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La filosofia nel Santo Rosario: padre Giuseppe Barzaghi a Ferrara

24 Apr

I Misteri e la dialettica, un rapporto originale. Incontro il 4 maggio a Casa Cini

di Andrea Musacci

Cosa c’entra la filosofia con il Santo Rosario? Come questi due mondi possono incontrarsi? 

Su questo il prossimo 4 maggio rifletterà padre Giuseppe Barzaghi (foto), Direttore dello Studio Filosofico Domenicano di Bologna, sacerdote domenicano, saggista e docente di Teologia. L’appuntamento è per le ore 18.30 a Casa Cini, Ferrara. Si tratta dell’ultimo dei tre incontri del ciclo “Il cuore non basta. Filosofia e fede oggi: un legame da riscoprire”, organizzato dalla Scuola di Teologia per laici “Laura Vincenzi” e coordinato dal prof. Maurizio Villani. I primi due incontri si sono svolti il 23 febbraio con Anna Bianchi (Università Cattolica di Milano) su “Fides et ratio” e il 16 marzo con lo stesso Villani su “Percorsi fenomenologici sulle religioni”. 

Il titolo dell’incontro di p. Barzaghi riprende, invece, quello di un suo noto libro, “Il riflesso. La filosofia dove non te l’aspetti o il rosario filosofico” (ESD Edizioni Studio Domenicano, collana Anagogia, ottobre 2018.)

La dialettica porta alla Gloria

Per un approccio integrale al sapere, occorre trovare una visione sintetica – scrive padre Barzaghi nel suo libro – nel senso di «tecnicità dell’operazione teoretica» e di «visione che raccoglie tutto, anche i rimasugli. I rimasugli sarebbero lo scarto», ciò che per l’uomo di scienza è opinabile.

La struttura più conforme è quella dialettica: tesi, antitesi e sintesi (che non è mera somma, ma oltrepassamento degli elementi, loro superamento nella relazione). Anzi: Positio, Oppositio, Compositio. Ma questo metodo, questa struttura si può applicare anche per i Misteri della nostra fede: la positio è rappresentata dai cinque misteri gaudiosi, l’oppositio dai cinque misteri dolorosi, la compositio dai cinque misteri gloriosi. Così, ognuna delle tre parti si divide in cinque tappe, proprio come le cinque decine del Rosario. Questa l’originale intuizione del domenicano.

Misteri gaudiosi (Positio)

Praepositio: lo stupore, la meraviglia da cui nasce la filosofia. Ovvero, la meraviglia di Maria durante l’Annunciazione. Dispositio: la Visitazione di Maria ad Elisabetta, «l’abbandono di qualsiasi presupposto», «l’umiltà di chi non sa». Propositio: proporre una nuova idea: la Nascita di Gesù. Suppositio: la Presentazione di Gesù al Tempio. Ovvero, proporre la nuova idea ma in modo riflesso. Expositio: Ritrovamento di Gesù tra i dottori nel Tempio: l’interrogare di Gesù.

Misteri dolorosi (Oppositio)

Depositio: l’agonia, la lotta, l’agone: Gesù nel Getsemani. Contrappositio: il primo atto della lotta: la Flagellazione di Gesù. Interpositio: la Derisione di Gesù. Impositio: la salita di Gesù al Calvario. Decompositio: «l’addormentarsi in Dio, nella nebbia della non conoscenza».

Misteri gloriosi (Compositio)

Superpositio: «il risvegliarsi in Dio, la Resurrezione di Gesù», cioè «considerare da un punto di vista assoluto». Transpositio: avere quindi uno sguardo più ampio e pieno: l’Ascensione di Gesù Cristo. Circumpositio: lo sguardo pieno porta a un pieno coinvolgimento: lo Spirito agisce dall’interno. Appositio: coinvolgimento anche sensibile: l’Assunzione di Maria Vergine in cielo in anima e corpo. Infine, Diapositio: «In Paradiso c’è la perfetta compositio», scrive p. Barzaghi. La diapositio è «la Gioia, filtrata dal Dolore, e che si consu(m)ma, cioè arriva a perfezione, nella Gloria». «Che cos’è il meraviglioso della Gloria? È l’atto nel quale gioia e dolore sono la stessa cosa. E questa è la commozione, la compassione e la consolazione», sono ancora sue parole. È il «meraviglioso senza perché»: «si tratta di una identificazione, come se l’addormentarsi in Dio nel risvegliarsi in Dio implicasse una fusione».

Dallo stupore iniziale, “crudo”, naturale si arriva dunque alla mistica, passando per la speculazione.

***

Si chiede ai partecipanti iscritti in presenza di comunicarlo alla Segreteria dell’Istituto. Gli incontri saranno anche disponibili (in diretta e come registrazioni) sulla piattaforma YouTube dell’Ufficio Comunicazioni diocesano.

Per informazioni e iscrizioni contattare la Segreteria: Tel. 0532 242278 

segreteria@stlferraracomacchio.ithttp://www.stlferraracomacchio.it

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 28 aprile 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

Sacramento e abbandono: Marina Salamon a Ferrara

3 Apr

La sera del 30 marzo a Casa Cini è intervenuta la nota imprenditrice. In dialogo con Piero Stefani e coi presenti, è emersa la  complessità di una vita tra fede, carriera e famiglia

di Andrea Musacci

Per don Lorenzo Milani era centrale l’aspetto sacramentale oppure quello caritatevole/pastorale? Era un esponente ante litteram della “Chiesa in uscita” o, semplicemente, un sacerdote della Chiesa pre Concilio Vaticano II, che cercava, ogni giorno, di incarnare il Vangelo?

Da questi dilemmi, escono, da decenni, accesi dibattiti. Uno di questi, si è svolto la sera del 30 marzo a Casa Cini, Ferrara, in occasione dell’ultimo incontro della Cattedra dei credenti organizzata dalla Scuola di teologia “L. Vincenzi” e coordinata da Piero Stefani. Proprio quest’ultimo ha dialogato con Marina Salamon, personalità eclettica del mondo imprenditoriale italiano, verve da ragazzina e forza da matriarca.

Anelli e catene: il dono, il denaro, la profezia

«Vengo da una famiglia borghese e non credente ma amante di don Milani, che diventava quindi un anello di congiunzione», ha esordito Salamon. Un anello, dunque, il primo che la tenne legata, per alcuni anni, alla Chiesa. Poi ne vennero altri, gli scout («ho avuto il grande dono di incontrare Dio attraverso lo scoutismo e S. Francesco d’Assisi»), Comunione e Liberazione, con quella Jeep comprata coi primi soldi guadagnati e donata a un amico ciellino missionario in Africa.

«La mia fede è un dono» ma ho passato parte della mia vita a sentirmi fuori posto, a essere considerata irregolare, per i figli che ho avuto fuori dal matrimonio e i miei due divorzi alle spalle». Quegli anelli, segno di profonda unione e di libertà, sono diventati catene da cui liberarsi. 

