
A UniFe gli interventi degli studiosi Andrea Zhok e Lorena Pensato
Spesso i “nemici” delle sacrosante battaglie a difesa delle minoranze sono proprio coloro che queste battaglie sì le combattono ma con metodi e fini sbagliati in sé e controproducenti per le battaglie stesse. Sulle radici storiche e ideologiche di tutto ciò si è riflettuto nel Seminario pubblico dal titolo Natura umana o costruzione sociale? Cultura woke, patriarcato e il nuovo bellum omnium contra omnes,organizzato dalla prof. Fulvia Signani, docente del Corso di Sociologia di genere del Dipartimento di Studi Umanistici di UniFe, lunedì 24 novembre nella sede di via Paradiso a Ferrara.
DOVE NASCE TUTTO
«L’attuale fase storica coincide con la rivoluzione neoliberale, nata negli anni ‘70 negli USA e poi arrivata nel nord Europa e quindi nel resto del nostro continente», ha esordito il primo relatore, Andrea Zhok (Professore di Filosofia morale all’Università degli Studi di Milano). Fino a quel periodo, «l’obiettivo del femminismo era l’uguaglianza fra i generi, obiettivo sostanzialmente raggiunto», nonostante contraddizioni e resti del passato; poi, il femminismo si è spostato su «una posizione “rivendicativa”, che non cerca l’uguaglianza ma la differenza». Questo cosiddetto “femminismo della differenza” «nasce dalla New Left statunitense, che non crede più «nel soggetto rivoluzionario marxiano “classico”» come soggetto di trasformazione, ma vede al suo posto «le minoranze oppresse. Il proletariato però – ha riflettuto Zhok – aveva quel tipo di ruolo perché era la classe universale di tutti coloro che lavoravano e in quanto tali erano sfruttati». Al posto dell’approccio politico, «con la New Left domina un approccio meramente rivendicativo-sindacale»: di conseguenza «il mondo maschile viene messo al posto di quello che era la classe padronale e la metà femminile vista come “classe” oppressa».
UNA “RIVOLUZIONE” CHE PIACE AL POTERE
Questa «morte della dinamica della lotta di classe» porta la lotta su un altro piano, quello «quasi del tutto intellettuale, culturale, quindi nel mondo accademico», con l’obiettivo di «convertire» l’avversario e un conseguente «rifugio nel privato» e la «politicizzazione» di quest’ultimo. Ad essere al centro del dibattito sono «i gruppi naturali», fondati sul genere e l’etnia. Ma per Zhok tutto ciò è utilissimo per le classi dirigente, «perché rende inerte il soggetto collettivo che dovrebbe criticarle, metterne in discussione la posizione dominante».
E questo spiega perché «qualcosa che nasce dentro gruppi minoritari diventa questione nazionale»: perché si sposta l’attenzione delle masse dalle tematiche che criticano strutturalmente il potere e chi ce l’ha. Si tratta, quindi, «semplicemente di una variante del liberalismo, che non ha nulla a che fare col socialismo e il comunismo».
NEMMENO PIÙ L’INDIVIDUO
A livello antropologico, il terremoto che ha provocato il passaggio da una dinamica classica a quella post moderna, è fortissimo: «per Marx il sistema liberal-capitalistico provoca alienazione e la competizione del tutti contro tutti», andando quindi «contro l’uomo e i suoi bisogni naturali, umani: c’era quindi una natura umana oggettiva da difendere». Superare tutto ciò porta invece al considerare che «non ci sia più una natura umana, cioè una base oggettiva riconosciuta», né una razionalità storica. La mancanza di una base comune riconosciuta porta la libertà ad essere meramente «negativa: il soggetto è libero se gli altri non interferiscono su quel che lui vuole; e l’unico che decide di ciò che ha valore è solo il soggetto»: siamo dunque arrivati all’«autodeterminazione individuale assoluta». Ma l’uomo, da sempre, per Zhok «è ciò che è solo all’interno di una comunità», pur nella sua libertà: «è individuo sulla base di relazioni sociali, innanzitutto quelle costitutive. Il soggetto non nasce come un fungo dal nulla: questa – che è poi la concezione liberale – a livello antropologico è una finzione». Col postmoderno «nasce quindi un individualismo che in realtà è senza individuo, perché c’è un devastante infragilimento dell’identità personale, in quanto questa se estraniata dal contesto storico e dalle forme relazionali comunitarie primarie (famiglia ecc.), si forma da altre “fonti”: ma così si ha un vuoto educativo primario».
POLITICALLY DAVVERO CORRECT?
Altro aspetto di questa nuova cultura meramente rivendicativa e ultraindividualista è «la radicale culturalizzazione e politicizzazione della sessualità, cioè la dimensione sessuale diventa un fattore in cui la componente naturale non ha nulla da dire», ha proseguito Zhok; per cui «il sesso – anzi, il genere, cioè un’identità pensata, non più naturale – diventa oggetto di opinioni e di dibattito come fosse un abito. Tutto ciò è catastrofico, perché la sessaulità è una sfera delicata e complessa». Da qui nasce il cosiddetto politically correct: «le parole considerate inappropriate diventano elementi di discredito, di ghettizzazione immediata e di aggressione politica, avvelenando drammaticamente gli ambiti per la ricerca del vero», quello giuridico e quello accademico. Di conseguenza, «molti scelgono di non parlare più per paura di essere pubblicamente distrutti».
NON TUTTO È “FEMMINICIDIO”
La seconda relatrice chiamata a riflettere su un aspetto specifico di questa visione ideologico-rivendicativa è stata Lorena Pensato, autrice del libro Non è patriarcato!, uscito lo scorso marzo, nel quale tratta dei cosiddetti «omicidi relazionali»: «più che parlare di violenza di genere – ha detto -, dovremmo parlare dei vari generi di violenza. Abbiamo abusato del termine “violenza di genere” e infatti non esiste nessuna prevenzione sugli omicidi diversi dagli omicidi nei quali è un uomo ad uccidere una donna. La “lettura di genere” – pur importantissima – non può per essere l’unico strumento» e quindi «dentro quelli chiamati “femminicidio” vengono erroneamente messi casi che vanno interpretati diversamente». L’autrice ha analizzato 200 casi di cronaca accaduti fra il 2021 e il 2023, fra i quali, ad esempio, quelli riguardanti donne uccise da altre donne, figlie uccise da madri, donne uccise durante una rapina o per motivi economici o in coppia. Non femminicidi. «Dal dibattito pubblico – ha proseguito – abbiamo quindi escluso» come cause/fattori interpretativi di omicidi che vedono vittime le donne, la complessità del disagio psico-emotivo/disturbi della personalità: «diversi sono gli studi al riguardo ad esempio sul disturbo border line di personalità, o sul disturbo paranoide»; le dipendenze dagli stupefacenti, «comprese le “droghe leggere”, come dimostrerebbe uno studio pubblicato su Rivista psichiatrica del gennaio-febbraio 2013». Oltre ai cosiddetti «”fattori precipitanti”, ad esempio un lutto o una separazione».
Ciò porta al paradosso per cui quello che viene definito “vizio di mente” «è riconosciuto dalla giustizia – articoli 88 e 89 del nostro Codice penale – ma non dalla prevenzione/informazione dominante», che appunto «non li riconosce come influenti nell’uccisione di donne». Questa visione limitante e ingiusta, secondo Pensato porta anche al fatto che «dai Centri Antiviolenza rimangano esclusi determinati soggetti come le donne maltrattate da altre donne, i figli maschi maggiorenni maltrattati, le persone disabili o quelle omosessuali».
Andrea Musacci
Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 5 dicembre 2025
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(Foto: Mohamed elamine M’siouri – Pexels)
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