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Misericordia e vita giusta nel Manzoni

28 Feb

Antonia Arslan e Davide Rondoni il 20 febbraio sono intervenuti a Ferrara su “I promessi sposi”

Cos’è che rende una vita davvero giusta? Su questo tema centrale per le donne e gli uomini di ogni tempo si è riflettuto lo scorso 20 febbraio interrogandosi su un capolavoro della letteratura di ogni tempo, “I promessi sposi”.

Nella sede dell’Università di Ferrara in via Adelardi si sono confrontati Antonia Arslan, scrittrice e saggista italiana di origine armena, e Davide Rondoni, poeta, scrittore e direttore artistico del Festival Della Fantasia. L’incontro “Che cosa c’è di allegro in questo maledetto paese?” – primo evento del Festival 2023 che si svolgerà l’11, 12 e 13 maggio in Castello e contributo in preparazione al concorso con lo stesso titolo – è stato organizzato da Accademia e Fondazione Enrico di Zanotti, in collaborazione con altre associazioni e istituzioni.

Arslan: «in un atto di amore, Manzoni si è inchinato agli umili»

Arslan nel suo intervento è partita innanzitutto dalla biografia di Alessandro Manzoni, «romantico non nichilista, personaggio complesso, nevrotico folle, con profonde ferite interiori». Un vero «genio», autore di «un romanzo che non fu per nulla, fin dall’inizio, un santino della nuova Italia, ma un grande romanzo d’avventura».

Nel libro, Manzoni «riesce ad accettare il mondo degli umili con unità personale, lui aristocratico, riesce a capire la realtà dei semplici e, ammirando la loro fede, a raccontarlo». Un mondo, quello degli umili, per nulla «mitizzato ma raccontato» da chi è stato capace di comprenderne il nucleo essenziale: «una semplice dirittura e onestà». Con «un continuo atto di volontà – ha proseguito la scrittrice -, Manzoni ha piegato sé stesso e si è inchinato, in un atto di amore, con ironia e chiarezza di linguaggio, a questo mondo» così diverso dal suo.

“I promessi sposi” sono «una pietra di inciampo, perché lì si frantuma un modo di scrivere precedente, pesante». Manzoni riesce, invece, a realizzare «un’avvolgente spirale di avventure, vissute da personaggi che ama, che descrive vivamente, con dialoghi della più alta qualità letteraria».

Rondoni: legame tra sapienza del popolo e Provvidenza

Manzoni nel romanzo «racconta una storia che non è consolatoria come tanti vogliono far credere», il popolo da lui narrato «è una questione tutt’altro che tranquilla e pacifica», ha spiegato invece Rondoni. 

Quel «sugo di tutta la storia» che Renzo e Lucia colgono nel finale, è «il loro tempo, è comprendere loro stessi. Non c’è bisogno di intellettuali, di un’élite per coglierlo, per avere questa sapienza: il “sugo della storia” è il senso di avere giustizia nella vita». Insomma, non evitare i guai, «dividendo la storia in fortunati e sfortunati», ma avere fede, «la fede del popolo, un’esperienza di un popolo più grande di sé». Popolo la cui vita «è determinata da cose non create dal popolo stesso, ma che lo generano». 

Da qui, il tema della Provvidenza, «parola descrittiva della Misericordia» – a sua volta «bomba che fa esplodere tutto, che non ha confini»: Provvidenza  che fa «leggere il valore dell’esistenza a un altro livello, cercando di capire cos’è che rende una vita giusta». Compito supremo per l’uomo, questo: significa comprendere «come la libertà dell’individuo entra nel tempo, come il singolo sta nel tempo con più libertà e profondità, senza dividere la storia in fortunati e sfortunati». È, infatti, il cuore stesso a «non poter accettare che la vita si divisa solo in fortuna e sfortuna».

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 3 marzo 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

L’amore inquieto nei versi di Filippo Reggiani

6 Giu
Filippo Reggiani

“De culpabili amore” è il libro di esordio del giovane poeta mirandolese. I tormenti di un cuore che anela a Dio

di Andrea Musacci

A volte, forse, la giovane età può far vedere ben poco sfumati i confini dei sentimenti, e dunque percepirne solo l’incandescenza o la cupezza. E così è bene che sia, e di questa istintività spirituale va conservata memoria in età adulta.

A ricordarcelo è Filippo Reggiani, giovane poeta classe 2000, che in questi mesi sta presentando il suo libro d’esordio, “De culpabili amore” (edizioni Kimerik, marzo 2022, pp. 84).

Un bagno negli abissi e negli splendori della classicità, che rivive nei versi di questo giovane nato a Mirandola, dove ha frequentato il Liceo Classico “Giovanni Pico”, lui originario di San Martino Spino ma che da alcuni anni vive a Ferrara dove a breve si laureerà in Lettere, arti e archeologia. Catechista e animatore della sua parrocchia, da ottobre a febbraio scorso ha svolto il tirocinio nell’Archivio storico della nostra Arcidiocesi.

Nonostante non abbia conosciuto il “secolo breve”, Reggiani ha già partecipato a diversi concorsi letterari, fra cui il “Premio Dante” indetto dall’Accademia dei Bronzi nel 2021, ricevendo la targa di merito, e il Premio “Habere artem” della Casa editrice Aletti. “De culpabili amore” l’ha presentato al recente Salone del Libro di Torino e il 10 giugno ne parlerà a Mirandola, nel Giardino ex Cassa di Risparmio, con inizio alle ore 21. Il libro è acquistabile sui principali store on line e su ordinazione nelle librerie di Ferrara.

Non male, insomma, per questo ragazzo che scrive poesie da circa 6 anni ma che fino a pochi mesi fa non aveva reso partecipe quasi nessuno della sua creatività. Un animo coraggioso, insomma, che non teme di mettersi a nudo, a maggior ragione in un’epoca come la nostra dove “poesia” – ahimè – è sempre più sinonimo di sdolcinatezza, di vuote e banali parole. Fa bene all’anima, invece, leggere “De culpabili amore”, dove fin da subito è chiara non solo la profondità dell’animo di chi scrive ma anche la sua conoscenza dello stile. 

