Archivio | settembre, 2022

Corpo e parola, intreccio di contraddizioni: il film “The Grand Bolero”

26 Set

“The Grand Bolero” di Gabriele Fabbro ha vinto il recente Ferrara Film Festival. Desiderio e violenza nel rapporto tra due donne

di Andrea Musacci

«Ogni cosa e ogni luogo appaiono nella loro veste più vera, ti toccano in qualche modo più da vicino – così come sono: splendore e miseria» 

(Giorgio Agamben, “Quando la casa brucia”) 

Le mani e la bocca. L’eterno contrasto tra l’energia corporale e la forza delle parole. Due forme di relazione che possono tramutarsi in violenza e sopraffazione. Temi ancestrali ma che col diffondersi della pandemia da Covid-19 hanno assunto un significato maggiore: le mani coperte dai guanti o dal gel, la bocca coperta dalla mascherina. La difficoltà o impossibilità di toccare l’altro.

Su questo si gioca la drammatica vicenda narrata nel film “The Grand Bolero”, diretto da Gabriele Fabbro e premiato al recente Ferrara Film Festival con il premio per la miglior attrice (Lidia Vitale) e per la miglior opera d’autore. Film proiettato lo scorso fine settimana al Cinema San Benedetto e che prossimamente arriverà all’UCI Cinemas. Ambientato per gli esterni nel Santuario della Madonna della Pace alla Rocchetta (provincia di Lecco) e per gli interni nella cappella dell’ospedale di Lodi, il film racconta di una restauratrice d’organi, Roxanne (Lidia Vitale), donna di mezza età che, nonostante il lockdown del 2020, decide di proseguire il proprio lavoro, vivendo nella chiesa abbandonata, custodita solo da un sacrestano, Paolo. Ma irromperà una giovane, Lucia (Ludovica Mancini), appena cacciata, assieme al fratello, di casa dal padre, e invitata proprio da Paolo a far da assistente alla dura e cinica Roxanne. Il rifiuto ostile di quest’ultima nei confronti della giovane si tramuterà in attrazione morbosa.

Dall’indifferenza alla rivelazione

Pur nel momento più difficile della pandemia, quello iniziale, la paura di Roxanne del contatto deriva da altro, da una sua incapacità profonda di esprimere sé stessa, di lasciarsi “toccare”. Una mancanza – si capirà – legata a un rapporto difficile con la madre, e che la porta a esagerare l’aspetto verbale, fatto di toni duri e urlati. Ma lei, indifferente alle restrizioni sanitarie, oltre a non indossare la mascherina, impedirà inizialmente alla giovane ogni contatto: con lei, nemmeno nella gioia per un organo che rivive, e con i suoi amati strumenti musicali. «Non toccare il mio organo!», si sente rimproverare più volte Lucia. 

Solo dopo che quest’ultima le avrà dimostrato di poterle essere d’aiuto, l’atteggiamento della donna cambierà. Le mani di Lucia saranno strumento potenziato di comunicazione, di desiderio. Desiderio che si scatenerà in Roxanne, prorompente, cieco. Proprio mentre Lucia suona l’organo, si rivela definitivamente alla donna: quest’ultima la ammira turbata e rapita, ma non vuole mostrarlo. Allora, per la prima volta, per nascondersi indossa la mascherina, quasi a voler celare il proprio desiderio, l’affiorare dell’emozione e del turbamento sul suo volto.

Ma il rivelarsi anche fisico della passione, ben presto si tramuterà in rabbia e violenza.

