Kafka e quella vergogna che apre alla solidarietà

21 Ott


A Ferrara la tesi di Ernesto C. Sferrazza Papa: «niente assurdo, lo scrittore è un iperrealista»

“Le promesse della vergogna. Esperimenti su Kafka” (Rosenberg & Sellier, Torino 2025) è il nome del saggio dello studioso Ernesto C. Sferrazza Papa (Università di Roma “La Sapienza”), da lui presentato lo scorso 16 ottobre in Biblioteca Ariostea a Ferrara.La conferenza organizzata da Istituto Gramsci e Isco Ferrara ha visto la presentazione a cura di Micaela Latini (Università di Ferrara) e l’introduzione di Filippo Domenicali (Istituto Gramsci Ferrara).

Proprio quest’ultimo ha riflettuto su come dal libro di Sferrazza Papa emerga un Kafka «illuministico – nel senso di Adorno e Horkheimer – e demistificator»e.Insomma, il suo non è pessimismo ma «teoria critica», e quindi la vergogna nei suoi scritti è «progressista, apre a una speranza possibile».

«Kafka è uno dei pochi autori a poter “vantare” il fatto di esser diventato un aggettivo, “kafkiano” – ha detto l’autore -, che richiama un’oppressione assurda operata da un potere contro il quale è difficile ribellarsi». Un aggettivazione, quindi, che richiama «un’assenza di speranza, una resa al mondo così com’è». Ma quest’aspetto, pur presente, per Sferrazza Papa «non esaurisce l’opera di Kafka»: vi è in lui, infatti, «un moto di rivalsa nei confronti del potere, un’istanza critica», soprattutto ne Il processo. È, infatti, «attraverso la vergogna che Kafka attacca il potere». Quella vergogna che, nella nota Lettera al padre (mai recapitata al destinatario) è «effetto di una strutturale incapacità del figlio a rispondere alle aspettative del padre, quest’ultimo simbolo della legge e del potere come struttura colpevolizzante». Ne Il processo è «come se la vita non potesse non essere di per sé colpevole». Il tribunale segreto che giudica il protagonista, per l’autore «ricorda la Santa Vehme», tribunale nato nella Germania medievale, parallelo a quello ordinario e che «si autoattribuiva la facoltà di condannare a morte persone sfuggite al sistema giudiziario ordinario».

Insomma, «Kafka non è come normalmente si pensa un narratore dell’assurdo ma anzi un iperrealista: egli sa, infatti, che esiste una razionalità nascosta, occulta».

Ed è proprio nella scena finale del Processo che si accenna a questa vergogna che sembra dover «sopravvivere» al protagonista Josef K., poco prima che questi venga giustiziato. In Kafka, dunque, la vergogna «ha un valore dialettico»: da una parte, c’è la vergogna «passiva, che chiude in sé stessi», cioè quella «davanti agli altri, causata dal loro sguardo giudicante»; dall’altra, esiste la vergogna «attiva, che trasforma il mondo», quella «per gli altri», cioè il vergognarsi di ciò che gli altri dicono o compiono. Quella di cui si accenna nel finale del romanzo è questo secondo tipo di vergogna, forse da attribuire a quella misteriosa figura umana che si sporge dalla finestra di fronte. La finestra, certo, già di per sé «simbolo di un oltre, di un’apertura verso qualcun altro, apertura che squarcia il reale inteso come mera manifestazione,  apertura a un altrove». Finestra, quindi, come simbolo di «un interessarsi al mondo, di un affacciarsi al mondo per partecipare alla realtà, senza isolarsi». Simbolo, insomma, «di emancipazione, di solidarietà», richiamo all’esistenza di un testimone che può testimoniare. Testimone attivo «che è – che può essere – ogni persona che legge il romanzo».

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 24 ottobre 2025

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