Una poesia, la sua, che è catarsi, liberazione e purificazione dal male. Una poesia essenziale perché inebriata della sostanza dei sentimenti, degli aneliti fondamentali dell’umano, ma per nulla scarna, anzi ricca nelle immagini e nella musicalità. Sonetti, ottave, quartine libere per esprimere l’ambivalenza dell’amore, croce e delizia, via che conduce al bene e strapiombo per la perdizione. Sentimento fratello del tormento, che scatena emozioni ma anche affanni, l’amore è fatto anche di gioie ben poco durature, di ebbrezze e dolorose rinunce. Versi, quelli di Reggiani, battezzati dunque nelle acque agitate dell’esistenza, nel dolore e nelle mancanze, nella sete di vita vera.

È dunque l’amore il protagonista, tanto quello piccolo e meschino, quanto  quello immenso che libera. Il «disio è volubile come il vento, / d’ogni passion si riempie e mai sei grato», scrive Reggiani, «continua voglia e insaziabile brama». Il peccato «è adornar stanza che sempre resta vuota». «Eppur quel viso non riesco a dimenticare», perché in ogni volto vi è un segno dell’Eterno, una promessa di Bene. «Non la beltade, ma l’alma miro, / e mente affligge come il legno il tarlo. / Se quest’è il voler di Dio, allor, sol sospiro», sono ancora versi del mirandolese, e la preghiera è continua, non viene mai meno quel filo che lega il corpo al Cielo, la terra all’Infinito: Padre, «cura la lascivia, dà al cor nobiltà», «il peccar m’ancora qui, alla vita, / Vivo per lei che del viver è la ferita».

Ma la memoria della vera Promessa non viene meno, rimane fiamma viva senza dolore. «Vacilla mente ma salda è la Fede», è un altro verso del libro. «Cura Padre il mio cor, fallo ancor vivace, / stanco son di soffrir, il Tuo aiuto bramo», l’invocazione spontanea. «La mia lascivia porto al Tuo altare, / sì che le membra tornino leggiadre», sazie di quel Pane celeste che è nutrimento e riposo. 

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 10 giugno 2022

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A Ferrara il primo Festival della Fantasia: «Fa conoscere e amare davvero la realtà»

7 Giu


Intervista al poeta Davide Rondoni, ideatore e Direttore Artistico della rassegna in programma il 10 e l’11 giugno tra il Castello Estense e il Giardino delle Duchesse. La prima sera verrà consegnata la cittadinanza onoraria ad Antonia Arslan

di Andrea Musacci

Davide Rondoni (foto Musacci)

«La fantasia va coltivata, aiuta a far crescere il senso critico e a meglio conoscere e amare la realtà nella sua essenza».

L’idea di organizzare un Festival della Fantasia a Ferrara a Davide Rondoni è venuta un paio di anni fa. Poeta e scrittore forlivese classe ’64, Rondoni è di casa nella nostra città, dove viene invitato spesso per incontri culturali. Nel 2019 del progetto – pensato per tutte le fasce d’età – ha parlato al Sindaco Alan Fabbri e alla Fondazione Zanotti (diretta da Riccardo Benetti), con la quale collabora da diversi anni in quanto amico personale di Enrico Zanotti. Il Festival rappresenta, infatti, la prima di diverse iniziative in occasione dei 20 anni dalla scomparsa di Zanotti, avvocato e consigliere comunale di Ferrara deceduto a 36 anni nel gennaio 2001 a seguito di una rara malattia.

La prima edizione della rassegna è in programma giovedì 10 e venerdì 11 giugno tra il Castello Estense e il vicino Giardino delle Duchesse, e vedrà tra gli ospiti più noti l’attore Gioele Dix, lo scrittore e docente dell’Università IULM di Milano Luca Doninelli, il musicista Ambrogio Sparagna e Antonia Arslan, scrittrice e saggista armena (nota soprattutto per il romanzo “La masseria delle alloddole”), protagonista lo scorso 4 novembre dell’incontro “Siamo tutti armeni” in streaming proprio con Rondoni e organizzato dalla stessa Fondazione Zanotti.

La sera del 10 giugno in Castello la Arslan riceverà dal Sindaco Fabbri la cittadinanza onoraria di Ferrara. Una decisione maturata dal primo cittadino lo scorso aprile in seguito alle forti critiche rivolte dall’ambasciatore turco in Italia, Murat Salim Esenli, allo stesso Fabbri per aver ospitato il 23 aprile al Teatro Comunale lo spettacolo “Metz Yeghern. Il genocidio degli armeni tra memoria, negazioni e silenzi” con la stessa Arslan. Uno spettacolo che fece luce sulle deportazioni e le eliminazioni degli armeni perpetrate dall’Impero ottomano tra il 1915 e il 1916, che causarono circa 1,5 milioni di morti (nella stima degli storici, i due terzi degli armeni dell’Impero).

Tornando al tema del Festival, Rondoni nei giorni scorsi ha accettato di rispondere ad alcune domande de “La Voce” sul significato profondo del termine “fantasia”.


Il termine “fantasia” richiama il “mostrare”. Di solito si mostra ciò che è. La fantasia, quindi, permette di svelare il reale, oppure creando, va oltre la realtà già data? 

«La fantasia, innanzitutto, è diversa dalla creatività, termine che non amo molto usare. La fantasia è il motore della creazione, mette in questione ciò che la realtà è, nella sua essenza più vera. Perché la realtà non è ciò che si vede, ma qualcosa di più profondo. Nella nostra epoca, domina, invece, una visione empiristica e materialistica: per questo è importante valorizzare la fantasia, che non è per nulla da intendere come fuga dalla realtà, anzi».


Recentemente ho letto una frase di Marco Pannella del ’73: “Non credo al potere, e ripudio perfino la fantasia se minaccia d’occuparlo”. Lei cosa ne pensa? Meglio la fantasia al potere o il potere della fantasia?

«Concordo con Pannella…La fantasia al potere è stato uno slogan del ’68 purtroppo rivelatosi vuoto. Il potere della fantasia, al contrario, permette di vedere e amare meglio le cose, la realtà».