Il corpo vince

La lotta finale tra le due è, infatti, un intreccio inestricabile di amore e sopraffazione, attrazione e repulsione. Tutto, in quegli istanti, è detto dal corpo – dalla mimica facciale, dalle mani, dall’intera corporeità. Portate all’estremo, forza e dolcezza sembrano annullarsi a vicenda. Ma non è così: come scrive Luce Irigaray (“Elogio del toccare”), e lo possiamo applicare tanto per Roxanne quanto per Lucia, ognuno di noi resta diviso «tra Dioniso e Apollo (…), tra una divinità fedele alla propria naturale energia, ma che non sa come incarnarla e oscilla tra una sua mancanza e un suo eccesso, e un’altra divinità che preferisce confinarsi in un’apparente bellezza, all’interno di una forma ideale», in questo caso musicale. Nel film le parole sono perlopiù rade e fredde. Quelle sincere non possono essere udite dallo spettatore, sono come silenziate dalla distanza, forse a significare la loro mancanza di positività. È il corpo ad avere la meglio. 

Ma nel film emerge anche un altro senso.

Nessuna illusione

Non c’è posto, in questa chiesa sconsacrata ma ugualmente carica di sacralità, mistero e bellezza, per la vita medicalizzata. Lì le passioni sono quelle di sempre: amore, gelosia, violenza, desiderio dell’altro. La carne e il sangue riprendono, dunque, il sopravvento sulla razionalità, sulla volontà di dominare tutto – corpi, spazi, parole. L’unica distanza davvero reale, nel film, è tra mondi diversi, l’estraneo è quello che irrompe e stravolge, senza bisogno di parole, nella solitudine melanconica e sovraterrena di una chiesa abbandonata.

Nel film non si può illudere, e autoilludersi, che “andrà tutto bene”. Ognuno dei protagonisti è solo, e rimarrà solo: solo con i propri mostri, col proprio passato, solo nella lotta tanto contro i propri impulsi quanto contro il desiderio di Altro. Il toccare fisicamente l’altro, pur avvenendo, si rivelerà, dunque, un atto “impossibile”: Roxanne non uscirà forse mai del tutto dallo schema del possesso, e la stessa Lucia rimarrà sola. Sola ma più libera e consapevole.

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 30 settembre 2022

UIL Ferrara, un volume per  non perdere la memoria

26 Set

“Ritratto di un sindacato” è il nome dell’album fotografico appena edito. Storia e simboli di una comunità che si rinnova

È in un bar del centro di Ferrara, nel gennaio del 1950, che inizia la lunga storia della UIL Ferrara. In questa realtà fatta di tante lotte e vertenze si inserisce il volume, appena edito, intitolato Ritratto di un sindacato.  Album fotografico della UIL di Ferrara (2009-2022) (Edizioni Guardamagna), curato da Roberto Roda e Massimo Zanirato con la collaborazione di Emiliano Rinaldi. Volume che si pone come primo passaggio per un riordino archivistico dei documenti, in particolare dei materiali fotografici, del sindacato ferrarese. Le immagini, infatti, in buona parte provengono dagli archivi di Roda (etnografo e fotografo ferrarese), di Massimo  Zanirato, Segretario generale UIL Ferrara, e della Camera Sindacale Territoriale.

La pubblicazione è stata presentata la mattina di mercoledì 21 settembre durante il 18° congresso provinciale della UIL, tenutosi all’Hotel Lucrezia Borgia di Ferrara. Congresso che ha decretato lo scioglimento della UIL Ferrara e la sua confluenza nella UIL-Emilia, che unirà le diverse UIL regionali.

Una vicenda collettiva, quella della UIL, nata nell’alveo del sindacalismo riformista, fin da subito legato – pur nella sua autonomia – alla cosiddetta “sinistra laica” (Partito Socialdemocratico, Partito Socialista e Partito Repubblicano), e che ha come sua figura di riferimento Bruno Buozzi, sindacalista e politico socialista originario di Pontelagoscuro, ucciso dai nazisti nel 1944 a Roma, in quello che è chiamato l’Eccidio de La Storta.

