni si è via via allargata anche al resto del Paese”, è scritto nel Rapporto. “Sono più i meridionali che emigrano dal Sud per andare a lavorare o a studiare al Centro-Nord e all’estero che gli stranieri immigrati regolari che scelgono di vivere nelle regioni meridionali”. Leggendo i dati ISTAT sul 2017, sono le regioni del Centro-nord a registrare negli ultimi venti anni flussi netti sempre positivi provenienti dal Mezzogiorno: in particolare, l’Emilia-Romagna ha accumulato fino al 2017 un guadagno netto di popolazione di oltre 311 mila unità. Ancor più drammatici – emerge ancora dall’analisi della SVIMEZ – sono i dati che riguardano l’edilizia scolastica. A fronte di una media oscillante attorno al 50% dei plessi scolastici al Nord che hanno il certificato di agibilità o di abitabilità, al Sud sono appena il 28,4%. Inoltre, mentre nelle scuole primaria del Centro-Nord il tempo pieno per gli alunni è una costante nel 48,1% dei casi, al Sud si precipita al 15,9%. Con punte del 7,5% in Sicilia e del 6,3% in Molise.

Insegnanti con la valigia

Nel libro “In cattedra con la valigia. Gli insegnanti tra stabilizzazione e mobilità. Rapporto 2017 sulle migrazioni in Italia” (Donzelli editore, 2017), a cura di Michele Colucci e Stefano Gallo, viene spiegato come negli ultimi anni sono quasi 20mila gli insegnanti precari che si sono spostati da Sud a Nord, con una prevalenza della componente femminile, e con migrazioni di lungo raggio. Nella sola provincia di Salerno – per citare un dato emblematico e aggiornato a quest’anno – ci sono ben 7.360 docenti titolari o precari in servizio in Regioni del nord come Lombardia, Emilia Romagna, Toscana, Piemonte o Veneto.

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Col cuore sempre a casa

Nella nostra provincia nell’anno scolastico 2019/2020 per la scuola ci sono 3.434 posti comuni e 476 di sostegno. Sei insegnanti di origini meridionali residenti a Ferrara facenti parte di questo “esercito”, hanno deciso di raccontarsi a “la Voce”: sono cinque donne e un uomo, quasi tutti laureati, attualmente impiegati al CPIA (Il Centro per l’Istruzione degli Adulti), all’IPSIA di Ferrara e nella scuola primaria paritaria San Vincenzo. Insegnano italiano, matematica, religione, sostegno, sono equamente divisi tra di ruolo e precari. Hanno contratti che vanno dalle 18 alle 20 ore settimanali. Si sono trasferiti al Nord Italia prevalentemente negli ultimi anni, ma qualcuno già dal 2001, provenendo dalle province di Foggia, Taranto, Palermo e Agrigento. In quasi tutti i casi, il primo incarico in una scuola del nord è stato anche il primo in assoluto. Nei loro paesi d’origine hanno lasciato affetti, famiglia e amici. Una di loro si sfoga: “negli anni il distacco è diventato sempre più duro, così come la consapevolezza che se ci fossero state le possibilità lavorative anche dalle mie parti, probabilmente sarei già tornata al Sud, dove la vita scorre diversamente. Ma, di questi tempi, l’importante è tenersi stretto un lavoro ovunque e qualunque sia”. A casa riescono a tornare, nel migliore dei casi ogni 20 giorni, nel peggiore 1 volta all’anno, con tutte le sfumature intermedie. “Con gli anni per mia scelta sono rimasta a Ferrara – ci spiega un’altra insegnante -, ma le mie radici sono in Puglia. Le festività scolastiche per me significano tornare nel posto che considero ‘casa mia’ anche dopo piu di 20 anni, perché il legame con le proprie radici resta forte”.

Un salasso per tornare

Anche in vista delle imminenti feste natalizie, abbiamo domandato loro la spesa media che normalmente devono affrontare per tornare dai propri cari: si va dai costi più alti – in aereo nei periodi festivi circa 400 euro, in pullman 200, verso la Sicilia – a prezzi più contenuti ma comunque rilevanti, vista anche la frequenza media: 100-200 euro ogni volta. Nelle scorse settimane, Federconsumatori ha presentato un report sui salassi che i pendolari devono subire per poter tornare – che siano studenti o lavoratori – a casa durante le festività natalizie: “Il viaggio in treno da Roma a Reggio Calabria il 23 dicembre – ha denunciato – costa il 144% in più rispetto al costo applicato l’8 novembre”. Il biglietto Alta velocità di Trenitalia passa da circa 44 euro a 112 euro, con, tra l’altro, pochissimo guadagno di tempo. Secondo il report, per la tratta Roma-Bari (Alta velocità) il biglietto andata passa da 39,90 euro (weekend 8-10 novembre 2019) a 61,00 euro (Natale 23-12-2019 / 07-01-2020) quello del ritorno costa 61,00 euro invece di 52,90 euro; Firenze-Reggio Calabria (Alta velocità) passa da 105,80 euro a 136,00 euro, stesso prezzo per il ritorno (invece di 99,80 euro). Firenze-Bari (Alta velocità) passa da 80,80 euro a 111,00 euro, come per il ritorno (contro 87,80 euro). Considerando studenti e lavoratori che vivono a Bologna, per loro scendere a Bari costa 123,00 euro invece di 65,90, e lo stesso salire nel periodo natalizio costa come scendere (invece di 69,90 euro). Non solo, dunque, spesso “costretti” a trasferirsi al Nord per lavorare o per studiare – vista anche la rilevante emorragia di docenti e studenti universitari dal Meridione al Nord -, ma pure penalizzati – e non poco – nelle spese di viaggio, senza dimenticare i costi alti degli affitti. Tutte difficoltà che non rendono certo facile la vita di queste persone, vera struttura portante di tante nostre scuole. Concludiamo con le toccanti parole di un’altra insegnante che ha scelto, pur nell’anonimato, di confrontarsi con noi: “Sono trascorsi tanti anni e l’essere lontana dalla mia famiglia, dalla mia terra, dai miei affetti più cari non è semplice. Se oggi mi trovo a vivere a Ferrara, a lavorare come insegnante e ad avere incontrato nel mio cammino realtà e persone – ognuna delle quali mi ha arricchito la vita – è grazie all’opportunità della mia famiglia, dei miei genitori che mi hanno sempre appoggiata e sostenuta in tutte le mie scelte. Nonostante la nostra distanza e la mia mancanza sono sempre nei miei pensieri e nel mio cuore”.