È possibile “educare” alla fantasia?

«La fantasia può essere educata come tutte le qualità, o meglio, può essere coltivata. Il metodo educativo più adeguato, come per la pazienza o la tenacia, è quello dell’esempio, dell’osmosi. Un giovane non si innamora della poesia, della letteratura, o di qualsiasi altra disciplina, perché glielo dice, se non impone, l’insegnante, ma perché è attratto dalla passione e dall’amore che l’educatore ha per ciò che insegna, per ciò che vuole trasmettergli. Oggi, invece, spesso, anche nella scuola, l’educazione viene intesa come mero passaggio di nozioni, ma di vera educazione ce n’è poca».


Venendo al Festival, perché è stata scelta Ferrara come luogo dove organizzarlo?

«Un festival così si può fare solo a Ferrara, città magica e che tanto ha stimolato la fantasia di poeti, letterati e registi. Qui non si corre il rischio, come per altre città, che la città venga usata solo come scenario. Ferrara è la capitale della fantasia».


Questo Festival cos’ha di diverso dagli altri?

«Non è una scatola vuota, una “scatola di intrattenimento”, come a volte rischiano di essere i festiva, ma una provocazione editoriale per far crescere il senso critico. La cultura, in generale, ci tengo a sottolinearlo, non deve servire al turismo, non ha come fine quello di richiamare turisti. Semmai al contrario, il turismo deve far da volano per far meglio conoscere e comprendere la cultura di un territorio».

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” dell’11 giugno 2021

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Con lo sguardo proteso oltre Ferrara e il Po

7 Giu

“Antonioni, Bassani, Vancini, Visconti e, affettuosamente, gli altri – Ferrara, il Po e l’Altrove” è il nome del volume di Maria Cristina Nascosi Sandri. Un dono alla nostra terra e all’arte che l’ha omaggiata

Ci sono corpi e sguardi di artisti e letterati talmente e profondamente legati alla terra ferrarese, da non riuscire, quando si parla dei primi, a non parlare anche della seconda.

Questo sa bene Maria Cristina Nascosi Sandri, giornalista, scrittrice, studiosa e ricercatrice di lingue anche dialettali, che l’anno scorso ha scelto di realizzare una piccola antologia dei suoi scritti dal titolo “Antonioni, Bassani, Vancini, Visconti e, affettuosamente, gli altri – Ferrara, il Po e l’Altrove” (Edizioni Cartografica, 2020, ora distribuita da “La Carmelina” di Federico Felloni).

Per chi, come l’autrice, da tanti anni è abituata alla cadenza quotidiana o settimanale dei propri articoli, a volte è necessario mettere dei punti fermi, e consegnare alla comunità tasselli di un lavoro durato anni, di una memoria personale e collettiva insieme.

Così la Nascosi Sandri in questo volume raccoglie testi scritti in circa quattro decenni tra carta e web, con l’aggiunta di alcune sue poesie dedicate al Po e a Ferrara. Sullo sfondo e nel midollo, quell’atmosfera trasognata e antica della città e del Delta, che emerge costantemente nelle pagine del libro. Radici di terra e di acqua da cui non può non nascere, e mai morire, un legame viscerale, materno. Un legame invincibile che accomunava oltre ai quattro citati nel titolo, anche gli altri protagonisti del volume (ma non meno importanti per l’autrice): Fabio Pittorru, scrittore, sceneggiatore, cineasta; Alfredo Pittèri, drammaturgo (non solo dialettale); Lyda Borelli Cini, attrice del Muto, moglie di Vittorio Cini; “Cici” Rossana Spadoni Faggioli, attrice teatrale della “Straferrara”, ed Elisabetta Sgarbi.

Un libro per Ferrara, dunque, un libro-omaggio alla nostra città e al suo territorio attraverso lo sguardo mai banale delle sue figlie e dei suoi figli dediti alla ricerca della bellezza e di quell’altrove citato anche nel titolo, oltre il fiume, la nebbia e i ricordi di una vita.

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” dell’11 giugno 2021

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Trasfigurare cose e luoghi: le poesie inedite di Lucia Boni

31 Mag

Uscita la nuova edizione di “Imbuti di cristallo” con i versi scritti durante il lockdown

Henri Matisse, Donna che legge, 1894


La sostanza del tempo nel quotidiano, nella vita animata da oggetti semplici che la poesia sa trasfigurare. E, insieme, il vuoto e l’attesa nel tempo del “confinamento” domestico obbligato.

Verso la fine del mese di marzo 2020, la poetessa ferrarese Lucia Boni ha composto alcuni versi ispirati proprio a quel lockdown di due mesi. Ora, vista l’assonanza con alcune sue poesie del 2009, ha deciso di pubblicarle insieme nella nuova edizione di “Imbuti di cristallo” (La Carmelina ed., 2021), con prefazione di Anna Paola Mambriani, postfazione di Monica Pavani e un commento di Gianni Cerioli del 2009.

Mai come in una rottura così netta e radicale, com’è stata la “segregazione” necessaria del 2020, ci siamo resi conto di come il tempo non possa avere oggettività. E così, nelle nuove poesie di Boni è protagonista il tempo del soggetto, fatto della stessa materia della vita di chi lo percepisce, degli oggetti che lo scandiscono, che affollano il quotidiano di chi scrive. Tempo inscindibile dallo spazio: «esploro», «colmiamo» sono alcuni termini usati dalla poetessa che dicono di un movimento.

Ma il tempo è anche legato al suono: le parole, la loro carne, è così diversa – nel loro mistero – da quella degli oggetti. Quest’ultimi sembrano guardiani, torri e mura della distanza, mentre le prime, vento, ciò che riempie senza confini, indefinibile. Riempiono. Sì, perché diverse volte le poesie di “Imbuti di cristallo” – nella prima edizione del 2009 – si chiudono con la parola «vuoto». Ma, come scriveva Bachelard nel suo “La poetica dello spazio”, «per i grandi sognatori di angoli, di buchi, niente è vuoto, la dialettica del pieno e del vuoto non corrisponde che a due irrealtà geometriche». «Le immagini abitano», prosegue il francese. «Lo spazio dell’attesa / non è vuoto», scrive Lucia Boni.

