Incontro e nonviolenza contro il male della guerra

23 Nov

Dibattito ricco e appassionato per la XXV edizione del Convegno di Teologia della Pace organizzato a Ferrara: la testimonianza di padre Zelinsky sulla sua obiezione di cristiano all’ideologia imperante in Russia, il racconto di De Francesco dalla Terra Santa e il contributo di Simonelli sulla violenza diffusa. E ancora, qual è il ruolo delle Chiese nella costruzione, quotidiana e non, della pace? Han cercato di rispondere Paronetto (Pax Christi), Aprile (Chiesa Battista), Sala (Il Regno) e i rappresentanti delle Chiese locali

a cura di Andrea Musacci

La pace che nasce e sgorga dal cuore, inscindibile da quella che si costruisce solo nell’incontro col volto dell’altro. La pace, quindi, che ha come unica vera fonte il Cristo. Sono stati innumerevoli gli spunti emersi dal tanto atteso Convegno di Teologia della Pace, giunto alla XXV edizione (dopo 5 anni di pausa) e svoltosi a Casa Cini, Ferrara, il 15 e il 16 novembre. Tema scelto da SAE, Pax Christi e dalle altre associazioni organizzatrici, “Diventare Chiese di pace in tempo di guerre”.

PADRE ZELINSKY: «PENTIMENTO VERO CONTRO LE FOLLIE IDEOLOGICHE RUSSE»

«Facendo questa relazione qui a Ferrara, commetto un reato davanti allo Stato russo e davanti alla Chiesa ortodossa russa». Padre Vladimir Zelinsky (foto sotto), prete ortodosso e scrittore nato nell’ex URSS, dal ’91 vive a Brescia dove guida una parrocchia «composta dall’85% da ucraini». Fa parte del Patriarcato autonomo della Chiesa russa (Arcivescovado della Chiesa della tradizione russa, di rito bizantino slavo), distinto sia dal Patriarcato di Mosca sia dall’Esarcato Russo del Patriarcato di Costantinopoli (a cui Zelinsky apparteneva). «Un giorno vorrei tornare nella mia patria, ma oggi per me è molto complicato, anche perché ciò che dico a voi lo dico anche altrove, e non solo in italiano ma anche in russo».

A differenza del periodo sovietico – ha riflettuto – oggi in Russia non vi è più il problema della Chiesa clandestina, «ma la parola “pace” è sparita dallo spazio pubblico. Oggi lo Stato più che ortodosso è diventato autoritario e per questo Stato la pace significa guerra, massacro». Ed è la stessa Chiesa ortodossa russa a sostenere la guerra in quanto “difesa della patria”», contro il nemico che per loro «coincide con l’Occidente», mentre in realtà è «un nemico inventato». In questa narrazione «perversa», l’”invasore” possiede i tratti apocalittici dell’anticristo, infernali come satana. L’Occidente è accusato innanzitutto di corruzione morale e di voler salvare la salute morale dell’Ucraina». Dal punto di vista ecclesiale, per p. Zelinsky «il concetto di mondo russo introdotto dalla Chiesa ortodossa rappresenta una pura eresia. L’ideologia ha danneggiato i cervelli delle persone e la loro stessa fede». Quella di Putin in Ucraina, «manipolatore e mafioso», non è una «guerra santa, ma un bagno di sangue». In Russia domina una vera e propria «religione di Stato iniziata nel 1945» e che oggi vede, ad esempio, «lezioni obbligatorie di patriottismo già dalle Scuole Elementari». Per non parlare delle tante «conferenze ecclesiali organizzate a fine 2024 per celebrare l’80° anniversario dal 1945». 

