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“Il covid? Colpa degli ebrei” L’antisemitismo nell’epoca della pandemia

18 Gen

Indagine nella quotidianità dell’odio contro gli ebrei, fra web, tv e carta stampata. Dal Brasile all’Iran, dalla Turchia agli USA, suprematismo bianco, antisionismo di sinistra e islam si intrecciano in una spirale di disprezzo e violenza tanto arcaica quanto contemporanea. A rimetterci sono sempre loro, colpevoli di tutto. Anche di esistere

di Andrea Musacci

In un libro scritto nel 2018, Deborah E. Lipstadt, storica della Shoah, riflette: «Al cuore di tutte le teorie del complotto c’è l’idea di una congrega segreta di potenti, un’élite demoniaca che controlla elementi cruciali di una determinata società. I teorici del complotto si affidano a un ragionamento tortuoso: proprio il fatto che non si possa identificare con precisione i cospiratori “prova” l’esistenza del complotto» (“Antisemitismo. Una storia di oggi e di domani”, Luiss University Press, gennaio 2020).
Il libro non poteva certo immaginare l’arrivo del Coronavirus, ma in quella citazione l’autrice intuisce cosa la pandemia avrebbe portato nell’odio millenario contro gli ebrei in quanto tali. Quale occasione migliore, infatti, per folle sparse in ogni angolo del globo per marchiare ancora una volta gli ebrei come responsabili e approfittatori della nuova “peste”.

Gli ebrei untori: dai territori palestinesi agli USA (passando per la Germania)
La storia non è certo nuova a complotti di questo tipo: negli anni della peste nera in Europa (1347-1351) le accuse contro gli ebrei di essere gli untori causarono pogrom che portarono alla distruzione di 200 comunità ebraiche in tutta Europa. Gli ebrei vennero accusati di avvelenare pozzi e fontane, così da permettere la diffusione della “morte nera”. Qualche secolo più tardi, solo per fare qualche esempio, nel 1719 a Udine un proclama reiterava il divieto del 1556: agli ebrei, accusati dell’introduzione della peste in città, fu proibito di abitarvi e di condurre attività di prestito, pena sanzioni pecuniarie e il sequestro dei beni, compresi i depositi presso il Monte di pietà. Le cronache del 1556 riferiscono che il contagio fu introdotto a Udine da masserizie infette trasportate da ebrei della città che si erano recati a Capodistria. Questi deliri furono riproposti dalla propaganda nazista nel 1941 quando si diffuse la voce che gli ebrei polacchi fossero colpevoli della diffusione del tifo.
Ma veniamo ai giorni nostri. Sull’edizione italiana di “Pars Today”, sito di notizie di proprietà del feroce regime iraniano, un articolo del 12 marzo 2020 accusa Israele di usare il virus per uccidere i prigionieri palestinesi: «Israele ha inviato un medico malato tra i prigionieri palestinesi della prigione di Ashkelon in modo da contagiarli tutti con il coronavirus», spiega il delirante articolo. «Dopo il contagio dei prigionieri palestinesi con il coronavirus, le autorità carcerarie israeliane si sono rifiutate di fornire qualsiasi tipo di assistenza medica lasciando morire i carcerati». Naturalmente tutto falso: il medico seppe solo dopo la visita di essere positivo al Coronavirus e nessuno mai provò che avesse contagiato altre persone.
Carlos Latuff è un fumettista brasiliano osannato nell’area della sinistra antisionista. Nel 2006 ha partecipato (vincendo il secondo premio) all’International Holocaust Cartoon Contest, concorso negazionista promosso per la prima volta nel 2014 dal quotidiano iraniano Hamshahri. L’estate scorsa ha realizzato una vignetta in cui si vede un soldato israeliano che, dopo aver demolito un presunto “Covid-19 testing centre” a Hebron in Cisgiordania, sorride vittorioso all’ormai noto simbolo del Coronavirus con sembianze umane. Alcuni funzionari del ministero della Salute dell’Autorità Palestinese hanno dichiarato al Jerusalem Post di non essere a conoscenza dei piani per costruire un “Covid-19 testing centre” a Hebron. Si è poi scoperto, infatti, che l’edificio costruito illegalmente sarebbe dovuto diventare la sede di una concessionaria di auto.
Spostandoci in Europa, ad Amburgo in Germania, il 7 aprile nei vagoni della metropolitana sono stati scoperti alcuni adesivi rappresentanti la stella di David che i nazisti applicarono agli indumenti degli ebrei durante la Seconda guerra mondiale. L’adesivo ha al centro il simbolo che indica “rischio biologico” e due scritte – “infetto” e “Coronavirus” -, per porre in relazione gli ebrei con la diffusione del Covid-19.
Un altro esempio, fra i tanti, della teoria degli “ebrei untori” lo peschiamo negli USA: il 12 marzo l’ex-capo del Ku Klux Klan David Duke ha twittato l’ipotesi che Donald Trump fosse rimasto contagiato, incolpando di ciò Israele e «l’elite sionista globale». I gruppi di estrema destra statunitensi, servendosi di social e altri siti web, affermano regolarmente che il loro Paese è governato da quello che definiscono ZOG (Zionist Occupied Government, “Governo d’occupazione sionista”), un gruppo internazionale di ricchi ebrei che ha come obiettivo un unico governo mondiale guidato da loro.


«Un complotto giudaico mondiale»
Gli ebrei come eterni “burattinai” che controllano le redini del mondo, cospirando di continuo a tal fine, è uno dei tropi più diffusi nella storia.
Negli ultimi mesi gli esempi si sprecano. Lo scorso 6 marzo in Turchia Fatih Erbakan, leader della formazione islamista Nuovo Partito del Benessere (Yeniden Refah Partisi) in un intervento pubblico ha affermato: «Anche se non ne abbiamo la prova certa, questo virus serve gli interessi del sionismo, che sono quelli di diminuire il numero degli esseri umani e di impedire che cresca. Il sionismo è il batterio vecchio di cinquemila anni che ha causato la sofferenza di tanta gente». Sempre in Turchia, l’ex colonnello dell’esercito, Coskun Basbug, sul canale televisivo A-Haber, di proprietà della famiglia del presidente Erdogan, ha sostenuto che gli ebrei avrebbero inventato e diffuso il Coronavirus «per modellare il mondo a loro piacimento e neutralizzare il resto della popolazione».
Sempre a marzo in Iran vari organi di stampa hanno rilanciato l’intervista rilasciata dal complottista americano James Fetzer, professore di filosofia in pensione dell’Università del Minnesota, alla catena televisiva iraniana in lingua inglese Press TV, di proprietà della Irib, la TV di Stato: «credo che quello a cui stiamo assistendo, sotto il mantello della pretesa epidemia di coronavirus, è un attacco con armi batteriologiche contro l’Iran da parte di elementi sionisti che sfruttano la situazione».
Anche in questo caso il nostro Continente si dimostra tutt’altro libero da certe nefandezze. Il report di un ente di consulenza indipendente del governo britannico ha studiato 28 popolari forum NO VAX sui social media: «molti di questi post – è scritto nel report – suggeriscono che gli ebrei abbiano creato il coronavirus e che stiano tramando dietro le quinte per destabilizzare banche e Paesi attraverso la diffusione del virus».
In Spagna il 14 marzo sul sito di estrema sinistra “Kaosenlared”, vicino agli indipendentisti baschi, è uscito un articolo secondo il quale «il coronavirus è uno strumento per la Terza Guerra Mondiale rilasciato dall’imperialismo yankee sionista. L’elite anglosassone capitalista e sionista, nemica di tutta l’umanità, ha compiuto un ulteriore passo nella sua offensiva criminale e genocida».
Nella vicina Francia, Alain Mondino, capogruppo del partito RN (successore del Front National) nel comune di Villepinte vicino Parigi, ha postato sul social network russo VK un video secondo cui il virus è stato creato dagli ebrei «per imporre la loro supremazia».

