
Ritratto dell’artista a cui è dedicata la mostra a Palazzo Diamanti: l’idiosincrasia per la meschina modernità, l’amore per l’antico, quel progetto per la chiesa di san Benedetto…
di Andrea Musacci
Più che un rifiuto della modernità, un suo oltrepassamento. Più che un’idealizzazione del passato, la ricerca di un’essenza pura, di quell’ineffabile che trascende luoghi, ere, linguaggi. La pittura di Achille Virgilio Socrate Funi rappresenta una sintesi felice di aspirazioni neoclassicistiche, reinterpretazione della tradizione artistica ferrarese e nuove suggestioni.
Un’alchimia originale, associata a un nome famoso ma non celeberrimo, che non lo rende ancora (per fortuna?) un artista iconico, non richiamando a Palazzo Diamanti folle alla ricerca di sensazioni estemporanee, di fuggitive occhiate. Era tutt’altro, Funi, e la sua arte. “Achille Funi. Un maestro del Novecento tra storia e mito” – la mostra visitabile a Diamanti fino al 25 febbraio 2024 – dice molto bene di cosa attendersi. Dentro, ci sono tutte quelle parole “pesanti” che spesso non riusciamo più a sopportare: c’è la scuola/il mestiere come luogo dell’autorità e della fatica, c’è il secolo breve ma non effervescente, c’è la gravità di un tempo che precorre e nelle aspirazioni più alte ricorre. Quelle di Funi le spiegò bene l’amica Margherita Sarfatti: «Pittore della dignità severa e della povertà nobile è il Funi. Aspira sì alla bellezza, e così alto è il sospiro, e puro, e sinceramente intero e disinteressato, che la raggiunge per vie imprevedute, non imitabili».
NELLA FOLLIA, VERSO LA BELLEZZA
«Vie imprevedute», inimitabili. De Chirico, che di misteriose chiavi di accesso alla realtà se ne intendeva, così racconta quelle di Funi: le «anomalie mentali» tipiche dei ferraresi in lui hanno portato a «infinite nostalgie verso la bellezza e la perfezione», scrive in un libricino che gli dedicò nel ’40; «Achille Funi è un operaio sognatore». «La pazzia di Funi – prosegue De Chirico – si traduce, nella sua attività pittorica, in un costante andare verso la bellezza. Vi è nella sua mentalità d’artista un che di platonico, di ermafroditico e di ineffabilmente gentile; qualcosa che a volte sconfina felicemente in quell’aspetto profondo e grazioso che in francese con parola intraducibile si chiama “joliesse”».
Si raccontava dei loro incontri al Caffè Biffi in Galleria a Milano: dialoghi spesso muti, per non disperdere pensieri in quel legame profondo. Un legame antico, con radici granitiche, di quelle che affondano nello spirito senza tempo.
MAESTOSA ANTICHITÀ E FASTIDIOSA MODERNITÀ
«La sua caparbietà, unitamente all’aspetto fisico piuttosto massiccio e nerboruto, lo facevano assomigliare a un antico romano. Di statura appena al di sotto della media, aveva spalle larghe, un viso dai grandi occhi espressivi, una voce baritonale e labbra marcate, tra le quali era solito tenere una pipa o un sigaro». Così scrive di lui Serena Redaelli, una delle curatrici della mostra ferrarese, nel catalogo della stessa di cui è co-curatrice, organizzata da Ferrara Arte e Servizio Musei d’Arte Comune di Ferrara.
Nella sopracitata opera, De Chirico racconta di un Funi in perenne ricerca di «sistemi perduti e perduti segreti» e per lo scultore Alik Cavaliere, egli «seguì con ossessiva, puntigliosa precisione la “grande” missione di un totale ritorno all’antico. L’antico costituì per lui l’unico modo di vivere il presente e lo portò alla scelta di regole rigorose che seguì per tutta la vita con coerenza».