P. Zelinsky ha voluto specificare che «non tutta la popolazione è segnata da questa tentazione di una vittoria indemoniata», ma il «vento che soffia sulla Russia e le sue Chiese purtroppo è questo»: oggi la propaganda ufficiale descrive la Russia come «il catéchon, colui che trattiene l’ordine divino facendo da ostacolo all’anticristo collettivo». Il dilemma per molti cristiani è questo: «andare contro la propria coscienza o contro tutti, compresa la propria parrocchia». Le prime vittime della guerra – ha proseguito p. Zelinsky – sono «la verità e la capacità di compassione e di empatia, oltre alla capacità di guardare la realtà in faccia». Come ad esempio, «il numero altissimo di morti anche fra i soldati russi, e i loro corpi spesso abbandonati sui campi di battaglia». Da tutto ciò, la Russia non otterrà altro che «odio che continuerà per secoli».

In tutto questo, che ruolo può avere una teologia della pace? Innanzitutto, per p. Zelinsky «l’Ortodossia ha tutti i mezzi spirituali per liberarsi da questa gabbia ideologica». Il principale strumento per arrivare a ciò è «il pentimento» che permette innanzitutto dentro di noi «di distinguere il bene dal male» e che «ci permetterebbe di uscire dalla “gabbia dorata” del mondo russo per aprirci al mondo creato da Dio», col risveglio «di una nuova vocazione spirituale». Ciò che è necessario è «una linea di demarcazione spirituale fra politica e fede», tra quest’ultima e «l’obbedienza cieca al potere».

IGNAZIO DE FRANCESCO: «PASSARE DAL FUCILE AL BULBUL»

Monaco della Piccola Famiglia dell’Annunziata (fondata da don Giuseppe Dossetti), Ignazio De Francesco è una testimonianza vivente di come la fede in Cristo non possa non incarnarsi in un’amicizia profonda e quotidiana con chi è diverso da noi. De Francesco guida una comunità cattolica a 7 km da Ramallah, in Cisgiordania, ed è esperto di islam. «Qui – ha raccontato a Casa Cini –, dove noi cristiani siamo una piccolissima minoranza, ho tanti amici sia tra i musulmani sia tra gli ebrei: la nostra “inutilità” di minoranza – ha proseguito – ci permette una relazione pacifica con tutte le anime che abitano questa terra». Il racconto, poi, è andato al 7 ottobre 2023: «stavamo recitando il salmo 118 («Come pecora smarrita vado errando; cerca il tuo servo, perché non ho dimenticato i tuoi comandamenti…»), quando abbiamo sentito i missili lanciati da Hamas verso Tel Aviv passare sopra di noi». In questa «bolla di omicidi nella quale viviamo, mi chiedo: c’è forse qualcosa di sbagliato nel software e nell’hardware dell’umano», cioè alla radice dell’umano? «L’uomo è una bestia?». Partendo da Caino e Abele, «che noi in Terra Santa sentiamo particolarmente nostri», De Francesco ha amaramente constatato come le religioni monoteiste – pur nelle differenze nei secoli «hanno spesso sacralizzato, canonizzato la violenza e la guerra». Ma a volte la denuncia pubblica è dovere di un cristiano, come – ha citato De Francesco – fece don Dossetti nel settembre 1982 in occasione del massacro nei campi palestinesi di Sabra e Chatila. «Ma il “tu” esiste? Esiste l’altro? È la domanda che ci poniamo, che dobbiamo porci – ha proseguito -, altrimenti l’altro diventa invisibile». Come avviene per i bambini in Terra Santa, indottrinati all’eliminazione dell’altro, prima concettuale poi anche fisica, a una «negazione reciproca per poi incontrarsi sul campo di battaglia». «Spesso anche nei programmi scolastici sia nelle scuole di Israele che in quelli della Cisgiordania, il tu non esiste: per gli arabi, gli israeliani sono solo frutto del colonialismo occidentale e sono solo o uomini in divisa o coloni, cioè non hanno un’identità personale». Così, nelle scuole israeliane «l’arabo palestinese scompare, è solo il terrorista». Le identità, quindi, «sono una grande ricchezza ma possono diventare muri assassini. È importante quindi conoscere l’altro, vedere che l’altro esiste, per arrivare a un reciproco riconoscimento: quando l’altro diventa un “tu”, non puoi più ucciderlo. E da qui, a partire dall’altro, si può anche conoscere nuovamente sé stessi». 

