Archivio | Maggio, 2023

L’ebraismo ferrarese tra memoria e futuro

23 Mag

Asti, 16 aprile 1938: al centro Ermanno Tedeschi con la moglie Magda Tedeschi. Al fianco di Ermanno la sorella Aurelia con il marito Guido Debenedetti.  Seduto, con le mani sulle ginocchia, Marcello Tedeschi con la cugina Alda Debenedetti Jesi

“Una racchetta da tennis racconta. Ricordi familiari della Ferrara ebraica” è il nuovo libro di Ermanno Tedeschi: aneddoti e riflessioni

di Andrea Musacci

Tutta la vita in una racchetta da tennis. È possibile? Forse sì. Ma, si badi bene, non si intende concentrare un’intera esistenza dentro un pur nobile gioco ma, in questo, vedere l’essenza della vita vincere sulla morte, la compagnia, la gioia e la condivisione trionfare sullo spirito demoniaco. Insomma, la fede e la speranza avere l’ultima parola nonostante l’immagine tragedia della Shoah.

Questo ha voluto trasmetterci Ermanno Tedeschi, curatore, critico d’arte e scrittore torinese di origini ferraresi, nel suo nuovo libro “Una racchetta da tennis racconta. Ricordi familiari della Ferrara ebraica” (Silvio Zamorani editore, Torino, 2023). 

Il libro è stato presentato il 22 maggio al MEIS con interventi di Umberto Caniato (Presidente del Circolo Marfisa), Luciano Meir Caro (Rabbino capo di Ferrara), Dario Franceschini (Presidente Giunta elezioni e  Immunità parlamentari), Marcello Sacerdoti, Amedeo Spagnoletto (Direttore MEIS) e Silvio Zamorani (editore).

LA MEMORIA

Le radici estensi di Tedeschi sono nel ramo paterno: il padre Marcello si era trasferita da giovane a Torino per esercitare la professione di medico. Nel capoluogo piemontese a fine anni ’50 ha conosciuto e poi sposato Elsa Momigliano: dal loro amore, oltre a Ermanno sono nati Lino e Arturo. «Le radici ferraresi ereditate da mio padre sono sempre state molto forti in me e in tutta la mia famiglia», spiega Ermanno Tedeschi. Così, il fine settimana era rituale trascorrerlo a Ferrara: «allora non esisteva il Freccia Rossa e il viaggio era lungo, ma la gioia di vederla e respirare l’aria della grande casa di via Bersaglieri del Po facevano dimenticare ogni fatica. Durante quelle visite, non mancavamo mai di entrare nel negozio di giochi, in sinagoga, di andare al ristorante, da Giovanni o alla Provvidenza, e, naturalmente, al cimitero ebraico per recitare una preghiera sulla tomba del nonno Ermanno».

Ma il racconto più affascinante nel libro è quello di Marcello Tedeschi, padre di Ermanno, morto nel 2020, figlio di Magda ed Ermanno.

Marcello raccolse le proprie memorie dieci anni fa: ricordi amari ma sempre innervati da una tenacia che lo ha portato a superare ogni sorta di difficoltà. A partire da quel maledetto anno 1938: «eravamo in vacanza a Rimini quando fu annunciata l’imminente promulgazione delle leggi razziali. Stupore, smarrimento, tristezza, previsioni fosche. Era un fulmine a ciel sereno. In quegli anni abitavamo a Venezia (…). Comunicarono a mio padre che era stato sollevato dal suo lavoro per telefono. Andò quindi nel suo ex ufficio alla stazione Santa Lucia per gli adempimenti del caso. Alcuni dei colleghi avevano gli occhi lucidi. Io ho frequentato il liceo fino al fatidico 1938. Un giorno ho trovato nel grembiule nero un biglietto con sopra scritto “S. P. Q. E.” (Sempre Porci Questi Ebrei)». Poi, «da Venezia ci trasferimmo a Ferrara nella vecchia residenza di via Bersaglieri del Po 31. Per anni, fino alla fine del 1943, abbiamo trascorso una vita grigia di apartheid». 

Tedeschi racconta di quando fortunosamente scampò al rastrellamento dei poliziotti italiani e dei militari tedeschi. E poi la famiglia che si rifugia nella cascina di Porotto, dove ascoltano Radio Londra, poi a Sabbioncello San Pietro grazie all’aiuto di un dirigente fascista locale, e poi a Loano nel savonese, a Demonte vicino Cuneo, in una drammatica e avventurosa fuga per raggiungere la Svizzera. E quel bigliettino gettato dal carro bestiame dal fratello di Marcello, Arrigo, che purtroppo non ce la farà e morirà ad Auschwitz nell’ottobre ‘43.

Marcello e la sua famiglia, invece, riuscirono a tornare in Italia, prima a Firenze in un campo per rifugiati, poi a Ferrara.

IL FUTURO

Sulla Comunità ebraica ferrarese nel libro emergono alcuni spunti interessanti. «Dopo la Liberazione – scrive l’autore -, la comunità ebraica ferrarese è decimata e in totale declino. Oltre a quelli uccisi barbaramente dai nazi-fascisti molti avevano lasciato la città prima del 1938 per trovare lavoro altrove o all’estero. Oggi la comunità ebraica di Ferrara conta circa ottanta iscritti tra cui alcuni che vivono a Cento, Forlì, Lugo e Ravenna o in altre città in Italia e all’estero. Il tempio viene regolarmente aperto per le funzioni di Shabbat e delle festività principali anche se si fatica a raggiungere il numero di dieci uomini necessario per la celebrazione delle preghiere». 

E l’avv. Marcello Sacerdoti, figlio dello storico Rabbino Simone, spiega: «il futuro purtroppo non è esaltante, i numeri diminuiscono, non ci sono giovani, e il destino pare segnato. Desidero però evidenziare che già in passato in piccole comunità si è assistito all’immigrazione di ebrei provenienti da Paesi dove venivano discriminati (per esempio Egitto, Libia). (…) Quando ho ricoperto la carica di consigliere mi sono “dannato” per far venire un paio di famiglie a ripopolare la comunità. Purtroppo non si è arrivati a niente. (…) Il MEIS, un paio di famiglie (anche all’estero, vedi Venezuela, Argentina, ex Jugoslavia, Ucraina) potrebbero dare nuova linfa ed entusiasmo». 

L’attuale Rabbino Capo Luciano Meir Caro, invece, riflette così: «C’è un futuro per le piccole comunità? La risposta non è facile. Ritengo che negli anni passati qui, analogamente a quanto accade in comunità grandi e piccole, il problema non è mai stato affrontato come esigenza prioritaria. Inoltre nel tempo sono venuti a diminuire drasticamente i numerosi studenti israeliani ed ebrei che frequentavano la nostra comunità. La partecipazione alla vita religiosa è scarsa ma in linea con quanto avviene altrove. (…) La speranza è che l’afflusso di qualche famiglia ebraica da altre comunità concorra a garantire un futuro a un’istituzione prestigiosa che ha dato importanti contributi alla cultura italiana».

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 26 maggio 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

Wish for a baby: figli, maternità… Ma manca l’amore (non i profitti)

23 Mag

Due avventori nello stand di Cryos (“World’s largest Egg Bank and Sperm Bank”, così si presenta) alla fiera “Wish for a baby” di Milano (foto tempi.it)

Confermati gli allarmi sulla fiera della riproduzione assistita “Wish for a baby”, tenutosi lo scorso fine settimana a Milano. I racconti dei giornalisti infiltrati negli stand: un mercato sfacciato

La scorsa settimana vi avevamo illustrato, con un ampio servizio (v. “La Voce” del 19 maggio, pag. 4), che cosa avrebbe rappresentato la fiera della riproduzione assistita svoltasi a Milano il 20 e 21 maggio . “Wish for a baby” – questo il nome dell’iniziativa – ha raccolto da ogni parte d’Italia e d’Europa cliniche e società specializzate nel combattere l’infertilità e in pratiche di commercio di gameti (spermatozoi e ovociti) e di maternità surrogata: pratiche, queste ultime, vietate nel nostro Paese.