Le tesi antisemite sul vaccino anti Covid
In queste settimane grande diffusione su ogni media ha avuto la notizia – poi rivelatasi una fake news – secondo cui Israele stia negando ai palestinesi la distribuzione del vaccino anti Covid-19. Una forma aggiornata, insomma, dell’“ebreo untore” che ora, al contrario, non contagerebbe il resto del mondo ma impedirebbe agli altri di curarsi. Sul Jerusalem Post, a inizio gennaio è stato il giornalista arabo israeliano Khaled Abu Toameh a ristabilire la verità dei fatti: «i palestinesi non si chiedono che Israele venda loro, o acquisti per loro, il vaccino da qualsiasi paese. I palestinesi affermano che riceveranno presto quasi quattro milioni di vaccini di fabbricazione russa. L’Autorità Palestinese dice che, con l’aiuto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, è riuscita ad assicurarsi il vaccino da altre fonti». L’Autorità Palestinese, infatti, come altri Paesi mediorientali vicini, a febbraio inizierà a ricevere dosi di vaccini Sputnik V e AstraZeneca. Inoltre, gli Accordi di Oslo del ’93 tra israeliani e palestinesi stabiliscono che l’Autorità Palestinese è responsabile dell’assistenza sanitaria per i palestinesi in Giudea, Samaria e striscia di Gaza, comprese le vaccinazioni. Da allora l’Autorità Palestinese tutela gelosamente questa sua prerogativa.
Come scrive Uri Pilichowski sul Times of Israel del 4 gennaio scorso, «gli accusatori di Israele (…) esigono che Israele dia massima autonomia ai palestinesi e allo stesso tempo pretendono che Israele garantisca ai palestinesi tutto ciò che garantisce ai propri cittadini. È un’argomentazione che ignora i fatti. I fatti sono che i palestinesi hanno voluto l’autonomia anche per quanto riguarda l’assistenza sanitaria della propria gente».
II 16 marzo scorso un profilo Twitter legato alla statunitense “Nation Of Islam”, il gruppo islamico afroamericano suprematista e antisemita di cui fece parte Malcolm X, ha insinuato che il virus sia stato creato da Israele come arma biologica. Diversi mesi dopo, il 27 dicembre, Ishmael Muhammad, Assistente nazionale del leader della “Nation of Islam” Louis Farrakhan, ha messo in guardia i neri contro i vaccini per il Covid-19 durante una recente serie di conferenze intitolate “American Wicked Plan” (“Il piano perverso dell’America”). Citando Farrakhan, Muhammad ha detto: «Negli anni Sessanta (…) Elijah Mohammed (che guidò la “Nation of Islam” prima di Farrakhan, ndr) consigliò ai suoi seguaci di non assumere il vaccino per la polio». Farrakhan – ha aggiunto Muhammad – aveva scoperto che esistono due tipi di vaccini per l’influenza, uno che contiene il mercurio e altri additivi e un altro, privo di queste sostanze, «per gli ebrei e per coloro che sono al corrente degli additivi chimici presenti in questi vaccini».
Sempre a marzo 2020 un anonimo lettore ha recapitato al quotidiano “Libero” un messaggio dove spiegava che il coronavirus è stato diffuso dal Mossad, i servizi segreti israeliani, in modo che gli israeliani stessi potessero poi produrre «un vaccino che, essendo ebrei, venderanno al miglior offerente».

«Gli ebrei? Non sono cittadini»: pensieri dall’Italia di oggi
A breve ricorrerà il Giorno della Memoria per commemorare le vittime dell’Olocausto. Furono 6.806 gli ebrei italiani deportati nei campi di sterminio nazisti, dai quali ne sono ritornati soltanto 837. Sono stati 322, invece, gli ebrei italiani arrestati e uccisi nel nostro Paese tra il 1943 e il 1945. Dei 6.806 sopracitati, 1.023 furono le vittime del rastrellamento del ghetto di Roma, deportate direttamente al campo di sterminio di Auschwitz. Soltanto 16 di loro sopravvissero.
Il 21 febbraio del 2020 Sergio Mattarella si è recato alla Sinagoga di Roma per incontrare la Comunità ebraica della capitale, la più antica di Europa, che ancora oggi conta 13mila membri, oltre un terzo di quelli in tutta Italia. Sempre Deborah E. Lipstadt nel sopracitato libro spiega come «l’antisemitismo non è semplicemente l’odio per qualcosa di “straniero”, ma l’odio per un male perpetuo che agisce nel mondo. Gli ebrei non sono un nemico, ma il nemico per eccellenza».
Come darle torto. Passato e presente si fondono in un unico turbine di disprezzo e violenza. “Dalla vostra parte” è un gruppo Facebook di “discussione politica” (si fa per dire) seguito da 33.400 persone. Alcuni dei 120 commenti di risposta al post sulla visita di Mattarella alla Sinagoga romana recitano così: «Per Mattarella [gli ebrei] sono i veri romani. Contenti loro…», scrive ad esempio Massimo L. . «A Mattarella interessano tutti tranne noi italiani», è il pensiero di Manuela C. .
Persone normali che, nel 2020, un secolo dopo le squadracce fasciste, credono, esternandolo senza problemi, che gli ebrei non siano cittadini italiani, e che quindi non abbiano gli stessi diritti degli altri.
Ancora un esempio del “quotidiano” e diffuso odio antisemita. Novembre 2019: nello stesso gruppo Facebook, sotto un post denigratorio nei confronti di Liliana Segre, rivolgendosi a lei, Leonardo R. commenta: «Purtroppo 80 anni fa qualcuno non ha fatto bene il suo mestiere, è per questo che la finanza mondiale, della quale la tua gente è a capo, sta strangolando il mondo».
Continue dimostrazioni di come purtroppo storia e presente siano uniti in un’unica terribile ossessione antiebraica.
Buon Giorno della Memoria, allora. Ce n’è davvero bisogno.

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 22 gennaio 2021

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Nel 2021 usciremo dall’emergenza Covid? Speciale vaccino a Ferrara

4 Gen

PRIMA PARTE. “È il momento della speranza”: intervista ad Anna Marra e Marcello Delfino della Farmacia Ospedaliera di Cona

Il team vaccinazione dell’Ospedale di Cona

di Andrea Musacci
Alle ore 14 di domenica 27 dicembre anche in Emilia-Romagna sono iniziate le prime vaccinazioni anti-Covid 19. Nella nostra Regione sono state 975 le donne e gli uomini – fra medici, infermieri e OSS -, a ricevere il vaccino Pfizer. La prima fase della campagna – iniziata il 31 dicembre (con 91 vaccinazioni tra Cona e Delta) e che dovrebbe concludersi a fine marzo – in Emilia-Romagna riguarda circa 180mila professionisti, oltre ai degenti nelle Case Residenze per Anziani. Nella provincia di Ferrara le vaccinazioni sono iniziate all’Ospedale di Cona. La prima vaccinata è stata Noemi Melloni, centese di 27 anni, assunta lo scorso luglio dall’AUSL come medico delle Unità Speciali di Continuità Assistenziali (USCA).
Abbiamo colto l’occasione per intervistare la dott.ssa Anna Marra, da poco Direttrice dell’Unità Operativa di Farmacia Ospedaliera dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria di Ferrara.
A un mese esatto dall’inizio del nuovo incarico, un giorno “storico”. Come vive questo periodo di grande responsabilità?
«Il momento è sicuramente storico e avverto una grande responsabilità nell’aver assunto questo incarico proprio in questo periodo. I miei collaboratori ed io ci stiamo impegnando al massimo per far fronte agli impegni di questa nuova sfida. Certamente l’arrivo del vaccino ci dà la speranza di poter uscire dal dramma che stiamo vivendo».
Ci può raccontare quando avete avuto la notizia che Cona sarebbe stata il luogo dei primi vaccini antiCovid-19?
«Il 17 novembre da parte della Struttura Commissariale del dott. Arcuri ci è stato richiesta la disponibilità nell’Ospedale di Cona di congelatori ULT (Ultra Low Temperature), in cui eventualmente poter conservare il vaccino Pfizer che necessitava di particolari temperature di stoccaggio (-80°C). Abbiamo subito risposto e fornito la nostra disponibilità alla conservazione dei vaccini. Da allora siamo stati individuati come centro Hub della Provincia di Ferrara».
Com’è stato organizzato l’arrivo e la distribuzione del vaccino?
«Il vaccino necessario per il 27 dicembre, il cosiddetto v-day, è arrivato dal Belgio, sito di produzione, all’Ospedale Spallanzani di Roma il 26 dicembre. Da qui l’Esercito ha distribuito le dosi già scongelate in tutte le Regioni Italiane. Per l’Emilia Romagna centro di ricevimento e smistamento delle dosi regionali era l’Ospedale Bellaria di Bologna. Il 27 mattina noi dell’Ospedale S. Anna di Cona siamo andati a ritirare con appositi contenitori frigo le dosi destinate alla Provincia di Ferrara. Tali dosi sono state conservate in frigorifero fino all’inizio della seduta vaccinale che era stata stabilita per tutta la regione alle ore 14».
Quali le difficoltà incontrate nella gestione di questo tipo di vaccino?
«Le principali difficoltà sono legate alle particolari temperature a cui deve essere conservato in congelatori ULT. Il vaccino deve essere scongelato per preparazione prima della somministrazione. Lo scongelamento può avvenire sia in frigorifero (2-8°C) sia a temperatura ambiente. Se viene scongelato in frigorifero, è stabile per un periodo di 5 gg; se viene scongelato a temperatura ambiente, deve essere preparato entro due ore. La fase di preparazione prevede un’iniziale diluizione e poi la ripartizione in sirighe. Da ogni flaconcino di vaccino si ricavano sei dosi da somministrare».
Nei prossimi mesi che consigli possiamo dare alle persone per evitare che, prese dall’ottimismo per l’arrivo del vaccino, vengano meno le regole elementari di prudenza?
«La campagna vaccinale appena cominciata è al momento rivolta agli operatori sanitari e alle RSA. L’immunità di gregge che proteggerà tutta la popolazione sarà raggiunta non prima dell’autunno 2021, quando, si spera, sarà stato vaccinato il 70-80% della popolazione generale. Fino a quel momento sarà necessario continuare ad adottare le regole elementari di prudenza e di protezione individuale che abbiamo imparato in questi mesi, per proteggere chi non si è ancora vaccinato».