Stare fra la gente, ascoltarla, guardarsi negli occhi, tanto nelle assemblee quanto nei picchetti o nei cortei: questa è l’anima di un sindacato, pur nell’epoca dei social, della comunicazione virtuale, e, almeno negli ultimi due anni, del distanziamento sociale. Su questo riflette il Segretario Zanirato, ed è lo spirito che pervade l’intera pubblicazione. Un lavoro corale di una comunità che ha scelto di mettere un punto fermo in una svolta importante della propria storia, consapevole dell’importanza di non dimenticare l’identità – per quanto continuamente bisognosa d’essere rinnovata (ma non stravolta) -, dunque le proprie radici e i propri valori fondativi. E, al tempo stesso, di ringraziare i veri protagonisti delle vicende che l’hanno contraddistinta: le tante lavoratrici e lavoratori, i tanti delegati e dirigenti che ancora oggi, in una fase storica di profonda crisi della rappresentanza – sindacale e non solo -, spendono la propria vita al servizio di una società più libera e giusta, partendo dal mondo del lavoro.

Risulta dunque di particolare importanza la presenza nel volume, oltre alle tante ed emozionanti fotografie, di testi esplicativi delle forme di partecipazione del sindacato: le assemblee delle lavoratrici e dei lavoratori, gli attivi dei delegati, i direttivi o consigli. Ma non solo: i tanti dibattiti, convegni e tavole rotonde per diffondere la cultura del lavoro, gli scioperi e le manifestazioni, non solo per il lavoro, ma ad esempio per la pace e contro le mafie. E, infine ma non meno importante, l’attenzione dei curatori anche per l’aspetto formale-comunicativo. Perché la storia di una comunità, per essere vissuta, trasmessa e rievocata, non può mai prescindere da un linguaggio condiviso e da un solido universo simbolico e rituale.

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 30 settembre 2022

Zanzara, nuovo spazio a Ferrara per l’arte contemporanea

20 Set

In via del Podestà si parte con le mostre di David Grigoryan ed Elisa Leonini

Un nuovo progetto artistico sta per nascere nel cuore di Ferrara: si tratta di “Zanzara arte contemporanea”, galleria ideata da Giulia Giliberti e Sara Ricci, che verrà presentata venerdì 23 settembre. Il luogo – via del Podestà, 11-11/A e le ex scuderie al 14/A – ha già conosciuto, alcuni anni fa, un tentativo simile: la Fabula Fine Art aperta da Giorgio Cattani nel 2016.

L’obiettivo delle due curatrici – con un’esperienza alle spalle anche come coordinatrici di festival d’arte pubblica, a eventi e mostre del settore, nella comunicazione di mostre ed eventi culturali – è di sviluppare mostre e progetti con artisti nazionali e internazionali, riavvicinando e riconnettendo l’arte contemporanea al tessuto urbano e sociale della città. Un programma ambizioso. Il nome dice già di questo legame col nostro territorio, ma soprattutto richiama una definizione dell’artista Joseph Beuys: «l’arte è una zanzara dalla mille ali». Mentre lo spazio al civico 11-11/A è un “cubo bianco” che ospiterà principalmente mostre pittoriche e fotografiche, quello al civico 14/A è uno spazio meno convenzionale, che porta le tracce del suo passato, una sfida per le curatrici e per gli artisti invitati a confrontarsi con la sua natura, pensato per progetti installativi, performativi, per eventi e proiezioni.

La galleria inizia la propria avventura con due mostre visitabili dal 27 settembre (il 23 inaugurazione ad invito) al 30 dicembre: si tratta di “Odessa Sole mio” di David Grigoryan, mostra fotografica dedicata alla città ucraina, raccontata attraverso gli scatti del fotoreporter georgiano classe ’87, che negli anni ha catturato scene di vita vissuta per le strade della sua città, prima e durante la guerra tuttora in corso. Il percorso comprende una selezione di 23 fotografie che Grigoryan ha scattato in circa 10 anni e un video realizzato in questi giorni a Odessa.