Andrea Musacci

Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 6 dicembre 2019

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Insegnamento religione cattolica: servizio o ingerenza?

2 Dic

Confronto tra cattolici, evangelici e laici il 29 novembre sul pluralismo nella scuola pubblica

crocifisso-aula“Il cattolicesimo è una radice della nostra cultura, ma non l’unica: affidiamo allora l’insegnamento delle religioni a un non-cattolico…”. “La nostra idoneità, però, è sinonimo di affidabilità: l’IRC è scelto anche da non credenti o musulmani”. Sono alcuni stralci dell’interessante dibattito sul tema dell’educazione religiosa nella scuola pubblica organizzato dall’Associazione Evangelica CERBI di Ferrara lo scorso 29 novembre nella Biblioteca Ariostea di Ferrara. “Credere e non credere: libertà e pluralismo nella scuola”, il titolo dell’iniziativa, la seconda e ultima del breve ciclo dopo quello del 21 novembre sulla famiglia. Il primo intervento è stato di Lidia Goldoni (Presidente del Comitato Insegnanti Evangelici Italiani – CIEI), che ha citato gli articoli 7 e 8 della nostra Costituzione, dove sono affrontati i rapporti tra Stato e Chiesa Cattolica e il tema dell’uguaglianza delle altre religioni davanti alla legge. “Quest’ultime – ha detto – sono poste in posizione di svantaggio rispetto a quella cattolica”. Ingiustizia ancor maggiore oggi, “con l’aumento di credenze e visioni, religiose e non. Lo Stato dovrebbe invece fungere da arbitro imparziale, difendendo il pluralismo, non finanziando l’ora di religione cattolica, e ponendola almeno fuori dall’orario curricolare, rendendola così davvero facoltativa. Invece – ha proseguito – si ‘appalta’ alla scuola pubblica la formazione delle nuove generazioni, compito che spetterebbe innanzitutto alla famiglia”. Tornando all’ora di religione cattolica, la relatrice ha proposto tre spunti di riflessione. Il primo: “è vero che Italia e Europa hanno radici cristiane, e che l’arte e la cultura sono intrise di cattolicesimo. Ma quest’anima cristiana e cattolica si apprende già studiando le altre materie” (storia, geografia, storia dell’arte, letteratura ecc.). Secondo: ”il cattolicesimo è una radice della nostra cultura, ma non l’unica: lo sono, ad esempio, la classicità greca e quella latina, o il giudaismo, la cultura araba, le altre confessioni cristiane”. Terzo: “perché non pensare a un non-cattolico che possa insegnare le religioni?”. Paolo Gioachin (Insegnante di Religione Cattolica) ha invece citato l’accordo del 1985 tra Stato e Chiesa che modifica il Concordato, in particolare l’articolo 9, comma 2, dov’è scritto che lo Stato “continuerà ad assicurare, nel quadro delle finalità della scuola, l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche”, garantendo però “il diritto di scegliere” o no questo insegnamento. In questo modo,“si rispettano pluralismo e laicità”, dando vita a quella scuola “aperta a tutti” di cui parla l’art. 34 della Costituzione. Inoltre, ancora per Gioachin, “l’IRC risponde a un servizio per gli alunni, per lo sviluppo della persona umana: la religione va conosciuta, anche oggi. Riconosco – ha poi aggiunto -, che non sempre esistono attività alternative per chi non sceglie l’ora di religione cattolica”. Tre le riflessioni finali di Gioachin: “se è vero che l’IRC sembra la ‘lunga mano’ della Chiesa nella scuola pubblica, quindi un’ingerenza, dall’altra la richiesta di ‘idoneità’ degli insegnanti è garanzia di affidabilità”. Seconda: “l’IRC è un ’gancio’ tra dentro e fuori la realtà scolastica”, e comunque “non è frequentata solo da cattolici” ma anche da non credenti o appartenenti ad altre religioni. Infine: “è possibile ragionare insieme su come ampliare/riformare l’IRC, in vista dei mutamenti demografici della società, soprattutto in termini di pluralismo religioso?”. L’ultimo intervento è spettato a Mauro Presini (insegnante elementare): “è stato un insopportabile gesto di propaganda – ha esordito -, una strumentalizzazione, il fatto che la Giunta di Ferrara abbia comprato crocifissi da mettere nelle scuole. E non è sufficiente la risposta ’si è sempre fatto così’, perché una scelta può essere sbagliata, e quindi va modificata, e perché la scuola e la società sono molto cambiate negli ultimi decenni. Credo sia molto importante – sono ancora sue parole – che nella scuola si parli di religioni, ma sapendo che esistono diverse spiritualità”.

Andrea Musacci

Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 6 dicembre 2019

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