Un altro protagonista del v-day a Cona e delle prime vaccinazioni è il dott. Marcello Delfino, Farmacista all’Ospedale di Cona.
Che giornata è stata quella del 27 a livello umano e professionale?
«Densa di emozioni. Una giornata storica, carica di speranza in cui la dimensione umana e professionale sono coincise nell’impegno dedicato alla lotta al covid. Le ore precedenti all’arrivo dei vaccini sono state impiegate a chiarire insieme ad alcune colleghe della Farmacia gli ultimi aspetti organizzativi circa le fasi di conservazione e trasporto ai punti di somministrazione del vaccino. Eravamo tutti visibilmente emozionati e consapevoli di rappresentare l’avanguardia di una vera e propria riscossa della vita contro la minaccia di un nemico invisibile e letale. L’esempio dato dai primi vaccinati infonde in tutti noi una carica di fiducia e di coraggio di cui si sentiva il bisogno».
Come ha vissuto questi ultimi dieci mesi a Cona?
«Sono stati mesi lunghi, con una fortissima pressione lavorativa e psicologica, in particolare il periodo marzo-maggio. Ci sono state giornate in cui la stanchezza fisica e la rassegnazione sembravano prendere il sopravvento. Non potrò mai dimenticare la carica emotiva che provavo, e che ancora avverto, quando tutti i giorni lungo la strada per andare in Ospedale leggo i messaggi dei cartelli che ci ringraziano e ci incoraggiano a non mollare. Noi operatori della Farmacia Ospedaliera siamo stati impegnati in numerose attività in ambito strategico.organizzativo, galenico e nella logistica e approvvigionamento di farmaci, disinfettanti e dispositivi per la sicurezza dei pazienti e operatori sanitari. Questi sono giorni in cui convivono sentimenti contrastanti, angosce e speranze. Angoscia per le troppe persone colpite da questo maledetto virus e per la paura di non farcela. Ma è anche il momento della speranza. Speranza di rivedere la luce grazie al vaccino. Adesso si intravede la via d’uscita da questo lungo tunnel e da notti insonni. È il tempo di ricostruire e per farlo ognuno di noi deve fare la sua parte con serietà».

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SECONDA PARTE. Il racconto a “La Voce” di Francesco ed Elisabetta Pasini, volontari per la sperimentazione del vaccino italiano anti-Covid 19: “diamo il nostro contributo nella lotta al virus”

Francesco ed Elisabetta Pasini

Francesco Pasini, 67enne originario di Portomaggiore, da tanti anni vive con la propria famiglia vicino Verona, per la precisione a Castel d’Azzano. Perito chimico e laureato in Tecniche di laboratorio biomedico, da quattro anni è in pensione, dopo aver lavorato dal 1973 al Policnico di Verona come Tecnico in un laboratorio di biochimica.
Lui ed Elisabetta, una dei suoi 5 figli, sono due delle 90 persone che hanno scelto di proporsi come volontarie per la sperimentazione di quello che aspira a essere il primo vaccino anti-Covid-19 tutto italiano, il GRAd-COV2 COVID-19. Il vaccino è frutto della ricerca dell’azienda biotech ReiThera di Castel Romano in collaborazione con l’Istituto Nazionale per le Malattie Infettive “L. Spallanzani” di Roma, e ha ricevuto finanziamenti dal Ministero dell’Università e dalla Regione Lazio. In passato Reithera ha sviluppato con successo vaccini genetici contro le principali malattie infettive, tra cui epatite C, malaria, HIV ed Ebola.
La sperimentazione clinica di Fase 1 in corso sta valutando la sicurezza e l’immunogenicità di GRAd-COV2 su 90 volontari sani, divisi equamente in due gruppi con fasce di età, 18-55 anni l’uno e 65-85 anni l’altro. I partecipanti sono monitorati per un periodo di 24 settimane. Il primo ha ricevuto il vaccino il 24 agosto allo Spallanzani. L’obiettivo primario dello studio è valutare la sicurezza e la tollerabilità di GRAd-COV2 e selezionare una dose di vaccino per le successive fasi 2 e 3 di sperimentazione clinica. Il secondo obiettivo è valutare la capacità del vaccino di indurre nei volontari risposte immunitarie (sia anticorpi sia linfocitiT), contro il nuovo coronavirus. A breve partirà anche la sperimentazione di un altro vaccino anti-Covid 100% italiano, quello prodotto dall’azienda Takis.
«È stata mia figlia Elisabetta a informarmi che c’era allo studio questo vaccino anti-Covid, e che cercavano volontari anche della mia età», racconta a “La Voce” Francesco Pasini. «Il 2 novembre, dopo un giorno di digiuno, ho assunto il vaccino, ma solo dopo aver fatto una visita di controllo. A ogni volontario il giorno dell’inoculo – il cosiddetto “giorno zero” – consegnano un kit con un termometro per misurare quotidianamente la febbre e segnalarla nel report insieme a eventuali sintomi (mal di testa, nausea, vomito, diarrea, dolori addominali, dolori muscolari, stanchezza, brividi)». Diversi i controlli nell’arco di sei mesi, più frequenti all’inizio e via via sempre più radi. «Io e alcuni dei miei figli – prosegue Pasini – avevamo già partecipato come volontari a studi clinici». Un’esperienza, dunque, la sua, pienamente consapevole, di chi conosce bene il mondo della ricerca scientifica e la scrupolosità necessaria per le sperimentazioni. «Molta gente purtroppo fantastica» riguardo a fantomatici effetti negativi dei vaccini sulle persone. «Nella Fase 3 di sperimentazione verrà usato addirittura il metodo del “doppio cieco”: a metà dei volontari verrà somministrato il vaccino, a un’altra metà un placebo, ma nessuno – né i volontari né i somministratori – sapranno quali sono vaccini e quali placebo». Inoltre, prima di arrivare all’inoculazione, diversi test sono stati eseguiti su animali. «Non ho ricevuto critiche», conclude Pasini. «Il Sindaco del mio paese ha elogiato pubblicamente noi volontari».
Elisabetta Pasini, 39 anni, sposata da 10 anni, vive invece nella vicina Povigliano Veronese col marito e i tre figli. Laureata in Economia e Commercio e impiegata in banca, ha ricevuto il vaccino lo scorso 23 settembre. «Il 10 marzo – ci spiega – avrò l’ultima delle sette visite calendarizzate. In questi mesi sono stata bene, non ho avuto nessun sintomo». E non ha mai avuto nemmeno paura, «talmente sono convinta che sia la cosa più giusta da fare». A differenza del padre, forse anche perché donna, di critiche ne ha ricevute, anche pesanti. «Qualcuno mi ha detto che lo facevo solo per soldi, o altri mi hanno definita “irresponsabile” in quanto madre di famiglia. Ma io, proprio perché madre, non voglio vedere nessuno, compresi i miei figli, con la mascherina per un altro anno, e per questo sto cercando di dare il mio contributo. Se riuscissi a convincere anche una sola persona scettica a farsi vaccinare, vorrebbe dire che ne è valsa la pena».

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” dell’8 gennaio 2021

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Uno sguardo profondo sulla rivoluzione in atto: il libro “Riflessioni per tempi incerti”

16 Nov

“Riflessioni per tempi incerti” è il volume corale con riflessioni sulla pandemia edito da Festina Lente. Tra gli altri, ospita contributi del card. Josè Tolentino De Mendonca, di Chiara Giaccardi, Pietro Gibellini, Emilio Isgrò, Mauro Magatti, Alberto Maggi, Alessandra Smerilli e Franco Arminio

«Indietro non torneremo o, meglio, ci torneremo poco e male. Ci sarà un po’ di inerzia, un po’ di riluttanza, ma il passaggio è avvenuto». Le parole sono di Luciano Floridi, docente di filosofia, e fanno parte dell’importante volume corale appena pubblicato dalla ferrarese Festina Lente Edizioni di Marco Mari.
“Riflessioni per tempi incerti” è il titolo del libro che raccoglie gli interventi di 11 personalità, frutto di una serie di video-conferenze organizzate da marzo a ottobre scorsi dalla Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura con sede a Brescia.
Sono scrittori, poeti, biblisti, artisti, economisti e sociologi: Luigi Alici, Franco Arminio, Carlo Bellavite Pellegrini, Luciano Floridi, Chiara Giaccardi, Pietro Gibellini, Emilio Isgrò, Mauro Magatti, Alberto Maggi, Alessandra Smerilli e il card. Josè Tolentino De Mendonca.
«Anche in situazioni di estrema difficoltà, in cui il dialogo interpersonale è fortemente compromesso, crediamo resti vivo l’insegnamento socratico di chiedersi qual è il senso di ogni cosa che facciamo, del rapporto tra il proprio agire e la propria “città”, ovvero del vivere insieme agli altri», scrive nell’Introduzione del testo Filippo Perrini, Presidente della Cooperativa bresciana.
Ed è quello che, da angolature differenti, provano a fare tutte le persone coinvolte, per riflettere, in periodi diversi, dell’emergenza che stiamo vivendo, su cosa ci insegna questa pandemia a livello spirituale, sociale, economico e relazionale.
«È un tempo purificatorio», riflette il card. Tolentino De Mendonca. «L’immagine prometeica che noi abbiamo – l’immagine di una onnipotenza che la nostra società vende come propria auto rappresentazione – è completamente fallita». Dobbiamo quindi, prosegue, costruire «processi di coscienza su noi stessi» e «processi di conoscenza di Dio». Sui processi riflettono ad esempio anche i coniugi e sociologi Giaccardi e Magatti. È la prima dei due a scrivere: «quello che ci aspetta è un guardare avanti, un mettere in movimento dei processi».
E lo sguardo di ognuno dei contributi è radicalmente proiettato nell’avvenire: «non vedo più una Chiesa che va avanti organizzando grandi eventi», è il pensiero di Smerilli. «Forse abbiamo capito che dobbiamo lavorare per processi, innescare processi, e, passo dopo passo, arrivare alle persone e portare la buona notizia».
Ma la profondità orizzontale, verso l’altro e verso il futuro, non può non accompagnarsi alla profondità interiore, dentro di sé e a fondo nel pur tragico presente, che ci costringe a gettarci alle spalle ipocrisie e scorciatoie. «Non è vero che la fragilità è uno stato accidentale e transitorio (…). La fragilità è una condizione costitutiva delle creature e del creato», scrive ad esempio Alici, ed è Maggi a riflettere sul senso cristiano del morire e sulla rimozione della morte nella società moderna e in particolare in quella contemporanea. Una rimozione terribile, che ci interroga sull’importanza di riscoprire una verticalità nelle nostre esistenze: «la poesia è una sorta di sentinella del sacro», riflette il poeta Arminio. «Noi abbiamo bisogno di intensità. Abbiamo bisogno di lavoro, ovviamente, di regole. Questo lo sappiamo. Però, abbiamo anche bisogno di intensità, di sacro, di senso. Direi pure che abbiamo bisogno di Dio».
Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 20 novembre 2020