Marina inizia dunque la propria carriera imprenditoriale: da lì il successo, la ricchezza, la fama. Ma sempre senza diventarne schiava. Sì, perché le catene possono anche essere quelle del guadagno, della ricchezza e della sua ostentazione. «Da tanti anni faccio filantropia, ma solo da alcuni rifletto su come possa diventare metadone, cioè possa aiutare a tenere la propria coscienza a posto. Non amo la ricchezza che diventa simbolo del lusso, ostentazione», sono ancora sue parole. «Il denaro dovrebbe essere solo uno strumento e invece troppo spesso ho visto ricchi farsi del male perché non sapevano usarlo». Denaro che, «come ci insegna la Parabola dei talenti, non è davvero nostro», e quindi è da restituire e reinvestire.

Da qui, una riflessione sul mondo di oggi, dove ostentazione e speculazione dominano. «Il tema della finanziarizzazione è serio, grave, incombente, le disuguaglianze aumentano ma bisogna ancora tentare di creare nuove possibilità. Per questo, c’è bisogno di profezia, e di una profezia incarnata nel fare». Per Salamon, pensando anche alle lotte di queste settimane in Francia, «dobbiamo ridefinire l’impegno, l’utilità sociale e il senso del lavoro: perché lavoriamo? Per costruire quale società?». Il suo pensiero è quindi andato alla lettera che don Milani nel ’50 a San Donato a Calenzano scrisse a Pipetta, giovane comunista, suo “compagno” di battaglie, ma che ammonisce così: «Quando tu non avrai più fame né sete, ricordatene Pipetta, quel giorno io ti tradirò. Quel giorno finalmente potrò cantare l’unico grido di vittoria degno d’un sacerdote di Cristo: “Beati i… fame e sete”». È questa la profezia, il non sentirsi mai appagati, il «saper andare oltre», il sapere che c’è sempre Qualcosa che ci supera. 

Sempre capaci di rimetterci davanti a Dio

Questo suo bisogno – di don Milani, e di Salamon – di andare sempre oltre il presente, la concretezza così velocemente tramutabile in grettezza, è stato ripreso da Piero Stefani, che ha posto l’accento sulla «spiritualità “tridentina”» di don Milani, nella quale «centrali erano i sacramenti e un’idea del peccato molto forte».

Ai suoi ragazzi di Barbiana una volta disse: «Per me che l’ho accettata, questa Chiesa è quella che possiede i sacramenti. L’assoluzione dei peccati non me la dà mica l’Espresso (settimanale laico di sinistra, ndr). L’assoluzione dei peccati me la dà un prete. Se uno vuole il perdono dai peccati si rivolge al più stupido, arretrato dei preti pur di averla. (…). In questa religione c’è fra le tante cose, importantissimo, fondamentale, il sacramento della confessione dei peccati. Per il quale, quasi per quello solo, sono cattolico. Per avere continuamente il perdono dei miei peccati. Averlo e darlo». Don Milani era quindi, per Stefani, «il rappresentante di un cattolicesimo che non c’è più».

«Sento spesso il bisogno di rimettermi davanti a Dio – ha risposto Salamon -, perché quando senti la spaccatura dentro di te fra intelligenza e libertà, logica e desiderio di bene, di ciò hai bisogno, e solo di ciò: per questo, don Milani amava la Confessione». Senza, però, «rifugiarsi nei sacramenti» ma vi aderiva per appartenere alla Chiesa, «altrimenti penso avrebbe spaccato tutto… . Non credo, quindi – ha proseguito Salamon – che la sacramentalizzazione fosse centrale in lui». E a maggior ragione oggi, i sacramenti sono ancora fondamentali ma «dobbiamo anche riscoprire il bisogno, di ognuno, di sentirsi accolto, di potersi fidare e abbandonare all’altro».

Un dialogo, con Stefani e col pubblico, conclusosi con la commozione di Marina Salamon. Lacrime di dolore, le sue, per la giovane nipote morta suicida, e per il ricordo dei sei figli perduti in gravidanza. Ma anche lacrime di riconoscenza, segno sacro. Come segni sono quelle piccole chiese gotiche di cui Marina è sempre alla ricerca, e quel Santuario parigino della Medaglia Miracolosa tante volte sfiorato e solo dopo tanto tempo davvero “visto”, come una rivelazione. Un luogo dove potersi abbandonare, dove vedere – col cuore – sacramento e carità uniti oltre ogni falsa separazione.

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 7 aprile 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

(Foto Pino Cosentino)

«La fede è dei testimoni: ecco il mio don Milani». Intervista a Marina Salamon

24 Mar
Don Lorenzo Milani con alcuni dei suoi ragazzi di Barbiana

Sono gli incontri che cambiano la vita, che ci riaprono allo Spirito. Marina Salamon ci racconta della fede giovanile, e di quella ritrovata da adulta. Una fede più che mai incarnata

di Andrea Musacci

Per chi nutre ancora dubbi sulla possibilità, in una sola anima, di unire un forte senso del sacro con una mentalità imprenditoriale, uno slancio all’Assoluto con le ultime statistiche demografiche, si ricreda. 

Marina Salamon, nella sua personale esperienza incarna questa aspirazione. O almeno ci prova, data l’umiltà che dimostra pur avendo alle spalle una vita di successo nel mondo dell’impresa: nata nel 1958 a Tradate (Varese), è diventata imprenditrice quand’era ancora universitaria, fondando “Altana”, azienda leader nel settore di abbigliamento per bambini. Nei primi anni ’90 assume il controllo della società di ricerche di mercato “Doxa” mentre nel 2014 diventa azionista di maggioranza di “Save the Duck”, azienda che produce piumini senza fare uso di penne d’oca. Oggi tutte le sue attività fanno parte della holding “Alchimia”, impresa che opera nel settore della compravendita immobiliare. Nel ’94, per qualche mese, ha fatto anche parte della Giunta di Venezia guidata da Massimo Cacciari. Salamon ha quattro figli (da due padri diversi), una figlia in affido e attualmente assieme al marito Paolo Gradnik (col quale vive a Verona) ospita due famiglie ucraine. 

Giovedì 30 marzo alle ore 20.30 interverrà a Casa Cini a Ferrara (via Boccacanale di Santo Stefano, 24) per il terzo e ultimo incontro della “Cattedra dei credenti” coordinata da Piero Stefani con la Scuola di teologia per laici “Laura Vincenzi”. Tema dell’incontro, “Un’imprenditrice alla scuola di don Milani”.

L’abbiamo contattata per rivolgerle alcune domande.

Marina, com’è nata la sua fede cristiana, dove ha attinto? 

«Vengo da una famiglia non credente, ma grazie a mia nonna, che amavo molto, feci comunque i sacramenti. Quel che però ha fatto la differenza, è stata la mia esperienza negli scout, a partire dai 10 anni. Mio padre Ennio teneva ai valori dello scoutismo, perché anche lui era stato uno scout cattolico, anche se poi è diventato agnostico. È stata un’esperienza meravigliosa, fondante sia per la mia fede che per i miei valori: mi ha insegnato a riconoscere Dio nella creazione, mi ha tenuta attaccata a Dio attraverso San Francesco d’Assisi, anche negli anni in cui sono stata lontana dalla Chiesa. Poi, tra i 14 e i 16 anni, ho frequentato Gioventù Studentesca (movimento interno a CL, ndr), un’altra esperienza per me importante, grazie anche a molti amici di CL che mi sono rimasti amici dopo la mia uscita dal movimento. Le loro testimonianze di vita, legate alla missionarietà, mi hanno aiutato molto». 