Ma lo sparo, quello sparo nella notte che non è difficile sentire in Cisgiordania e in Israele, «non può avere l’ultima parola. E allora, quella notte il bulbul (una specie di usignolo) «ha iniziato il suo cinguettio, il suo canto, a cui si sono aggiunti gli altri uccelli del bosco». Il bulbul ha, cioè, «rotto la dittatura dell’io, del fucile, risvegliando anche gli altri uccelli: la nostra specie umana, che sembra così orientata all’io del fucile, dovrebbe quindi imparare da altre specie animali».

SIMONELLI: «NONVIOLENZA SU PIÙ LIVELLI»

Sull’ospitalità, la cura e accoglienza dell’altro ha centrato il proprio intervento, venerdì 15, anche la teologa Cristina Simonelli, partendo dal “Pace a questa casa” di Lc 10, riflettendo quindi sull’«ospitalità e sulla possibilità del suo rifiuto», della non accoglienza fino alla morte, come nel caso di Moussa Diarra, ucciso lo scorso 20 ottobre a Verona da un poliziotto. Sempre nel Vangelo lucano (capitoli 13 e 19), Gesù «attraversa diverse dimensioni della realtà», emergendo come «chioccia che cova, culla, protegge i suoi figli» ma anche come Colui che denuncia, con parresia, «come il tempio da casa di preghiera sia diventata una spelonca di ladri». Diverse e ambivalenti le dimensioni della pace legata al concetto di casa e diversi i livelli della violenza. Johan Galtung, sociologo e teorico della pace, propose il triangolo della violenza: la punta è rappresentata dalla «violenza palese, verso cui spesso le Chiese sono troppo afone». Il livello intermedio, dalla violenza strutturale, «dalle ingiustizie e dalle disuguaglianze globali, dalle quali nasce la guerra». La base, infine, è rappresentata dalla «violenza culturale, dai discorsi d’odio e dalla narrazione fatta di stereotipi». La nonviolenza, di conseguenza, «deve lavorare su tutti questi livelli» e sempre nel solco della speranza, che è «potente» e ci chiede «di stare in attesa ma in maniera radicale e attiva». La speranza, insomma, «è una virtù nonviolenta».

PARONETTO: «PAX CHRISTI, STORIA DI PACE»

La pace come speranza concreta, si diceva, come progetto umano e collettivo, e quindi come storia di donne e uomini in tutto il mondo. Non parole, ma una storia realistica che associazioni come Pax Christi costruiscono ogni giorno da decenni. Durante il Convegno di Teologia della Pace tenutosi a Casa Cini, ne ha parlato Alessandra Mambelli (Pax Christi Ferrara), la quale ha raccontato la nascita 30 anni fa di questi Convegni dopo la nascita del Punto Pace a Ferrara. Mambelli ha poi ricordato, in particolare, il legame stretto di Pax Christi con don Tonino Bello. E col biblista ferrarese don Elios Mori. 

Ha poi relazionato Sergio Paronetto, già vicepresidente di Pax Christi Italia, del cui Centro studi è attualmente presidente e nel cui gruppo veronese è ancora attivo. «Azione costante, continua, determinata e globale: questa è la nonviolenza», ha spiegato. E questa è un’ottima definizione per Pax Christi, che nasce a livello internazionale grazie a un gruppo di donne, idem in Italia, oltre al ruolo decisivo del card. Montini, di mons. Rossi Vescovo di Biella, mons. Castellano Vescovo di Siena e di don Luigi Bettazzi, dal ‘68 presidente nazionale e poi anche presidente internazionale. «Non bisogna solo – diceva – costruire la pace ma essere pace». La pace, quindi, è «qualcosa che riguarda tutte le dimensioni della vita (spirituale, personale, economica, ecologica ecc.) e con un respiro ecumenico, interreligioso e umanistico. Con gioia – ha proseguito – dobbiamo combattere contro tutto ciò che deturpa l’uomo come immagine di Dio». 

