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Dire Dio oggi: due incontri a Ferrara con Jean Paul Hernandez e Adrien Candiard

20 Apr

Articoli di Andrea Musacci

Le nostre chiese sono luogo dell’annuncio: lo sappiamo ancora?

Jean Paul Hernandez: «porta del cielo per chi cerca Dio»

Nell’epoca dell’homo turisticus, le nostre chiese possono essere non meri spazi di fruizione ma luoghi di evangelizzazione? È la domanda che si pone da una vita Jean Paul Hernandez, gesuita classe ’68, ex docente di teologia alla Pontificia Università Gregoriana, docente alla Facoltà Teologica di Napoli e volto noto di TV2000 grazie alla trasmissione “Sulla strada“, oltre che fondatore di “Pietre Vive”. Hernandez è intervenuto on line l’11 aprile per la lezione della Scuola diocesana di teologia per laici intitolata “Ridire il kerigma attraverso l’arte”. 

GERUSALEMME TERRENA: IL TEMPIO 

Per il relatore, viviamo un kairos «antico e sempre nuovo»: la stessa prima generazione di cristiani, «usava abbondantemente il Tempio di Gerusalemme, l’architettura sacra, per parlare di Gesù, per il kerigma»: ciò è esplicitato in Giovanni e negli Atti degli apostoli. Ciò avveniva «non strumentalizzando il tempio, ma spiegando il motivo profondo per cui questo esisteva: tutto ciò – pensavano – serve a dire Gesù». C’è dunque «una sorta di connessione, di simbiosi tra kerigma pasquale di Gesù Cristo e il tempio». L’edificio sacro è «aggancio per dire che come questo rimandi ad altro, all’Indicibile, all’Irrapresentabile»: è la differenza tra icona e idolo di cui ha parlato Jean-Luc Marion: «la prima rimanda ad altro, l’idolo invece rimanda solo a sé stesso». 

DIETRO IL TURISTA, IL MENDICANTE

Venendo al presente, Hernandez ha riflettuto su come esista un fenomeno di massa senza precedenti: il boom del turismo in tutta l’Europa, in tutto il mondo: «meno si va in chiesa, più si va nelle chiese…». Il turismo di massa è dominante, «viviamo nell’epoca dell’homo turisticus», dell’uomo che vaga sapendo di tornare a casa, del mordi e fuggi di esperienze in giro per il mondo. E così è per il cibo, per le relazioni, gli affetti, la formazione. Questo modo turistico di essere, per il relatore, «descrive una nostalgia del cuore che cerca un senso, proprio perché viviamo in una società senza senso condiviso. E questo senso la gente lo cerca in testimonianze forti, in identità forti». Hernandez ha poi citato un sondaggio dell’inglese Telegraph dagli esiti sorprendenti, secondo cui la maggior parte di coloro che hanno risposto, hanno dichiarato di essere tornati o arrivati alla fede cristiana dopo aver visitato una chiesa antica.

«Noi sappiamo accogliere questa sete di Dio? Lo Spirito Santo – ha proseguito – ci manda fiumi di non credenti a casa nostra. Le opere d’arte nelle nostre chiese possono essere molto importanti per spiegare loro la nostra fede». Ma dobbiamo saperlo fare: non serve tanto la descrizione tecnica, ma l’opera «dev’essere finalizzata al kerigma, all’annuncio di Dio e della salvezza». 

PORTA DEL CIELO E DEL CUORE

Due episodi dell’Antico Testamento sono essenziali per spiegare la potenza che può avere una chiesa nel convertire i cuori delle persone. Il primo, è il sogno di Giacobbe in Genesi 28, «il primo testo fondamentale per capire l’essenza dell’arte cristiana». Anche oggi «consideriamo le nostre chiese come la pietra di Giacobbe, pietra che unisce cielo e terra. Ogni chiesa – soprattutto l’abside -, è quindi porta del cielo. Cristo è questa pietra, è l’altare, e tutta la chiesa è simbolo del Suo corpo», ha proseguito. L’episodio del roveto ardente (Esodo 3) richiama l’esperienza del fedele nel tempio: in quest’ultimo «ti accade ciò che è accaduto a Mosè: ascoltando la Parola di Dio, scopri te stesso». Nel luogo sacro, quindi, «si riceve la propria identità, si viene educati ad ascoltare dentro di sé, a fare memoria di Dio dentro di sé». Comunicare al turista, al visitatore, al pellegrino, a chiunque entra nelle nostre chiese «le spiegazioni profonde del senso di una chiesa, di un edificio sacro», serve in ultima analisi a questo. «La chiesa è un luogo per incontrare Dio, è un luogo che dice Dio, per ascoltare in ogni suo punto la dichiarazione di amore di Dio per noi: in questo modo – ha detto Hernandez -, scopri che il vero luogo sacro sei tu, che il luogo dove incontrare Dio sei tu, è la tua vita».