Vi proponiamo ora una piccola rassegna stampa attingendo dai siti e quotidiani i cui giornalisti si sono “infiltrati” nella fiera per testimoniare come, al di là delle promesse, al suo interno si facesse promozione di pratiche illegali in Italia.

«TI PROPONIAMO L’ACQUISTO DI OVULI»

Viviana Daloiso su “Avvenire” del 20 maggio racconta di Laura e Stephan, coppia di attivisti che fanno capo alla Rete per l’inviolabilità del corpo femminile, movimento femminista che raccoglie numerose associazioni in Italia e all’estero, contrario all’utero in affitto e a ogni mercificazione del corpo:«Stephan – si racconta nell’articolo – dopo una breve tappa allo stand della Pronatal, dove gli assicurano donatrice, inseminazione e maternità surrogata, ma solo con donne della Repubblica Ceca – s’è spostato dai consulenti ateniesi del Garavelas medical group. Qui gli viene spiegato candidamente che può acquistare ovuli ed eventualmente anche il seme da altri e trasferirli in una clinica in Grecia dove potrà presentarsi con una donna che può fingere d’essere la sua compagna (e che può dimostrare d’essere sterile con un certificato ottenuto da un qualsiasi medico) e procedere alla maternità surrogata. Gli viene suggerita la possibilità di trovare qualche agenzia albanese, magari su Facebook, visto che lì è facile incontrare donne particolarmente “altruiste”. In alternativa gli viene prospettato sottovoce anche un facile, sebbene altrettanto costoso, trasferimento di ovuli fecondati negli Stati Uniti “dove non avrete alcun problema sotto il profilo legale”».

UN PRODOTTO “SANO”, SENZA DIFETTI

Caterina Giojelli e Leone Grotti su tempi.it, invece, scrivono:«Il bambino da sogno nasce su internet, “dovete solo creare un account sul nostro sito e potrete accedere ai profili dei nostri donatori”, dicono a Tempi le gentilissime referenti di Cryos (banca internazionale del seme, ndr) rimandandoci al portale che propone il seme di studenti, uomini d’affari, appassionati di musica e sport, tutti “mentalmente stabili, fisicamente sani” e con “un seme di alta qualità” garantito da tutte le certificazioni del caso.

C’è il profilo “base” – prosegue l’articolo -, con informazioni su etnia, altezza e peso, colore di pelle, occhi e capelli, titolo di studio e storia medica, oppure c’è il profilo “esteso” grazie al quale si può sapere anche il numero di piede, il colore di barba e sopracciglia, che tipo di capelli ha “e soprattutto vedere le foto del donatore da bambino, osservare la sua calligrafia, ascoltare una registrazione della sua voce, scoprire il suo quoziente intellettivo, il suo albero genealogico”, continuano.

Il bambino da sogno non può essere “difettoso”: il medico del Barcelona Ivf continua a ripetere in conferenza: “noi vogliamo un bambino sano”, “vogliamo selezionare un embrione sano”, “ovociti di qualità”, “gravidanze di qualità”. Scongiurare la possibilità di creare un “bambino malato”, ovvero un prodotto guasto, è l’obiettivo di tutti a Wish for a Baby, in ogni segmento della catena di montaggio. La referente di Ivf Couriers, che fornisce trasferimenti internazionali di embrioni, sperma, ovuli in tutto il mondo ci assicura che con 15 mila euro la qualità del trasporto fino alla Grecia, meta ambita, è garantita: “Facciamo tutto a mano, non siamo mica FedEx”.

Il loro portale si apre con una cicogna in volo che invece di un fagotto ha annodato al becco un contenitore di azoto liquido diretto alle più blasonate cliniche di Pma o maternità surrogata del mondo. Lo stesso contenitore d’acciaio che la signora smonta davanti a noi per mostrarci dove alloggerà senza sbalzi di temperatura il nostro “prezioso materiale genetico” fino a destinazione: penseranno loro a tutto, dai permessi alla burocrazia».

PREZZARIO IVA INCLUSA

Anche Nicolò Rubeis per “Il Giornale” è stato in fiera e nello specifico nello stand di Cryos, sulla cui brochure «invita a ordinare direttamente online scegliendo da un catalogo la foto del donatore e richiedere il suo seme in esclusiva. Gli esponenti di FdI denunciano che sul sito web dell’azienda c’è un listino di ovuli e gameti in cui “è singolare che vi sia un prezzario Iva inclusa, indirizzato al mercato italiano – dice Grazia Di Maggio (giovane deputata di FdI, ndr) – Una commercializzazione vietata dalla legge 40 del 2004”».

PER AFFITTARE UN UTERO BASTANO 5 MINUTI

Infine, riportiamo alcuni stralci dell’inchiesta in incognito compiuta da Francesco Borgonovo per il quotidiano “La Verità”:«a prendere un appuntamento per organizzare l’affitto di un utero all’estero, per la precisione in Grecia o a Cipro, impiego circa cinque minuti (…). Vado quasi a colpo sicuro allo stand della clinica Garavelas. Mi regalano una bella agenda e una brochure in italiano in cui, a pagina 25, illustrano il loro servizio di surrogazione (…). 

Anche alla clinica Acibadem, come previsto, sono ben disponibili a organizzare tutta la procedura al di fuori dei confini italiani. Possono provvedere loro a tutto: dal viaggio al soggiorno. In fiera, in ogni caso, c’è solo il proverbiale imbarazzo della scelta». E «più o meno tutte le società presenti si occupano di donazione di ovuli, manco a dirlo una pratica che in Italia è proibita ma che Barcelona Ivf reclamizza con apposito flyer».

Come riporta Borgonovo, Roberta Osculati, consigliera comunale Pd di Milano, ha dichiarato: Nel nostro ordinamento giuridico «non esiste un modello di genitorialità diverso da quello fondato sul legame biologico tra genitore e figlio o di quello alternativo che passa dall’adozione. Non c’è un paradigma genitoriale fondato esclusivamente sulla volontà degli adulti di esser genitori».

Dichiarazioni che si accompagnano a quelle di diversi esponenti di Lega, Fratelli d’Italia e di alcuni di Alleanza Verdi-Sinistra, a dimostrazione di come questa possa essere una battaglia bipartisan, trasversale agli schieramenti politici e all’appartenenza di fede.Anche se, è la nostra impressione, non ci sia ancora una consapevolezza così generalizzata sulla reale posta in gioco di una visione della vita e dell’umano totalmente alla mercè della logica del profitto e del mero desiderio egoistico.

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 26 maggio 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

Wish for a baby: benvenuti alla fiera della vita umana

15 Mag

Ecco cos’abbiamo scoperto indagando sugli ospiti e i promotori della fiera dedicata alla riproduzione assistita in programma a Milano: una propaganda continua all’utero in affitto

di Andrea Musacci

Il confine tra desiderio soggettivo e diritto da rivendicare è sempre più spesso al centro del dibattito pubblico. In una società libera dove l’affermazione di sé è un’aspirazione giustamente da perseguire, si fa però sempre più strada un rischio: quello che l’autodeterminazione diventi invasione della libertà altrui, deformata ed egoistica imposizione di qualcosa che va a snaturare il concetto di diritto, oltre alla dignità di altri soggetti. 