L’altra esposizione è “Anomaliae” di Elisa Leonini, artista ferrarese classe ’80 (nonché titolare della cattedra di Discipline Plastiche e Scultoree presso il Liceo Artistico Dosso Dossi di Ferrara), la quale, partendo da ingrandimenti di frammenti di dischi in vinile e bachelite, realizzati al microscopio elettronico presso il Centro di Microscopia Elettronica dell’Università degli Studi di Ferrara, realizza immagini, suoni e sculture che mutano in paesaggi e territori sconosciuti.

Le mostre sono visitabili il martedì e mercoledì dalle ore 10 alle 12 e il giovedì e venerdì dalle ore 11 alle 18. Nell’ambito del Festival di “Internazionale”, venerdì 30 settembre alle ore 15 è in programma una visita guidata alla mostra “Odessa Sole mio” con le curatrici del progetto Giulia Giliberti e Sara Ricci, e l’introduzione di Michele Esposito, corrispondente ANSA, in Ucraina a marzo scorso e collegamento diretto tra l’artista e la galleria d’arte. Ingresso libero fino a esaurimento posti. Consigliata la prenotazione inviando una mail a info@zanzaraartecontemporanea.it

Andrea Musacci

Articolo pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 23 settembre 2022

Ritrovarsi e riconoscersi: la politica muore senza luoghi “caldi” dove viverla

20 Set

La nobile arte della politica, fatta di passione e concretezza, sempre più “pervertita” dai tweet e dai talk show, e ormai rimpiazzata dalla tecnocrazia. Spunti per non abbandonarci alla corrente dell’antipolitica e del disincanto assoluto

di Andrea Musacci

Forte è la tentazione di abbandonare la battaglia, di farsi travolgere dalla corrente ipermodernista che investe da anni anche il mondo politico, con i suoi dogmi sul primato della comunicazione, sul relativismo estremo di idee e valori, sul dominio dei sondaggi e del marketing.

Ma nella settimana che deciderà la nuova composizione del nostro Parlamento, vale la pena di abbozzare alcuni appunti che vadano oltre la mera “competizione” elettorale (espressione, non a caso, figlia di una società come la nostra fondata sul culto dell’agonismo).

Partiamo da un po’ di dati: lo scorso 9 settembre, le ultime previsioni danno l’astensione alle Politiche del 25 settembre tra il 33 e il 41%. Numero che probabilmente sarà più basso ma che in ogni caso dice di un calo continuo della partecipazione elettorale alle elezioni parlamentari: tra il 1944 e il 1969 era del 92,4%, tra il 1970 e il 1992 del 90,4%, tra il 1993 e il 2008 dell’82,9%. Infine, tra il 2009 e il 2021 è arrivata al 74%. Un altro dato, dell’aprile 2021: i primi cinque partiti in Italia insieme a livello nazionale contano circa 700mila iscritti. Sembrano tanti, ma non sono granché: Democrazia Cristiana e Partito Comunista Italiano nei momenti di massima partecipazione sommati contavano quasi 4milioni di tesserati. Senza contare gli altri partiti. Ma più che un fatto di numeri, si tratta di qualcosa di molto più profondo, che riguarda la trasformazione antropologica che la società italiana, e in generale l’Occidente, vive da mezzo secolo. Trasformazione che ha sbriciolato i partiti, per loro natura garanzia di una presenza, di una continuità, di un’appartenenza. Tutti concetti inutili nell’universo nichilista del digitale e dell’istantaneo.

Né luoghi né simboli

La società dei consumi – difficile negarlo – ha lentamente eroso un sistema simbolico che rese naturale la nascita di comunità “forti” come i partiti. Pur coi loro rischi e le loro contraddizioni – conformismo interno, ideologismo -, i partiti hanno rappresentato delle vere e proprie case della democrazia, della partecipazione – fisica, diretta (meglio specificarlo) -, del riconoscimento reciproco nella condivisione di una passione, di una storia, di una sorte.