Nelle sue poesie, tanto quelle del 2009 quanto quelle del marzo 2020, questo «spazio dell’attesa» (di cosa, in realtà?) è un piccolo mondo vivo, raccolto e non fortificato. Gli oggetti evocati, nelle credenze e nei “fine pasto”, nel desco di stoviglie e terraglie, dicono dell’anima di chi li ha creati, di chi dona loro presenza, di chi li interpreta dandogli così vita. La poetessa li informa di sé e al tempo stesso ne è avvinta, ne dona e ne riceve senso.

Il luogo intimo dei suoi versi ha, dunque, l’atmosfera trasognata che solo una vera casa può avere, una dimora, un guscio dove riposare e riconoscersi. Dove gli spazi e i volti hanno una storia, le affezioni ritrovano sempre un proprio filo che li lega tra loro e nel tempo. Dove la memoria assume sostanza. Un luogo di verità.

Ma la verità è sempre nelle parole, come nel caso di Lucia Boni. Dar vita e verità alle cose significa trasfigurarle nelle parole. E così i movimenti, i piccoli rumori, i bagliori di luce nelle sue poesie hanno la consistenza del sogno. Come saremmo, viene da chiedersi, senza questa luce avvolgente, onirica, questa luce che inonda, “senza tempo”, spesso all’improvviso, i nostri ricordi, come lampi inattesi?

Forse davvero la nostra vita quotidiana si invera in pienezza grazie all’immagine che la poesia ci dona, immagine che non descrive e non annulla, che coglie e non adultera. È ciò che Lucia Boni sa fare. 

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 4 giugno 2021

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Se l’imprevisto innesca di nuovo la vita

24 Mag

“Le luci avare dell’alba” è il nome del nuovo romanzo dello scrittore ferrarese Giuseppe Muscardini

A Rovigo la vita di un 60enne insegnante di Liceo, scapolo e stimato conferenziere ormai prossimo alla pensione, sembra scorrere tranquillamente. Ma alcune lettere ritrovate, spedite tra il ’46 e il ’47 da una giovane donna tedesca al padre, dopo avergli regalato spunti per le sue sedute accademiche, sconvolgeranno positivamente la sua esistenza. Un’esistenza non più vissuta in una solitudine divenuta pesante, e nemmeno in un passato ingombrante, ma riannodando i fili tra il primo e il secondo, ricercando una radice e un «affetto sincero» che ridoni senso alla vita.È da poco uscito il romanzo “Le luci avare dell’alba” (Edizioni Amande, 2021) scritto da Giuseppe Muscardini, saggista e romanziere classe ’53, fino al 2015 in servizio nei Musei Civici d’Arte Antica di Ferrara in qualità di Responsabile della Biblioteca.

Nel romanzo, una sorta di archeologia dell’amore e della passione, il passato viene scavato, rievocato con forza. Un passato che è tale perché, in realtà, si annida ancora nel presente, essendone lo spirito, l’origine. Un presente che, però, è vissuto dal protagonista come angusto spazio solitario – sembra dirci lo scrittore -, dunque assoluto, di cui si illude di essere padrone. Il libro ha la tensione investigativa del romanzo giallo e la lentezza e l’accuratezza tipiche di chi è abituato alla ricerca storica e filologica. L’abbrivio della narrazione, in parte autobiografica, è una vicenda per alcuni tratti comune, per altri rara: poco prima della Liberazione, il padre del protagonista viene abbandonato dalla moglie Illa che fugge con un soldato tedesco. Nel cercarla, avrà un rapporto epistolare – e che tale rimarrà – con una dattilografa tedesca, Elke, prima di sposarsi con un’italiana, madre del protagonista. Elke è in un certo senso la proiezione di Illa, il filo pericoloso che lo lega alla moglie fuggita. Un rapporto a distanza, dunque, quello con Elke, la cui reciproca sincerità e mancanza di pudore è forse facilitata proprio dalla lontananza che sembra insormontabile e grazie alla quale si può coltivare l’illusione, alimentare la fantasia e il desiderio.

Fosse finito qui, il romanzo sarebbe stato uno di quelli in cui protagonisti sono gli amori impossibili, irrimediabili, quelli mai goduti. Quelli malinconicamente perduti ma che rimangono sempre tali: potenti affermazioni nelle esistenze di chi li vive, che mai si disperdono del tutto. E invece il protagonista si rifiuta di pagare “le colpe” del padre (e forse di quella generazione), di rassegnarsi. E di quel mucchietto di lettere non ne fa un reliquiario ma una fonte viva d’ispirazione. In questo sta il primo salto da lui compiuto: l’attingere dalla vita, pur trascorsa. Ma compirà anche un secondo, più importante salto, quello dalle parole all’azione, dopo aver trasformato parole morte in parole vive. Un passaggio, questo, per nulla scontato, ma che gli permetterà di meglio mettere a fuoco la propria vita, dopo aver messo a fuoco, nella propria completezza, gli avvenimenti passati riguardanti il padre. «Ormai tutto è inarrestabile», dice all’inizio il protagonista, ancora ignaro che l’imprevisto appare indipendentemente dal nostro evocarlo, dal nostro desiderarlo.

L’innesco, o meglio la voce profetica, anticipatrice, nella vita del protagonista – ancor prima della donna che, come Altro, come volto nel suo apparire gli permetterà di meglio guardarsi – sarà un suo giovane allievo e il suo racconto puro e carnale, non il rimpianto di «quelle felicità intraviste / dei baci che non si è osato dare», citando Brassens/De Andrè. Un amore non pensato, non lontano, ma vissuto dal ragazzo, bruciato e che fa bruciare, un amore clandestino ma senza vittime né tradimenti, come invece nel caso del padre della protagonista.