Da adulta, invece, quali testimoni l’hanno accompagnata nella fede?

«Ne ho incontrati diversi, ma ne cito tre su tutti, in ordine cronologico: mons. Gianfranco Ravasi, che ho conosciuto grazie a mio padre, il quale non sempre ha condiviso le mie scelte di vita come imprenditrice. Parlò di me a mons. Ravasi, che iniziò a invitarmi a presentare i suoi libri. Un giorno mi disse: “penso che tu non sia così male…”».

Il secondo testimone?

«A un incontro del Forum Ambrosetti, nei primi anni del 2000, fu invitato l’allora card. Joseph Ratzinger. Ci arrivai carica di pregiudizi, ma con dentro una forte domanda sulla fede. Sono rimasta assolutamente affascinata dalla sua intelligenza – proprio nel senso di saper leggere oltre l’apparenza – e dalla sua umiltà. In vita mia non avevo mai visto una combinazione così dei due aspetti: da lui, il carisma usciva prepotentemente, smontando tutto quel che avevo dentro». 

Per quale motivo in particolare? 

«Nel mio mondo imprenditoriale, spesso ciò che conta è esibirsi ed esibire. Ratzinger, invece, era come un monaco eremita del Medioevo…». 

L’ultimo testimone che voleva citare?

«Salvatore Martinez (Presidente di Rinnovamento nello Spirito Santo, ndr), a capo di un movimento a cui non appartengo e non ho appartenuto, ma che in periodi di crisi della mia vita, ad esempio per la separazione col mio ex marito, mi ha preso per mano, invitandomi ad alcuni pellegrinaggi: io, “irregolare” in quanto divorziata, partii quindi con loro a Gerusalemme, poi a Lourdes. Insomma, nell’epoca delle beauty farm e della new age, tutti abbiamo bisogno di qualcuno che ci prenda per mano e ci accompagni. Senza rigide appartenenze ecclesiali». 

Marina Salamon

In una recente intervista, parla dei momenti di studio e preghiera che si ritaglia nella sua pur intensissima vita, per affrontare quelle «ardue domande che si fanno strada in ognuno di noi ed esigono risposta»: a cosa si riferiva?

«Le ardue domande non riguardano l’esistenza di Dio, su cui non ho dubbi, ma il come riuscire a tenere insieme l’insegnamento del Vangelo con le scelte di lavoro, con la famiglia e la vita in genere. Appena riesco, quindi, mi “prenoto situazioni” per poter meditare e studiare: pellegrinaggi, ritiri spirituali o periodi in conventi dove vado senza pc, solo con libri, quaderno e penna. Sono stata, ad esempio, a Bose e a Camaldoli. E sono iscritta, assieme a mio marito, all’Istituto di Scienze Religiose di Verona – dove sto lavorando a una tesi su don Milani -, oltre a frequentare un Master in dialogo interreligioso a Venezia».

Riguardo a don Lorenzo Milani, che cosa della sua testimonianza l’ha colpita e ancora considera importante?

«Avevo 10 anni quando trovai in casa la prima edizione di “Lettera a una professoressa”: già da giovane mi provocava in ciò che mi era più scomodo, è questo era per me commovente, sapeva davvero muovermi il cuore. Capii che non potevo accontentarmi dei miei privilegi, che erano stati soprattutto culturali, venendo da una famiglia colta e aperta al mondo. Don Milani sa invece essere duro come il Vangelo del giovane ricco». 

Come iniziò a concretizzarsi questo suo bisogno di cambiamento?

«Facendo caritativa con CL: andavamo a casa degli immigrati meridionali, case senza pavimento e coi bagni in bugigattoli esterni. Anni dopo conobbi Pietro Ichino (noto giuslavorista, ndr), citato da don Milani come “pierino”, perché i due si conobbero quando Pietro era piccolo. Anche lui mi raccontò come il sacerdote gli cambiò la vita».

“Un’imprenditrice alla scuola di don Milani”: che cos’ha imparato, e che cosa, ancora, impara da lui?

«L’amore per la vita e la valorizzazione di ogni persona. Nel mio caso, soprattutto nelle mie aziende. L’economia, però, si è pesantemente finanziarizzata, e questo ha avuto un impatto su tante scelte delle mie aziende, che a volte ho vissuto con grande angoscia, come una ferita». 

Non è possibile trovare un punto di equilibrio tra persona e finanza? 

«Lo sto cercando in ogni mia scelta. Mi son sempre sentita un genitore nei confronti di tutte le persone che lavorano con me: genitore nei termini di responsabilità nei loro confronti. Ma nei prossimi anni – ne sono convinta, basta leggere le statistiche – l’Italia andrà in crisi, con forti ripercussioni sociali. Il calo demografico è troppo forte, non c’è possibilità di invertire questa tendenza, se non in futuro».

A livello educativo, di trasmissione della fede e dei valori, qualcosa però si può sempre fare. Su questo, cosa può dirci don Milani oggi?

«Don Milani era ed è un profeta e quindi va ascoltato: da giovanissima pensavo fosse troppo “di sinistra”, ma dopo capii che mi sbagliavo. Quando, ad esempio, ai sindacalisti diceva che, una volta conclusa la lotta al fianco dei lavoratori, sarebbe tornato nella sua chiesa, intendeva dire che i valori della fede vanno ben oltre quelli secolari, politici. Dovremmo quindi ripartire da valori forti e chiari, scomodi ma profetici: la Chiesa innanzitutto ha questo compito, questa grande responsabilità educativa».

La Chiesa, però, è sempre più minoranza…

«Non è un problema, anzi può essere positivo: il mondo viene cambiato dalle idee e dai testimoni che le incarnano».

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 24 marzo 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

Vittorio Cini «proteso verso la luce di Dio»: Ferrara e la fede ritrovata

11 Gen

Il conte che si riscoprì cattolico. Imprenditore, politico e mecenate ferrarese, negli anni ’40 ritrovò la sua fede cristiana. Un aspetto della sua vita ancora poco indagato

di Andrea Musacci

Vittorio Cini (1885-1977), politico, imprenditore e mecenate nasce proprio in quella che poi diventò Casa Cini in via Boccacanale di Santo Stefano, 24 a Ferrara. La sua, è stata una vita grandiosa e tragica, che ha segnato la storia della nostra città e dell’Italia per buona parte del Novecento. Massone, poi cattolico “rinato”, ministro fascista e poi sostenitore della Resistenza, uomo d’affari e amante del bello, Cini non perse mai il suo profondo legame con la città natale. 