Nei decenni i partiti sono scomparsi perché se da una parte si è diffuso un naturale desiderio di autonoma ricerca di una propria identità, dall’altra gli unici riti e simboli ammessi sono quelli legati al mondo del consumo. Fare politica in una comunità vuol dire, invece, la presenza di sedi fisiche, di riunioni anche lunghe, di confronto, di discussione, di costruzione di progetti. La condivisione di qualcosa che è molto più del mero aspetto amministrativo. Significa riconoscersi sodali sotto un simbolo, con una storia alle spalle a tracciare un solco per il futuro. Non esistono democrazie digitali, diciamolo chiaramente: la democrazia si fa a contatto con gli altri, nella conoscenza diretta, guardandosi negli occhi.

Se – come ci dicono da decenni – non esistono più verità sovrastoriche, come possono esistere storie politiche da costruire, che abbiano un passato e un avvenire? Tutto è ridotto alla miseria del presente che non riesce a vedere oltre sé stesso. Tutto quindi si sfibra, perde consistenza, smarrisce il senso. 

«Quel che resta dopo tante negazioni – scriveva Del Noce – è l’affermazione del totale egocentrismo; totale nel senso che tutto acquisisce significato soltanto in ciò che può diventare strumento per l’affermazione dell’io»1.

La toppa peggio del buco

Annientato quell’universo simbolico in cui si poteva pronunciare un “noi” vero, venuta meno quell’identificazione calda, ben poco è rimasto. Surrogati della vera politica, fautori di un falso riconoscimento: il leaderismo (più che mai marcato), l’assemblearismo digitale, le primarie. Tutte riproduzioni degli stessi meccanismi comunicativi consumistici. Si presentano i candidati come fossero protagonisti di un reality. Ci si reca al seggio delle primarie come a un supermarket. Davanti a una tastiera, l’istinto e la solitudine sono gli unici a vincere. Nulla rimane, se non l’illusoria sensazione di aver compiuto un atto “politico”. Non c’è costanza né presenza, men che meno impegno. Non ci si assume nessuna reale responsabilità nei confronti della propria comunità. L’antipolitica ha dato il colpo di grazia alla politica, non producendo nessuna alternativa reale e aprendo, anzi, praterie alla deformazione della politica in tecnocrazia.

Comunicazione ipertrofica

Se il messaggio politico dev’essere immediato, non può che rimetterci la capacità di linguaggio e di elaborazione delle persone. Non possono più esistere questioni complesse: questa ipertrofia della comunicazione va a scapito del pensiero lungo e profondo. In una società come la nostra, che ormai per luogo comune chiamiamo “complessa”, tendiamo invece a semplificare ogni idea, ogni storia, a banalizzare ogni identità. Il mondo comunicativo contemporaneo finisce per diventare il regno dell’effimero: non si tratta, infatti, di demonizzare l’importanza dell’immagine e della sua cura, ma di denunciare come questa abbia finito per divorare tutto il resto: capacità di andare in profondità, di andare oltre l’immediatezza di un logo.

Ritrovare un’anima e una dimora

Prendersi il tempo per pensare, per discernere insieme, creando collettivamente una storia. Questa è, ancora, l’unica possibilità per uscire dalla delegittimazione di tutto ciò che è politica. Non si tratta di riesumare qualcosa del secondo Novecento, ma nemmeno di demonizzarlo nel suo esser stato tempo di conflitti e confronti autentici, e più che mai legati alle vite delle persone. 

C’è bisogno, quindi, di nuove case politiche, nelle quali libertà, memoria ed esperienza convivano in equilibrio. «Abbiamo bisogno di una dimora – scrive Bellamy -, di un luogo dove ci possiamo ritrovare, un luogo che diventi familiare, un punto fisso, un riferimento intorno al quale il mondo intero si organizzi»2.

Abbandoniamo tweet e talk show: torniamo a una politica con un’anima, una visione, una radice, uno spirito comunitario. Fondato – perché no – su uno spirito sinodale. In questo, ancora una volta, abbiamo tanto da imparare dal cammino della Chiesa.