Un amore concreto, quello del giovane allievo, ma ancora racconto, scintilla dell’amore che sarà, dell’imprevisto incarnato, invece, nella donna (Rosemarie) che, finalmente, comparirà in corpo, verbo e storia, nella totalità quindi del suo essere persona, senza infingimenti poetici, né nostalgici, diretta, fuori dalla narrazione altrui, porta dell’avvenire dentro la vita del protagonista. Una variabile non calcolata che lo rende fragile, dischiudendolo, portandolo, di nuovo, fuori di sé. Come per ogni apertura, egli si sentirà dunque esposto, provocato nel profondo da questa donna mossa dalla volontà di cercarlo in Italia proprio in relazione al padre, ma ignara delle conseguenze di tutto ciò sulle loro vite. Non più investigatori, dunque, saranno, né tantomeno spettatori, ma attori di un’altra storia. È, questo, in fondo, e fuori di ogni retorica, un altro modo di costruire l’avvenire: lasciando tracce di vita piena a chi verrà.

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 28 maggio 2021

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Il distacco profondo dell’arte e della poesia per vivere il tempo dell’inquietudine

9 Nov

Riflessione del filosofo francese Jean-Luc Nancy al Festival Mimesis: “nello sconvolgimento contemporaneo è necessario scoprire la possibilità di vedere nell’oscurità”

«Assistiamo a un completo sconvolgimento della civiltà: l’arte e la poesia, più che la filosofia, oggi possono illuminarci».
Si può sintetizzare così l’importante seppur breve riflessione del noto filosofo francese Jean-Luc Nancy (foto) lo scorso 4 novembre in occasione del Festival Mimesis.
La rassegna, organizzata dall’Associazione “Territori Delle Idee” della Casa editrice Mimesis, normalmente in programma a Udine, si svolge fino al 14 novembre on line dal canale You Tube e dalla pagina Facebook del Festival. La settima edizione, centrata sul tema “Immagine e storia”, ha visto lo scorso 4 novembre Nancy dialogare con il giornalista de “L’Espresso” Wlodek Goldkorn e con il filosofo e critico Federico Ferrari a proposito del tema “Il tempo dell’inquietudine”.
«Inquietudine è assenza di quiete, di riposo, di tranquillità ma al tempo stesso qualcosa che ci mette in movimento, che ci spinge a cercare», ha esordito il filosofo francese. Un’inquietudine oggi, perlopiù negativa, che rischia di travolgerci: «è fallito lo sforzo moderno di concepire una comunità diversa dal modello fascista e da quello del socialismo reale. Oggi non si è più insieme, non c’è più comunità – ha proseguito Nancy -, e la società francese in particolare è molto divisa, anzi straziata». Il discorso sul multiculturalismo sta lì a dimostrarlo come esempio drammatico. L’alternativa ai modelli storici si era pensato di trovarla «in una sorta di universalismo possibile anche attraverso la laicità» e in un ottimismo in nome del progresso. Ma non ha funzionato.
«Oggi – secondo Nancy – non c’è più racconto, non possiamo più proiettare un futuro positivo per l’umanità: ciò è intrinseco al progresso tecnico, che tante catastrofi ha prodotto, dalla crisi ecologica alla pandemia di Covid», tragica prova del fatto che il progresso e la scienza «non possono risolvere tutto».
«Lo sconvolgimento» avvenuto nell’impero romano del IV-V secolo aveva comunque i cristiani come soggetto capace di «immaginare altro. Ma per noi oggi non è così», ha riflettuto con pessimismo. «Forse ci sarà una grande trasformazione della società verso il modello cinese o un’implosione di questo modello tecno-scientifico. Non è forse la fine del mondo ma di sicuro viviamo un periodo di enorme difficoltà: siamo in una sorta di oscurità».
Per questo, secondo Nancy, «è necessario conservare le luci», cioè la speranza, «ma anche scoprire la possibilità di vedere nell’oscurità: oggi bisogna cercare nell’arte e nella poesia, non nella filosofia, qualcosa che illumini». Riprendendo Bataille e il suo concetto di non-sapere, il filosofo ha evocato l’importanza dell’arte e della poesia come di «qualcosa che non è un sapere, una pretesa di sapere ma una sorta di distacco» positivo e profondo.
Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 13 novembre 2020

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Quando l’anelito della fede si fa parola poetica

9 Nov

Il libro di Giovanna Massari edito da Faust edizioni

“I canti dell’esistenza” è il titolo del libro di esordio di Giovanna Massari, bondenese d’origine, classe ’57 residente a Ferrara. Edito per Faust Edizioni (Collana Arbolè, 58 p., prefazione dello storico Paolo Sturla Avogadri), il volume di brevi testi poetici uscito a giugno è espressione della forte sensibilità per la dimensione spirituale di questa ex dirigente d’esercizio alle Poste Centrali di Ferrara.
Senza infingimenti Massari lascia spazio al dolore, spesso usando la ricorrente immagine delle lacrime. La sua è una lucida disamina del vivere umano, a tratti anche cruda: «non siamo altro che poveri pezzi di carne», scrive. L’orrore del «mai più», «lo stillicidio inesorabile del tempo» pervadono le pagine, il senso della corruzione di ogni cosa creata le innerva, ma senza dominarle. L’ultima parola è ben altra, la vita – l’autrice sembra esserne pienamente cosciente – può conoscere l’«amore misericordioso di Dio», «la luce della vita eterna». Per questo l’invito a se stessa e a ogni lettore è «risplendi alla luce di Cristo!».
A luglio l’autrice ha inviato una copia del libro al Santo Padre. La risposta è arrivata il 10 settembre: «Sua Santità desidera manifestarLe cordiale gratitudine per il dono e per i sentimenti di filiale venerazione che hanno suggerito il premuroso gesto e, mentre assicura il Suo ricordo nella preghiera, invoca la materna intercessione della Beata Vergine Maria e di cuore imparte la Benedizione Apostolica».
Una grande emozione che suggella la soddisfazione di veder pubblicati brani che dicono di una vita dedita alla fede, di un’interiorità capace tanto di profondo raccoglimento quanto di viva espressione delle più intime meditazioni.
Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 13 novembre 2020

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Carbone, da 20 anni molto più di una Galleria