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Non c’è più contatto

2 Nov

Poter toccare è fondamentale per l’essere umano. Ma nell’epoca del virtuale e in quella del distanziamento fisico causato dall’emergenza sanitaria ce ne stiamo dimenticando. L’incubo di un mondo senza senso del tatto e l’importanza della riscoperta del corpo umano come luogo fragile e accogliente

di Andrea Musacci

«Evitare abbracci e strette di mano», «Non toccarsi occhi, naso e bocca con le mani».
Immersi come siamo ormai da 8 mesi in questa bolla invisibile fatta di separazioni, reciproca paura, prudenza che ci porta a sterilizzare, diffidare, a chiuderci e a isolare, il rapporto del nostro corpo con tutto ciò con cui può venire in contatto è stato trasformato. Abituati ad allontanare, ormai impressionati al solo assistere a baci, abbracci ed effusioni, straniti da questi gesti proibiti, ci percepiamo sempre più isolati.
Di questo passo, la conoscenza dell’altro da sé avverrà sempre meno tramite il tatto e il contatto diretto, anche delle persone che più amiamo, che meglio conosciamo. È questo il dramma all’orizzonte. Sempre più si insinua in noi il sospetto che il corpo dell’altro sia una terra potenzialmente pericolosa, un’isola ignota, una giungla tenebrosa dove l’invisibile domina – pur nella sua apparente assenza – sul visibile.
È vero, però, che è impensabile un’esistenza del nostro corpo senza contatto alcuno con l’altro-da-noi. Se eliminare ciò è assurdo, ridurlo, prima ancora delle abitudini nate in questo periodo di pandemia, è tipico di un “distanziamento sociale” che da decenni sempre più pervade, anzi invade, case, spazi pubblici o privati, relazioni. Un virtuale molto reale. Così reale da adulterare rapporti, modalità e abitudini nell’abitare i luoghi, nel conoscerli. Una volontà tremenda di rimanere “in-tatti”, appunto. Di non contaminarsi, di restare puri. Di preferire il vuoto nell’anima alla lotta dell’incontro con l’infinitamente altro-da-noi.
A maggior ragione in quest’epoca del Coronavirus, se il corpo dell’altro, e gli stessi oggetti, sono sempre più possibili spazi ostili, perché allora non scegliere il terreno neutrale, levigato, asettico e cieco dello schermo di un qualsivoglia dispositivo digitale? Mera superficie senza volto, indifferente, discreta. Velo magico incorporeo, inerme al nostro tocco, alla nostra mano che come strumento dirige, comanda, informa di sé. Corpo senza corpo di cui disponiamo liberamente. Non a caso si chiama dispositivo.
Ma questo bisogno di toccare gli altri corpi è spesso irriflesso, è bisogno di sentire qualcosa che ci dica di una consistenza, che ci provochi una sensazione più reale, è il non volerci accontentare di superfici asettiche e inodori come quelle degli schermi.


Cos’è davvero toccare
Nel toccare, il soggetto si sente pienamente – «toccare un altro significa nello stesso tempo provare la propria esistenza» scrive Marc Augè -, e sente in maniera più piena, più autentica il mondo, percependo di sé e dell’altro la sostanza, la carne, e così riconoscendosi esso stesso carne e non solo fredda e distaccata distanza, horror vacui del pensiero che in realtà, nel fantasma altrui annacquato nel digitale, non fa che pensare solo se stesso.
Siamo, come corpo, interamente tatto, propensi al tatto, il nostro intero corpo è tattile, e, in modo particolare, le nostre mani possono non essere strumento di presa e di dominio ma luogo estremo della nostra anima, del nostre cuore – che, infatti, viene “toccato” da parole, situazioni, emozioni. Qualcosa che mi tange, non a caso, significa che mi turba, mi interessa, mi coinvolge.
Il tocco è dunque un abbandono, un atto di fiducia, di per sé una scoperta. Al contrario, nel digitale non può darsi vero legame, reale congiunzione, mentre col tatto qualcosa si manifesta in maniera piena, dolce o atroce che sia si rivela senza equivoci: la pelle, come custode, libera la memoria, esprime la vita.

Abbraccio, stretta di mano, carezza
L’abbraccio è forse uno dei gesti che con maggiore radicalità dice questo concetto, in quanto rappresentazione della vicinanza tra sé e l’altro, simulazione di un’unione (impossibile), intreccio che conserva le identità e al tempo stesso le trasforma.
Nell’abbraccio riviviamo sempre qualcosa di puro, in esso afferriamo senza però in realtà davvero possedere, senza poter mai avere nulla a nostra completa disposizione, pienamente a portata di mano. Luce Irigaray parlava dell’importanza di conservare il «nostro desiderio di abbracciare l’altro in quanto desiderio di trascendere noi stessi».
E così, la stessa stretta di mano è sigillo che a un tempo conferma e sublima un’unione spirituale. Non è mero rito né formalità ma espressione di un oltre, concretizzazione necessaria di qualcosa che rischia di diventare sfuggente, astratto. Virtuale, appunto.
Il toccare, dunque, può essere illusione di possesso ma in realtà non fa che denotare in maniera chiara come in ultima analisi tutto ci sfugga, tutto possa, debba da noi essere contemplato, accarezzato, curato. Il vero tocco è dunque la carezza. Il tocco lascia essere, non adultera l’altro-da-noi. Il tatto rivela che il vero corpo non è cosa e non rende cosa l’altro.
Non a caso, il sogno più coinvolgente e dolce se prolungato si tramuta in incubo, in quanto in esso non vi è possibilità di contatto, manifestando quindi in maniera piena l’inganno del solo sguardo, del distacco che è dominio e che presto si tramuta in follia, sottile disperazione. E la stessa comunicazione verbale rischia di diventare un incubo se non sperimenta oltre, se non diventa relazione anche sensibile.


Corpo come luogo: una terra accogliente
Il divieto “Vietato toccare” è solitamente usato riguardo a qualcosa di fragile o di estraneo, di personale, di intimo.
Nell’epoca del distanziamento fisico, ognuno diventa quindi estraneo per l’altro, o comunque obbligato a fingersi tale. Ma questi tempi che stiamo vivendo possono anche aiutarci a saperci riconoscere – senza pudore – come fragili.
Se dunque da una parte il nostro corpo diventa sempre più un confine non solo da toccare ma nemmeno da avvicinare, dall’altra esso non potrà mai perdere la propria connotazione di luogo inevitabilmente esposto, di identità e di conoscenza, frontiera accogliente, abbraccio integrale, terra disarmata ma non neutra. Luogo di reciproco riconoscimento e apertura all’altro.
Chi può dire lo stesso dello schermo di uno smartphone?

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 6 novembre 2020

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Ma siamo davvero connessi con la realtà?

31 Ago

Post lockdown: fine delle illusioni o nuovo inizio?

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di Andrea Musacci

Quanto ci sono sembrati lontani, in questa folle e irresponsabile estate, gli “abbracci spezzati” a causa del coronavirus, i canti corali dai balconi, gli ottimismi a basso prezzo, le promesse bagnate da lacrime troppo sommarie? Quel ripetere che “andrà tutto bene” nelle drammatiche settimane di fine inverno, quell’illusione del “nulla sarà come prima” nelle nostre piccole esistenze, nelle nostre priorità valoriali?

