
In viale Cavour al civico 184 si trova uno splendido esempio di fusione tra architettura e arte. Vi raccontiamo la sua genesi nel 1904, i tre enfants terribles che la progettarono e resero unica, le linee e i dettagli di un progetto irripetibile che cambiò la nostra città
di Andrea Musacci
Ferrara, al di là di alcuni pregiudizi, è di sicuro città capace di regalare sorprese. Indagando nei suoi meandri, si lascia svelare donando gemme di rara bellezza. E Ferrara è anche mosaico di giardini “segreti” (il successo di “Interno Verde” sta lì a dimostrarlo), spesso in bilico tra realtà e immaginazione (si pensi ai Finzi-Contini). Quanti occhi, da oltre un secolo, si sono posati sognanti, passeggiando su viale Cavour, su quel magnifico villino Liberty e il regno verde nel quale sembra posato. Si tratta di Villa Melchiori, e siamo al civico 184 della larga arteria che taglia la città. Un villino-negozio, in quanto per anni, al pian terreno, ha ospitato un’ampia sala espositiva di piante e fiori, per poi essere usato come appartamento.
COM’È NATO IL RESTAURO
Alcuni mesi fa, il noto critico e storico d’arte Lucio Scardino vi ha dedicato un libro, “Villa Melchiori. Il capolavoro del Liberty ferrarese” (aprile 2024). Il 27 settembre alle ore 18, proprio all’interno della villa, verrà presentato un altro volume, “Villa Melchiori. Storia di un restauro a Ferrara” (luglio 2024), a cura dello stesso Scardino e di Marcello Carrà, eccelso artista ferrarese e ingegnere. Un volume, questo, realizzato con BM–Studio Bosi di Marcello Bosi, che ha eseguito i lavori di restauro da poco conclusisi, e che contiene, oltre a quelli di Scardino, Carrà e Bosi, anche gli interventi (oltre che del Sindaco e dell’Assessore alla cultura) di Davide Danesi e Leonardo Buzzoni (Studio DaBù, per l’illuminazione della Villa), di Manfredi Patitucci (progettista di giardini) e Maria Chiara Bonora (architetto di BM – Studio Bosi).
È Maria Magdalena Machedon nel 2020 a spronare il marito Bosi a intraprendere i lavori di restauro. Eredi del fondatore Ferdinando Melchiori, infatti, sono la bisnipote Francesca e la stessa Machedon che l’ha acquistata da Anna Moretti, altra bis nipote di Melchiori, divenendo proprietaria, insieme al marito, del primo piano.
STORIA DI UNA RIVOLUZIONE
Villa Melchiori è stata realizzata nel 1904 (inaugurata il 30 luglio) dall’ingegnere ferrarese (ed ebreo) Ciro Contini, allora 31enne: fu la sua prima opera a carattere edilizio. Successivamente, fra i tanti lavori, restaurò l’Albergo “Europa” in corso Giovecca, Palazzo Cicognara-Sani in via Terranuova, realizzò l’ingresso in granito del cimitero ebraico in via delle Vigne, progettò la Laneria Hirsch e fornì al Comune il progetto di massima per realizzare il Rione Giardino. Dopo il trasferimento a Roma, nel ’41 con la moglie Lidia lasciò l’Italia in seguito alle leggi razziali: la coppia andò prima a Detroit poi a Los Angeles, dove Contini morì nel 1952.
Tornando a Villa Melchiori, in epoca estense il terreno su cui sorge appartiene al Convento di San Gabriele, che ospita le Carmelitane per volere della duchessa Eleonora d’Aragona. Il Convento viene poi soppresso in seguito alle invasioni napoleoniche. Nel 21 agosto 1903 l’area è acquistata dai Melchiori grazie a un contratto con la Ditta Pirani-Ancona. Proprio in questi anni viene concluso il tombamento del canale Panfilio, permettendo la nascita di viale Cavour, arteria fondamentale di collegamento della Stazione ferroviaria col centro. Villa Melchiori sarà la prima casa a essere costruita sul tronco terminale del nuovo viale. Contini per questo ambizioso progetto coinvolse lo scultore Arrigo Minerbi (allora 23enne) e il fabbro 37enne Augusto De Paoli, portando l’Art Nouveau nella nostra città.
TRA REFUSI E CORBEILLE
Fa sorridere, e pare assurdo, il refuso del decoratore Giuseppe Pedroni che sulla facciata riportò erroneamente il nome di “Melchiorri Floricoltore”, con due “r”, ingannando involontariamente nel tempo (e ancora oggi) non poche persone. Ma il buffo raddoppio non tolse fascino e mistero a questo luogo fuori dal tempo. Così, nel 1905 la vicina Villa Amalia (sempre progettata da Contini) cercò in un certo qual modo di emulare la magia di quel villino-negozio; e nell’aprile del 1906 Villa Melchiori finì anche sull’importante rivista torinese “Architettura italiana”. Nell’autunno del 1968 il regista Franco Rossi vi girò addirittura una sequenza del suo film “Giovinezza giovinezza”, con gli attori Alain Noury e Colomba Ghiglia.
Come scrive Scardino nel libro, De Paoli e Minerbi in sinergia con l’ing. Contini realizzarono la «convessa quanto estrosa porta-vetrata a forma di corbeille (cesta, ndr) floreale con la cancellatina che riporta una serie di rose canine in ferro, il serpentino cornicione sotto-tetto “a colpo di frusta”, le inferriate delle finestre, i fiori in cemento modellati agli angoli della terrazza e sui pilastri d’ingresso, quasi “carnose” escrescenze quest’ultime che parrebbero voler evocare mazzi del fiore chiamato “alcea rosea”, la cancellata in ferro battuto impostata sul tema-cardine del girasole (che, nella parte centrale, le linee sinuose dei gambi trasformano nella sagoma di un’enorme mela)». Inoltre, ai lati dell’edificio, i Melchiori fecero costruire prima due dépendances (grazie all’ing. Edoardo Roda) e altre due costruzioni dove sistemarono nuove serre, laboratori e un piccolo appartamento per i commessi (v. nella didascalia a pag. 11, il legame successivo con la famiglia Facchini).
UN UNICO MAGNIFICO CORPO
La Villa è immersa in un parco di circa 2200 mq, con ancora presenti diverse specie di piante, fra cui Ginkgo biloba, cedro del Libano, Bagolari, Ippocastano, camelia, azalea, glicine, vari alberi da frutto, una piccola vigna. Come scrivono Marcello Bosi e Maria Chiara Bonora nel libro, il giardino progettato per Villa Melchiori «può essere immaginato come un percorso attraverso tre stanze che dal fronte della villa si articolano in una successione verso la parte più intima del giardino dove il disegno si fa meno marcato e il carattere informale si apre ad un tono più selvatico».
È l’arte che imita la natura? No, è quella forma di preghiera laica con la quale l’uomo esprime il proprio bisogno di una più forte simbiosi con lo splendore del creato. Una casa, un giardino…di più: un corpo unico, un unico intreccio di linee immaginarie, di armonie, di richiami. Anche e soprattutto così ci si prende cura della natura, amandola e ri-dandole vita attraverso l’arte, indagando con passione nei suoi dedali tanto oscuri quanto incantatori.
Pubblicato sulla “Voce” del 20 settembre 2024
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(Foto Maria Chiara Bonora)