13 Gen

In via del Carbone a Ferrara a inizio del 2000 nasceva lo spazio artistico-culturale diretto, sempre con “coraggio” e “continuità”, da Paolo Volta e Lucia Boni: li abbiamo incontrati per farci raccontare gli esordi e per riflettere sul senso del Carbone in questi anni ’20 appena iniziati: “cerchiamo di proporre pensieri e sguardi differenti e di dare spazio ai giovani”

artisti dic 2019A cura di Andrea Musacci

Da una storia d’amore sbocciata circa 50 anni fa è nata e continua a vivere una delle roccaforti dell’arte e della cultura estensi, un punto di riferimento per chi pensa che la creatività e il pensiero possano vivere soprattutto e innanzitutto nella relazione concreta e diretta fra le persone.
Parliamo della Galleria del Carbone, fondata e diretta dai coniugi Paolo Volta e Lucia Boni, e che proprio in questo periodo festeggia i suoi primi 20 anni di vita, trascorsi nella sede di via del Carbone 18, di fronte alla Chiesa di San Giacomo, ora sala 4 del Cinema Apollo. Ma gli albori del progetto risalgono al ’97, quando nasce l’ “Accademia d’Arte – Città di Ferrara”, fondata da nove persone: oltre a Volta e Boni, Isabella Guidi, Gianni Vallieri, Paola Braglia Scarpa, Rita Confortini, Tiziana Davì, Giuliana Magri e Giacomo Savioli. La Galleria – un vero e proprio spazio culturale a 360° – ha ospitato centinaia di eventi, soprattutto mostre (nell’ordine di una al mese) ma anche esibizioni musicali, presentazioni letterarie, letture dal vivo e altro ancora. Attualmente, fino al 26 gennaio, ospita la mini-collettiva “La camminata come opera d’arte” di quattro artiste – Chiara Bettella, Elisabetta Marchetti, Cristina Squarzoni e Beatrice Vaccari – allieve dell’atelier di Ketty Tagliatti.
Tante le personalità intervenute dal 2000 al Carbone, fra cui Franco Farina, Vittorio Sgarbi, Roberto Roda, Carlo Bassi, Giorgio Chiappini, Daniele Lugli (il Carbone è anche “sede” del Movimento Nonviolento di Ferrara), Marco Bertozzi, Franco Basile, o critici come Gianni Cerioli, Lucio Scardino, Michele Govoni, Maria Livia Brunelli, Massimo Marchetti, musicisti come Emmanuela Susca e Roberto Manuzzi.
Come dicevamo, tutto inizia 50 anni fa, quando nel ’69 Paolo e Lucia, dopo aver frequentato il Dosso Dossi, si iscrivono lo stesso giorno all’Accademia di Belle Arti di Bologna (Paolo a pittura, Lucia a scultura). Nel ’72 si fidanzano e nel ’76 si sposano. Li abbiamo incontrati per farci raccontare questo pezzo ventennale della storia di Ferrara.

Nel 2000 in che momento delle vostre vite nasce questo progetto?
Io, Paolo, lavoravo già nel mio studio Techno srl, di progettazione architettonica, dove ancora lavoro.
Io, Lucia, invece, lavoravo nel Laboratorio delle Arti del Comune di Ferrara, e da alcuni anni sono in pensione.

Perché, insieme ad altri, avete sentito il bisogno di aprire uno spazio come il Carbone?
Dar vita alla Galleria ci ha permesso un maggior contatto con gli artisti, di avere con loro scambi diretti e molto fertili. La Galleria è nata anche grazie all’opportunità “fortuita” di poter avere in affitto quella che è ancora la sede qui in via del Carbone. Purtroppo, però, non tutti i soci fondatori dell’Accademia accettarono di farla nascere, all’inizio ci fu una “diaspora”, ma noi due, insieme ad altri, andammo avanti con coraggio.

Vent’anni fa la città come rispose a questa vostra proposta? E in questi anni com’è cambiato il vostro rapporto con Ferrara?
Diciamo che coraggiosa fu anche la partecipazione degli artisti, fin da subito, e ci fu interesse da parte dei giornali locali e dei critici d’arte. Mettemmo in atto una capillare distribuzione degli inviti e facemmo fin da subito un’intensa pubblicità alle mostre e alle nostre attività: un lavoro per tutta la città, distribuendo a mano i volantini. Negli anni l’interesse è rimasto ma al tempo stesso è sopravvenuta anche una certa abitudinarietà e una certa fatica. Ma andiamo avanti, e sempre – ci teniamo a dirlo – senza pressioni esterne di alcun tipo. Fino alla morte di don Franco Patruno, per esempio, avevamo con lui un rapporto amicale e di collaborazione, una comune visione artistico-culturale, non, come qualcuno insinuava, di “dipendenza” dalle sue scelte. Avevamo, ad esempio, buoni rapporti anche con Franco Farina o con l’ex Assessore all’Istruzione Mantovani. L’Amministrazione Comunale ci ha sempre sostenuto con il patrocinio gratuito, cioè non finanziandoci mai (a parte in un’occasione).

Nella Ferrara del 2020 che senso ha uno spazio come il Carbone?
In quest’ vent’anni, è vero, sono cambiate tante cose, soprattutto negli ultimi tempi. Negli anni diverse gallerie hanno aperto e chiuso, per motivi differenti: siamo contenti di rappresentare per i nostri soci – della prima ora e non – e per Ferrara, una continuità. Abbiamo sempre difeso, e continueremo a farlo, il principio della gratuità delle iniziative che proponiamo e della loro varietà, anche perché non vogliamo che la nostra associazione e la Galleria siano una nicchia per soli intenditori, ma, anche oggi, un luogo di divulgazione di pensieri e sguardi differenti e non superficiali.