Casa Cini e i dialoghi coi gesuiti

Dopo la seconda guerra mondiale, la deportazione a Dachau e, soprattutto, la morte del figlio Giorgio, fanno maturare in Vittorio Cini una non scontata rinascita del sentimento religioso. Una “nuova conversione” che lo porta ad abbandonare la Massoneria – a cui fu legato per molti anni nella nostra città -, a creare la Fondazione Giorgio Cini nell’isola di San Marco a Venezia e, a Ferrara, nel ‘50 a donare il palazzo di Renata di Francia all’Università e la casa di famiglia di via S. Stefano alla Provincia Romana della Compagnia di Gesù in onore del figlio scomparso. Con una clausola: di farne un centro culturale e di formazione educativa e morale dei giovani.

La donazione della casa paterna («la mia casa», continuò poi a chiamarla) ai Gesuiti avviene per esplicito interessamento dell’Arcivescovo Bovelli. Presenza, quella dei Gesuiti, che si concluderà nel 1984 con la donazione dell’immobile, degli arredi e della biblioteca all’Opera Archidiocesana della Preservazione della Fede e della Religione, che ancora l’amministra. Due lettere presenti nell’Archivio storico della nostra Diocesi attestano del rapporto tra Cini e l’allora Vescovo Bovelli. Quest’ultimo il 13 febbraio 1950 gli scrive a tal proposito: «Ferrara ha bisogno, estremo bisogno di queste opere: la Provvidenza si è servita di Lei ed io ne gioisco e ringrazio dal profondo del cuore. Però la gioia del dono è diminuita al pensiero che ella voglia rompere completamente i legami con la città natale: ciò sarebbe per me veramente doloroso. Penso però che se anche lontano colla persona, ella sarà con noi col cuore. Vicino all’amato figliuolo che ancora ricordiamo e raccomandiamo al Signore». Il 29 dicembre dello stesso anno, il conte scrive al Vescovo: «Sono sicuro che l’opera affidata al fervido zelo dei benemeriti Padri della Compagnia di Gesù darà frutti sempre più fecondi di bene, tali da confortare la Ecc. Vostra nel Suo apostolato».

Ma il legame di Cini con Ferrara non si interrompe con la donazione della casa di famiglia. Racconta Alessandro Meccoli su “Ferrara. Voci di una città” (n. 7/1997): «Vi si recava, puntualissimo com’era in tutto, ogni primo venerdì del mese. Qualche volta l’ho accompagnato: si andava al cimitero, dove oggi anch’egli riposa accanto ai suoi cari; poi a gustare la salama da sugo dal notaio Brighenti; quindi nella sua casa natia, da lui donata alla Curia e trasformata in centro culturale». Il gesuita p. Vincenzo D’Ascenzi scrive sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 25 novembre 1978: «veniva a Ferrara puntualmente ogni mese, ogni primo del mese, con qualunque stagione entrava di mattina presto in Certosa, ascoltava la Messa in suffragio dei suoi cari Giorgio padre, Giorgio figlio e Lyda Borrelli consorte, la nota attrice (…). In questa occasione veniva spessissimo a rivedere la sua casa paterna che amava come la “sua casa”, ne conosceva la storia mattone per mattone. Si intratteneva volentieri in conversazione con i padri di Casa Cini scherzando amabilmente e argutamente». Sembra che dormisse nel suo vecchio “appartamento”, dove ora ha sede la Cattolica assicurazioni. Ma in questa testimonianza, più unica che rara, emerge la fede del conte Cini: «Mai che avesse parlato di problemi economici e amministrativi», continua D’Ascenzi; «amava parlare piuttosto dell’uomo, del futuro del mondo, della necessità di portare gli uomini ad incontrarsi al livello mondiale; della funzione della cultura per l’unificazione e la pace dei popoli. Ma spesso parlava di temi religiosi: della fede, dei valori, e della sua fede inquieta». 

Molto più riservato, su questo tema, era con altre persone, come ci testimonia Maurizio Villani, storico frequentatore di Casa Cini, dove ha anche insegnato nell’Istituto di Scienze Religiose: «da giovane lo conobbi personalmente ed ebbi con lui diversi incontri, tutti di argomento storico, economico o artistico. Sulla sua “conversione” ha sempre mantenuto assoluto riserbo». Coi padri di Casa Cini, invece, l’approccio era diverso: «Specialmente quando ci si trovava in conversazione intima era capace di affrontare il discorso della fede in termini del tutto personali e inediti», scrive ancora p. D’Ascenzi nel sopracitato articolo. «Cini, dietro quel sorriso aperto e accogliente, era un uomo inquieto e l’inquietudine più profonda era forse quella della fede; voleva credere come un bisogno istintivo che non riusciva a giustificare razionalmente. Un animo profondamente pascaliano; a Pascal infatti si riferiva spessissimo. Era anche innamorato di Teilhard de Chardin (…). Non potrò dimenticare l’intensità e la profondità di questo animo – prosegue – capace di entrare spietatamente entro sé stesso giudicandosi con estrema severità; capace di guardare il mondo e la storia (…) oltre la contingenza; capace soprattutto di guardare oltre la storia, verso la Trascendenza, proteso chiaramente verso la luce di Dio». 

Prosegue poi D’Ascenzi: «Si occupava del resto, del mondo finanziario, sì; ma quel mondo era fuori della dimensione del suo spirito; anzi oso dire che guardava quel mondo con un certo occhio di disgusto e di disprezzo, come la zavorra che ci portiamo dietro nella vita come terreno del peccato». 

Donazioni per la nostra Diocesi

Il sostegno economico di Cini per la Chiesa di Ferrara non si concluse con la donazione della Casa di S. Stefano. Lo attestano alcune lettere che abbiamo ritrovato nel nostro Archivio diocesano. Partiamo dagli aiuti economici che Cini fece nel 1942 a favore degli Olivetani di San Giorgio e delle Benedettine di Sant’Antonio in Polesine. In una missiva a Cini del 25 agosto 1942, l’allora Vescovo  Bovelli scriveva: «Le buone Monache Benedettine, come pure i Monaci Olivetani a S. Giorgio mi hanno messo al corrente dei progetti magnanimi che V. E. ha ideato per venire incontro alla indigenza di quei poveri locali da essi abitati. Sento quindi il dovere di rivolgermi (…) a V. E. e dopo aver ringraziato Iddio che ha saputo ispirare a sì munifico benefattore tale urgente indispensabile necessità, ringraziarvi dal più profondo del cuore».

Undici anni dopo, sarà una delle figlie di Cini, Yana, a offrire donazioni alla nostra Chiesa locale. Da tramite farà il padre, che il 12 febbraio 1953 scrive a mons. Bovelli: «in occasione delle sue nozze mia figlia Yana desidera fare alcune elargizioni benefiche: e non può, naturalmente, dimenticare Ferrara. Le invia, mio tramite, l’accluso assegno di E. 2.000.000, che La prega distribuire come Ella meglio crederà, avendo presenti anche la Parrocchia di S. Stefano e la “Casa Giorgio Cini”».