Un tema, questo, dominante nell’ambito della bioetica, in particolare sui temi riguardanti la procreazione medicalmente assistita e la maternità surrogata (delle implicazioni etiche ne abbiamo parlato sulla “Voce” del 31 marzo 2023)

La maternità e la paternità sono sempre, e a qualsiasi costo, un diritto da rivendicare, a prescindere dalle conseguenze?

L’EVENTO: UNA FIERA POCO TRASPARENTE

Il prossimo 20 e 21 maggio nello “Spazio Antologico” di Milano si terrà un evento espositivo con diversi incontri dal titolo “Wish for a baby”. «Nel nostro evento “Wish for a baby” potrete incontrare gratuitamente i migliori esperti di fertilità di tutto il mondo»: così si presenta sul sito dedicato. «Venite a partecipare alla celebrazione di una nuova vita!», lo slogan enfatico scelto per l’occasione. L’iniziativa avrebbe dovuto svolgersi un anno fa, sempre a Milano, col titolo meno ambiguo “Un sogno chiamato bebè”. Come a dire, i sogni son desideri. Non da interpretare, ma da realizzare. A tutti i costi. L’anno scorso l’iniziativa fu rimandata a causa delle proteste di alcuni partiti, reti e associazioni.

Diversi saranno gli stand espositivi di cliniche, enti e associazioni, italiane e non, che presenteranno le proprie offerte sul mercato della procreazione. E diversi gli incontri programmati con gli stessi soggetti coinvolti. Il convitato di pietra, in tutto ciò (come denunciato da associazioni – sia cattoliche sia femministe – e partiti – sia di destra che di sinistra) è la famigerata “maternità surrogata” (tecnicamente ed enfaticamente: GPA, Gestazione per Altri), la pratica dell’utero in affitto. Pratica abominevole e quindi vietata in Italia e nella maggior parte dei Paesi del mondo, e la cui stessa promozione è quindi illegale. Ma alla “fiera della vita” (così sarebbe meglio chiamarla) forte è la paura che verrà, in qualche modo, promossa e incentivata.

I PRECEDENTI: UTERO IN AFFITTO PUBBLICIZZATO

“Five Senses Media” è l’agenzia inglese che sta curando non solo l’edizione milanese di “Wish for a baby”, ma che ha organizzato e organizzerà le edizioni anche in altri Paesi: sul sito dei due eventi in Germania (a Berlino il 18-19 marzo scorso, a Colonia il prossimo ottobre) è scritto chiaramente che fra gli argomenti trattati e su cui poter chiedere informazioni, vi è la «maternità surrogata». E il 2-3 settembre prossimi, l’evento sarà a Parigi. Nel sito dedicato vi è scritto che, oltre ad avere informazioni sulla fecondazione assistita e l’adozione, sarà possibile «discutere questioni legali relative alle alternative per diventare genitore». È facile immaginare a cosa si allude. A Parigi l’evento si era già svolto nel settembre 2021: per l’occasione, su “Avvenire” uscì un’inchiesta curata dal quotidiano assieme alla Coalizione internazionale per l’abolizione della maternità surrogata (Ciams), nella quale si documentava la presenza di diversi stand di cliniche americane e ucraine che sponsorizzavano l’utero in affitto, e come del tema se ne parlasse apertamente in diversi incontri.

Lo scorso febbraio “Wish for a baby” si è svolto anche in India: sul sito campeggia la scritta: “Wish for a baby è un nuovissimo spettacolo sulla fertilità” (sic!) (“Wish for a baby is a brand new fertility show”). E ancora, si parla esplicitamente di “India as a Market”. Il mercato della vita. Lode alla schiettezza.

GLI INCONTRI: MERCATO DEI BAMBINI, DIFFICILE NASCONDERLO

Fra gli incontri in programma a Milano, ne segnaliamo alcuni: “Ovodonazione nel 21° secolo” (20 maggio), col dr. Raul Olivares della Barcelona IVF (clinica spagnola per la riproduzione assistita): nel sito della clinica, troviamo una testimonianza dal titolo “Esperienze reali: ‘Ho deciso che avrei inseguito il mio sogno di essere madre, anche se da sola’ ”. Sempre il 20 maggio, si potrà assistere a “Le tecniche innovative e la personalizzazione dei trattamenti di PMA”, con la dr. Priscilla Andrade della clinica Fertilab di Barcelona: nel sito web, tra le varie tecniche offerte, vi è quella dell’adozione di embrioni. Nella due giorni milanese verrà presentato anche “One of Many”, libro e progetto di Loredana Vanini, sul cui sito è scritto: «One of many è inclusività: donne, uomini, coppie etero o omosessuali, donne single, adozioni, GPA».

Ma l’ospite dell’evento di Milano più sfacciatamente pro-utero in affitto è il dr. Attanasio Garavelas dell’omonima clinica. Sul suo sito leggiamo: Garavelas, «il suo centro di maternità surrogata in Grecia. Siamo qui per lei in ogni fase del suo viaggio…lo pianifichi oggi stesso! Possiamo aiutarla se ha bisogno di affidarsi a una madre surrogata per avere un bambino». E ancora: «Perché scegliere la maternità surrogata a IOLIFE IASO (Institute of Life – IASO, uno dei suoi centri, ndr): il nostro centro è orgoglioso di esser stato il primo ad Atene ad aver aggiunto ai suoi servizi quello della maternità surrogata». Ricordiamo che dal 2004 in Grecia è legale la maternità “altruistica” (non commerciale), e dal 2015 la pratica è aperta anche ai cittadini stranieri.

I PROMOTORI DELL’EVENTO, AGENZIE PER L’ACQUISTO DI BEBÈ

L’evento di Milano è stato realizzato in collaborazione con diverse cliniche ed enti che si occupano di riproduzione assistita, fra cui IVF Babble: una pagina del suo sito è totalmente dedicata alla maternità surrogata, con informazioni e testimonianze. Qui, fra l’altro, vi è scritto: «Sebbene la maternità surrogata retribuita sia legale in una manciata di paesi, la maggior parte dei surrogati sceglie di offrire questo servizio sulla base di un profondo senso di compassione e del desiderio di aiutare gli altri ad avere una famiglia». È un atto caritatevole, insomma, strappare un bambino alla propria madre. 

“Wish for a baby” a Milano è organizzato in collaborazione anche con Pride Angel, sito nato nel Regno Unito dedicato alle varie forme di procreazione assistita. Non poteva, quindi, mancare anche la pubblicità dell’utero in affitto, attraverso webinar ad hoc. Leggiamo: «Growing Families (una rete per l’assistenza di singoli e coppie alla maternità surrogata, ndr) ha oltre un decennio di esperienza nell’assistere i futuri genitori a impegnarsi in sicurezza nella maternità surrogata transfrontaliera in tutto il mondo. Abbiamo assistito oltre 2000 single e coppie con il loro sogno di creare una famiglia». Come a voler dire: se nel tuo Paese l’utero in affitto è vietato, contattaci che ti organizziamo l’acquisto in piena libertà di “tuo” figlio.