Paronetto ha ricordato come dagli anni ’60 Pax Christi abbia avviato «progetti per un’economia di pace, disarmata, organizzato le Marce della pace nate a Sotto il Monte, terra di papa Giovanni XXXIII, e diversi convegni di studi. Un’altra lotta è stata quella per l’obiezione di coscienza al militare: «molti andavano in carcere o andavano – come me – in Servizio civile in Paesi del terzo mondo». Paronetto ha poi ricordato l’impegno contro la guerra in Vietnam e, in particolare, la grande assemblea per la liberazione dei popoli dell’Indocina francese, svoltasi nel ’73 a Torino grazie anche all’allora Vescovo card. Pellegrino. E ancora, le lotte contro le dittature e per la pace negli anni ’80 e ’90. «La guerra è sempre un fratricidio e un deicidio, – ha riflettuto Paronetto – perché bestemmia contro il Suo nome: verso il dio delle guerre e delle violenze, ci vuole il più radicale ateismo». Gesù cristo «è nonviolento, è la nostra pace: con il dono del suo corpo ha abbattuto i muri di separazione e in lui ha unito i popoli. E questo, oggi, è il compito della Chiesa». La pace è, quindi, «la sostanza del messaggio cristiano, perché affonda le radici nel mistero trinitario, che è mistero d’amore. La Chiesa non potrà dunque mai essere neutrale ma sempre profetica».

Riprendendo poi don Tonino Bello, Paronetto ha spiegato come «la pace è il progetto politico più realistico, perché la guerra è sempre una strage, oltre a distruggere, a svuotare la politica». La pace è «la più bella avventura della vita, è una trasformazione radicale della vita». Significa far coincidere i mezzi coi fini. Insomma, «se vuoi la pace, prepara la pace», fin da ora.

APRILE: «COSTRUIRE LA PACE NEL PICCOLO»

Massimo Aprile, pastore battista di Napoli ha poi preso la parola (in collegamento online) spiegando come ha avuto «l’onore di conoscere personalmente don Tonino Bello e don Luigi Bettazzi. «Pace, giustizia e salvaguardia del creato – fra loro strettamente connessi – rappresentano l’urgenza del nostro tempo». Oggi, invece, «spesso le Chiese difendono interessi e privilegi, invece di essere vessilli del Vangelo della pace». Insieme a valdesi e metodisti, Aprile ha poi spiegato le diverse forme di collaborazione, anche per la pace, oltre che con altre anime del mondo riformato. «Ognuno deve chiedersi: cosa sono disposto a fare per la pace? E cosa sono disposto a rinunciare per la pace?». Per fare la pace innanzitutto bisogna «decostruire l’immagine negativa del nemico, iniziando ad ascoltarlo, a sentire le sue ragioni». Va poi «smontata l’ideologia del militarismo, del nazionalismo e della corsa agli armamenti» e «ognuno di noi nel piccolo, nel quotidiano dev’essere mediatore di pace». Infine, la pace va costruita anche nell’ambito del «linguaggio, che dev’essere sempre più inclusivo e sempre meno discriminatorio», e quello legato «all’uso del denaro», pubblico e personale.