1 Augusto Del Noce, Modernità, 1982.

2 François-Xavier Bellamy, Dimora, 2018.

Articolo pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 23 settembre 2022

Lutto e apparizione: la mostra di Maria Chiara Bonora

12 Set

di Andrea Musacci

Non si può «accettare la morte come evento in sé dotato di senso. Non si può. Il pane, la luce, la verità, l’amore sono in sé dotati di senso – la morte dell’uomo no». 

(R. Guardini, “Le cose ultime”)

Colmare una mancanza, dare corpo e senso a un’assenza irrimediabile. È il tentativo compiuto dalla fotografa Maria Chiara Bonora dopo la perdita della madre dieci anni fa. Un distacco non rimarginabile, ma a cui l’artista ha cercato – cerca ancora – di dare forma e profondità. Il frutto di questo lavoro interiore è la mostra di foto dal titolo “Non ho mai smesso di respirare”, inaugurata sabato 10 settembre alla Galleria del Carbone di Ferrara e visitabile fino al 25 di questo mese. Ed è la parte più abissale e misteriosa di lei a chiederglielo: quel mondo dei sogni sempre imprevedibile nei tempi e nel linguaggio, e quell’altro regno, della memoria, non meno imponderabile.

In una delle foto (immagine sopra), un volto di donna coperto da un velo sembra segnato dalle ingiurie della morte. Volto (della madre, ma della figlia stessa) che è inganno e consolazione, certezza e fantasia. È quindi con l’immagine che l’artista prova a colmare questo enorme silenzio del distacco ultimo. Tenta di ridare, o di riconoscere, realtà a ciò che è velato ai nostri occhi («Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo a faccia a faccia» – 1Cor 13,12). L’immagine fotografica è di per sé inaspettata epifania: come scrive Agamben, in ogni foto vi è l’esigenza «di cogliere il reale che si sta perdendo per renderlo nuovamente possibile» (“Il Giorno del Giudizio”). Nel caso di Bonora, l’apparizione ha una forza tale da voler diventare resurrezione, pur simbolica. Un tentativo di risposta alla grande domanda sulla morte e sull’eterno e, forse, anche alla supplica, dolce e oscura, della madre.

Articolo pubblicato su “La Voce” del 16 settembre 2022

La Voce di Ferrara-Comacchio

Addio a Gianni Deserri, amato scultore ferrarese

12 Set

Nel pomeriggio di giovedì 8 settembre è deceduto improvvisamente Gianni “John” Deserri, 74 anni, stimato scultore, pittore e docente ferrarese. Un infarto non gli ha lasciato scampo mentre si trovava in vacanza con la famiglia a Cupra Marittima nelle Marche. Ne da notizia il Club “Amici dell’Arte” – Galleria “Il Rivellino” di Ferrara, di cui Deserri era membro del Direttivo (da oltre 20 anni) e ne dirigeva il Laboratorio di Scultura dell’Accademia “San Nicolò”, del quale era docente dal 1987. Deserri lascia la moglie Luisa e il figlio Dario, scrittore residente a Berlino.

Gianni Deserri aveva frequentato a Bologna il Liceo Artistico Statale conseguendo il diploma di maturità artistica, proseguendo poi gli studi all’Accademia, nella sezione Scultura. All’età di 24 anni diventa prima assistente e poi professore del Liceo in cui è stato studente, trasferendosi successivamente all’Istituto Statale d’Arte per oltre trent’anni. Artista poliedrico, nella sua carriera oltre alla scultura si è cimentato anche nella pittura e nel disegno tecnico, fino all’illustrazione. Fra i premi ricevuti, il Premio “Vittorio Sandoni” (Bologna, 2003), il 6º Premio Nazionale “Il Percorso della Memoria” (Ferrara, 2010), il Premio d’arte contemporanea “Il Segno” (Galleria Zamenhof, Milano, 2012) e il Premio Lucio Fontana (Torino, 2012).

Andrea Musacci

Articolo pubblicato su “La Voce” del 16 settembre 2022