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Ricchezza e verità nell’altro: è nostro ospite oppure ostaggio?

9 Mag

Padre Claudio Monge a Ferrara: «accettiamo la nostra mancanza, scegliamo lo sguardo di Dio»

L’altro non come «preda di cui appropriarci» ma «depositario di ricchezza e verità da far emergere assumendo lo sguardo di Dio». È questa la visione che a Ferrara ha proposto il frate domenicano padre Claudio Monge, Direttore del Centro Studi DoSt-I (Dominican Study Institute) di Istanbul, intervenuto a Casa Cini lo scorso 2 maggio per la Scuola diocesana di teologia per laici. Un altro ospite d’eccezione che ha richiamato un centinaio di persone, tra presenti e collegati on line, professore associato alla Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna (Fter) e all’Istituto di Studi Ecumenici “S. Bernardino” (ISE) di Venezia, e da dieci anni Consultore del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso.

UNA BIOETICA GLOBALE CONTRO LA VISIONE ECONOMICISTICA

Padre Monge è partito dall’analisi del presente: «è necessario – ha riflettuto – passare da una bioetica dei comportamenti a una bioetica globale», cioè a un approccio che non si limiti a tutelare la vita umana ma si preoccupi anche «della qualità della stessa, della sua crescita spirituale». Non bisogna limitarsi, perciò, «alla difesa della vita all’inizio e alla fine: tra l’ostetrica e il becchino c’è la vita nel suo sviluppo e nelle sue fragilità». Padre Monge si è soffermato, a tal proposito, sulla cura e l’assistenza alle persone malate, denunciando «lo smantellamento, in Italia e non solo, del sistema sanitario pubblico, ad esempio con la proposta di Pronto soccorsi privati per sopperire alle mancanze di quelli pubblici». La salute è un «bene comune» ma oggi domina una «visione economicistica» della sanità, una «visione funzionalistica, che monetizza i rapporti, guidato da un orientamento antropologico che riduce l’umano al consumo, feticizzando il denaro». Tutto – secondo questa visione – «deve avere una resa immediata, ridicolizzando ogni visione d’insieme». Ciò è molto evidente anche nel rapporto col creato, dove assistiamo a uno «sfruttamento selvaggio che apre a scenari di nuove guerre e di esodi sempre più di massa». Tutte queste crisi sono – ha proseguito il relatore – «l’epifenomeno di una più radicale crisi antropologica, anche se spesso è parte del mondo cattolico a non riconoscere la gravità e l’urgenza di queste crisi», pur ripetutamente denunciate da papa Francesco. Crisi che sono spia di «un Occidente come culla vuota», che nasconde cioè un grande vuoto di senso.

MENDICANTI E CONTEMPLATIVI

Prendersi cura dell’umano e del creato è per padre Monge «un atto profondamente religioso e spirituale»: dobbiamo ritornare all’idea dell’umano (Adam di Genesi, cioè il terrestre non ancora differenziato sessualmente) «come strettamente legato alla terra» e quindi rapportarci al creato «non come a una preda ma nei termini di relazione». Lo stesso umano è nella sua essenza «relazione», com’è evidente nell’episodio di Genesi in cui Adamo ed Eva nascono dalla comune radice Adam (e non la seconda dal primo, come si crede): solo una «mancanza», dunque, «apre il soggetto all’alterità», solo il proprio essere «feriti e mendicanti» ci fa scoprire l’altro e la differenza, «quindi anche noi stessi». Adamo diventa tale, cioè maschio, solo dopo la nascita della femmina, cioè di Eva, per differenza, distinzione.

Solo dall’alterità, dunque, e dal «riconoscimento dell’altro come dono può nascere il dialogo, la relazione, la cura». Ma questo riconoscimento non è scontato: se non avviene, «se non sopportiamo e accettiamo la nostra mancanza, cerchiamo di appropriarci dell’alterità», quindi di annullarla. E, inoltre, nell’incontro con l’altro non ci è chiesto nemmeno di «annullare le proprie ricchezze, di rinnegare noi stessi»: sa accogliere solo chi ha un’identità.

In ogni caso, l’altro va guardato «con lo sguardo di Cristo, uno sguardo di amore che fa emergere l’essenza dell’altra persona»: alla visione economicistica va, perciò, contrapposta una «visione mistico-contemplativa, capace di vedere la grandezza sacra dell’altro, di vederlo con lo sguardo di Dio, di vedere Cristo in lui». Solo su questo può fondarsi una vera fraternità, «per non cadere nella mera filantropia o nel sociologismo».

COME LEVATRICI

Oggi, invece, nell’epoca dei social, le relazioni tendono a essere «escludenti e costringenti»: non accogliamo l’ospite ma «creiamo ostaggi». L’ospitalità, invece, è «la forma propria dell’umanizzazione», è ciò che permette che l’estraneo «non diventi nemico, è ciò che apre a una sovrabbondanza divina». Accogliere, ospitare significa anche «riconoscere noi stessi come stranieri». «Stranierità, gratuità e mutua ospitalità» sono quindi i tre criteri fondamentali «per vivere una logica nuova», non di appropriazione né di sfruttamento. È la logica del «prendersi cura, per far in modo che la vita possa prosperare, per far emergere maieuticamente – come levatrici – le ricchezze e le verità che Dio ha depositato dentro gli altri». 

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce” del 10 maggio 2024

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