LE PROTESTE BIPARTISAN: «È UNA GRAVE OFFESA ALLE DONNE»

«Non possiamo accettare che vengano surrettiziamente passati contenuti contrari alle norme in vigore nel nostro Paese, che con l’art. 12 della Legge 40/2004 vieta e sanziona qualsiasi forma anche solo di pubblicizzazione della maternità surrogata». Queste parole sono state scritte – in modo bipartisan – dalle consigliere comunali di Milano Roberta Osculati (Pd) e Deborah Giovanati (Lega). All’iniziativa si è opposta anche Alleanza Verdi-Sinistra, con la capogruppo alla Camera Luana Zanella che ha presentato un’interrogazione al Ministro della Salute Orazio Schillaci: «noi ci opponiamo – scrive – totalmente ad una manifestazione che, utilizzando gli strumenti tipici del marketing e della pubblicità più accattivante, propone di fatto una idea di bambini trasformati in merce e del corpo delle donne in contenitore. È una grave offesa alle donne». 

Non meno dura Carolina Varchi, capogruppo di Fratelli d’Italia in Commissione Giustizia della Camera e prima firmataria della legge contro la maternità surrogata, che parla di iniziativa «che va fermata come prevede la legge 40 che vieta anche la sola propaganda dell’utero in affitto in Italia. L’auspicio è che il Prefetto ne disponga immediatamente la chiusura perché contraria alla legge e all’ordine pubblico». La mattina del 20 maggio a Milano davanti alla sede dell’evento è prevista una manifestazione di protesta dal titolo “La vita umana non è una merce” organizzata da RadFem Italia e Rete per l’Inviolabilità del Corpo Femminile.

Insospettisce e preoccupa che come reazione a queste legittime proteste, gli organizzatori di “Wish for a baby” abbiano inserito nel Regolamento di accesso alla manifestazione limiti molto severi. Nel testo, ad esempio, vi è scritto: «Nessun visitatore o membro della stampa è autorizzato a scattare fotografie o a effettuare qualsiasi forma di registrazione (audio o video) durante l’evento, indipendentemente le circostanze. Nessun ingresso sarà consentito con una fotocamera o una videocamera».

Qualcosa da nascondere?

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 19 maggio 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

Laura De Paoli, medico: «vi racconto i morti in mare e gli orrori in Africa»

13 Mag

Di origini ferraresi, De Paoli negli ultimi anni come medico soccorre in mare i migranti nel Mediterraneo. E dal 1998 cura gli ultimi del mondo in vari Paesi dell’Africa. Abbiamo raccolto la sua testimonianza

di Andrea Musacci

I cadaveri galleggianti nel Mediterraneo, il dolore di non poterli salvare. E le tante storie di orrore e rinascita frutto di anni in missione nel mondo come medico. 

Di Laura De Paoli colpisce la calma nel raccontare un quarto di secolo vissuto negli angoli più bui e dimenticati della terra, a contatto con miserie di ogni tipo: dal Bangladesh alla Sierra Leone, dalla Repubblica Centrafricana ai cimiteri del nostro mare. Calma che non è freddezza ma profonda empatia, lucida consapevolezza. 

L’abbiamo incontrata per farci raccontare questa sua vita che non conosce sosta nel curare, ovunque ce ne sia bisogno, persone che vivono la fame, la guerra, che affrontano quei drammatici viaggi della speranza per arrivare in Europa.

Ferrarese, ha lasciato la nostra città dopo la laurea per lavorare come medico chirurgo prima in Gran Bretagna, poi in Sudafrica, e poi tornare in Italia, a Milano. In seguito, ha iniziato la sua esperienza prima come chirurgo di guerra con la ICRC – Croce Rossa Internazionale e altre organizzazioni, per poi dedicarsi al management sanitario soprattutto con l’OMS. Negli ultimi anni, si occupa di assistenza ai migranti naufraghi nel primo soccorso in mare e una volta fatti sbarcare. L’ultima sua missione è stata a Lampedusa, dopo la tragedia vissuta in prima linea a Cutro lo scorso febbraio. E a breve tornerà in Sicilia per una nuova missione.

MEDICO IN AFRICA E IN PAKISTAN

La prima missione come medico è stata nel 1998-’99 in Sierra Leone, ai tempi della guerra civile, con la Croce Rossa, a Freetown: «ho visto tante persone, anche bambini, con le mani amputate dai guerriglieri», racconta a “La Voce”. Poi è stata a Juba nel Sud Sudan e a seguire, nel 1999-2000, a Cibitoke in Burundi: «qui dalla nostra casa sentivamo sparare tutte le notti». Sono gli anni della guerra civile tra le fazioni tribali Hutu e Tutsi. «Una volta è stato portato in ospedale da me anche un ragazzino impalato, e in un’altra occasione il corpo di un Hutu torturato, ucciso e lasciato per strada al fine di terrorizzare la popolazione. Ero molto stanca e traumatizzata, ho avuto quello che si definisce un Post-Traumatic Stress Disorder». Decide quindi di ritornare e di seguire un Master in Sanità Pubblica. Poi inizia la collaborazione con l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) in altri Paesi poveri del mondo. Nel 2013 Laura è a Peshawar, nel nord del Pakistan, per conto di Medici Senza Frontiere, come direttrice di un grande ospedale di maternità. «A parte un uomo, eravamo tutte donne medico. Gli uomini, islamisti radicali, non volevano far visitare le proprie mogli da maschi, quindi le portavano nel nostro ospedale».

Negli anni 2014-2015 Laura è, invece, sempre con Medici Senza Frontiere, in Guinea. È il periodo dell’emergenza ebola. «Ho visto morire tre miei colleghi per questa pandemia», ci spiega. Nel 2020 (come anche nel 2014-2015), presta invece servizio nella Repubblica Centrafricana, durante la guerra civile. Di questa esperienza ci riporta il racconto fattole da alcuni colleghi: «la guerra civile, mi dissero, non era tra cristiani e musulmani, ma era stata fomentata da milizie francesi, interessate a riprendere il controllo delle miniere dopo che il governo aveva tolto alla Francia l’utilizzo esclusivo, per appaltarle a compagnie cinesi e giapponesi. La guerra civile aveva, quindi, l’obiettivo di destabilizzare il Paese».

Nel maggio 2020 rientra in Italia dove coordina il forum delle varie agenzie dell’ONU. In queste esperienze, Laura come altri, per motivi di sicurezza legati alla guerra, trascorreva anche interi periodi chiusa in casa o in ospedale: «nel 2015 nella Repubblica Centrafricana ho vissuto, di giorno e di notte, in ospedale. Per questo, dopo alcune settimane o mesi, ci spostavano in altri luoghi. L’Africa – prosegue – la considero ormai la mia seconda casa, ho sofferto anche del cosiddetto “mal d’Africa”. E ho quasi sempre trovato nei colleghi africani una grande umanità e un grande spirito di collaborazione».

NEI CAMPI PROFUGHI E IN MARE PER I SALVATAGGI 

Non meno drammatico e sentito è il suo racconto delle esperienze vissute nei campi profughi e in soccorso ai migranti in mare. «Come coordinatore medico sono stata nel campo profughi degli etiopi di Kassala in Sudan: ho conosciuto persone nate e vissute solo in quel campo». Più tardi, nel 2016, con l’UNHCR (l’Agenzia ONU per i rifugiati), ha il compito di mantenere in Grecia le relazioni tra le varie ONG e il Ministero della Salute. Era il periodo delle diatribe tra Unione Europea da una parte, e Polonia e Ungheria dall’altra sulla questione dell’accoglienza dei migranti siriani. Nel 2018, con Medici Senza Frontiere ha prestato, invece, servizio nei campi rifugiati dei Rohyngya (minoranza etnica perseguitata nel Myanmar) a Cox’s Bazar, nel Bangladesh.