Gli stessi sguardi dei soggetti nelle sue opere sembrano esprimere quell’invincibile malinconia e quella ancor più ostinata consapevolezza di chi sa di non appartenere al proprio tempo, pur attraversandolo. Sono sguardi pervasi, in ogni istante, dal fragore della storia.
Un andare a ritroso che è immersione nelle viscere della bellezza. Nel mezzo, la contemporaneità che già da decenni mette in mostra le proprie meschinità, che delle proprie bassezze non solo fa mercato, ma vanto: «qui ormai non c’è più fede in nulla: non si pensa che a far quattrini ed a superare la crisi il meglio possibile», scrive Funi di Parigi, nel ’31, durante un soggiorno nella capitale francese.
«Epoca assurda la nostra, in cui si crede di perdere il tempo, quando lo si guadagna contemplando […]», scriveva nel 1972 l’esegeta e amico Raffaele de Grada. «Funi lo sapeva e viveva da uomo. La metodicità della sua vita – la passeggiata, lo studio, il caffè, la lettura, il riposo, il lavoro – era il registro dell’orologio della sua vita sul quadrante della storia. Egli conosceva il gusto di quello che i francesi chiamano il flâner, il non avere uno scopo immediato, la sottrazione del vivere al concetto dell’utile, del profitto».
IL FASCISMO E L’ALTO IDEALE
Necessitante chiarimenti è il rapporto di Funi col ventennio fascista, epoca di ambiguità, di violenze, di idee criminali e di altre che, nonostante tutto ciò, cercavano una via di uscita dalla soffocante legge del denaro. La successiva demonizzazione dell’arte fascista colpì anche Funi. La sua arte, scrive Sgarbi nel catalogo della mostra, voleva invece essere una «pittura civile, capace di trasmettere i valori della grande tradizione classica italiana». «Con un “Novecento” in crisi e in netta discesa – spiega invece Nicoletta Colombo, co-curatrice -, all’inizio degli anni Trenta si faceva sempre più urgente la necessità di sostenere un’epica nazionale mediante un linguaggio artistico di destinazione sociale e non più quindi esclusivamente individuale e borghese».
Funi sicuramente partecipò ai Fasci di Combattimento di Piazza San Sepolcro a Milano nel 1919, ma in seguito se ne allontanò venendo per questo fortemente criticato da Roberto Farinacci. Non fu, quindi, mai un fascista militante. Lui stesso nel ’71 scrisse: «i punti di convergenza col fascismo potevano forse riconoscersi unicamente in talune rivalutazioni del passato storico e umanistico nazionale […]. Ma noi non facevamo politica e […] pensavamo unicamente a cercare nuove vie di rinnovamento». E Alik Cavaliere raccontò come dopo l’8 settembre Funi respinse dall’Accademia di Brera i militari, nascondendo alcune persone considerate irregolari in una cantina dell’edificio. Raffale de Garda spiegò, invece, come durante la guerra Funi gli affidò il proprio appartamento in piazzale Fiume, 9 (oggi Piazza della Repubblica) a Milano «perché io vi abitassi e sapeva che quella casa sarebbe diventata un rifugio per gli antifascisti».
QUELLE LUNETTE DI SAN BENEDETTO
E proprio in un anno simbolo del fascismo, quel ’22 della Marcia su Roma, Funi, durante il suo ritorno a Ferrara da Milano, conosce De Pisis. Quest’ultimo gli dedica un articolo sulla “Gazzetta ferrarese” dell’11 novembre dello stesso anno, dove racconta come Funi «avrebbe da poco ricevuto l’incarico di decorare le tre lunette esterne poste nella chiesa di San Benedetto a Ferrara, non sappiamo se ad affresco oppure con quadri o pannelli centinati». È Lucio Scardino a raccontare questo aneddoto nel catalogo della mostra di Diamanti, ma ne accenna anche in quello della mostra di Funi esposta al MART di Rovereto da ottobre ’22 a febbraio ’23: «Sinora a molti è sfuggito che, nel fatidico (per più versi) 1922, Achille Funi aveva ricevuto l’incarico di dipingere le lunette esterne per la chiesa di San Benedetto a Ferrara: nella facciata della chiesa rinascimentale, rifatta filologicamente nel 1954 dopo i bombardamenti di dieci anni prima, compaiono ancora oggi tre lunette sopra altrettanti portali d’ingresso». Scardino ipotizza che destinate a queste tre lunette furono le tavole “Imago Pietatis” (1920-1922 c.) (forse per la lunetta centrale), “Autoritratto con brocca blu” (1920) e “La sorella Margherita con brocca di coccio” (1920), quindi con Cristo al centro, lui e la sorella ai lati a rappresentare rispettivamente San Benedetto e la sorella Santa Scolastica. Un enigma che forse non troverà mai una risposta definitiva.