Eppure questi mesi di post lockdown – in parte anticipati già a maggio man mano che i cortei con le bare di Bergamo si opacizzavano nella nostra memoria – sono esplosi nella loro doppia natura: da una parte, in maniera feroce, rivelandosi come fine delle illusioni maturate o sbandierate durante la quarantena; dall’altra, con un’ingenuità ipocrita se letta in controluce, fondando la propria superficialità, dimentica di quei mesi infernali, sull’auto-illusione che l’autunno ormai prossimo possa, anzi “debba”, gettare nell’oblio la clausura e le sue presunte psicosi. Ma la realtà non sempre è manipolabile dalle nostre percezioni, dalle nostre bizze, dai nostri miseri egocentrismi. In questo crescere vertiginoso dei contagi, le sfere del lavoro, della formazione, come le nostre abitudini e le ripercussioni a livello psicologico, ci appaiono più che mai non rifrazioni scollegate ma tra loro intimamente connesse. Un’unica grande preoccupazione, un solo grande punto interrogativo le tiene insieme nella carne delle nostre vite, con note sempre più marcatamente minacciose e malinconiche. Ma proprio per questo, di parole e di luoghi di non velleitaria coesione, di amalgami non costruiti a tavolino, di uno sguardo quanto più pieno sulle persone e i loro drammi, c’è più che mai bisogno. E proprio di un cammino unitario, anche e innanzitutto del nostro popolo – (corpo in continua “costituzione”) riflette, ancora una volta, il nostro Arcivescovo nella sua Lettera alla nostra Chiesa locale che pubblichiamo integralmente.

Durante il lockdown – tante volte l’abbiamo raccontato sul nostro Settimanale – anche nella nostra Diocesi non poche persone grazie a parrocchie, associazioni e movimenti cattolici hanno proseguito la propria missione all’interno dei confini sempre più stretti delineati dalle rigide norme emergenziali: spesa a casa per gli anziani, acquisto di farmaci, mascherine, beni di prima necessità, collette per i più bisognosi, vicinanza tramite social e nuove piattaforme digitali. Una carità più o meno carsica ma mai interrotta, sempre attenta a non “disconnettersi” dalla sua fonte primaria, Cristo, e dalle gioie e dai dolori delle sorelle e dei fratelli incontrati, se non cercati, sul proprio cammino. «Tutto è connesso» è una delle frasi centrali del papato di Francesco e di quell’ecologia integrale ultima forte interpretazione della visione cristiana della persona e del creato. Un concetto sviluppato in particolare nella Laudato si’, che di nuovo la nostra Diocesi avrà modo di porre al centro delle proprie riflessioni ospitando la Giornata nazionale per la custodia del creato i prossimi 5 e 6 settembre.

E allora, che la quarantena con le sue tante parole spese, con le sue retoriche – più o meno innocue – ci rimanga nel cuore, diventi parte centrale delle nostre storie personali e collettive come lungo (perché ancora non superato) periodo di sofferenza e smarrimento, ma anche come tempo da trasformare e non da subire, tempo profondo di “riconnessione” con la realtà. Realtà che spesso non riusciamo a illuminare di speranza e che sempre ha dura la cervice, ma che di continuo ci domanda di non evaderla, ma di interpretarla e di vivificarla, di rivestirla di senso. Non di un attivismo vitalistico, o, come detto, di leziosi o rabbiosi discorsi, dunque, abbiamo bisogno. Ma di «uno sguardo contemplativo, che crea una coscienza attenta, e non superficiale, della complessità in cui siamo e ci rende capaci di penetrare la realtà nella sua profondità» (Messaggio per la 15ª Giornata Nazionale per la Custodia del Creato 2020). E di nuovi stili di vita, segnati dalla tenerezza e da una sempre rinnovata capacità di stupore. La speranza è che nel cuore di ognuno non venga mai meno il desiderio di un’umanità sempre nuova, un’umanità intesa come «promessa permanente, nonostante tutto», «ostinata resistenza di ciò che è autentico» (Laudato si’ 112).

Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 4 settembre 2020

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Covid ed ecologia, un legame stretto

31 Ago

“Ecologia integrale dopo il coronavirus” è il nuovo libro di mons. Mario Toso, Vescovo di Faenza-Modigliana: «Fronteggiare con criteri nuovi – offerti da scale di valori non appiattite sull’economico, sul denaro, sulla tecnica assolutizzati – il dopo coronavirus»

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di Andrea Musacci

Uno dei paradossi dell’attuale pandemia riguarda una delle cause principali della crisi ecologica che sta divorando il nostro pianeta: le emissioni di gas serra.

È del 21 agosto scorso, infatti, la diffusione da parte dell’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) dei dati riguardanti il primo semestre del 2020: quest’anno le emissioni nel nostro Paese «sono previste inferiori del 7,5% rispetto al 2019», un netto calo «a causa delle restrizioni alla mobilità dovute al Covid-19». «L’andamento stimato è dovuto alla riduzione delle emissioni per la produzione di energia elettrica (-8,2%), per la minore domanda di energia e alla riduzione dei consumi energetici anche negli altri settori, industria (-7,5%), trasporti (-13,3%) a causa della riduzione del traffico privato in ambito urbano, e riscaldamento (-6,0%) per la chiusura parziale o totale degli edifici pubblici e delle attività commerciali». Dati, dunque, solo relativamente positivi, in quanto legati a una grave crisi socio-economica e che sicuramente torneranno a salire data la ripresa totale delle attività produttive e del traffico su strada.

Sul legame tra crisi ecologica e pandemia da COVID-19 riflette nel suo ultimo libro, “Ecologia integrale dopo il coronavirus” (Ed. Società Cooperativa Sociale Frate Jacopa, 2020), mons. Mario Toso, Vescovo di Faenza-Modigliana. «La COVID-19 – scrive – ci mette di fronte ad un’emergenza urgente: l’impatto che l’uomo ha sul pianeta dev’essere ridotto sempre di più e con rapidità. L’attuale distruzione degli ecosistemi è una grave minaccia per la salute umana e del nostro pianeta». Un ragionamento portato avanti nelle scorse settimane anche da Carlo Alberto Redi, zoologo dell’Università di Pavia e presidente del Comitato Etico di Fondazione Umberto Veronesi: «La devastazione di interi ecosistemi ha come conseguenza sia la distruzione totale di tanti e diversi habitat sia la forzata migrazione di specie in altri luoghi nel tentativo di adattarsi a nuovi ambienti, ammassandosi nelle vicinanze di centri urbani. Ciascuna delle recenti infezioni – prosegue – è causata da spillover (salto di specie, ndr) riconducibili al progressivo e massiccio sfruttamento degli habitat naturali di diverse specie animali, venute così a stretto contatto con l’uomo. (…) Il nostro stile di vita non è più sostenibile dalla Terra» (fonte: http://www.fondazioneveronesi.it).

libro toso copertinaTornando al libro, mons. Toso elenca tre principi fondamentali che l’essere umano dovrebbe seguire per rispettare le leggi della natura: il «principio di entropia», che richiama l’irreversibilità di tutti i processi naturali, il «principio della minimizzazione di ogni forma di impatto ambientale» e il «principio di precauzione», affinché non siano procurati danni, soprattutto se a lungo termine o irreversibili. «Gli equilibri del pianeta rischiano di alterarsi qualora i popoli e le istituzioni non siano sollecitati a combattere il cambiamento delle temperature, della pioggia, dell’aria, del suolo, quando siano in circolazione miliardi di virus, la cui maggior parte è ospitata da animali. L’impreparazione dimostrata dai vari continenti e governi» nell’affrontare la pandemia da COVID-19 – è la denuncia del prelato -, «sollecita ad una revisione urgente delle strategie e delle politiche, come anche al superamento di una cultura antropocentrica, di una visione consumistica della vita umana, di un capitalismo rapace. È evidente che è del tutto mancata una politica preventiva sia in Europa sia nel mondo». Oltre a ciò, secondo mons. Toso è stata praticata una politica «irresponsabile» per i vari «tagli irrazionali alla sanità» e perché «si è lesinato nella ricerca e sulla formazione di medici ed infermieri». La vera, prima, rivoluzione da attuare, secondo il Vescovo, è dunque a livello metafisico ed etico: per il futuro «non potrà mancare l’apporto di un pensiero pensante, non strumentale, come quello sinora prevalso», scrive. «Solo così potrà essere disponibile un nuovo umanesimo sapienziale, una nuova progettualità, la visione di uno sviluppo integrale, solidale, sostenibile, inclusivo, strutturato in termini di trascendenza». Questa «conversione ecologica» – riflette mons. Toso – per i cristiani «comporta il lasciar emergere tutte le conseguenze dell’incontro con Gesù nelle relazioni con il mondo che li circonda. Ovvero le conseguenze della riconciliazione con il creato, con i fratelli e, quindi, un modo alternativo di intendere la qualità della vita, la scelta di una felice sobrietà, la gioia della gratuità e del dono, della condivisione, la pace interiore, il ringraziamento a Dio per i suoi doni, nuovi stili di vita, una fraternità universale, l’impegno sociale e politico a favore del bene comune e di un’ecologia integrale». Più che mai è necessario diventare «protagonisti di una nuova evangelizzazione dell’ecologia» – con l’«organizzazione della connessa attività pastorale» – e di un «nuovo umanesimo integrale, sociale, anch’esso ecologico, capace di integrare storia, cultura, economia, architettura, vita quotidiana nelle città e nelle aree rurali», coniugando «la giustizia ecologica (degrado degli ecosistemi)» e la «giustizia sociale (debito ecologico tra Paesi; carenza di solidarietà intergenerazionale; crescente impoverimento delle popolazioni più deboli)». Infine, nel volume ampio spazio è dedicato anche al ruolo della famiglia nell’ecologia integrale e alle tematiche specifiche riguardanti il diritto fondamentale per ogni essere umano all’alimentazione, all’utilizzo dell’energia sostenibile e all’acqua, seguendo il principio della destinazione universale dei beni.