Nel 2017 Laura è sulla nave Prudence di Medici Senza Frontiere in soccorso ai migranti, provenienti soprattutto dall’ovest dell’Africa: «dal porto di Catania uscivamo in mare per soccorrerli: credo di non aver visto nessuno che non fosse stato torturato nei campi libici, e quasi tutte le donne erano state stuprate, anche se molte magari per vergogna non lo ammettevano. Anche alcuni uomini erano stati violentati». 

E pure da Lampedusa «è un continuo uscire in mare dei soccorsi per qualche segnalazione di imbarcazioni in pericolo. Mi è capitato di dover uscire ogni giorno, e a volte di rimanere in mare anche per 12-13 ore di fila. È un compito delicato quello dei soccorritori, è importante anche avvicinarsi lentamente alla barca, per evitare di sollevare onde. Negli anni – prosegue Laura – ho visto anche come sono cambiate le imbarcazioni dei migranti: dai gommoni alle barche di legno, a quelle di ferro. Barche stracolme di persone, che spesso, muovendosi, fanno oscillare il mezzo». Spesso anche per questo avvengono le tragedie. «Ogni volta che partivo da terra per soccorrere i migranti, mi aspettavo di vedere di tutto. La speranza è sempre che si salvino, ma tante volte non è così. Noi soccorritori dobbiamo essere forti, ma non ci si abitua mai del tutto, soprattutto quando si vedono bimbi morire in mare».

E a tal proposito, è impossibile dimenticare le strazianti immagini viste a Cutro, nel crotonese, quando la notte tra il 25 e il 26 febbraio scorso un caicco partito dalla Turchia e carico di almeno 180 migranti, è naufragato. L’ultimo bilancio parla di 94 morti e un numero imprecisato di dispersi. Laura era lì durante il salvataggio: «Quando siamo arrivati sul punto del naufragio – racconta – abbiamo visto cadaveri che galleggiavano ovunque e abbiamo soccorso due uomini che tenevano in alto un bimbo. Purtroppo il piccolo era morto. C’era mare forza 3 o 4, era difficile avvicinarci. La barca dei migranti era già a pezzi sulla spiaggia e noi avevamo intorno tanti cadaveri galleggianti», continua.

Mentre ci racconta, le preme fare anche un appello: «voglio che questi racconti arrivino a più gente possibile. Questi migranti quando arrivano sulle nostre coste sono malnutriti, non bevono da giorni, spesso sono senza scarpe, con sé hanno solo uno zainetto (a volte nemmeno questo). E provengono tutti da situazioni di miseria. Sono soprattutto giovani uomini, ma ci sono anche donne e bambini. Molti subsahariani non solo non sanno nuotare, ma hanno proprio paura del mare».

«Un giorno – prosegue – eravamo partiti per compiere un salvataggio. A un certo punto nell’acqua abbiamo visto dei cadaveri con addosso delle camere d’aria per le ruote, usati come possibili salvagenti. Una camera d’aria la tenevano sotto l’ascella, l’altra a tracolla. Non ho idea – continua – di quanti possano essere i naufragi che avvengono al largo delle nostre coste, perché molti non vengono segnalati. E appunto, alcuni di questi, si scoprono solo casualmente».

Le chiediamo come i bambini che arrivano sulle nostre coste possano sopportare tutto questo strazio: «può sembrare strano, ma tante volte i più piccoli dimostrano una grande forza di reazione». E poi ci sono gli scarni racconti che, rare volte, alcuni migranti si sentono di fare, sempre di loro spontanea volontà, mai interpellati dagli operatori: «lo scorso dicembre ero in servizio come medico al CARA (Centro di accoglienza per richiedenti asilo, ndr) di Crotone. Qui ho conosciuto una coppia di afghani, lui dentista, lei medico, fuggiti anche perché lei, col ritorno dei talebani nel loro Paese, non può più esercitare la professione». La speranza è che possa tornare a esercitarla in un Paese libero. In Laura De Paoli ha trovato sicuramente un modello da imitare.

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 12 maggio 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

Rock’n’roll theology: Springsteen e la fede

10 Mag

In vista dello storico concerto di Bruce Springsteen a Ferrara il 18 maggio, scopriamo come in molti dei suoi testi siano presenti le domande della fede: vita e peccato, morte e redenzione, comunione e salvezza. Un viaggio nell’umano

di Andrea Musacci

Spesso si riduce a un gioco ozioso il voler attribuire etichette di “cristianità” a scrittori, registi, cantanti. La bellezza nell’indagare la loro spiritualità spesso non dichiarata, d’altra parte, porta alla luce come l’immaginario biblico (neo e vetero testamentario) sia così radicato nelle nostre vite da non poterlo eludere. Ed è una forza, la sua, non derivante da veri o presunti “indottrinamenti” ma dalla radicalità di come l’umano e il divino vengano, in ogni pagina della Bibbia, sviscerati, dando una risposta alla sete di verità e di assoluto insita in ogni persona.

Questa premessa per dire di come anche la poetica di un grande cantautore come Bruce Springsteen – che il prossimo 18 maggio si esibirà al Parco Urbano di Ferrara con la sua E Street Band – sia infarcita di parole e immagini legate al tema della colpa, della salvezza, della comunione.

Ne parla ad esempio Luca Miele, giornalista di “Avvenire”, nel suo libro “Il vangelo secondo Bruce Springsteen” (Claudiana ed., 2017), che l’autore presenterà il 13 maggio alle ore 18 nella sede di “Accademia” (chiostro chiesa di San Girolamo, accesso da via Savonarola), nell’incontro dal titolo “Everybody’s Got A Hungry Heart. Un viaggio alla riscoperta di sé nella musica di Bruce Springsteen”.

È lo stesso Miele a chiedersi innanzitutto se nel caso di Springsteen si possa parlare di “rock’n’roll theology”, o meglio di teologie (al plurale) nei suoi brani, vista l’ambivalenza e la frammentazione del tema religioso in esse contenuto. Di certo c’è, ad esempio, il legame con la “teologia nera” contenuta nei gospel e negli spiritual. 

CATTURARE LA VITA

E come nella musica del riscatto e della redenzione dei neri, è l’esistenza concreta, di carne e sangue, a essere imprescindibile. La sua ricerca, insomma, si muove sempre coi piedi per terra, pur con uno sguardo capace di rivolgersi verso l’alto. Springsteen – scrive Miele nel libro – sa «muoversi, senza rotture, con disinvoltura, tra i campi del secular e del religious. Infondere, catturare la vita – esprimere le sue cadute, le sue speranze quotidiane – dentro e con un tessuto di simboli, immagini, figure trasparentemente religiose. Springsteen, però, non decide né per l’uno né per l’altro, la sua scrittura si muove in quello spazio di indistinzione tra secular e religious, tende gli orli di secular e religious fino a farli toccare, li spinge a sconfinare, a ibridarsi, contaminarsi. Uno restituisce, specchiando, l’altro. La liberazione è qui, è ora». E ancora: «Lo storytelling di Springsteen non mira a svelare il mistero, ma a incarnarlo nelle vite che canta. Non mira a sciogliere il secular e il religious, ma a rendere trasparente la loro cucitura». 

IL PADRE E LA CASA: AMBIVALENZE

A Freehold, nel New Jersey, dove visse l’infanzia e l’adolescenza, Bruce frequentò la primaria nell’istituto della sua parrocchia, la St. Rose of Lima, per poi trasferirsi alla Freehold High School dove si diplomò nel 1967. L’approccio del giovane con la scuola cattolica fu difficile, in quanto non accettò la disciplina imposta dalle suore. A questo, si aggiunse il difficile rapporto col padre Douglas, costretto a cambiare vari lavori per mantenere la famiglia (Bruce ha due sorelle), e malato di depressione. Proprio il tema del padre torna spesso nei suoi brani, in una continua lotta con questa figura, nel tentativo di allontanarla, di comprenderla e infine di riconciliarla a sé. 