GERUSALEMME CELESTE: LE PIETRE

Questo continuo, essenziale rimandare a Dio si esprime anche nel richiamo alla Gerusalemme celeste (Ap 21), le cui fondamenta sono ricche di pietre preziose. Pietra che è anche simbolo del figlio, quindi la «Gerusalemme celeste rappresenta la diversità dentro il genere umano e dentro la Chiesa, e al tempo stesso la comunione tra le persone», tra i figli di Dio. E la preziosità di queste pietre colorate e sfavillanti «dice di quanto ognuno di noi sia ricercato, voluto, amato, proprio come lo è un figlio per il padre». La Gerusalemme celeste, quindi, non ha più un tempio, non ne ha più bisogno perché «non c’è più separazione tra sacro e profano: con l’Incarnazione questa distinzione non ha più senso, il Dio incarnato rende sacro anche il profano». Di conseguenza, anche quest’ultimo «diventa luogo per incontrare Dio». Tutto può dire Dio, richiamare il suo Amore per noi.

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Solo dalla conversione nasce il Regno di Dio: ci lasciamo amare?

Adrien Candiard: «il peccato è male, la scienza non salva»

C’era molta attesa nelle nostre comunità per l’arrivo a Ferrara – dopo due tappe a Milano – di Adrien Candiard, 42enne domenicano residente da anni a Il Cairo. Nel tardo pomeriggio a Casa Cini, Ferrara, circa 80 persone si sono ritrovate per ascoltarlo, oltre a una 70ina collegate on line. «Sono molto legato a Bologna ma è la prima volta che vengo a Ferrara», ha confessato con sincera emozione per l’aver potuto ammirare, pur di sfuggita, la bellezza della nostra città.

SPERANZA, NON OTTIMISMO

“Qualche parola prima dell’Apocalisse” il titolo scelto per l’incontro (lezione della Scuola diocesana di teologia eccezionalmente aperta a tutti), che richiama il suo libro uscito l’anno scorso in Italia, mentre da poco è nelle librerie la sua ultima fatica, “La grazia è un incontro. Se Dio ama gratis, perché i comandamenti?” (Lev, pp. 109, 13 euro).

E sfidando luoghi comuni purtroppo diffusi anche fra i credenti, per parlare di Apocalisse ha parlato di speranza. Innanzitutto, «per affrontare il tema della speranza – ha detto -, bisogna guardare la realtà così com’è e non rifugiarsi in un mondo spirituale». L’“andrà tutto bene” del Covid, per Candiard, «era ottimismo, non speranza cristiana. La speranza in sé non vale nulla, se non è speranza in Dio».

I motivi per disperare oggi sono tanti: guerre, minaccia nucleare, crisi climatica, secolarizzazione, abusi nella Chiesa, «che in Italia devono ancora emergere nella loro totalità». Queste crisi, ha aggiunto, «ci possono cambiare solo se le affrontiamo nella maniera giusta». Nella Bibbia, e anche in alcuni testi ebraici, esiste il genere apocalittico, da intendersi – ha specificato – «come rivelazione, non come fine del mondo», ad esempio nel libro di Daniele e naturalmente nell’Apocalisse di Giovanni. E negli stessi Vangeli sinottici, in particolare Marco 13: un brano, questo, «da molti cristiani oggi ignorato, considerato strano, disturbante», oppure erroneamente inteso come «un enigma da decifrare». Mc 13 invece «rivela il senso della storia umana». Non dobbiamo, perciò, «usare Dio per spiegare tutto l’inspiegabile del mondo, come spesso fanno i nostri cuori pagani e superstiziosi». Come, dall’altra parte, è altrettanto superstizioso «affidarsi totalmente alla scienza e ignorare il Vangelo», ha incalzato.