Nel finale, l’autore lancia una proposta interessante, da prendere in considerazione in particolare in un territorio come il nostro ancora profondamente agricolo: «è necessario che le Chiese istituiscano – scrive mons. Toso -, là ove non esistono, o rafforzino l’Ufficio o il Centro diocesano per la pastorale sociale del mondo agricolo-rurale, che agisca in maniera coordinata con gli altri Uffici o Centri diocesani dediti all’evangelizzazione del sociale».

Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 4 settembre 2020

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Scuole paritarie, grave la situazione nel ferrarese

16 Giu

paritarieLe parole di Missanelli (FISM): “la scuola di Jolanda a rischio chiusura, più contributi e rivedere il modello formativo”

In questi giorni inizia l’iter di conversione in legge del decreto Rilancio, che approda alla commissione Bilancio della Camera per la votazione degli emendamenti. Fin dalle prime bozze, sono state molto critiche le 50 associazioni cattoliche e non, tra cui la FISM – Federazione Italiana Scuole Materne, per le scarse risorse destinate alle scuole paritarie. Per quanto riguarda il nostro territorio provinciale (con tre Diocesi coinvolte: Ferrara-Comacchio, Ravenna e Bologna), la scuola paritaria è composta da 56 scuole e servizi nidi, di cui 22 strutture nel Comune capoluogo, per un totale di oltre 3mila bambini e 408 dipendenti di cui 261 insegnanti ed educatori. “La situazione delle scuole di Ferrara è molto fragile”, commenta a “la Voce” Biagio Missanelli, Presidente FISM Ferrara. “Si proviene da anni di sussistenza dove le scuole erano lasciate a se stesse, alla buona volontà dei parroci, o di gruppi di genitori volenterosi. Solo da pochi anni sono comparse nella gestione delle scuole, le cooperative sociali, con un altro modello gestionale che però manifesta anch’esso molte criticità. In particolare nel ferrarese, negli ultimi dieci anni diverse scuole hanno chiuse per il calo demografico e attualmente solo 3 istituti superano le 6 sezioni, mentre la gran parte ne hanno 2 e 5 sono le monosezioni, cioè scuole con meno di 20 bambini. “In questi anni, se non in rarissimi casi – prosegue Missanelli -, l’attenzione dell’Amministrazione Pubblica, in particolare dei Comuni, è mancata. I Sindaci, per una visione poco lungimirante o per vizi ideologici, non hanno valorizzato la scuola paritaria, elargendo contributi molto inferiori alla media regionale. Questo negli anni ha depauperato le scuole che hanno continuato a mantenere rette basse, e non essendoci una preparazione gestionale adeguata, molte scuole si sono dovute chiudere. Per risparmiare sui loro bilanci – prosegue Missanelli -, i Comuni hanno richiesto l’apertura di nuove scuole statali, invece di potenziare il sistema integrato. Un esempio per tutti, ma sono numerosi nella nostra provincia, la chiusura della scuola di Berra pochi anni fa. Una scuola con cento anni di storia, locali e spazi esterni molto ampi, che non poteva reggere il confronto economico con due scuole statali a pochi chilometri di distanza. E ora anche la scuola paritaria di Jolanda di Savoia rischia la chiusura, poiché a fianco vi è una scuola statale che per diverse vicissitudini ha ampliato le sezioni pur non avendo i requisiti necessari. Su questi territori, quindi, non vi sarà più una pluralità di scelta per le famiglie, una diversità di modelli educativi da proporre, due spazi differenti vivacizzati dalla presenza dei bambini. Ci si appiattirà al modello unico, quello statale”. Ma vi sono anche modelli positivi, come Terre del Reno, dove “si è riconosciuto al paritario un valore complessivo e se ne è fatto il modello per il proprio territorio. La dialettica è molto presente, la qualità educativa è elevata, il risparmio economico per il Comune è evidente e le scuole hanno risorse sufficienti per condurre le proprie attività. È giunto il tempo anche nella nostra provincia, per rivedere il modello dell’offerta formativa”, conclude Missanelli. “Non possiamo più far finta che il calo demografico non sia l’elemento devastante, ma che potrebbe anche essere l’elemento scatenante per una nuova modalità educativa e del fare scuola. Così come lo è stato e lo sarà l’emergenza Covid 19. Al centro mettiamo i bambini, ma attorno, i genitori, gli insegnanti, gli operatori, i gestori, la politica, gli ambienti, gli spazi, devono coordinarsi ed offrire situazioni di crescita che contribuiscano a formare cittadini capaci di lasciare il mondo un po’ meglio di come glielo stiamo lasciando”.

Andrea Musacci

Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 19 giugno 2020

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“Negli USA da sempre alcune vite sono considerate sacrificabili. Per questo la pandemia ha fatto meno impressione”: parla Massimo Faggioli

18 Mag

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a cura di Andrea Musacci

Razzismo, diseguaglianze sociali, costose assicurazioni sanitarie, forte crisi occupazionale (gli ultimi dati parlano in questo periodo di circa 30 milioni di posti di lavoro persi). E una Chiesa purtroppo ancora divisa. Drammi all’interno del grande, inarrestabile dramma della pandemia da Coronavirus che ormai da tempo registra gli Stati Uniti come il paese col più alto numero di contagiati e morti al mondo. Ne abbiamo parlato con Massimo Faggioli, storico e teologo nato a Codigoro 49 anni fa, residente a Ferrara dal 1978 al 2008, anno in cui si è trasferito negli USA, dove è docente ordinario nel dipartimento di Theology and Religious Studies alla Villanova University (Philadelphia).

Partendo in generale dalla situazione negli Stati Uniti, dove si contano quasi 90mila decessi e oltre 1.500.000 contagiati per il COVID, che giudizio dà dell’operato del Presidente Trump nell’affrontare questo dramma?

La presidenza Trump è una tragedia nella tragedia, ovviamente. Ma c’è anche la crisi del sistema-paese con uno scontro tra livello federale e livello degli stati, e il crollo della capacità della politica di prendere decisioni politiche e di politica industriale capaci di fronteggiare l’emergenza. Gli Stati Uniti sono arrivati impreparati, insieme a molti altri paesi occidentali. Ma ci sono differenze importanti rispetto a questi altri paesi. Una prima differenza è che negli USA c’è ancora la tendenza a considerarsi il paese migliore del mondo – che è una cosa che ovviamente non è più vera, specialmente dal punto divista del sistema sanitario e dell’aspettativa di vita. Questa tendenza rende incapaci di imparare dagli altri. Una seconda differenza è che negli USA la pandemia colpisce come le altre malattie colpiscono negli USA: in maniera radicalmente diversa a seconda delle etnie e razze, perché alla stratificazione etnica del paese corrisponde ancora – e sempre di più – una stratificazione economico-sociale con gli afroamericani e i latinos in fondo alla scala. Quelli in fondo alla scala socio-economica muoiono prima e più facilmente, in tempi normali come anche in questa emergenza. Una terza differenza è che in America si è abituati a sentire notizie di morti che si potevano evitare (dovuti a mancanze del sistema sanitario, ma anche le sparatorie nelle scuole). Da questo punto di vista, qui in America la pandemia ha fatto meno effetto rispetto ad altri paesi perché da sempre alcune vite vengono viste come meno importanti e quindi sacrificabili sull’altare della politica e dell’economia. Su questo alcuni vescovi, ma non tutti, hanno parlato in modo chiaro.

Vi è anche il problema di un sistema sanitario complessivo non adatto a situazioni come l’attuale?

Il sistema sanitario privato è ottimo, ma solo per chi se lo può permettere grazie a costose assicurazioni sanitarie. La riforma sanitaria di Obama ha migliorato la situazione ma non l’ha cambiata in modo strutturale. Uno dei paradossi della situazione attuale è che la pandemia ha sospeso le procedure non urgenti, che sono quelle che fanno reddito nel sistema sanitario privato. Il risultato è che nel bel mezzo della pandemia un numero spropositato di personale medico e paramedico ha perso il lavoro negli Stati Uniti.

In genere, i cittadini come hanno reagito e come stanno reagendo?

In America c’è un culto della libertà che è diventato una cultura libertaria, per cui tutto quello che le autorità impongono come limite alla mia libertà (specialmente libertà economica e di impresa) diventa totalitarismo o comunismo. Le immagini più scioccanti sono state quelle di bande armate (legalmente) che hanno occupato parlamenti locali chiedendo di sospendere le misure anti-pandemia. Sono minoranze estremiste, ma purtroppo sono sostenute da gran parte del partito repubblicano e anche dal presidente Trump. Questa cosa in Italia non c’è stata.

La Chiesa, invece, come si organizza nel sostegno e nell’aiuto alle drammatiche conseguenze sociali, economiche e psicologiche che si hanno e si avranno?