Una settimana dopo, il Vescovo gli risponde che oltre a S. Stefano e a Casa Cini («una fucina di bene intelligente e fattiva e sta imponendosi alla Città»), hanno beneficiato dell’elargizione di Yana le Benedettine, il «povero» Monastero delle Carmelitane di Borgo Vado, «le quali versano in miseria e sono tutte malate», il Seminario «ed alcuni chierici poveri che sono a carico della Diocesi». Le Monache di entrambi gli ordini scriveranno al Conte per ringraziarlo dell’aiuto.

Progetto mancato a San Giorgio?

Un aneddoto molto interessante riguarda anche il Monastero di San Giorgio a Ferrara. In un’intervista al nostro Settimanale del 28 maggio 2021, padre Roberto Nardin, olivetano, ci spiegò perché, probabilmente, il conte alla fine scelse Venezia e non Ferrara per il suo progetto del polo culturale e della Fondazione: «Dalla testimonianza di alcuni monaci che hanno vissuto nel monastero di S. Giorgio di Ferrara durante la seconda guerra mondiale e nell’immediato dopoguerra, si può affermare che Vittorio Cini avesse intenzione di ricostruire completamente il monastero olivetano quasi totalmente distrutto a seguito delle soppressioni di fine ’700, per riportarlo allo stato originario, con l’intento, probabilmente, di costituirvi una fondazione, come poi avvenne a Venezia, dedicandola al figlio di nome Giorgio, prematuramente scomparso in un incidente aereo nel 1949. È doveroso precisare – prosegue – che la testimonianza dei monaci, che io stesso ho sentito, riferiva dell’intenzione del Cini di ricostruire il monastero, non della Fondazione. Tuttavia è molto verosimile che l’intento ultimo fosse proprio la costituzione della Fondazione, perché essa divenne realtà a Venezia dopo pochi anni, nel 1951, e in un monastero ancora dedicato a S. Giorgio, lo stesso nome del figlio, dopo ampi lavori di ristrutturazione. Il progetto che Cini intendeva realizzare con il monastero di S. Giorgio di Ferrara lo possiamo concretamente vedere, quindi, in ciò che è stato realizzato nel monastero di S. Giorgio a Venezia».

Albino Luciani amico fraterno e quel sogno dell’isola

Accennavamo prima al rapporto di Vittorio Cini con Venezia, sua patria d’adozione, e luogo dove si spense nel ‘77.

Per onorare la memoria del figlio Giorgio – morto il 31 agosto 1949 nel rogo del suo aereo all’aeroporto di Cannes, sotto gli occhi della fidanzata Merle Oberon – Vittorio riscatta dal degrado la famosa isola di San Giorgio, dove dà subito inizio a imponenti lavori di restauro del vecchio convento dei Benedettini, riuscendo, inoltre, a rintracciare e recuperare, con una spesa enorme, le antiche biblioteche e rarissimi mobili sparsi in tutta Europa. Qui nasce la Fondazione Giorgio Cini che, come accennato, avrebbe forse dovuto nascere nel Monastero olivetano di S. Giorgio a Ferrara. Così, nel ’57, i Benedettini fanno ritorno a S. Giorgio a Venezia, dopo esservi stati sfrattati da Napoleone. Cini viene, inoltre, nominato Primo Procuratore di S. Marco tra il 1955 e il 1967 (la più prestigiosa carica vitalizia della Repubblica di Venezia, subito dopo il Doge), durante la quale appoggia importanti restauri nella Basilica di S. Marco. In questi anni instaura anche un intenso rapporto con i pontefici Giovanni XXIII e Paolo VI. Cini, inoltre, fu per oltre mezzo secolo parrocchiano della chiesa dei Gesuati alle Zattere.

L’amicizia con Albino Luciani

Albino Luciani, poi divenuto papa Giovanni Paolo I, dal ’69 al ’73 è Patriarca di Venezia. In quanto tale, era membro d’ufficio del Consiglio Generale della Fondazione Cini. Come citato da Stefania Falasca (articolo pubblicato nella rivista “Lettera da San Giorgio”, Fondazione Giorgio Cini, Anno XI, n. 21, settembre 2009 – gennaio 2010), il 27 aprile 1970, partecipando per la prima volta alla riunione del Consiglio Generale, così si espresse: «L’altro giorno il conte Cini ha avuto la bontà di accompagnarmi a visitare il complesso intero di San Giorgio in Isola. Non c’ero mai stato. Ne sono tornato via con un’idea veramente grandiosa di quello che è stato fatto qui». «Le affinità elettive che lo legarono ad essa – scrive Falasca – s’intrecciano indissolubilmente con quelle del suo primo ispiratore, con l’uomo Vittorio Cini, che dei tempi aveva saputo capire, interpretare e far vivere ciò che ha una validità profonda e duratura. Non bisogna dimenticare che negli ultimi anni del patriarcato di Luciani venne sancito, per volere di Cini, di trasmettere al patriarca protempore di Venezia i compiti che egli aveva riservato a sé stesso come fondatore». Inoltre, «il 5 aprile 1971 Albino Luciani, Vittorio Cini e Vittore Branca, ricevuti da Paolo VI, fecero omaggio al Papa del prestigioso volume sui tesori di San Marco, in occasione dei venti anni della Fondazione». 

Il giorno del funerale del conte nel settembre del 1977, Luciani lo ricorda con queste parole: «A me Vittorio Cini guardava più come a un figlio. Mi minacciava, scherzando, col dito, mi rimproverava: “lei non mi chiede mai nulla”; “lei non sa quanto bene le voglia”; “lei lavora troppo”. Devo confessare che mi piaceva riscontrare in lui un caso in cui l’intelligenza e la cultura aiutavano la fede, invece che ostacolarla. Vedere come alla raffinatezza sorridente e garbatamente ironica del gentiluomo, soggiacesse una vera e profonda umiltà. Quando ieri appresi la sua morte mi sono sentito un po’ orfano, non mi vergogno a dirlo. Ed è con cuore di figlio che prego il Signore affinché lo riceva presto nel suo Paradiso». 

E come ricorda p. Vincenzo D’Ascenzi in un articolo sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 25 novembre 1978, «il rito religioso (nel ’78, primo anniversario della morte, ndr) l’avrebbe dovuto celebrare il Card. Patriarca Albino Luciani; ma la sua imprevista elezione al Pontificato lo ha costretto a malincuore a delegare Mons. Loris Capovilla, già Segretario particolare di Papa Roncalli a cui Cini del resto era affezionatissimo». 