IL PECCATO È MALE, LA STORIA NON È PROGRESSO DI BENE

Ciò che Gesù ci ha rivelato e ci rivela è innanzitutto «il vero senso del peccato», che non va inteso, in modo infantile, come meccanismo di trasgressione/punizione ma come spiegazione, semplice ma profonda, che «il male fa male a chi lo compie e agli altri, distrugge sé e gli altri». Nei confronti di Dio, perciò, «non dobbiamo né ribellarci né sottometterci, ma comprendere che Lui ci vuole liberi». Di conseguenza, «la pace del mondo non bisogna innanzitutto affidarla ai diplomatici ma costruirla affrontando il male, il peccato dentro di noi, convertendo prima di tutto i nostri cuori». Il discorso apocalittico, quindi, ci rivela innanzitutto il male. D’altronde, «Gesù non ci ha mai promesso che, nel corso della storia, saremmo andati sempre più verso il bene, anzi diceva “Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada”» (Mt 10, 34). Non ci spiega, dunque, «la storia umana come una crescita progressiva verso il Regno di Dio». Questo serve anche a confutare visioni, di certo mondo cristiano, ottimistiche, dunque in ultima analisi secolari. Gesù nel discorso apocalittico – e non solo – «ci parla del bene e del male, cioè del Regno di Dio e del nostro possibile rifiuto. Siamo pronti ad accettare il Suo amore? Questa la sfida che ci lancia ancora».

LASCIATI AMARE, IMPARA A PERDONARE

È, infatti, più difficile lasciarsi amare, che amare. «Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi» (Gv 15, 12), cioè «Amatevi con l’amore che io vi ho dato», con la Grazia, non tentando di imitarLo come fosse un modello. «Rifiutare il Suo amore – ha spiegato Candiard – è rifiutare il Regno di Dio, è il peccato, ciò che porta al male, alla distruzione anche della nostra stessa vita. La scelta davanti alla quale ci mette Gesù è dunque fra conversione o distruzione». Distruzione di noi stessi oltre che del pianeta, «che non va dominato ma nemmeno divinizzato».

Diverse le domande finali tanto dai presenti in sala quanto da quelli collegati a distanza. Una di queste, ha permesso a Candiard di tornare sul tema del peccato e del male nella chiave del perdono e della riconciliazione: «si perdona solo l’imperdonabile», ha detto. È facile, infatti, perdonare cose piccole, senza peso. Chi, invece, «tollera non perdona davvero e anzi diventa complice del male, anche se l’ha subìto». Si deve sempre partire dal proprio cuore: «riconoscere il male in me stesso mi permette di perdonare il male compiuto dagli altri». Mai dimenticando che siamo stati e siamo sempre perdonati da Dio», e tante volte anche da altre persone. Tutte piccole ma decisive rivelazioni del Regno di Dio.

Pubblicati sulla “Voce” del 19 aprile 2024

La Voce di Ferrara-Comacchio

Apocalisse è rivelazione profonda di Dio sulla nostra vita e sulla storia

12 Apr

“Qualche parola prima dell’Apocalisse”: Lectio Magistralis di padre Adrien Candiard il 12 aprile a Casa Cini, Ferrara. «Rimane un fatto difficilmente contestabile: Gesù ha annunciato il suo ritorno alla fine dei tempi». Ma noi cristiani pieghiamo con  letture secolari questa verità, l’unica che spiega il senso del mondo

di Andrea Musacci

L’Apocalisse è Gesù Cristo, lo svelamento, la rivelazione di ciò che fonda la realtà e di ciò che sono i nostri cuori: luoghi pronti ad accogliere l’Amore di Dio o luoghi di rifiuto dello stesso, quindi di peccato? Adrien Candiard, classe 1982, saggista e padre domenicano, rientra a pieno titolo nel gruppo di quegli scrittori francesi – contemporanei e non, da Peguy ad Hadjadj – che hanno la rara dote di raccontare la fede e di sfidare il moderno laicismo attraverso un linguaggio originale e uno stile provocatorio ma mai fine a sé stesso. “Qualche parola prima dell’apocalisse. Leggere il Vangelo in tempi di crisi” è il titolo del suo ultimo libro (Libreria Editrice Vaticana, 2023) di cui discuterà il 12 aprile alle 18.30 a Casa Cini, Ferrara, in un incontro della Scuola diocesana di teologia per laici eccezionalmente e gratuitamente aperto a chiunque voglia parteciparvi.

