
Dialogo sull’essenza della poesia col giovane catechista dell’Unità Pastorale Borgovado e insegnante all’Einaudi di Ferrara: «su Instagram e Tik Tok non cerco visibilità ma continuo la mia ricerca attraverso la parola, questo trovare misterioso mettendo una parola dopo l’altra»
di Andrea Musacci
«Se ci si ricorda del linguaggio, se non si dimentica che possiamo parlare, allora siamo più liberi, non siamo costretti alle cose e alle regole. Il linguaggio non è uno strumento, è il nostro volto, l’aperto in cui siamo».
(G. Agamben, Quando la casa brucia, 2020)
«Ciò che ti dà la poesia è parole per capire la tua vita e quella che ti è attorno. Parole per prenderle entrambe per mano». Così Giulio Zambon, 27 anni, ci spiega la sua vocazione di poeta. E di poesia ha scelto di parlare attraverso alcuni social: i suoi reels su Instagram raccolgono da “appena” qualche decina di migliaia di visualizzazioni ad alcuni milioni. Lo stesso su Tik Tok. Ma a incontrarlo, Giulio, non pare avere nessuna voglia di atteggiarsi da VIP.
Cresciuto a Schio, nel vicentino, insegna italiano e storia all’Einaudi di Ferrara e nel proprio curriculum ha gli studi di pianoforte al Conservatorio e una laurea in Lettere all’università. «Fatico – spiega a “La Voce” – a definire il leggere e lo scrivere come passioni perché non occupano una fetta del mio tempo, ma la mia vita». Suoi versi sono apparsi nella rivista Poesia, edita da Crocetti, e suoi testi sono apparsi anche in riviste online (Minima Poesia, Medium Poesia, Vallecchi Poesia).
Prossimamente uscirà una sua pubblicazione. «Poi c’è la musica, ci sono le passeggiate, le lunghe conversazioni con gli amici». E una fidanzata, con la quale condivide – ogni domenica prima della Messa delle 11 – il catechismo nell’Unità Pastorale di Borgovado a Ferrara. Proprio da qui inizia il nostro dialogo.
Giulio, parlaci della tua appartenenza alla Chiesa: dove nasce, come cresce, come si concretizza…
«Nasce da una diffidenza, come da piccoli si guarda di nascosto qualcosa che non si capisce. E si mantiene fisso lo sguardo, consapevoli del mistero. La Chiesa, o più specificamente la fede, era per me questo: un mistero commestibile, che provavo ad addentare ma che non comprendevo. A un certo punto le parole e la Parola le ho sentite dirette a me, mi hanno dato del “tu”. Penso che si sia figli da quando un padre ti chiama per nome. Ora sono in un momento di silenzio, che non è altro di uno dei normali momenti di un dialogo che continua. Sento che questo rapporto si esplica concretamente mentre scrivo, che non è altro che una forma di preghiera. Continua nel mondo attraverso i bambini del catechismo».
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(Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 12 settembre 2025)
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