
“Sulla porta del mondo. Storie di emigranti italiani” è il libro dello scrittore ferrarese Luigi Dal Cin con le vicende di tanti nostri connazionali partiti per necessità. Lo abbiamo intervistato: «così, grazie soprattutto alla scuola, può cambiare lo sguardo verso chi oggi arriva nel nostro Paese»
a cura di Andrea Musacci
Raccontare cento, mille storie di viaggi, di partenze, prendendo le mosse da una soffitta. Qui, Luigi dal Cin (foto), scrittore e docente ferrarese, trova una vecchia valigia di cartone, nell’immaginario collettivo simbolo, tra XIX e XX secolo, della miseria di tanti nostri connazionali e al tempo stesso di un forte desiderio di riscatto. Le loro vicende, Dal Cin le ha raccolte nel libro “Sulla porta del mondo. Storie di emigranti italiani”, edito alcuni mesi fa da “Terre di mezzo”, con illustrazioni di Cristiano Lissoni e pubblicato in collaborazione con la Fondazione Migrantes.
I drammi non si contano: sono quelli della povertà e della mancanza di futuro nei paesi e nelle città italiane, fino a quelli nei Paesi dove, invece, in tanti speravano di trovare benessere, perlomeno una vita dignitosa. Spesso, invece, i nostri immigrati saranno costretti a compiere veri e propri viaggi della fortuna (quella che i marchigiani chiamano il passàgghju, cioè la traversata), a vivere in baracche di legno, a svolgere lavori disumani, senza diritti, lontani dagli affetti. Dal Cin, ad esempio, racconta degli operai friulani che lavoravano a 50 gradi sottozero per la Transiberiana o, in Germania, ai “mercati dei bambini” trentini destinati a fare i servi nelle case di contadini benestanti. Ma anche nel dramma più nero, è possibile cogliere segni di bellezza: come quel pugno di terra modenese posta su quella cilena sopra la tomba di due modenesi sepolti a Capitan Pastene, località “italiana” in Cile. O segni di vita nuova: le storie di immigrati italiani divenuti famosi, come i salernitani Joe Petrosino, noto poliziotto a New York, e Francesco Matarazzo, imprenditore in Brasile. O da Viggiano, nel potentino, la storia dei Salvi, noti musicisti e costruttori di arpe, o quella dell’Editorial Maucci Hermanos dei toscani di Pontremoli (Massa-Carrara), a fine Ottocento la più nota casa editrice in Argentina.

Dal Cin, in che senso con questo libro intende «riportare le storie a casa»?
«“Riportare le storie a casa” credo sia il lavoro dello scrittore, sempre. Immaginare, costruire con cura, passo dopo passo, organizzare con metodo, scrivere, con attenzione, col fiato sospeso, cercare le parole giuste, con pazienza, svelarle, scartarle, sceglierle, e togliere, dubitare, cambiare, limare con passione, con amore: è un addomesticamento, un corteggiamento, un viaggio. Tutto questo per cosa? In fondo, per riportare ogni storia a casa sua. Quando mi sono immerso a descrivere il dolore e i sogni di chi è emigrato è per riportare quel dolore e quei sogni a casa loro».
Sono, quelle che scrive, storie di poveri, degli umili, degli sconfitti della Storia. Storia che, invece – concordo con lei -, è sempre scritta dai potenti. Il suo libro, dunque, in un senso alto e nobile, si può anche definire “politico”? Tante, ad esempio, sono le storie di lotte sindacali, come il massacro di minatori italiani in sciopero a Ludlow, nel Colorado, nel 1914…
«Credo di sì, il mio desiderio è che abbia la forza di incidere nel nostro sguardo. La scuola italiana è impegnata da tempo a valorizzare la cultura di chi arriva nelle nostre classi: per un’integrazione accogliente, credo sia utile portare l’attenzione anche all’altro piatto della bilancia, all’altra faccia. Perché non si può semplicemente chiedere ai nostri alunni “siate gentili con chi arriva”: la gentilezza non ama l’imperativo, così come il verbo “amare”, o il verbo “sognare”. Ma se si comprende che anche la nostra storia di italiani è fatta di generazioni che hanno vissuto la miseria e la fame e che, per sopravvivere e mantenere i figli, sono emigrate anche molto lontano, e che se i nostri alunni possono oggi acquisire a scuola strumenti per realizzare i propri sogni è anche grazie al viaggio, al coraggio e ai sacrifici di chi un tempo è emigrato: allora sì, forse, lo sguardo verso chi arriva può cambiare».
Le donne sono fra le protagoniste del suo libro. Spesso sono le più sfruttate fra gli sfruttati. Donne che han vissuto lutti indicibili ma che a volte sono state capaci, da questa esperienza, di conquistare un’indipendenza economica…
«Un’indipendenza economica e una libertà di pensiero. Così ci dice, ad esempio, la storia di Rosa Cavalleri, orfana, abbandonata, cresciuta nella miseria: una vita eroica di donna emersa, grazie alla scrittura del suo diario, dall’abisso di silenzio in cui sono immerse le altre storie di milioni di emigranti non identificati che sono approdati in America. Una storia universale di chi è riuscito a reinventarsi oltreoceano nonostante le miserie e le sofferenze, grazie a un ambiente più libero: “La povera gente del mio paese in Italia rideva, cantava e raccontava storie, ma aveva sempre paura. In America le persone ricche insegnano ai poveri a non avere paura, ma in Italia la povera gente non osava guardare in faccia i ricchi. Tutto quello che i poveri sapevano lo apprendevano l’uno dall’altro nei cortili, nelle stalle o alla fontana quando andavano a prendere l’acqua in piazza. E avevano sempre paura. In America ho imparato a non avere paura”».

E poi ci sono i bambini e i minori, come gli spazzacamini piemontesi: vittime spesso dimenticate di un mercato schiavista, trattati da subumani…
«Ho voluto far rivivere soprattutto le storie di coloro che erano considerati gli ultimi della società, le donne e i bambini appunto. Raccontava nel suo diario Gottardo Cavalli, l’ultimo bambino del villaggio di Intragna a lavorare come spazzacamitt: “Ridotti come talpe ad entrare in tutti i buchi dei camini, nelle caldaie delle macchine a vapore, nelle ciminiere, mal nutriti, costretti a cercare in ogni casa un pezzo di pane per sfamarsi. Un sacchetto di tela copriva la testa e veniva attorcigliato sotto il mento per resistere alla polvere. In una mano avevo la raspa, nell’altra lo scopino. Nessuno può immaginare quale impressione si può vivere racchiusi in un buco, tutto buio, salire a forza di gomiti e di ginocchia, dieci o venti centimetri per volta. Più il camino era stretto, più ti sentivi soffocare, t’arrivava addosso tutta la fuliggine, anche col sacco in testa dovevi respirare, non potevi scendere perché sotto c’è il padrone, cioè lo sfruttatore. Ancora oggi dopo cinquant’anni mi capita di sognare d’esser in un cunicolo stretto, buio, polveroso, con la testa avvolta in un sacco. Mi sembra d’asfissiare e mi sveglio”».
Nel libro racconta anche le storie di suoi famigliari immigrati: il nonno paterno Lorenzo emigrato prima in Australia e poi in Canada, la zia Wilma e il bisnonno materno emigrato in Argentina. Immagino, quindi, sia stato a maggior ragione molto forte l’impatto emotivo nello scovare tutte queste storie…
«Nel definire la cornice narrativa delle vicende ricavate dai documenti, non ho avuto dubbi sulla necessità di mettermi in gioco raccontando la verità della mia famiglia anziché una narrazione inventata. I giovani lettori pretendono dall’adulto, innanzitutto, onestà».
Tanti i parallelismi con le spesso tragiche migrazioni di oggi. La Storia – anche attraverso le storie come quelle nel suo libro – può ancora insegnarci qualcosa?
«Storie di emigrazione affiorano dagli album fotografici di ogni famiglia italiana, eppure si tratta di ricordi spesso collettivamente rimossi: per aiutarci a comprendere e sentire la realtà in cui viviamo, e poter quindi immaginare insieme una società del futuro, credo sia invece fondamentale che docenti e alunni si approprino di un’esaustiva narrazione della storia dell’emigrazione degli italiani nel mondo. Poi è un attimo percepire una connessione tra la nostra storia di emigranti e ogni migrazione dei nostri tempi. “Perché non c’era qualche donna dal cuore tenero che si prendesse pena di tante miserie, di tante lacrime?”, scriveva Ernestine Branche, emigrante valdostana, raccontando il suo sbarco a New York nel 1912, ventiduenne. “Erano considerati come dell’immondizia umana, e le grida continuavano senza tregua”».
Pubblicato sulla “Voce” del 13 settembre 2024
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