Candiard, dopo essersi dedicato alla politica, nel 2006 entra fra i domenicani e oggi risiede al Cairo, dove è membro dell’Institut dominicain d’études orientales (Ideo) e priore del convento del suo ordine. Si occupa di islam e ha scritto diversi saggi di spiritualità.

«Il Vangelo non è un manuale di saggezza che somministra buoni consigli per affrontare le difficoltà: esso svela il Regno di Dio». In questo senso è interamente apocalittico, cioè rivelatore. Da questo ragionamento essenziale prende le mosse Candiard nel suo libro nel quale analizza in particolare il capitolo 13 del Vangelo secondo Marco, uno dei – non pochi – testi apocalittici della Bibbia. Spiega Candiard: «curiosamente, proprio quando dovremmo drizzare le orecchie verso Gesù che parla di guerre, epidemie, carestie e catastrofi naturali, quando abbiamo più che mai bisogno di aiuto e di senso, il più delle volte preferiamo saltare la pagina e andare a cercare nel Vangelo versetti più solari». Ma Cristo o sconvolge la nostra vita o non è. Bisogna quindi «accettare di parlare un po’ della fine del mondo per ritrovare, in questo stesso mondo, un pizzico di speranza».

ABBIAMO RESO INOFFENSIVA L’APOCALISSE DI GESÙ

Nei secoli abbiamo sempre più rimosso l’essenza apocalittica del Vangelo: «Abbiamo elaborato – scrive Candiard -, collettivamente e certo implicitamente, alcune strategie per sottrarci all’imbarazzo, per rendere inoffensivo un discorso evangelico come questo, inoffensivo al punto che non lo vediamo nemmeno più». 

Quello che dice il capitolo 13 di Marco non lo si può né ridurre a un episodio storico preciso (la distruzione del Tempio di Gerusalemme nel 70 d.C.) né spiritualizzare, leggerlo cioè come simbolo di qualcosa che riguarda la mera vita interiore: «È intrigante presentare il cristianesimo come un deismo puramente spirituale, sbarazzato da questo annuncio escatologico che può apparire bizzarro o poco ragionevole ai nostri contemporanei, ma questo comporterebbe il rischio di snaturarlo profondamente. Perché rimane un fatto difficilmente contestabile: Gesù ha annunciato il suo ritorno alla fine dei tempi, e questo ritorno è un evento per la creazione intera». Queste «strategie di neutralizzazione dell’ingombrante discorso apocalittico arrivano in pratica a vanificarsi precisamente quando la realtà ci raggiunge»: minaccia nucleare, cataclismi naturali. Noi, invece, spesso «vorremmo ridurre la fede cristiana a un esercizio di meditazione individuale, a un rivale dei metodi di sviluppo personale o a un complesso di ingiunzioni moralizzatrici sulla sessualità».

MEGLIO DIO O GLI ESPERTI?

Né «lugubri profezie» né riduzione del cristianesimo all’«insignificanza», dunque: «Il rischio che si fa correre alla Parola di Dio quando la si priva di ogni portata reale sulla marcia del mondo è quello dell’insignificanza. La fede cristiana non può essere un lusso per tempi tranquilli, un piccolo, simpatico supplemento d’anima da convocare una volta che le questioni serie siano state risolte, una volta che le minacce siano state neutralizzate grazie all’intervento dei vari esperti – geopolitici, climatologi, epidemiologi, senza trascurare gli editorialisti evidentemente dotati di tutte le competenze. Se la Parola di Dio non ha nulla da dirci nelle situazioni drammatiche quali sono i pericoli che oggi affrontiamo, allora che interesse ha?», ci sfida l’autore.