L’ENIGMA DI UN «MONDO FELICE»
Enigma come fu la sua vita, com’è ogni esistenza consacrata allo sposalizio tra bellezza e verità. «Credeva nelle idee, ed era convinto che la forma è vita», disse alla sua morte il critico e scrittore Alberico Sala. Occorre oltrepassare le linee consuete, ridecifrare i nostri codici per comprendere Funi. Un altro che di «vie imprevedute» se ne intendeva, l’artista Alberto Savinio, scrisse di lui: «La testa di Funi che dorme è nel buio della camera un globo luminoso, e in trasparenza vi appaiono le immagini di un mondo felice che la memoria vi ha raccolto, e che lui, da sveglio, ripete via via nelle sue pitture». A quel «mondo felice» e irraggiungibile Funi ha dedicato la propria vita. Un’esistenza venata di joliesse, di contraddizioni, ma capace di elevarsi alla ricerca di quella Forma pura, di quell’Ideale che mai del tutto cogliamo, di quel Mistero che sempre ci pervade e ci guida.
Andrea Musacci
Pubblicato sulla “Voce” del 19 gennaio 2024
Una vita dedicata all’arte
Achille Funi nasce a Ferrara 1890. Dai 12 ai 15 anni frequenta la civica scuola d’arte Dosso Dossi nella sua città natale, si diploma nel 1910 all’Accademia di Belle Arti di Brera (dove poi insegnerà dal 1939 al 1960), nel 1914 aderisce al movimento futurista, elaborandone una particolare versione e mantenendone una certa distanza. Nel 1922 nasce il gruppo “Novecento” e lui è tra i suoi fondatori. La linea teorica del gruppo si orienta verso un recupero della tradizione classica italiana rivisitata alla luce delle esperienze delle avanguardie degli inizi del secolo. L’interesse per la figura come soggetto principale dell’opera e l’attenzione al mestiere sono le caratteristiche dominanti del classicismo degli anni ‘20. Ora si parla di “umanità”, di centralità dell’uomo nella pittura. Importante anche la sua opera di affrescatore e di mosaicista: decorazioni ad affreschi per la Triennale di Milano dal 1930 al 1940, affreschi nella chiesa del Cristo Re a Roma, in S. Giorgio Maggiore e nel Palazzo di Giustizia a Milano, e un grande mosaico nella Basilica di S. Pietro a Roma. Nel 1945 ha la cattedra di pittura all’Accademia Carrara di Bergamo e successivamente ne diviene direttore. Negli anni ’50 torna ad insegnare a Brera. Muore ad Appiano Gentile nel 1972.
Ultimi incontri a Diamanti
Queste le ultime due conferenze legate alla mostra: 18 gennaio, ore 17, Palazzo Diamanti, Sala Rossetti: “Achille Funi e le suggestioni di Cézanne, Picasso e Derain”.Interviene Chiara Vorrasi, curatrice della mostra, Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea di Ferrara.
25 gennaio, ore 17, Palazzo Diamanti, Sala Rossetti:“Achille Funi e le mostre all’estero del Novecento Italiano di Margherita Sarfatti”. Interviene Daniela Ferrari, Mart, Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto.
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