Il rapporto con La Pira

Nel libro “Lo specchio del gusto. Vittorio Cini e il collezionismo d’arte antica nel Novecento” (a cura di Luca Massimo Barbero, Marsilio, 2021) si narra anche del particolare incontro di Cini col Servo di Dio Giorgio La Pira, Sindaco di Firenze dal ’51 al ’57 e dal ’61 al ‘65. A metà degli anni ’50, in occasione della crisi delle Officine Galileo di Firenze, la cui proprietà era detenuta dalla SADE, (Società elettrica di cui Cini era presidente), «si intrecciò un rapporto particolare con il sindaco di Firenze, Giorgio La Pira, che coinvolse il comune sentire spirituale delle due personalità individuali e collettive in economia. La Pira, convinto e accorato sostenitore che “una fabbrica è sacra, come è sacra la Cattedrale”, supplicava Cini: “Non licenziare, ne avrai benedizione dal Cielo e dalla terra”; Cini rispondeva fermamente ricordando la distinzione del piano spirituale da quello laico: “Sensibile ai richiami del Vangelo, io credo di essere tra coloro che maggiormente avvertono le esigenze sociali ed umane; ma penso che in una società bene ordinata è funzione dello Stato creare le condizioni necessarie perché il diritto al lavoro possa essere esercitato, o di provvedere alle conseguenze di una eventuale disoccupazione”». Una divergenza che rispecchiava però reciproca stima, «testimoniata anche dagli incontri avuti in occasione dell’avvio e delle prime iniziative della Fondazione Giorgio Cini».

Cini in fuga dai nazifascisti fu accolto a Padova dai francescani?

Una tappa importante della rinascita religiosa del Conte Cini, sulla quale vogliamo soffermarci in conclusione di questa nostra ricerca, è quella che va dal 1943 al 1947 e che riguarda Padova e Monselice.

Da Dachau alla Svizzera

Dopo il discorso del 19 giugno 1943, nel quale Cini esterna l’impossibilità di continuare la guerra con la Germania, seguito dalle proprie dimissioni – richieste il 24 giugno e accettate da Mussolini solo un mese dopo, il giorno prima del Gran Consiglio – Mussolini intende vendicarsi dell’ex Ministro, come avvertimento per gli altri Ministri che avrebbero voluto schierarsi contro il Duce. Lo fa quindi arrestare a Roma, nell’Hotel Excelsior dove il senatore risiede, il 24 settembre dello stesso anno. Cini viene inviato nella prigione del campo di concentramento di Dachau, in Germania, con altri sei italiani. Grazie al figlio Giorgio, dopo sei mesi viene trasferito nella clinica del dottor Bieling, un sanatorio a Friedrichroda, in Turingia. Il figlio gli fa visita, corrompe le guardie tedesche e il medico, e scappa col padre. «Oggi sappiamo che Giorgio dovette corrompere il colonnello delle SS di Roma, Eugen Dollmann, per salvare il padre», scrive Anna Guglielmi Avati, nipote di Vittorio Cini (Dal libro “Vittorio Cini. L’ultimo Doge”, “Il Cigno GG Edizioni”, 2022). Dollman non volle soldi ma chiese i favolosi smeraldi di Lyda Borelli, moglie di Vittorio Cini. Fabrizio Sarazani su “Il Borghese” del 9 ottobre 1977 propone una versione diversa sulle donazioni: «A Kappler regalarono un sarcofago etrusco e questi concesse il “visto” per il viaggio di Giorgio, il quale riuscì a salvare il padre conducendolo in Svizzera. Non era facile, nell’inverno 1943-1944, anche possedendo lingotti d’oro, giade, sarcofaghi etruschi, aver coraggio con tipi come Kappler! Giorgio, partendo, sapeva di poter finire in un forno crematorio».

Vittorio e Giorgio raggiungono quindi l’Italia: dopo un mese di clandestinità (in una casa di cura presso Padova, scrive la Treccani, ma vedremo come forse non è del tutto esatto), nel settembre 1944 vanno in Svizzera per raggiungere il resto della famiglia. Rimangono lì in esilio fino al 3 luglio 1946 (secondo la Treccani, fino al dicembre ’46). Nella cittadina svizzera di Tour-de-Peilz, vicino Vevey, dove vivono, Vittorio Cini – scrive ancora Avati – «incontrò colui che divenne per sempre suo consigliere e confessore, suo amico spirituale: il padre gesuita don Mario Slongo, all’epoca cappellano militare della Svizzera romanda». Durante il soggiorno svizzero, don Slongo celebra sempre la Messa per la famiglia Cini. «La spiritualità del senatore, uomo di mondo, poco religioso, era accresciuta durante la prigionia a Dachau. Qui, un prete cattolico, prigioniero anch’egli, gli aveva regalato un libretto di preghiere e gli distribuiva regolarmente la comunione (con del pane all’interno del quale erano nascoste delle ostie). Tutto questo era stato per Cini di grande conforto. Più tardi, padre Slongo confessò Cini perfino a Roma tutte le volte che questi glielo chiese: del resto, il senatore aveva l’abitudine di chiedergli consiglio per ogni cosa che faceva».

Don Slongo svolge un ruolo importante anche nella vita sentimentale di Cini. Una giovane, Maria Cristina Dal Pozzo D’Annone, conosce il senatore nel 1932 e si infatua di lui, ma solo il 16 febbraio 1967 don Slongo li unisce in matrimonio nella Cappella della Missione cattolica italiana a Muttenz, vicino a Basilea. «Da quel giorno in poi – scrive ancora Avati -, ad ogni anniversario del loro matrimonio, Cini e la nuova moglie si recarono a Muttenz, a casa della sorella di don Mario per pranzare, partecipare alla Messa e ricevere la comunione dalle mani del loro fidato amico».

Ma un mistero, legato al periodo tra il ’44 e il ’46, riguarda il conte Cini e i Frati Minori di Padova.

Cini ospite dei francescani a Padova?

Fra’ Graziano Marostegan, vicentino d’origine, da una decina di anni si trova nella Basilica di San Francesco a Ferrara, guidata dai Frati Minori, proveniente dalla Comunità religiosa di Sanzeno, nella Val di Non. È lui a raccontarci un aneddoto difficilmente verificabile in maniera integrale ma di particolare interesse, riguardante il periodo di clandestinità di Vittorio Cini tra il 1944 e il 1946: «il Conte Cini è stato ospitato clandestinamente al Convento del Santo a Padova, ai tempi guidato dal suo amico, il Padre Provinciale Andrea Eccher. Me lo raccontarono alcuni frati ora deceduti». Il periodo potrebbe essere tra il ’45 e il ’46, ma è forse più probabile nell’estate del ’44 prima della fuga in Svizzera. «In quel periodo – prosegue fra’ Graziano – alcuni giovani frati erano malati di tubercolosi, allora padre Eccher chiese aiuto a Cini, il quale diede loro in comodato d’uso il suo castello di Monte Ricco, vicino Monselice». Un luogo salubre dove poter curare i giovani infermi. Nel corso della Prima guerra mondiale il castello venne requisito per scopi militari dal Regio Esercito, che lo lascerà, completamente devastato, nel 1919. Vittorio Cini, entratone in possesso per asse ereditario (dalla nonna paterna Domenica Giraldi, che sposò il ferrarese Paolo Cini, e che ereditò anche delle cave nel monselicense), lo fa interamente restaurare, divenendo così una delle residenze di famiglia. Lì nascono anche le sue figlie. E Cini vuole che la chiesetta venga dedicata alla memoria di nonna Domenica, che di fatto lo allevò. Come detto, nel ’47 Cini lo dona ai Francescani di Padova, che lo trasformano in una casa di ritiro spirituale, l’eremo di Santa Domenica (in memoria della nonna di Cini), con possibilità di ospitare 60 persone. Nel 1981 passa di proprietà alla Regione Veneto e nel 2003 i frati lo trasformano in comunità terapeutica per il recupero di tossicodipendenti e alcolisti e per l’accoglienza di alcune famiglie in difficoltà. I frati si sono trasferiti nella sede principale della comunità a Monselice (fra’ Graziano è stato l’ultimo a lasciare l’eremo), ma la comunità va avanti sotto altra gestione. 