Il Carbone ha voluto dare e dà spazio anche ad artisti giovani ed emergenti e a nuove forme artistiche…
Esatto. Sono cambiate le tecnologie e la stessa divulgazione spesso non passa attraverso un dialogo reale con gli oggetti (le opere d’arte) e con le persone (gli artisti). Noi, invece, vorremmo conservare anche il sapere su come viene realizzato un lavoro artistico, da dove origina e dove vuole portare.
Riguardo alla scelta degli artisti che ospitiamo, innanzitutto vorremmo sottolineare come al Carbone non espongono solo nostri soci, né solo artisti ferraresi o storici. Il nostro spazio non si connota nemmeno come quello di uno specifico movimento artistico. Sono tanti i giovani che hanno esposto ed espongono qui – e alcuni di loro hanno proprio esordito -, come Luca Zarattini, Andrea Mario Bert, Lorenzo Romani, Luca Serio. Inoltre, fin da subito abbiamo avuto legami con l’Accademia di Belle Arti di Bologna, per progetti con gli insegnanti, gli studenti o i neo laureati, ospitandoli ad esempio per stage.
Vogliamo anche ricordare le tante mostre da noi curate ma ospitate in altri spazi: quella sulla poesia visiva a Porto Viro, le collaborazioni col Liceo Dosso Dossi e altre scuole, le attività alla Biblioteca Bassani e con altre biblioteche, a Ca’ Cornera, Porto Tolle, Arquà Polesine. Oppure, gli scambi artistici con “Der Kreis” (“Il Cerchio”) di Norimberga, con Monaco, con la Galleria Koller di Budapest, con Odessa o Austin nel Texas.

In questo ventennio qual è stato il vostro più grande dispiacere?
Forse non sempre la città è stata attenta alle nostre proposte artistiche e culturali, e negli ultimi tempi notiamo una minore attenzione da parte della stampa locale.
I dispiaceri più grandi però ci sono venuti dalle morti premature di non pochi artisti nostri amici e soci.

Quale invece la vostra gioia più grande?
L’essere riusciti a far nascere e a consolidare rapporti continuativi con tanti artisti e non solo (anche musicisti e scrittori, ad esempio), e l’aver fatto esordire, come detto, giovani artisti validissimi.

Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 17 gennaio 2020

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“Nell’orrore ritrovavo la libertà delle cose vive”: 10 anni fa moriva Alda Merini

21 Ott

Il 1° novembre 2009 ci lasciava la poetessa milanese: una vita in perenne tensione tra il dolore e la ricerca pura di una bellezza eterna. Sempre in bilico tra malattia mentale, scrittura e fede

di Andrea Musacci

Alda_Merini“Quella croce senza giustizia che è stato il mio manicomio non ha fatto che rivelarmi la grande potenza della vita”: si potrebbe sintetizzare con queste sue parole l’esistenza unica, divina e tremenda, di Alda Merini, deceduta esattamente 10 anni fa, il giorno di Ognissanti. Figlia tanto adorata quanto maltrattata, donna che ha fatto della poesia molto più che una scrittura, un modo di esprimere tanto il delirio e le piaghe interiori quanto quella grazia da lei sempre accolta. Donna afflitta da quello stesso male che la accomunava a Clemente Rebora – vittima, come gli diagnosticarono, di “mania dell’eterno” – e Dino Campana, solo per citarne due. Alda Merini nasce il 21 marzo 1931 a Milano. Il padre Nemo Merini, con lei molto affettuoso, è impiegato di concetto presso le assicurazioni, la madre, Emilia Painelli, è casalinga e donna molto severa. Alda è secondogenita di tre figli, tra Anna, nata il 26 novembre 1926, ed Ezio, nato il 23 gennaio1943. Esordisce come autrice a 15 anni, attraverso un’insegnante delle medie viene presentata ad Angelo Romanò che, apprezzandone le doti letterarie, la mette in contatto con Giacinto Spagnoletti, il quale divenne la sua guida, valorizzandone il talento. Nel 1947, viene per la prima volta internata per un mese nella clinica Villa Turro a Milano, dove le diagnosticano un disturbo bipolare. Spagnoletti sarà il primo a pubblicarla nel 1950, nell’“Antologia della poesia italiana contemporanea 1909-1949”. Terminata la difficile relazione con Giorgio Manganelli, il 9 agosto 1953 sposa Ettore Carniti, operaio e sindacalista, in seguito proprietario di alcune panetterie di Milano. Nasce in quello stesso anno la prima figlia, Emanuela, mentre nel ’57 nasce la secondogenita Flavia. Anni dopo, fra il ’64 e il ’72, verrà internata nell’Ospedale Psichiatrico “Paolo Pini”, con alcuni ritorni in famiglia, durante i quali nascono altre due figlie, Barbara e Simona, che saranno affidate ad altre famiglie. Si alterneranno in seguito periodi di salute e malattia, probabilmente dovuti al disturbo bipolare. Nel 1979 riprende a scrivere, dando vita ai testi poi raccolti in “La Terra Santa”. Nel luglio del 1986 fa ricorso al reparto di neurologia dell’Ospedale di Taranto. Nello stesso anno riprende a scrivere e pubblica “L’altra verità. Diario di una diversa”, il suo primo libro in prosa. Soprattutto negli anni 2000 rivive un periodo mistico, dal quale escono diversi libri e antologie di poesie. Muore il 1° novembre 2009, all’età di 78 anni, a causa di un tumore osseo all’Ospedale San Paolo. Dopo l’allestimento della camera ardente, aperta ii giorni successivi, i funerali di Stato sono stati celebrati il 4 novembre nel Duomo di Milano. Oggi Alda Merini è tumulata al Cimitero Monumentale di Milano, nella Cripta del Famedio.