IL FINE PRIMA DELLA FINE

Il Vangelo, quindi, non è né uno strumento simili-zodiacale né un mero manuale per comprendere con criteri razionali, “mondani”, le crisi del nostro tempo. Nessuno sa quando avverrà la fine dei tempi ma «la fine è già presente come principio che agisce nel cuore della nostra storia, la quale non avanza del tutto alla cieca. La fine è presente lungo tutto il corso della storia come lo scopo verso cui essa tende», il «compimento verso cui tende tutta la storia umana». Apocalisse è, quindi, “svelamento”, “rivelazione” di «questo principio in atto, questa/o fine già all’opera nella storia». Non vi è dunque nessun «rebus da decifrare» su quando finirà il mondo, ma «un senso da accogliere». Si rivelano sbagliate, di conseguenza, le filosofie della storia che, dall’Illuminismo in poi, la leggevano come un progresso, pur discontinuo, «verso il bene, l’abbondanza, verso il trionfo della scienza, verso la società senza classi o l’abolizione del predominio di pochi». Nemmeno Gesù ci promette tempi migliori (v. Mc 13, 9-13): l’annuncio dell’amore di Dio al mondo «agisce come una rivelazione», un’apocalisse, «di ciò che avviene nel cuore di ciascuno»: vogliamo o no accogliere questo Amore? Per questo, «l’evangelizzazione del mondo non è l’espansione del club dei cristiani che va reclutando nuovi membri; è l’annuncio, a tempo opportuno e non opportuno, dell’amore di Dio per il mondo che Gesù Cristo ci ha rivelato».

ACCOGLIERE L’AMORE

Di conseguenza, «la nostra vita spirituale altro non è che l’accoglienza paziente di questo amore che un giorno si autoinvita nella nostra esistenza», mentre la nostra resistenza a questo amore è il peccato. E «più la rivelazione è chiara, meno è possibile rimanere in una confortevole ambiguità»: l’amore, se ricevuto, «fiorisce in gioia e gratitudine»; se rifiutato, diventa «letteralmente insopportabile e si cerca di sbarazzarsene con ogni mezzo». Dall’amore alla croce, appunto.

«I sistemi politici e sociali meglio pensati, i meccanismi internazionali più ingegnosi, le legislazioni più sofisticate» sono importanti ma «impotenti a intercettare il male alla radice, cosa che può fare solo la conversione personale». Conversione che non significa «adottare un’identità cristiana» ma accogliere l’amore di Dio offerto in Gesù.

CRISTO CI LIBERA E SALVA, FUORI DAI NOSTRI COMFORT 

«Salvare e rivelare»: in ciò consiste essenzialmente il Suo agire. Rivelare Dio e il male: «A cosa porta il peccato? Alla morte (…). Lasciando andare il male fino all’estremo della sua logica, Cristo ci mostra dove esso conduce», come ad esempio in Mc 5 nel racconto dell’uomo posseduto dai demoni. Cristo, quindi, «stravolge comfort acquisiti» ma spesso «inquietanti, solitudini infelici che tuttavia non tollerano di essere disturbate da una visita imprevista, rancori talmente strutturati che il perdono lascerebbe un gran vuoto in cuore. Ci sono comfort dall’odore di chiuso insopportabile che preferiamo alle correnti d’aria dello Spirito Santo». In ultima analisi, dunque, il peccato è «un rifiuto di lasciarsi amare che cresce in violenza contro di sé o contro gli altri». Così è oggi, com’è sempre stato e sempre sarà. Lo possiamo vedere ogni giorno nella nostra piccola quotidianità e, su più larga scala, nelle conseguenze della logica della guerra e di un consumo senza freni.

Per Candiard, quindi, «la fine dei tempi» è «in corso d’opera non come evento inquietante di cui paventare l’approssimarsi, ma come realtà presente nella storia fin dal principio (…). Abbiamo bisogno di questo svelamento perché altrimenti, finché la natura del male resterà sconosciuta, si potrà beatamente credere all’efficacia di soluzioni meramente tecniche alle minacce che pesano sulle nostre esistenze». Il male, perciò, va combattuto alla radice, e a partire dalla propria vita. «Dentro di me si sta già combattendo la lotta escatologica» e «vincere, in questa lotta, è innanzitutto accettare che la vittoria è già guadagnata» grazie al sacrificio di amore del Cristo. 

Cristo che, dunque, «ci ricorda con forza come la nostra speranza non si possa limitare alla salvaguardia del mondo quaggiù, fragile e deperibile». Il mondo non va né assolutizzato né rifiutato. Essenziale, invece, è percepire «il silenzio in cui cresce il Regno di Dio, che è ciò che dà al mondo il suo senso». Tutto il resto è moralismo, secolarismo, idolatria.

Pubblicato sulla “Voce” del 12 aprile 2024

La Voce di Ferrara-Comacchio