Un percorso lungo, questo, che passa nelle sue canzoni dall’immagine del peccato ereditato, nelle forme della malattia mentale (la depressione, appunto) e della malattia dell’anima (l’incapacità di amare): «la catena dell’amore è la catena del peccato», è una «de-generazione», scrive ancora Miele. Il lavoro – simbolo della figura paterna – è vissuto, esso stesso come colpa da espiare.

«Molte delle mie canzoni hanno a che fare con l’ossessione del peccato», ha riconosciuto lo stesso Springsteeen. Da questo abisso, ne uscirà solo con l’amore per una donna e per il loro figlio, diventando quindi egli stesso padre. 

Ma lo stesso luogo domestico, protetto e pieno di calore, può nascondere fantasmi che ritornano, mali mai del tutto sconfitti: «posso sentire la soffice seta della tua camicetta / e quelle leggere emozioni nella nostra piccola casa divertente / poi le luci si spengono e siamo solo noi tre / io, te e tutte quelle cose di cui abbiamo paura (…) / Un uomo incontra una donna e questi si innamorano / ma la casa è infestata» (Tunnel of love, 1987). O ancora: «Stasera il nostro letto è freddo / Sono perso nel buio di un amore / Dio abbia misericordia dell’uomo che dubita delle sue certezze» (Brilliant Disguise, 1987).

La casa è quindi infestata dall’ospite del male. E dalla certezza che è un ospite sempre inatteso, sempre indesiderato: «Io non riesco a capire neppure ciò che faccio», scrive San Paolo: «infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto. Ora, se faccio quello che non voglio, io riconosco che la legge è buona; quindi non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene; c’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio» (Romani 7, 15-19).

NELLA COMUNITÀ, OLTRE LA COMUNITÀ

Come uscire dalle sabbie mobili in cui il male ci trascina, dalla sua mano che non ci lascia la gola? «La salvezza individuale, o qualcosa che le si avvicina, esiste veramente?», si è chiesto alcuni anni fa Bruce Springsteen. «O non è forse che nessuna salvezza individuale è possibile, e che qualsiasi forma di salvezza si realizza soltanto stando insieme? Dopo tutti questi anni sono convinto che la risposta sia chiara: non c’è salvezza senza unità». È la comunità, è l’altro a salvarci, ogni volta. In un altro brano, Land of hope and dreams (2001), scrive Miele, «è la comunità intera a essere il luogo in cui si fa, in cui si tenta, in cui ci si approssima, in cui si incarna la liberazione. La comunità è il farsi stesso dell’evento liberazione». Nulla di astratto, di vanamente idilliaco, quindi. Ma nemmeno qualcosa che possa ridurre tutto alla fragilità dell’esistere terreno. Ancora Miele: «Nelle canzoni di Wrecking Ball (2012, ndr), la giustizia è insopprimibilmente legata a un rinvio, si situa in un altro orizzonte, rimanda a una eccedenza, si disloca. Questo orizzonte, questa eccedenza, è la trascendenza». L’inappagabile può essere appagato solo da qualcosa di incommensurabile.

LA RISURREZIONE, L’ASCESA VERSO “L’ALTRO MONDO”

In The Rising, l’album dedicato agli attentati dell’11 settembre 2001, sempre presente è la tensione fra quell’abisso di polvere, fantasmi, corpi straziati (quel Nothing man, uomo annullato nel suo corpo, nella sua speranza), e l’urgenza di «articolare l’inarticolabile, trasformare il grido in dolore, il dolore in rappresentazione, la rappresentazione di ciò che sfugge alla presa di ogni rappresentazione – il vuoto, la perdita, la morte – in senso». La morte, quindi, non è l’ultima parola, sembra dirci il cantautore. Nella sua autobiografia, è lui stesso a scrivere: «Tra le tante immagini tragiche di quella giornata, ce n’era una in particolare che non riuscivo a togliermi dalla testa: quella dei soccorritori che salivano mentre gli altri scendevano di corsa per salvarsi. Quale senso del dovere, quale coraggio c’era dietro quell’ascesa verso…che cosa? L’immagine religiosa dell’Ascensione, il superamento del confine tra questo mondo, un mondo fatto di sangue, lavoro, famiglia, figli, fiato nei polmoni, terra sotto i piedi, tutto ciò che è vita, e…l’altro mondo (…). Insieme alla rabbia, al dolore e al lutto, la morte apre una finestra di possibilità per i vivi, rimuovendo il velo che “l’ordinario” ci posa delicatamente sullo sguardo. Aprirci gli occhi è l’ultimo, amorevole dono del martire».

In questo immolarsi risuona il grido della Croce presa su di sé per la salvezza, in quella salita che è, insieme, al Golgota (alla morte) e al Cielo. Contro le macerie del male, il desiderio è di innalzarsi verso quella luce che non muore.

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 12 maggio 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

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Roberto, fan da quando aveva 10 anni: «un incontro che mi ha cambiato la vita»


Roberto Mela (a sinistra) assieme a due amici (Caterina Maggi e Francesco Turrini) nel 2016 al concerto di Bruce Springsteen al Circo Massimo di Roma

«Undici anni fa lo vidi per la prima volta in concerto: quel giorno mi cambiò la vita». Roberto Mela ha 26 anni, è praticante commercialista e ha una passione smisurata per tutto ciò che riguarda Bruce Springsteen. Il 18 maggio, naturalmente, sarà uno degli oltre 50mila presenti al Parco Urbano. Gli abbiamo rivolto alcune domande.

Come e quando hai conosciuto Springsteen?

«A casa mia abbiamo sempre “respirato” la musica di Springsteen:mio padre è andato a sentirlo nel suo primo concerto in Italia, lo storico San Siro del 1985, e da allora non ha mai smesso. Nel 2007, lo ricordo bene tornare a casa dal negozio di dischi con il cd nuovo: qualche giorno dopo l’ho ascoltato da solo. L’album si apre con Radio Nowhere: rimasi folgorato da quell’intro».

Il primo concerto, invece?

«Fu l’indimenticabile notte di Firenze del 10 giugno 2012: ha piovuto tutto il tempo, tornai a casa fradicio ma con il cuore pieno. Quella sera vidi sul palco un uomo che dava veramente tutto per ciò che amava fare. Quante volte nel lavoro ti capita di incontrare gente così? Quel giorno mi cambiò la vita, fu uno dei miei primi concerti e se da allora sono andato a più di cento live di artisti diversi, in Italia e all’estero, è solo per ritrovare quel che ho visto quella sera in lui».

Quali altri suoi concerti hai visto?

«Nel 2013 a Padova e a Milano, nel 2016 a Roma e di nuovo a Milano. E dopo Ferrara, il prossimo 16 giugno andrò a sentirlo a Birmingham…».

Cosa ti ha colpito la prima volta della sua musica?

«Dei suoi testi mi colpisce come sia capace di trattare i temi della vita di tutti i giorni, dagli amori ai dolori, dalla famiglia al lavoro, con un tono che esalta la realtà dei personaggi».

Immagino sia difficile, ma se dovessi scegliere una sua canzone…

«Thunder Road. Springsteen l’ha sempre definita come “un invito” e per questo l’ha messa come prima traccia dell’album Born To Run».

I suoi testi sprigionano religiosità. Come definiresti la sua fede?

«Nell’autobiografia Springsteen parla chiaramente della sua fede, di come la sua formazione cattolica non l’abbia mai lasciato. In un’intervista disse:”Io frequentavo una scuola cattolica. L’anima non è un’astrazione per un bambino. È molto reale. La prendi alla lettera. E l’immaginario cattolico, così come la Bibbia, è un modo straordinario di esprimere il viaggio dell’uomo, dello spirito umano. Io ritorno a quelle immagini d’istinto”. In un’altra, in merito al disco The Rising, ha affermato:”Penso che le canzoni facciano appello a una sovrapposizione sfumata di queste idee: il religioso e la vita quotidiana devono in certo qual modo fondersi”, per cui egli afferma di muoversi “verso un immaginario religioso per spiegare l’esperienza”. E nel 1988, prima di un concerto, introducendo la canzone Born To Run disse: “Alla fine ho capito che la libertà individuale finisce per non significare nulla se non è collegata a degli amici, a una famiglia e a una comunità”. È la stessa concezione di libertà individuale che ho incontrato nella compagnia della Chiesa, nella fraternità di CL».

Un’identità chiara, quindi, la sua…

«Sì. Anni fa, nei suoi spettacoli a Broadway, ripeteva: “Una volta che diventi cattolico, non puoi più uscirne”. E in quell’occasione, per 256 serate ha concluso i concerti recitando il Padre Nostro al pubblico».

Tre sue canzoni dove il tema religioso è più marcato, che vuoi condividere con noi? 

«Penso, fra le tante, a “Jesus Was an Only Son” e ad altre due in particolare: “Land of Hope and Dreams”, nella quale c’è una terra promessa a cui si può tendere insieme, che prende dentro tutti e questo dà senso alla comunione. La salvezza non è individuale ed è per tutti. E poi, “My City Of Ruins”, dell’album The Rising, scritto dopo l’attentato alle Torri Gemelle, in cui nel testo arriva a pregare il Signore per avere la forza di risorgere».

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 12 maggio 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

«La fantasia è ciò che ci tiene aperti, che ci reinventa»

8 Mag

Siamo andati ad ascoltare Giacomo Poretti alla presentazione del suo spettacolo al Teatro Comunale. Ecco cos’ha detto su lavoro in ospedale, covid e trio…

L’esistenza è un «gioco serio», nel quale conta saper gestire i momenti in cui l’ironia è importante, se non necessaria, e quelli, invece, dove la commozione e l’empatia debbono semplicemente imporsi.

Anche questo, in un certo senso, ha inteso comunicare Giacomo Poretti, noto attore comico, nella sua due giorni a Ferrara. Il membro del mitico trio con Aldo e Giovanni nel pomeriggio di sabato 6 maggio ha presentato il proprio spettacolo “Chiedimi se sono di turno” in una platea del Teatro Comunale di Ferrara al completo, incalzato dalle domande di Giovanni Farkas (Fondazione Zanotti) e Marcello Corvino, Direttore artistico del Teatro Comunale.

L’OSPEDALE: IL LAVORO PIÙ FATICOSO

Poretti, dai 18 ai 29 anni di età ha lavorato come infermiere nell’Ospedale di Legnano (di cui 5 in oncologia), dopo un biennio da metalmeccanico. «I malati adulti, in ospedale non hanno così tanta voglia di ridere», ha spiegato a Ferrara. Un Patch Adams è adatto a un reparto per bambini. «L’adulto malato preferisce la compagnia, la vicinanza, anche silenziosa». L’ospedale, per Poretti, «è un luogo tragicamente straordinario, per gli incontri umani che si possono avere».

Dal periodo del covid, emerge un aneddoto, com’è  spesso accaduto, agrodolce: «dopo alcune settimane dall’inizio dell’emergenza nel 2020, alcune regioni precettavano i medici perché non ce n’erano a sufficienza. Io vivo a Milano, e ho tremato dalla paura che mi potessero richiamare, sono sincero. Lavorare in ospedale è il lavoro più duro che abbia fatto. Faticoso soprattutto a livello mentale e sentimentale».

IL LOCKDOWN: IL PERIODO PIÙ AMBIVALENTE

L’attore ha poi aggiunto di come lui e la moglie Daniela Cristofori abbiano avuto il covid i primissimi giorni dell’emergenza nel 2020. Un’esperienza vissuta in maniera ambivalente, quella del lockdown: «in quel periodo sono riuscito a riposarmi, a godermi la vita domestica con mia moglie e nostro figlio (che ha 17 anni, ndr), a leggere, guardare film e partite dell’Inter…D’altra parte, però, è vero che non si può trasferire tutto su uno schermo, sul digitale. Il teatro, ad esempio, ha bisogno di presenza, corporeità, non si può guardare su uno schermo. Mi ribello a questa idea». È invece importante non dimenticare la potenza dell’arte e della letteratura, derivante dal fatto che sanno parlare «delle nostre angosce e dei nostri desideri più profondi, e così è per il teatro, arte antichissima:all’uomo è sempre piaciuto raccontare e farsi raccontare storie».

Ma tornando alla bellezza dell’aver potuto, pur nella tragedia, riscoprire l’intimità domestica, rimane il fatto che «è molto difficile andare d’accordo con tutte le parti di se stesso, figuriamoci con gli altri… Su questo io e mia moglie abbiamo preparato uno spettacolo che si intitola “Litigar danzando”. Anche io, Aldo e Giovanni – ha proseguito – siamo tre caratteri forti e per certi versi molto diversi fra di noi. Tante volte abbiamo anche litigato, ma litigare può essere anche sano, in quanto espressione di qualcosa che è dentro di noi».

Detto ciò, dal periodo del covid «ne sono uscito arricchito», ha detto Poretti. E poi, vi sono i gesti di umanità, gesti che la straordinarietà della situazione ha fatto emergere: «come quello di uno dei nostri vicini di casa che ci portava la spesa quando non potevamo uscire perchéammalati. Lasciava a terra i sacchetti appena aperta la porta, e poi si ritraeva. Ma a vincere non era il suo naturale gesto di “repulsione”, ma quello di umanità nell’averci aiutato».

LA FANTASIA: IL “LAVORO” PIÙ IMPORTANTE

Venendo al tema del Festival nel quale era inserito l’incontro, «la fantasia è sempre fondamentale, in tutti gli ambiti, è quell’abito mentale che ti porta nella dimensione del gioco. La nostra stessa ironia – ha proseguito parlando del trio – è strettamente imparentata col gioco, seppur un gioco “serio”, che tenta di mostrare una dimensione diversa dalla solita».

Sul rapporto professionale con Aldo e Giovanni, ha spiegato come «dopo 30 anni abbiamo sentito l’esigenza di prendere strade diverse» e dunque di non fare più teatro assieme. Teatro che rimane per Poretti la grande passione, quella passione nata da giovane: «mentre facevo ancora l’infermiere, mi ero iscritto ad una scuola serale di teatro. Ho avuto sempre quella curiosità e quell’inquietudine di tentare strade diverse; già mi piaceva, nei miei precedenti luoghi di lavoro, raccontare storie ai colleghi…».

E a proposito di strade nuove, dal 2019 Poretti dirige il teatro Oscar deSidera a Milano insieme allo scrittore Luca Doninelli e a Gabriele Allevi. «Senza la fantasia, non saremmo andati da nessuna parte. La fantasia ti dice: stai aperto, disponibile ad immaginare altro, altre possibilità». Una scommessa non facile, in una città colma di teatri. Proprio la sera del 5, l’Oscar ha ospitato lo spettacolo “La Milonga del Fútbol” di Federico Buffa: ilDirettore Corvino ha anticipato che lo spettacolo farà parte del programma del Teatro Comunale di Ferrara nella stagione 2023/2024.