L’INFERNO…

“Mi misero a letto, ma nessuno mi carezzò la fronte. Anzi mi legarono mani e piedi”, racconta lei stessa della prima volta che la portano in manicomio. Ed emerge così fin da subito in quale inferno si possa vivere laddove manca amore, riconoscimento dell’altro, qualsiasi minimo gesto o sguardo d’umanità: “il mio dolore […] è l’impegno o l’impressione che Dio mi abbia emarginato dal suo grande sapere”. Dopo il lavaggio mattutino collettivo, spiega ancora lei, “ci allineavano su delle pancacce sordide, accanto a dei finestroni enormi, e lì stavamo a guardare per terra come delle colpevoli, ammazzate dall’indifferenza, senza una parola, un sorriso, un dialogo qualunque. Io avevo sete di verità e non capivo come ero potuta capitare in quell’inferno”. Corpi trattati come quelli di bestie, mentre dietro le grida, gli spasmi e la pesantezza di quelle carni si nascondevano amori, sogni, dolori, tradimenti mai accettati. Mai sopita ribolliva inestinguibile quella “sete di verità”. Una sete soffocata ma in lei divenuta fonte di bellezza, nonostante quella “condanna”, negli anni, proseguì anche fuori dal recinto manicomiale, nelle solitudini del quotidiano: “quando mi sveglio al mattino – scriveva, abbandonata, nella sua casa -, e guardo fuori dalla finestra, e mi sento sola, so che nessuno per quel giorno verrà a trovarmi; che, se vorrò, sarò io che dovrò andare a ‘rompere le balle’ agli altri. E questo mi fa male perché io non voglio infastidire nessuno. Ma a volte la solitudine è una cosa atroce, il silenzio è una cosa insopportabile. In manicomio ci avevano abituati al silenzio. […] Il manicomio non finisce più. È una lunga pesante catena che ti porti fuori”.

…E CIO’ CHE INFERNO NON È

“Ogni gesto che dalla gente comune e sobria viene considerato pazzo coinvolge il mistero di una inaudita sofferenza che non è stata colta dagli uomini”, scrive Alda Merini per dar voce a una verità altrimenti sepolta. Nel manicomio “il tono lucido del delirio diventava corpo e mistero. L’iniziazione si compiva lì, proprio ai margini della sofferenza più inaudita e noi non avevamo specchi per vedere questo mutamento graduale, ma sapevamo, sentivamo che segretamente avvenivano dei traslati. […] Dentro però io avevo uno scrosciare d’acque gementi, di acque turgide di libertà e profonde. Qualcosa si chiudeva all’esterno ma dentro io rimanevo libera”. Una continua dissanguante tensione inonda le sue giornate, dando senso a un’esistenza, nello sguardo sempre duplice rivolto agli abissi e agli splendori dell’essere. Così lei stessa cerca di esprimerlo: “non avevo intorno che un senso di buio e di incertezza. L’inquietudine era soverchia. Paralizzava persino i movimenti. E ciò nonostante, credo che dentro quel buio avrei trovato una via di uscita”: “avevo fame di cose vere, naturali, primordiali; avevo fame di amore. L’avrebbero mai capito gli altri?”. Questa “fame di amore”, questa capacità – per nulla scontata – di scorgere luce da quelle feritoie insopportabili – la trasfoma in una persona che può amare: “scoprii che i pazzi avevano un nome, un cuore, un senso dell’amore e imparai, sì, proprio lì dentro, imparai ad amare i miei simili”. È la misericordia, così assurda e straniera in quel luogo, e per questa ancor più ammantata di grazia: “una volta un’ammalata mi appioppò un sonoro ceffone. Il mio primo istinto fu quello di renderglielo. Ma poi presi quella vecchia mano e la baciai. La vecchia si mise a piangere”.

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L’INTERIORITA’, LO SCRIVERE, LA FEDE

Uno dei grandi doni di Alda Merini – a lei stessa e a tutti noi – è stato quello di riuscire, nella disumanità del ricovero, sempre a conservare uno spazio sacro nella propria anima, un luogo inattaccabile, vivo. È ciò che, in fondo, le ha permesso di sopravvivere in quel pozzo maligno: “il lato più sussurrato, più nascosto, più inatteso, forse più prezioso è però quello meno caro a tutti, perché per tutti io sono una pazza”, sono sue parole. Questo lato recondito è puro “spazio d’amore”, “uno spazio di grande ricerca”. Ricerca e salvezza che, nel suo caso, hanno avuto nell’espressione letteraria un’àncora alla quale aggrapparsi: “grazie alla parola, chi ha scritto queste pagine non è mai stata sopraffatta – scrive Giorgio Manganelli nella prefazione a “L’altra verità” – , ed anzi non è mai stata esclusa dal colloquio con ciò che apparentemente è muto e sordo e cieco; la vocazione salvifica della parola fa sì che il deforme sia, insieme, se stesso e la più mite, indifesa e inattaccabile perfezione della forma”. Com’è lei stessa a esprimere, “lo scrivere può diventare un vizio congenito allorché tiene il luogo di una presenza essenziale, talmente bella e felice da trovare appagamento soltanto in una poesia anomala e anormale, quasi pellegrina”, riflesso pieno di un’anima inquieta fino alla malattia, fra disperazione e desiderio di gioia. “Alle volte – scrive – l’angoscia […] mi diventava così forte che dovevo lasciarmi andare a piangere sopra il cuscino” e dunque aveva “voglia di incontrare una morte scheletrica, che abbia l’armonia del riposo. E dire: ‘Va’, consegnami a Dio. Consegnami a Dio, anima turbinosa e infelice, portata via dal cielo sulla morte tremenda di questa ignobile terra’ ”. Ma proprio in quei momenti “mi aggrappavo terribilmente alla fede”, fino a dover scrivere, in un crescendo di consapevolezza, queste parole: “l’unica identità che io conosco è proprio questa meravigliosa identificazione con Dio. Questa familiarità con Dio. Questo discorso con Dio”, perché “solo Dio ha il potere di disarcionare un’anima”, può far vedere anche a un’anima che ha conosciuto l’inferno, come, nella sua essenza, “niente è funesto e che tutto può muovere al bene”.

Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 25 ottobre 2019

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La Voce di Ferrara-Comacchio

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“E’ facile nei fragili di spirito, nei deboli di mente, per un amore che hanno impedito si svolgesse, far nascere un delirio. Il debole di mente continua il suo lavoro, monotonamente si svolgono le giornate, di lui nessuno si occupa, quasi tutti coloro che lo circondano sono davanti a lui superbi e giudicano i sentimenti del debole di mente privi di forza, degni di disattenzione. Non si vuol considerare che i sentimenti sono il più grande ed emozionante mistero, quelli che ci uniscono per un golfo sotterraneo con qualcosa di divino, con un Dio che non abbiamo mai visto ma sappiamo esistere e ci fa paura. Gli umili di mente con Costui di continuo conversano senza saperlo” .

(Mario Tobino, “Le libere donne di Magliano”)