C’è un grande sforzo di venire incontro ai bisogni straordinari generati dalla crisi. Ma c’è anche un ostacolo diverso rispetto all’Italia e all’Europa, dove molte chiese sono “chiese di stato” e quindi ricevono aiuti dallo stato. Qui in America ogni chiesa deve sopravvivere sul mercato delle religioni con le donazioni dei membri, e quindi le capacità di aiutare sono molto diverse a seconda delle chiese. La crisi economica significherà per alcune parrocchie cattoliche come anche per altre chiese un crollo delle donazioni e quindi renderà impossibile la loro sopravvivenza.

“La realtà è che non ci sono abbastanza risorse per curare tutti, anche nella prima economia del mondo. Non abbiamo abbastanza ventilatori e non abbiamo sufficienti posti letto in terapia intensiva e questo ha costretto e costringerà gli operatori sanitari a scegliere”. L’analisi è di Charlie Camosy, professore associato di bioetica all’università di Fordham. Che dimensioni sembra avere questo fenomeno? E come sta rispondendo la Chiesa?

La chiesa ha reagito in ordine sparso perché per un certo numero di cattolici l’istinto politico è quello di proteggere il presidente Trump e il partito repubblicano in quanto partito anti-abortista. Il problema è che quella cultura politicamente anti-abortista non significa necessariamente una cultura a favore della vita. Una serie di prese di posizione di cattolici repubblicani pro-Trump hanno criticato gli eccessi di prudenza e hanno spinto per una riapertura di tutte le attività. La voce della chiesa cattolica statunitense è divisa anche nell’emergenza pandemia: ci sono cattolici che hanno abbracciato una posizione scettica rispetto alla scienza – una posizione più vicina a quella di certe chiese fondamentaliste.

Qual è la sua impressione riguardo a come il popolo cattolico ha reagito e sta reagendo all’impossibilità a partecipare alle celebrazioni? E come la questione è affrontata a livello di dibattito teologico?

Quello che manca è una certa creatività pastorale: ci si limita a messa e rosario online. Qui in parrocchia speriamo di poter fare di più, come per esempio la catechesi per bambini e la lectio divina per giovani e adulti. Ma tutto si è focalizzato sulla messa, come in una equazione tra liturgia e messa, come se non ci potesse essere liturgia senza messa. In Italia, in confronto, c’è stato un dibattito e contributi di pensiero e pubblicazioni molto più interessanti rispetto agli USA.

Spostiamoci ora nello specifico della comunità dove vive, quella di Philadelphia: qual è la situazione del contagio, e quella socio-economica in questo periodo? La Chiesa locale come si è organizzata per venire incontro ai bisogni materiali e spirituali?

Noi viviamo nei sobborghi di Philadelphia in cui quasi tutti sono bianchi o asiatici, e la malattia ha colpito in modo marginale. Ma abbiamo avuto un certo numero di casi anche nella nostra comunità parrocchiale. La situazione è ben diversa in città, con molti più casi, ma anche nella vicina comunità residenziale dei gesuiti alla St. Joseph’s University, a quattro chilometri da qui, dove sono morti sei padri gesuiti. La chiesa locale si è attrezzata bene. La nostra parrocchia ha creato una task force (di cui faccio parte) per immaginare la riapertura: tra chiesa, cimitero e scuola (dai 3 ai 14 anni, la scuola che frequentano i nostri figli), la parrocchia ha quasi cento impiegati.

Lei e la sua famiglia – in particolare i bambini – come state vivendo questo periodo?

I bambini (che hanno 8 e 5 anni, ndr) intuiscono che è molto improbabile la nostra venuta in Italia questa estate. È la cosa più dolorosa per noi perché è l’appuntamento a cui guardano e di cui parlano nel resto dell’anno. Ci stiamo attrezzando per fare scuola di italiano a casa, dopo che avranno finito la loro scuola online – che per me e mia moglie è la cosa più complicata e stancante di tutte in questo periodo.

Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 22 maggio 2020. Leggi e scarica gratuitamente l’intera edizione su http://www.lavocediferrara.it 

Fragilità da quarantena: conseguenze psicologiche del lockdown e problemi di riadattamento

18 Mag

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Inchiesta sui risultati dalle varie forme di supporto dell’ASL a operatori sanitari, giovani, famiglie e persone con dipendenze patologiche nei primi due mesi dell’emergenza Coronavirus

a cura di Andrea Musacci

A distanza di due mesi dall’inizio dell’emergenza da Coronavirus, col conseguente lockdown e la quasi totale limitazione delle attività cosiddette “in presenza”, quali sono le prime analisi a livello psicologico che si possono tentare nel nostro territorio? E quali ipotesi si possono iniziare a fare – per le prossime settimane e i prossimi mesi, in vista di un sempre maggiore ritorno alla “normalità” – riguardo alle difficoltà di determinate persone a “riadattarsi” o a superare fragilità emerse o acutizzatesi in quarantena? Partendo da queste domande fondamentali, abbiamo rivolto alcuni quesiti specifici ai diversi referenti delle Aree del Dipartimento Salute Mentale e dello “Spazio Giovani” dell’AUSL di Ferrara. I dati e le analisi raccolte si riferiscono indicativamente al periodo compreso tra il 16 marzo e il 9 maggio scorsi e riguardano precisi ambiti di utenza: in questa prima fase dell’emergenza, infatti, ogni Area ha predisposto, quasi sempre a distanza, forme differenti di sostegno psicologico.

Sostegno psicologico per gli Operatori Sanitari

Protagonisti della “Fase 1” dell’emergenza (e, in parte, anche della “Fase 2”) sono gli Operatori Sanitari. Nonostante la nostra provincia continui a registrare un numero di deceduti e di contagiati inferiore rispetto al resto della Regione (al 16 maggio, sono 978 i positivi e 155 i deceduti ferraresi), per limitare il disagio e lo stress di medici, infermieri e OSS direttamente coinvolti nell’emergenza, il servizio di Psicologia Clinica Territoriale Adulti dell’Azienda USL (afferente all’Area psichiatria adulti del Dipartimento Salute Mentale) ha organizzato una forma di “sostegno psicologico online”. Sono stati 25 gli Operatori che hanno contattato il servizio, di cui oltre il 90% di sesso femminile. La metà dei contatti si è risolta con la prima telefonata di consultazione (della durata di circa 30-40 minuti e l’acquisizione di informazioni utili). La restante metà, invece, ha richiesto interventi successivi (contenimento emozionale, individuazione di strategie di fronteggiamento del problema, psicoeducazione per affrontare la situazione). Le situazioni che hanno richiesto più attenzione si riferiscono a Operatori che sono entrati in uno stato d’ansia quando è stato comunicato loro che sarebbero andati in un reparto COVID: il timore di non essere adeguati al nuovo compito ha inizialmente prevalso. In particolare, si è registrato un numero consistente, fra i 25 in questione, con il timore di essere contagiati e di portare il contagio in famiglia ai propri cari. In alcune situazioni l’ansia si è trasformata in un vero e proprio panico con blocco psicomotorio. Altre chiamate sono poi rappresentative di un carico emotivo eccessivo determinato dalla situazione, con l’ansia come stato d’animo prevalente. Dal servizio ci riferiscono anche della possibilità che da qui a qualche mese ci possa essere in alcuni operatori sanitari più direttamente coinvolti nell’emergenza un effetto di rimbalzo, cioè “un disturbo post traumatico da effetto di ritorno”. Uno scenario, più in generale, caratteristico di tutte le situazioni eccezionali e portatrici di uno stress fuori dalla norma.

Supporto psicologico nella popolazione in generale

Se la solitudine è stata una delle cifre di questo periodo, soprattutto in negativo nei termini di isolamento, le soluzioni per affrontare questo aspetto non potevano mancare. Per questo, il Dipartimento di Salute Mentale dell’ASL ferrarese ha attivato una collaborazione con la “Società Ferrarese di Psicologia” dal 16 marzo fino al 9 maggio e con l’associazione “Progetto San Giorgio” dal 14 aprile per garantire supporto a distanza a chi in questa fase poteva particolarmente soffrire il venir meno di relazioni e contatti diretti con famigliari, amici, colleghi o con la schiera di persone che normalmente si incontrano nella quotidianità. 90 i primi contatti totali, perlopiù ripetutisi fino a tre volte, avvenuti via telefono, mail o social (Facebook) a cui sono seguite sia telefonate sia videochiamate a seconda delle possibilità tecniche dell’utente e delle sue competenze. “La richiesta più frequente – ci spiegano dal servizio – è sicuramente la paura del contagio con lo sviluppo a volte di paure irrazionali o manifestazioni ipocondriache. Una buona parte delle reazioni ansiose o depressive si sono manifestate in persone che avevano qualche forma di fragilità emotiva. Per una piccola parte dei contatti – proseguono nell’analisi – si può immaginare una difficoltà di ripresa nella seconda fase. Sono quelle persone che hanno sviluppato reazioni depressive e che faticano a staccarsi dal supporto psicologico dopo il numero di chiamate concordato con lo psicoterapeuta”. La “Società Ferrarese di Psicologia”, che sta portando a conclusione i casi in essere, ha attivato una consulenza comprendente tre colloqui della durata di un’ora ognuno, con la possibilità di replicare il ciclo. “Ad oggi 54 utenti ci hanno contattato – ci spiegano – grazie soprattutto alla promozione effettuata attraverso i social network, e abbiamo svolto oltre 200 consulenze con una media di 4 colloqui a persona”. Le 38 donne e i 16 uomini – dai 27 agli 80 anni, e di ogni estrazione sociale – che si sono rivolti al servizio hanno evidenziato “sintomi di natura ansiogena (attacchi di panico, paura per il futuro, paura della contaminazione), un senso di solitudine rispetto al fenomeno del distanziamento sociale, l’elaborazione del lutto traumatico da COVID e sintomi depressivi”. Attraverso colloqui di carattere psicoeducativo (telefonici o via Skype), la “Società Ferrarese di Psicologia” ha “cercato di sostenere una rielaborazione emotiva e di stimolare una ‘pensabilità’ resiliente. Abbiamo offerto un contatto con una modalità di caring (‘prendersi cura’), per accompagnare le persone a dare un senso a ciò che stavano vivendo”. “La maggioranza delle richieste di supporto – ci spiegano invece dal “Progetto San Giorgio” – sono state avanzate da donne, di età e stato civile differenti. Molte di queste hanno chiamato da 1 a 3/4 volte. La solitudine, i ritmi rallentati, il silenzio hanno dato voce alle paure, ai demoni, al mal di vivere di tante persone. Alcune sono operatori sanitari operanti prevalentemente negli ospedali di Cento e Argenta; alcune di loro a casa infettati in quarantena, o familiari degli stessi”. “I casi di Covid positivo, in quarantena – proseguono – hanno sviluppato disturbi d’ansia con frequenti attacchi di panico, difficoltà nella regolarità dei pasti, dimagrimento importante e disturbi del ritmo sonno-veglia”. Riguardo, invece, alle donne in generale rivoltesi al servizio, “molte hanno evidenziato un bisogno di ascolto e di supporto esasperato dalla quarantena, alcune in condizioni di solitudine esistenziale, con a carico un familiare invalido o malato, altre sposate ma non considerate nella loro ansia e paura dai mariti o dai figli; altre ancora, sfiancate dall’abbattimento dei confini tra ruolo di madre, moglie e donna che lavora”.

Supporto psicologico per persone con dipendenze patologiche

Il Servizio per la Prevenzione e cura delle Dipendenze Patologiche (Ser.D) del Dipartimento di Salute Mentale nel periodo di lockdown ha attivato un nuovo servizio per aiutare le persone con dipendenze patologiche, pur mantenendo, a differenza degli altri Supporti (tornati attivi non solo a distanza da lunedì 18 maggio, in forma contingentata e controllata), il servizio in presenza. “In questi ultimi due mesi – ci spiegano – il Ser.D ha registrato un notevole aumento delle telefonate di pazienti, per la necessità di quella presenza fondamentale che gli aiutasse a non crollare del tutto. Sono inoltre aumentate le visite a domicilio, in particolare per i pazienti le cui condizioni fisiche, compromesse da anni di uso di sostanze, non erano compatibili con gli spostamenti, e per non esporli al rischio di contagio”. Infine, l’isolamento forzato ha “paradossalmente” abbattuto il ricorso al gioco d’azzardo, per l’impossibilità di recarsi in bar o tabaccherie. Il problema si ripresenta ora che questi esercizi sono riaperti”.

Sostegno Psicologico alle famiglie con minori

Per offrire un sopporto alle famiglie di minori in difficoltà, gli Psicologi della U.O. di Neuropsichiatria Infanzia Adolescenza del Dipartimento Integrato Salute Mentale Dipendenze Patologiche dell’ASL, si sono resi disponibili alle famiglie con minori attraverso un nuovo servizio di consulenza telefonica. Sono state 22 le chiamate di genitori preoccupati per la difficoltà di gestione dei figli minori in questo periodo di convivenza “forzata”. Si è trattato spesso di interventi di “psicoeducazione” al genitore, nei quali l’aiuto pratico e immediato si è accompagnato a consigli specifici. “Un lavoro psicoeducativo – ci spiegano – è stato effettuato anche su 3 ragazze adolescenti che hanno contattato il servizio, con forme diverse di somatizzazione conseguenti al timore di essere state contagiate, e quindi accompagnate al Pronto Soccorso”. Infine, vi sono state anche chiamate relative a violenza assistita all’interno dell’ambito famigliare, quindi da parte di donne vittime dell’aggressività del coniuge o convivente in presenza dei figli. Casi, questi, in parte dirottati al Centro Donna Giustizia.

Supporto psicologico “Spazio Giovani”

Per tutti i giovani dai 14 ai 24 anni – e relativi adulti di riferimento – è stato rafforzato il Consultorio dello “Spazio Giovani”, con l’apertura di uno spazio di ascolto online. “Abbiamo raccolto 25 richieste tramite telefono o videochiamata – ci spiegano – da studentesse e studenti fra i 17 e i 23 anni. Tutti hanno deciso, successivamente, di proseguire i colloqui. Il bisogno prevalente emerso è stato quello dell’ascolto e della richiesta relazionale, ma sono emersi anche problemi di ansia, tristezza, depressione e disturbi dell’umore. La domanda dei familiari, invece, riguarda soprattutto aspetti di comunicazione coi propri figli”. Anche in questo caso, “per alcuni dei giovani utenti si teme un problema di riadattamento al periodo successivo”. Per questo, in collaborazione con il Tavolo Provinciale Adolescenti, si stanno individuando progetti, strategie e modalità dirette e fruibili per raggiungere il più possibile gli adolescenti, considerato anche il termine dell’attività scolastica. Infine, “i giovani già in carico prima dell’emergenza sono monitorati con colloqui programmati in base al bisogno”.

Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 22 maggio 2020. Leggi e scarica gratuitamente l’intera edizione su http://www.lavocediferrara.it 

Triplicati i poveri che chiedono aiuto a Viale K

11 Mag

Raffaele Rinaldi: “mensa, distribuzione pacchi viveri e dormitorio sempre attivi. Ma le istituzioni devono aiutarci”

viale k 3A due mesi dall’inizio dell’emergenza, la situazione di molti nuclei famigliari col passare del tempo si aggrava. Ad attutire, almeno in parte, questa “caduta” nelle vite di tante persone è la rete di solidarietà delle associazioni, di cui fa parte anche “Viale K”. “Da circa 20 sono diventate quasi 60 le persone che quotidianamente vengono a mangiare alla nostra mensa” alla Rivana, ci spiega il Direttore Raffaele Rinaldi, e lo stesso vale per la consegna dei pacchi viveri il venerdì pomeriggio. Questi nuovi assistiti sono perlopiù “persone che si mantenevano con qualche lavoretto, o la cui azienda dove lavoravano ha chiuso. Sono italiani e stranieri che hanno visto il Reddito di cittadinanza dimezzarsi – prosegue Rinaldi – o quelli che sono stati esclusi dai ‘buoni spesa’ del Comune di Ferrara” (a fine aprile dichiarati “discriminatori” dal Tribunale di Ferrara, ndr). L’Associazione, però, inizia ad accusare la fatica del periodo: nonostante l’innesto di quattro nuovi volontari e le donazioni di imprese e privati, il forte aumento di assistiti richiederebbe un numero maggiore di forze e più risorse dalle istituzioni. “Viale K – si rammarica Rinaldi – è stata esclusa dalle recenti risorse assegnate dall’Amministrazione Comunale”. Il riferimento è ai 15mila euro destinati lo scorso 5 maggio al Terzo settore (nello specifico, 8mila sono andati al Centro di Solidarietà-Carità, 5 mila alla nostra Caritas e 2mila al Mantello di Ferrara).

raffaele rinaldiAltro capitolo dolente è quello riguardante il Dormitorio ”Villa Albertina” in zona Mizzana: “la struttura ospita una ventina di persone, limite massimo – ci spiega ancora Rinaldi -, costrette anch’esse dalle limitazioni a stare chiuse, con tutte le conseguenze dal punto di vista psicologico per soggetti che spesso hanno problemi di dipendenze”. Nelle ultime settimane, 5 posti che si sono liberati, sono stati occupati da altrettanti “senza tetto”. E a proposito di persone che faticano o faticheranno a trovare una dimora, Viale K si è vista rifiutare, sempre dal Comune di Ferrara, un progetto per accogliere alcuni detenuti che, in questo periodo di emergenza, usufruiranno degli arresti domiciliari. “Alcune di queste persone se non trovano un alloggio, verranno comunque a chiederci aiuto”. Spostando la riflessione più in generale, Rinaldi riflette con noi su come quest’emergenza “stia facendo venir fuori le reali difficoltà della società, quindi chi sono i veri fragili”. Ciò che si può fare, grazie al contributo di ognuno – “è di tornare alla normalità, ma non quella malata di prima, che escludeva gli ultimi. Dovremmo, invece – conclude – ripensare l’intero welfare”. Esiste, anche a Ferrara, una fondamentale rete dal basso di associazioni di volontariato, “ma manca una vera politica sociale: non possono essere quasi solo le associazioni a reggere soprattutto in periodi come questo. Anche nella nostra città, il Comune faccia tesoro di questo patrimonio e lo porti a sistema, cercando fondi regionali e nazionali per sostenerlo”.

Andrea Musacci

Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 15 maggio 2020. Leggi e scarica gratuitamente l’intera edizione su http://www.lavocediferrara.it .