Andrea Musacci

(Foto Marco Caselli Nirmal)

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 12 maggio 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

Salvia, un martire del dovere. Antonio Mattone: «quel giorno che incontrai Cutolo»

8 Mag
Claudio Salvia e Antonio Mattone

Giuseppe Salvia, vicedirettore del carcere di Poggioreale, fu ucciso nel 1981 per volontà del boss Raffaele Cutolo. Il 5 maggio a Ferrara la testimonianza del giornalista Mattone e del figlio Claudio

«Salvia era un martire del dovere, un integerrimo funzionario delloStato che incappò nel più grande delinquente italiano del secondo dopoguerra: Raffaele Cutolo. Ma che non si volle piegare alla sua prepotenza».

Sempre più persone iniziano a conoscere la straordinaria testimonianza di coraggio e di amore alla verità e alla giustizia rappresentata dalla vita e dalla morte di Giuseppe Salvia, vicedirettore del carcere di Poggioreale ucciso nell’aprile del 1981 per volere di Cutolo.

Due anni fa Antonio Mattone, giornalista napoletano, raccontò la sua storia nel libro “La vendetta del boss. L’omicidio di Giuseppe Salvia”, presentato la sera del 5 maggio nel Monastero del Corpus Domini di Ferrara. Un incontro voluto da Dario Poppi, insegnante in pensione, e organizzato dall’Unità Pastorale Borgovado. Un libro scritto sotto richiesta dei familiari di Salvia:della moglie Giuseppina e dei figli Antonino e Claudio. Quest’ultimo, che nell’81 aveva solo 3 anni (il fratello, 5) è intervenuto a Ferrara proprio insieme a Mattone, alla presenza di circa 80 persone. 

«TANTI AGENTI HANNO PAURA DI PARLARE»

Sono oltre trenta le presentazioni del libro di Mattone in giro per l’Italia, fra cui una col card. Zuppi, e tante nelle scuole. Qui, purtroppo, ha spiegato l’autore, «nessuno sapeva chi fosse Salvia, molti sapevano invece chi fosse Cutolo».

«Ho ascoltato 90 persone in diversi modi legate a Salvia: familiari,  agenti di polizia penitenziaria, terroristi, magistrati, inquirenti, forze dell’ordine, giornalisti». A proposito degli agenti di polizia penitenziaria, «alcuni di loro, dopo oltre 40 anni, non hanno voluto parlarmi: alcuni, forse perché collusi, altri perché si vergognano ancora di averlo allora lasciato solo, altri ancora per paura o per non voler riaprire vecchie ferite».

IN CARCERE, COME UN PRINCIPE

Innanzitutto, Mattone ha ricordato come Cutolo si trovasse a Poggioreale per omicidio, ma lì, dietro le sbarre, costruì la Nuova Camorra Organizzata, «il suo impero». Alcuni testimoni «mi hanno raccontato di quali privilegi godesse in carcere, fin dal ’73», segno di forti collusioni: «aveva la cella sempre aperta, la moquette, il frigo, la tv, passeggiava in vestaglia e un altro detenuto gli  faceva, di fatto, da maggiordomo. E un agente mi raccontò che un giorno nella posta destinata a Cutolo, trovò anche alcuni biglietti di auguri di buon onomastico provenienti da Deputati della nostra Repubblica. Questo agente mi ha chiesto di rimanere anonimo».

Arriviamo al 1981. Al ritorno dall’udienza in un processo, Cutolo incrocia casualmente Salvia.Quest’ultimo dice agli agenti di perquisirlo, come da regolamento. Prima di allora, invece, Cutolo era l’unico detenuto a non venir mai perquisito.Allora Cutolo, davanti agli altri detenuti e agli agenti, gli dà uno schiaffo, così forte da fargli cadere gli occhiali. Giorni dopo, Salvia gli negò, dopo aessersi consultato col Ministero, di poter fare il “compare di nozze” per il matrimonio di un boss anch’egli detenuto a Poggioreale. Allora Cutolo ordinò, dal carcere, di ammazzarlo. L’omicidio avvenne sulla tangenziale di Napoli il 14 aprile 1981.

Giuseppe Salvia

IL MIO INCONTRO CON RAFFAELE CUTOLO: «SÌ, L’HO UCCISO IO»

Oltre ad aver potuto incontrare Mario Incarnato, l’esecutore materiale dell’omicidio, Mattone il 21 luglio 2019 ha potuto parlare con Cutolo nel supercarcere di Parma, un anno e mezzo prima della sua morte. «Era isolato, e non incontrava giornalisti da 30 anni. Parlammo 1 ora, un vetro ci divideva. Era molto invecchiato, col parkinson e l’artrite. Iniziò a fidarsi di me quando gli dissi che dal 2006 ero volontario nel carcere di Poggioreale: gli si illuminarono gli occhi. “Sì, l’omicidio Salvia l’ho fatto io”, mi disse. Prima di allora, almeno pubblicamente, non l’aveva confessato a nessuno».

CLAUDIO SALVIA: «MIO PADRE MI HA INSEGNATO MOLTO»

Il figlio Claudio lavora in Prefettura a Napoli, si occupa di antiracket, in passato si è occupato anche di antimafia. «Mio padre in casa non parlava mai di lavoro. Nel libro di Mattone viene raccontato un episodio che dice molto di che persona fosse mio padre. Un giorno andò a trovare in ospedale “Zio Antonio”, un suo caro amico.Ma con sé aveva anche dei cioccolatini: doveva portarli  a un ragazzino figlio di detenuto, lì curato, e lasciato solo».

Erano gli anni di piombo, del terrorismo, della corruzione dilagante. «Servivano, allora più che mai, servitori dello Stato integerrimi, come mio padre. Tanti corrotti lavoravano anche nel carcere di Poggioreale». Tra l’altro, «a mio padre 2 o 3 volte rifiutarono anche la richiesta di trasferimento in un altro carcere. Richiesta che fu accettata solo il giorno dopo la sua morte».

«Mio padre servì lo Stato fino all’estremo sacrificio», ha proseguito. «La camorra, prima di ammazzarlo, aveva anche cercato di corromperlo, e poi lo minacciò. Fu vittima di una delle peggiori, se non la peggiore, associazione criminale al mondo», la Nuova Camorra Organizzata.

«Io, come Mattone, faccio tanti incontri nelle scuole per sensibilizzare sul tema della legalità, per parlare di antimafia e antiracket. Per parlare di mio padre. E negli incontri con gli studenti, spesso noto come molti giovani e giovanissimi abbiano il mito del camorrista killer, anche per colpa di serie tv come “Gomorra”, che non apprezzo anche perché non vi è mai un risvolto positivo. E poi bisogna continuare a lavorare molto sulla forte correlazione tra dispersione scolastica e devianza sociale:così tanti ragazzi iniziano a delinquere».

«Mio padre, quindi – ha aggiunto -, mi ha insegnato molto, anche se praticamente non ho avuto modo di conoscerlo di persona: il suo sacrificio mi ha consegnato valori altissimi e profondi. A mia figlia, che ha 8 anni, cerco di trasmetterglieli a mia volta. E ho capito quanto sia importante testimoniare ciò che si dice coi fatti». È quel che ha fatto Giuseppe Salvia, testimone di verità e giustizia fino alla morte.

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 12 maggio 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio