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Storia della centenaria tenda di canapa che un giorno divenne museo

19 Giu

Claudio Gualandi e Linda Mazzoni, collezionisti ferraresi, nel 2006 acquistano una tenda di canapa della Croce Rossa Italiana “modello 1909”. Storia della coltivazione e produzione di questa pianta nel Ferrarese e di quella tenda divenuta museo itinerante (prima di fare ritorno a casa)

di Andrea Musacci

Siamo nel 2006, e Claudio Gualandi, da appassionato collezionista qual è, cerca sempre chicche da aggiungere alla propria wunderkammer. Un giorno, al mercatino dell’antiquariato di Pieve di Cento conosce un signore comacchiese intento a vendere diversi prodotti militari realizzati con la canapa. Fra questi, un pezzo in particolare colpisce Claudio: una tenda di 9×11 metri sulla cui cima campeggia l’inconfondibile simbolo della Croce Rossa Italiana. Non ci pensa due volte e, con un po’ di follia (a volte necessaria), l’acquista. 

La storia di questa tenda si intreccia fortemente con la vita di Gualandi, noto grafico e illustratore ferrarese (sue, ad esempio, le locandine di 16 anni di Buskers Festival) e della moglie Linda Mazzoni, con la quale condivide lo Studio di via Carlo Mayr. E si intreccia, naturalmente, con la storia del nostro territorio.

UNA PIANTA TORMENTATA

RADICI

Prima di addentrarci nelle vicende della tenda militare, delimitiamo il campo (è proprio il caso di dire) di uno dei protagonisti di questa vicenda: la canapa. Molto tristemente associata agli stupefacenti, questa pianta (la Cannabis sativa) vanta una storia millenaria (fino all’8000 a. C.) e molteplici usi. Limitandoci al nostro Paese a partire dagli anni ’30 del secolo scorso, possiamo dire che nel Ventennio l’Italia era al vertice nella produzione di questo tessuto particolarmente tenace: secondo Coldiretti, a quei tempi in Italia erano ben 100mila gli ettari coltivati a canapa, estensione superata solo in URSS.

Negli anni dell’industrializzazione e della ripresa economica, vennero introdotte sul mercato nuove fibre sintetiche come il nylon, portando – assieme alla campagna internazionale contro gli stupefacenti – all’abbandono della canapa. 

ESALAZIONI

«…Inoltre i ferraresi sono anche terribilmente libidinosi»: così Giorgio De Chirico nelle sue Memorie della mia vita ricorda quel “popolo” spesso rinomato per la propria torpidezza. «Il prof. Tambroni, insigne frenologo, che allora dirigeva il manicomio di Ferrara e che io conobbi – scrive ancora De Chirico -, mi spiegò che questo stato anormale dei ferraresi è dovuto alle esalazioni della canapa ed alla continua umidità; infatti tutta la città è costrutta su antichi maceri…». 

Non sappiamo la fondatezza di questa teoria ma è certo che negli anni ’30 e ’40 del secolo scorso la “metafisica” Tresigallo era uno dei centri nazionali per la produzione della canapa: vi erano la CELNA (uno degli stabilimenti più grandi d’Europa), la MA.LI.CA (Manifattura Lino Canapa), il Consorzio Nazionale Produttori Canapa, la CAFIOC (per la trasformazione della canapa in fiocco).

RINASCITE

Dopo la fine di un’epoca nel 1975, assistiamo a una prima rinascita tra fine anni ’90 e l’inizio del 2000. E ancora una volta è il Ferrarese a essere protagonista: nel 2001 nella Valle del Mezzano vengono seminati dalla cooperativa Sorgeva 50 ettari di canapa; a Comacchio, viene aperto il primo centro di trasformazione della canapa tessile, realizzato dalla società cooperativa Ecocanapa, che però fallisce nel 2008. A una seconda rinascita stiamo assistendo dal 2018, con una rinnovata produzione e vendita in ambito alimentare, dell’abbigliamento e della cosmesi.

UN MUSEO ITINERANTE

ATTENDAMENTI

Ma torniamo alla nostra misteriosa tenda di canapa. Nel 2003, per il Consorzio Canapa Italia, Gualandi e Mazzoni curano l’allestimento di un padiglione espositivo di 1000 metri quadri sulla canapa al SANA alla Fiera di Bologna. Nello stesso anno, a Ostellato curano grafica e allestimento per il grande evento nazionale “Canapa: ritorno al futuro” del Consorzio Canapa Italia. Nel 2005 sono, invece, tra i soci fondatori dell’Associazione “Galleria della Canapa”, con sede ufficiale a Milano e sede legale-amministrativa a Ferrara, chiusa nel 2014. Come detto, l’anno successivo l’incredibile acquisto in un mercatino di provincia. E la scoperta del gioiello che si ritrovano fra le mani: una tenda da ricovero “modello 1909”, che rappresenta molto probabilmente l’anno di produzione della stessa. Un manufatto, casse di legno comprese, che pesa 548 kg, necessita di essere sostenuta da pali di legno di 10 cm di diametro, e con all’interno una controtenda di cotone verde con aeratori e predisposta per la stufa. Una tenda, quindi, potenzialmente utile per la prima guerra mondiale ma – pare – mai utilizzata. Durante il primo conflitto mondiale, il cosiddetto “Ospedaletto da campo” comprendeva 1 tenda da medicazione, 2 da ricovero di metri 9×11 (come la nostra) e altre 2 da ricovero di metri 7×7. L’“attendato” era una delle due tipologie di ospedale da guerra (l’altro era l’“accantonato”). La tenda “modello 1909” era, quindi, destinata principalmente per il ricovero di feriti o ammalati con una capacità di 25 posti, due porte d’accesso e 12 finestre scorrevoli. Per rizzare questa tenda occorrevano cinque uomini e quasi un’ora di tempo, mentre si smontava quasi in tre quarti d’ora ed era trasportabile con un autocarro o 5 muli.

VAGABONDAGGI

Gualandi e Mazzoni partoriscono un’idea geniale, naturalmente per “usi civili”…: utilizzare la grande tenda come Museo itinerante della canapa, con all’interno pannelli esplicativi sulla storia e l’utilizzo della pianta, e l’esposizione di prodotti (capi di abbigliamento, alimentari, cosmesi). La prima “uscita ufficiale” è subito, nel settembre-ottobre del 2006: la tenda staziona per un mese nel cortile della sede dei Marinati di Comacchio in occasione della Sagra dell’anguilla; diverse anche le scolaresche che visiteranno la mostra in essa ospitata. Mostra che poi arriverà, nel novembre dello stesso anno, fino all’Antica Fiera della Canapa di Gambettola (Forlì-Cesena).

I nostri due ambasciatori ferraresi della canapa possono vantare anche due comparse televisive sull’argomento: nel 2009 nella trasmissione Report, per le “Good News” di Giuliano Marrucci, e in un’inchiesta svolta da Antonio Cianciullo per Repubblica Tv nel 2011. Sia Marrucci sia Cianciullo vennero ad intervistarli con le rispettive troupe nel loro studio di via Carlo Mayr. Inoltre, nel settembre 2022 Gualandi e Mazzoni prestano per un mese la loro tenda a Villa Imoletta, progetto di comunità vicino Quartesana per il sostegno ai giovani con disabilità. 

RITORNI

Recentemente, però, i due hanno deciso che il destino di questo antico tendone fosse quello di tornare in famiglia: per questo, lo hanno donato alla Croce Rossa Italiana (CRI). Per la precisione, è stata ritirata dalla Croce Rossa di Scandicci, vicino Firenze, per poi andare sotto la responsabilità dell’Ufficio storico della Croce Rossa della Toscana (in particolare di uno dei suoi responsabili, Riccardo Romeo Jasinski), che ha il compito di conservare e divulgare la storia della CRI. 

La tenda avrebbe dovuto essere esposta il 22 giugno a Solferino per il grande evento mondiale di celebrazione della nascita della Croce Rossa Internazionale, in seguito alla nota Battaglia del 24 giugno 1859 (la Croce Rossa nasce proprio 160 anni fa, nel 1864). Evento che vedrà, sulle colline dell’Alto Mantovano, anche la presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella (e che il 18 giugno ha visto la staffetta ciclistica della CRI diretta a Solferino passare anche per Ferrara). Ma i necessari lavori di restauro sul manufatto, lo renderanno utilizzabile solamente per la manifestazione nazionale della CRI del giugno 2025. Poco male: l’importante è, dopo tanto girovagare, ritrovare la propria “casa”.

Pubblicato sulla “Voce” del 21 giugno 2024

Abbònati qui!

Laura De Paoli, medico: «vi racconto i morti in mare e gli orrori in Africa»

13 Mag

Di origini ferraresi, De Paoli negli ultimi anni come medico soccorre in mare i migranti nel Mediterraneo. E dal 1998 cura gli ultimi del mondo in vari Paesi dell’Africa. Abbiamo raccolto la sua testimonianza

di Andrea Musacci

I cadaveri galleggianti nel Mediterraneo, il dolore di non poterli salvare. E le tante storie di orrore e rinascita frutto di anni in missione nel mondo come medico. 

Di Laura De Paoli colpisce la calma nel raccontare un quarto di secolo vissuto negli angoli più bui e dimenticati della terra, a contatto con miserie di ogni tipo: dal Bangladesh alla Sierra Leone, dalla Repubblica Centrafricana ai cimiteri del nostro mare. Calma che non è freddezza ma profonda empatia, lucida consapevolezza. 

L’abbiamo incontrata per farci raccontare questa sua vita che non conosce sosta nel curare, ovunque ce ne sia bisogno, persone che vivono la fame, la guerra, che affrontano quei drammatici viaggi della speranza per arrivare in Europa.

Ferrarese, ha lasciato la nostra città dopo la laurea per lavorare come medico chirurgo prima in Gran Bretagna, poi in Sudafrica, e poi tornare in Italia, a Milano. In seguito, ha iniziato la sua esperienza prima come chirurgo di guerra con la ICRC – Croce Rossa Internazionale e altre organizzazioni, per poi dedicarsi al management sanitario soprattutto con l’OMS. Negli ultimi anni, si occupa di assistenza ai migranti naufraghi nel primo soccorso in mare e una volta fatti sbarcare. L’ultima sua missione è stata a Lampedusa, dopo la tragedia vissuta in prima linea a Cutro lo scorso febbraio. E a breve tornerà in Sicilia per una nuova missione.

MEDICO IN AFRICA E IN PAKISTAN

La prima missione come medico è stata nel 1998-’99 in Sierra Leone, ai tempi della guerra civile, con la Croce Rossa, a Freetown: «ho visto tante persone, anche bambini, con le mani amputate dai guerriglieri», racconta a “La Voce”. Poi è stata a Juba nel Sud Sudan e a seguire, nel 1999-2000, a Cibitoke in Burundi: «qui dalla nostra casa sentivamo sparare tutte le notti». Sono gli anni della guerra civile tra le fazioni tribali Hutu e Tutsi. «Una volta è stato portato in ospedale da me anche un ragazzino impalato, e in un’altra occasione il corpo di un Hutu torturato, ucciso e lasciato per strada al fine di terrorizzare la popolazione. Ero molto stanca e traumatizzata, ho avuto quello che si definisce un Post-Traumatic Stress Disorder». Decide quindi di ritornare e di seguire un Master in Sanità Pubblica. Poi inizia la collaborazione con l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) in altri Paesi poveri del mondo. Nel 2013 Laura è a Peshawar, nel nord del Pakistan, per conto di Medici Senza Frontiere, come direttrice di un grande ospedale di maternità. «A parte un uomo, eravamo tutte donne medico. Gli uomini, islamisti radicali, non volevano far visitare le proprie mogli da maschi, quindi le portavano nel nostro ospedale».

Negli anni 2014-2015 Laura è, invece, sempre con Medici Senza Frontiere, in Guinea. È il periodo dell’emergenza ebola. «Ho visto morire tre miei colleghi per questa pandemia», ci spiega. Nel 2020 (come anche nel 2014-2015), presta invece servizio nella Repubblica Centrafricana, durante la guerra civile. Di questa esperienza ci riporta il racconto fattole da alcuni colleghi: «la guerra civile, mi dissero, non era tra cristiani e musulmani, ma era stata fomentata da milizie francesi, interessate a riprendere il controllo delle miniere dopo che il governo aveva tolto alla Francia l’utilizzo esclusivo, per appaltarle a compagnie cinesi e giapponesi. La guerra civile aveva, quindi, l’obiettivo di destabilizzare il Paese».

Nel maggio 2020 rientra in Italia dove coordina il forum delle varie agenzie dell’ONU. In queste esperienze, Laura come altri, per motivi di sicurezza legati alla guerra, trascorreva anche interi periodi chiusa in casa o in ospedale: «nel 2015 nella Repubblica Centrafricana ho vissuto, di giorno e di notte, in ospedale. Per questo, dopo alcune settimane o mesi, ci spostavano in altri luoghi. L’Africa – prosegue – la considero ormai la mia seconda casa, ho sofferto anche del cosiddetto “mal d’Africa”. E ho quasi sempre trovato nei colleghi africani una grande umanità e un grande spirito di collaborazione».

NEI CAMPI PROFUGHI E IN MARE PER I SALVATAGGI 

Non meno drammatico e sentito è il suo racconto delle esperienze vissute nei campi profughi e in soccorso ai migranti in mare. «Come coordinatore medico sono stata nel campo profughi degli etiopi di Kassala in Sudan: ho conosciuto persone nate e vissute solo in quel campo». Più tardi, nel 2016, con l’UNHCR (l’Agenzia ONU per i rifugiati), ha il compito di mantenere in Grecia le relazioni tra le varie ONG e il Ministero della Salute. Era il periodo delle diatribe tra Unione Europea da una parte, e Polonia e Ungheria dall’altra sulla questione dell’accoglienza dei migranti siriani. Nel 2018, con Medici Senza Frontiere ha prestato, invece, servizio nei campi rifugiati dei Rohyngya (minoranza etnica perseguitata nel Myanmar) a Cox’s Bazar, nel Bangladesh.

Nel 2017 Laura è sulla nave Prudence di Medici Senza Frontiere in soccorso ai migranti, provenienti soprattutto dall’ovest dell’Africa: «dal porto di Catania uscivamo in mare per soccorrerli: credo di non aver visto nessuno che non fosse stato torturato nei campi libici, e quasi tutte le donne erano state stuprate, anche se molte magari per vergogna non lo ammettevano. Anche alcuni uomini erano stati violentati». 

E pure da Lampedusa «è un continuo uscire in mare dei soccorsi per qualche segnalazione di imbarcazioni in pericolo. Mi è capitato di dover uscire ogni giorno, e a volte di rimanere in mare anche per 12-13 ore di fila. È un compito delicato quello dei soccorritori, è importante anche avvicinarsi lentamente alla barca, per evitare di sollevare onde. Negli anni – prosegue Laura – ho visto anche come sono cambiate le imbarcazioni dei migranti: dai gommoni alle barche di legno, a quelle di ferro. Barche stracolme di persone, che spesso, muovendosi, fanno oscillare il mezzo». Spesso anche per questo avvengono le tragedie. «Ogni volta che partivo da terra per soccorrere i migranti, mi aspettavo di vedere di tutto. La speranza è sempre che si salvino, ma tante volte non è così. Noi soccorritori dobbiamo essere forti, ma non ci si abitua mai del tutto, soprattutto quando si vedono bimbi morire in mare».

E a tal proposito, è impossibile dimenticare le strazianti immagini viste a Cutro, nel crotonese, quando la notte tra il 25 e il 26 febbraio scorso un caicco partito dalla Turchia e carico di almeno 180 migranti, è naufragato. L’ultimo bilancio parla di 94 morti e un numero imprecisato di dispersi. Laura era lì durante il salvataggio: «Quando siamo arrivati sul punto del naufragio – racconta – abbiamo visto cadaveri che galleggiavano ovunque e abbiamo soccorso due uomini che tenevano in alto un bimbo. Purtroppo il piccolo era morto. C’era mare forza 3 o 4, era difficile avvicinarci. La barca dei migranti era già a pezzi sulla spiaggia e noi avevamo intorno tanti cadaveri galleggianti», continua.

Mentre ci racconta, le preme fare anche un appello: «voglio che questi racconti arrivino a più gente possibile. Questi migranti quando arrivano sulle nostre coste sono malnutriti, non bevono da giorni, spesso sono senza scarpe, con sé hanno solo uno zainetto (a volte nemmeno questo). E provengono tutti da situazioni di miseria. Sono soprattutto giovani uomini, ma ci sono anche donne e bambini. Molti subsahariani non solo non sanno nuotare, ma hanno proprio paura del mare».

«Un giorno – prosegue – eravamo partiti per compiere un salvataggio. A un certo punto nell’acqua abbiamo visto dei cadaveri con addosso delle camere d’aria per le ruote, usati come possibili salvagenti. Una camera d’aria la tenevano sotto l’ascella, l’altra a tracolla. Non ho idea – continua – di quanti possano essere i naufragi che avvengono al largo delle nostre coste, perché molti non vengono segnalati. E appunto, alcuni di questi, si scoprono solo casualmente».

Le chiediamo come i bambini che arrivano sulle nostre coste possano sopportare tutto questo strazio: «può sembrare strano, ma tante volte i più piccoli dimostrano una grande forza di reazione». E poi ci sono gli scarni racconti che, rare volte, alcuni migranti si sentono di fare, sempre di loro spontanea volontà, mai interpellati dagli operatori: «lo scorso dicembre ero in servizio come medico al CARA (Centro di accoglienza per richiedenti asilo, ndr) di Crotone. Qui ho conosciuto una coppia di afghani, lui dentista, lei medico, fuggiti anche perché lei, col ritorno dei talebani nel loro Paese, non può più esercitare la professione». La speranza è che possa tornare a esercitarla in un Paese libero. In Laura De Paoli ha trovato sicuramente un modello da imitare.

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 12 maggio 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio