
L’intervento dello psicanalista al nuovo Polo Didattico di Cona per l’inaugurazione dell’anno accademico: «la formazione sia spazio di luce, fuoco, valore del nome proprio». I disagi dei giovani
A cura di Andrea Musacci
«Quello che erediti dai tuoi padri, riguadagnatelo, per possederlo»: ha preso le mosse da queste parole di Goethe, Massimo Recalcati, noto psicoanalista e docente universitario, per la sua prolusione lo scorso 6 marzo alla cerimonia di inaugurazione dell’anno accademico 2023/24 dell’Università degli Studi di Ferrara. «Il movimento dell’eredità è sempre un movimento in avanti, pur nella fedeltà alla tradizione», ha proseguito. «Io adoro gli inizi, i battesimi, i matrimoni, lo sbocciare dei fiori, tutto ciò che prende vita. Ma affinché qualcosa possa cominciare, non deve mai smettere di incominciare», sono state ancora sue parole. Da qui, la citazione di Gentile sull’insegnare come continuo apprendere, «ricominciare ogni volta per evitare il rischio terribile della ripetizione senza sorpresa».
«NAUFRAGIO DELLA PAROLA» E NOME PROPRIO
Parafrasando, poi, un passo de “La peste” di Camus, Recalcati ha detto: «oggi l’università deve “saper restare”, essere cioè un punto di riferimento in un’epoca di forti crisi». Epoca nella quale assistiamo al «naufragio della parola», dove cioè «la parola non ha più peso». Nell’università, quindi, oltre a una necessaria «anima-dispositivo» fatta di regolamenti, burocrazia, valutazioni, algoritmi e numeri, deve avere cittadinanza il «nome proprio»: «chiamare per nome è un atteggiamento di cura», il nome – con la «singolarità storta» che rappresenta – è «eccentrico» rispetto al numero, lo eccede sempre. I luoghi della formazione così intesi non possono che essere «luoghi della luce, dove si fa esperienza della luce, dove cioè si allarga l’orizzonte del mondo».
DALLA «TOSSICOMANIA» AL RIFIUTO DELLA VITA
L’opulenta e spesso vuota società contemporanea, però, crea nel mondo giovanile due forme di disagio: una, prevalente più nell’era pre covid, che Recalcati definisce «disagio neo-libertino», causato dall’idea che «tutto è possibile», con una «sregolazione pulsionale, del consumo e l’assenza di vincoli e legami». Una «tossicomania» non solo legata al consumo di droghe ma a una vera e propria «idolatria delle cose», una «sacralizzazione degli oggetti che desacralizza la vita». A questa si è aggiunta, dopo il covid, una nuova forma di disagio, un suo «rovescio malinconico»: quello dei giovani che «rifiutano la vita, si ritirano da essa», le cui camere diventano «bunker». Una «pulsione securitaria» che fa vedere «l’altro come una minaccia, l’aperto come fonte di angoscia». D’altra parte, però, oggi assistiamo anche a un «uso inflattivo della psicologia» e a una «medicalizzazione di ogni aspetto della vita», con un «abuso della diagnosi» ad esempio in ambito scolastico, che fa anche «identificare le nuove generazioni come vittime, porgendo così ai giovani alibi per sentirsi sempre giustificati».
C’È BISOGNO DI FUOCO
I giovani, invece, hanno bisogno di «una formazione intesa non tanto come una scala da salire ma come un fuoco»: hanno bisogno, cioè, di «qualcuno o qualcosa» (un insegnante, un libro, ad esempio) «che li scotti, che li accenda», che accenda la loro passione.
Pubblicato sulla “Voce” del 15 marzo 2024