Abbiamo contattato i frati minori di Padova per cercare ulteriori conferme sul periodo di clandestinità di Cini a Padova ospite degli stessi frati. «Non ho mai trovato conferme di una sua ospitalità qui al Santo in qualche documento scritto», ci spiega padre Alberto Fanton, archivista della Provincia Italiana di Sant’Antonio. «Non nego che sia successo, ma erano sempre atti che “si-facevano-ma-non-si-documentavano”, non si lasciava, cioè, traccia formale in documenti, cronache, atti, verbali di capitoli conventuali. Ed è anche facile capirne il perché…».

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 13 gennaio 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

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Biografia: la carriera, il fascismo, Dachau, la morte del figlio Giorgio

Nato a Ferrara il 20 febbraio 1885, in quella che oggi è Casa Cini, figlio di Giorgio Cini, farmacista ferrarese, e di Eugenia Berti, eredita dalpadre alcune cave di trachite nel Veneto e alcuni terreni nel Ferrarese. 

Studia economia e commercio in Svizzera, e in Italia è il primo a intraprendere importanti opere di bonifica. Compie lavori di canalizzazione e progetta una rete per la navigazione interna della Valle Padana. Trasferitosi a Venezia, dove acquista il palazzo sul Canal Grande a San Vio, intreccia un saldo legame soprattutto con Giuseppe Volpi, sviluppando interessi in imprese elettriche (SADE), del turismo d’élite (CIGA), di costruzioni, comunicazioni e trasporti. 

Il 19 giugno 1918 sposa l’attrice Lyda Borelli (dalla quale avrà quattro figli: Giorgio nato nel 1918, Mynna nel 1920, le gemelle Yana e Ylda nel 1924). Tra le numerose cariche, è stato Presidente dell’ILVA (dal 1921 al 1939), “fiduciario del governo” per il riassetto della struttura agraria del ferrarese (1927), senatore del Regno dal 1934 e, dal 1936, commissario generale dell’Ente esposizione universale di Roma. 

Si dissocia dal regime fascista nel giugno 1943, dopo essere stato per circa quattro mesi Ministro delle comunicazioni, anticipando il pronunciamento del Gran Consiglio del 25 luglio e per questo viene catturato dopo l’8 settembre dai tedeschi e internato nel campo di concentramento di Dachau, da dove viene liberato grazie al figlio. Vittorio si ritrova, quindi, con Volpi in Svizzera e nel loro esilio stringono amicizia con personaggi della futura DC. Vittorio poi sostiene, anche con consistenti contributi finanziari, il movimento della Resistenza. 

Sul suo legame col fascismo, Alessandro Meccoli scrive (su “Ferrara. Voci di una città – n. 7 / 1997”): «Mi narrava (…) di Italo Balbo, che nel 1926 gli aveva portato la tessera del Fascio a casa, per essere sicuro che l’accettasse (attenzione dunque: di chiare origini liberal-giolittiane, Vittorio Cini, al pari del suo fraterno amico e socio Giuseppe Volpi a Venezia, aderì formalmente al fascismo soltanto nel Ventisei, a cose fatte)». 

Il 5 marzo 1946, il Consiglio dei ministri, per impulso di Alcide De Gasperi e di Carlo Sforza, restituisce a Cini la legittimità del titolo di senatore, per aver egli preso «netta posizione contro le direttive del regime» e aver dimostrato «vivo patriottismo e violenta avversione al fascismo e al tedesco invasore».  

Il 31 agosto 1949, a soli 30 anni, il figlio Giorgio muore in un incidente di volo presso Cannes: il padre in sua memoria istituisce il 20 aprile 1951 la Fondazione che ne porta il nome, a Venezia, e Casa Cini a Ferrara. Vittorio Cini muore a Venezia il 18 settembre 1977 ed è sepolto alla Certosa di Ferrara insieme alla moglie Lyda Borelli, deceduta il 2 giugno 1959 a Roma.

A Kiev insieme a Gandhi per progetti di pace

28 Nov

Mao Valpiana è intervenuto il 22 novembre a Casa Cini per raccontare le Carovane della pace

Al centro di Kiev, nel giardino botanico “Oasi della pace” svetta una statua del Mahatma Gandhi. Due mesi fa ai suoi piedi si sono ritrovati i pacifisti ucraini e quelli italiani per la Giornata mondiale della nonviolenza. È, questa, l’immagine simbolo di quello che i Movimenti nonviolenti stanno cercando di costruire al di là degli attori del conflitto russo-ucraino.

Ne ha parlato lo scorso 22 novembre a Casa Cini a Ferrara Mao Valpiana, Presidente del Movimento Nonviolento in Italia, invitato dal Collettivo 25 settembre e dal Movimento Nonviolento ferrarese in collaborazione con la Rete Pace di Ferrara, per l’incontro moderato da Elena Buccoliero (foto).

La tappa di Kiev è stata una delle due tappe della quarta, e finora ultima, Carovana della Pace (organizzate dalla rete “Stop the war now”) nel Paese vittima dell’invasione russa, Carovana partita il 26 settembre e ritornata il 3 ottobre scorso, con sei mezzi tra camper e pulmini dello stesso Movimento Nonviolento e di “Un ponte per”.

All’inizio le prime Carovane della pace avevano soprattutto uno scopo umanitario oltre a quello di portare in salvo persone fragili, donne e bambini in Italia (oltre 1000 grazie alle Carovane stesse). L’ultima “missione”, invece, «ne aveva anche uno più strettamente politico: quello, cioè, di rafforzare relazioni e organizzare progetti comuni assieme agli obiettori russi e a quelli ucraini, facendo anche da cerniera fra i due gruppi», ha spiegato Valpiana. Fra i progetti, quello di aprire un corso di studi sulla pace a Cernivci assieme a 200 universitari ucraini e a RuniPace, la rete italiana degli Atenei per la pace. Dopo Cernivci, la Carovana si è spostata a Kiev in treno, passando per Leopoli. Qui i nostri connazionali hanno incontrato l’Ambasciata italiana, la Nunziatura Apostolica di Kiev e altre realtà associative, fra cui appunto il Movimento degli obiettori. E a proposito di obiettori, Valpiana ha raccontato la storia di Ruslan Kotsaba, giornalista e presidente del Movimento pacifista ucraino, obiettore denunciato per “alto tradimento”, che per questo rischia 15 anni di carcere. Ma la sua lotta, almeno per ora, ha deciso di proseguirla fuori dall’Ucraina. Molto attivi, seppur minoritari, anche gli obiettori russi che aiutano chi vuole rinunciare alle armi a non cadere nelle trappole o a non essere vittime dei soprusi di chi dovrebbe garantire il minimo diritto all’obiezione di coscienza. E da Ghandi, dal quale è partito, Valpiana è arrivato al maestro italiano della nonviolenza, Aldo Capitini, la cui “Teoria della nonviolenza” è stata tradotta e distribuita in Ucraina proprio grazie al Movimento Nonviolento italiano.