SALA: NONVIOLENZA, GUERRA GIUSTA E CAUSE STRUTTURALI

E a proposito di linguaggio, lo scorso febbraio i Vescovi tedeschi hanno cercato le parole giuste per parlare di pace, producendo un’importante Dichiarazione, “Pace a questa casa”, presentata da Daniela Sala, Caporedattrice de “Il Regno – documenti”. Un documento pensato «per approfondire e aggiornare il pensiero della Chiesa sulla pace, tentando di «superare due posizioni differenti e contrapposte: la tradizione della nonviolenza e quella della guerra giusta». La formula di sintesi è la cosiddetta «opzione preferenziale per la nonviolenza», cioè «la scelta della nonviolenza pur nel riconoscimento della necessità, a volte, di difendere la pace e contenere la violenza». Sono state diverse, e alterne, le fortune della pace nel secolo scorso e così differente è stato il dialogo all’interno del mondo cristiano al riguardo. Negli ultimi due ventenni – ha detto Sala – «la riflessione etica cristiana ha sempre più abbracciato la linea della “pace giusta”, che considera fondamentale anche il superamento di tutte le ingiustizie». In ogni caso, il documento in questione dell’episcopato tedesco «tenta di ricucire le differenze fra chi riconosce un diritto alla guerra pur rifiutandola, chi pensa che non vi sarà pace finché non ci saranno organismi sovranazionali capaci davvero di difenderla, e chi invece rifiuta sempre la guerra». L’importante è «dialogare sempre pur nelle differenze e lavorare sempre per la pace nel mondo», anche attraverso «la deterrenza nelle sue varie forme, concentrando i nostri sforzi per affrontare le sfide del futuro». Ma quindi, per stabilire una pace duratura, la Chiesa cosa può fare? «Testimoniare la pace di Cristo in un mondo diviso», ha detto Sala. «Non sarà facile, ma questa è la missione di ogni cristiano, di ogni Chiesa».

LA PACE NEL CUORE

L’introduzione del convegno venerdì 15 è spettata al biblista Piero Stefani, fra gli organizzatori storici, che ha preso le mosse da uno dei testi fondamentali del Concilio Vaticano II, Gaudium et spes, 78: da esso si deduce come «la guerra permane perché siamo nella dimensione del peccato»; ma i conflitti – senza per nulla volerli giustificare – possono essere comunque «un tempo di kairos, un tempo opportuno»: infatti, da una parte «ci si rende conto che la catastrofe è tale solo dopo che questa avviene»; dall’altra, la guerra «fa risaltare ancora di più gesti di bene».

Sempre il primo dei due giorni, i saluti del Vescovo e dell’Arcidiocesi li ha portati il Vicario Generale mons. Massimo Manservigi, che ha accennato alla «pace come dono di Dio ma che ha bisogno di essere accolta nel nostro cuore». Concetto, questo, decisivo, e poi ripreso anche da padre Oleg Vascautan, alla guida della Comunità ortodossa moldava di Ferrara: «le Chiese – ha detto – sono sempre punti di pace, riferimenti per la pace». Pace che, però, «è innanzitutto qualcosa di interiore, deve cioè scendere nel cuore di ognuno, nel profondo, non rimanere a livello delle idee, sul piano teorico». Al contrario, dev’essere qualcosa di “pratico”, di concreto. Per questo, «la guerra più pesante è quella col prossimo, la volontà di sopraffazione nei confronti di chi mi è vicino: qui ha inizio la guerra». L’unica vera pace è «quella che viene da Dio. E la nostra pace – chiediamoci – coincide con quella di Dio? Spesso, infatti, ci rappresentiamo Dio come piace a noi (un dio governabile, confortevole), invece di essere aperti alla Sua rivelazione». Quando parliamo di pace, dunque, «parliamo non di qualcosa ma di Qualcuno: la Pace è una Persona, Dio. È quindi a Lui che dobbiamo guardare se vogliamo vivere la vera pace. Chi trova Dio, trova la pace». «È importante lavorare anche e soprattutto sul verticale, sulla radice spirituale», ha poi in un certo senso proseguito Raffaele Guerra, diacono della Chiesa ortodossa rumena di Ferrara: «finché la nostra interiorità sarà in conflitto, nulla potrà portare a una pace duratura».

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 22 novembre 2024

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