Il Vescovo: legame fra guerra e migrazioni

«Costruire relazioni di pace, porre al centro il dialogo: questo è il tema centrale. Da questo è partito il nostro Arcivescovo nel suo intervento, nel quale ha anche ricordato, nei suoi viaggi, in passato, in Ucraina, «quei 20enni arruolati che andavano a morire nel Donbass, alcuni anche il primo giorno sul fronte».

Mons. Perego ha affrontato il tema della protezione umanitaria per chi fugge dalla guerra, dalla miseria, dalla non vivibilità del proprio ambiente. Protezione, ha denunciato, «spesso non utilizzata, nonostante i 34 conflitti nel mondo ufficialmente riconosciuti, altrettanti non riconosciuti, e i 50 milioni di migranti nel mondo nel 2021 per crisi ambientali». Anche riguardo ai rifugiati ucraini in questi primi 9 mesi di conflitto (1600 solo a Ferrara e provincia), mons. Perego ha fatto notare come l’accoglienza sia stata resa possibile «grazie alle Caritas, alle parrocchie, all’associazionismo, alle famiglie, ma non grazie allo Stato e ai Comuni, che non hanno messo a disposizione nemmeno un appartamento». Un tema importante, che intreccia guerra, migrazioni e accoglienza, mostrando così ancora una volta, come la pace si costruisca sempre dal basso, sempre negli intrecci quotidiani, ogni volta dai gesti concreti intessuti nel dialogo e nell’ospitalità.

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 2 dicembre 2022

La Voce di Ferrara-Comacchio

(Foto Pino Cosentino)

Un pezzo di storia italiana: Paparella ricordato a Ferrara

10 Ott
Un momento dell’incontro a Casa Cini

L’8 ottobre a Casa Cini la presentazione della nuova edizione del libro “Un cristiano senza aggettivi” dedicato al dirigente dell’AC. Una vita appassionata ripercorsa tra storia collettiva e personale

L’8 ottobre il salone di Casa Cini a Ferrara ha ospitato la presentazione del libro “Bruno Paparella. Un cristiano senza aggettivi”, appena edito dalla nostra Diocesi (Ufficio comunicazioni sociali – Ucs) nella collana “Con occhi nuovi – Profili”. Lo stesso Ucs ha realizzato i quattro pannelli esposti durante l’incontro, al quale hanno partecipato una 60ina di persone. Libro e incontro sono stati resi possibili grazie all’iniziativa e all’organizzazione di Francesco Paparella, nipote di Bruno.

Bruno Paparella (Ferrara, 14 settembre 1922 – Roma, 29 ottobre 1977) è stato Segretario Generale dell’Azione Cattolica. Fu anche partigiano nella 33ª brigata Ferrara, presidente dell’AC di Ferrara e dei Comitati Civici ferraresi nelle elezioni del 1948, vice Segretario generale dell’AC dal 1948 al 1952 e responsabile della formazione permanente dell’Università Cattolica del Sacro Cuore.

Giorgio Vecchio (già Ordinario di Storia Contemporanea all’Università di Parma) ha ripercorso la biografia di Paparella, sottolineando ad esempio, nella sua giovinezza, la forte partecipazione alla vita parrocchiale, che significava «forte dimensione popolare, nonostante l’ambiente benestante dal quale Paparella proveniva».

Paolo Trionfini (docente di Storia Contemporanea all’Università di Parma, Direttore ISACEM – Istituto per la storia dell’Azione Cattolica) si è invece soffermato in particolare sul periodo romano di Paparella.

A seguire, vi sono state diverse testimonianze: Corrado Truffelli, ex politico DC parmense (e padre di Matteo, ex Presidente nazionale AC) ha ricordato il suo «senso dell’accoglienza» e la sua pazienza. Letizia Fallani (figlia di Giovanni, caro amico di Paparella negli anni romani, ex Direttore del Sir e capo ufficio stampa dell’AC) ha ricordato «l’allegria e la voce gentile» di Paparella durante le cene tra le due famiglie. «Verità e autenticità erano le due parole che contraddistinguevano mio padre e Bruno», ha aggiunto. Gianfranco Maggi, albese, successore – dal ’72 al ’74 – di Paparella come Segretario generale dell’AC italiana, ha ripercorso il filo di continuità presente in Paparella, dall’immediato dopoguerra al nuovo Statuto dell’AC alla fine degli anni ’60. Infine, hanno portato una loro breve testimonianza anche Maria Bellucci (figlia di Vittorio, dirigente dell’AC) e  Chiara Ferraresi (ex Presidente dell’AC diocesana e figlia di Pino Ferraresi, che ricoprì lo stesso ruolo dall’83 all’89). Durante le testimonianze, sono state proiettate alcune foto e brevi frammenti video di Paparella, a cura di Carlo Magri.

L’incontro – introdotto e moderato da Riccardo Modestino – si è concluso con le considerazioni finali di mons. Gian Carlo Perego. «Paparella, come tanti altri – ha riflettuto -, ha trovato nell’AC un luogo decisivo di formazione e di azione. In un certo senso, è stato anche erede della testimonianza di Giovanni Grosoli, della sua attenzione per il mondo economico e la stampa». «Laicità e missionarietà», per mons. Perego, hanno sempre contraddistinto il suo impegno nella Chiesa e nella società, senza dimenticare il suo attivismo antifascista. A tal proposito, il Vescovo ha annunciato come si stia lavorando per presentare l’allora Vescovo di Ferrara mons. Ruggero Bovelli come “Giusto fra le Nazioni” per la sua attività a favore di tanti ebrei. 

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 14 ottobre 2022

La Voce di Ferrara-Comacchio

Solo la Chiesa salva dai mali moderni: i taccuini di Bruno Paparella

3 Ott

Il libro sul dirigente di Azione Cattolica: incontro l’8 ottobre a Casa Cini

di Andrea Musacci

La lucidità di un uomo capace di cogliere anche l’essenza negativa della modernità ma senza tentazioni di fuga per rifugiarsi in facili spiritualismi.

Leggendo gli appunti dai taccuini di Bruno Paparella emerge, tra l’altro, questo aspetto di un intellettuale cattolico coraggioso nel dire, e cercare sempre, la verità. Appunti che sono contenuti nel libro “Un cristiano senza aggettivi. Bruno Paparella, testimonianze di amici” appena edito dalla nostra Arcidiocesi (Ufficio Comunicazioni sociali) nella collana “Con occhi nuovi – Profili”.

Tanto abbiamo scritto sulla “Voce” a proposito dell’intensa e appassionata vita di Paparella, classe 1922, giovane educatore dell’Azione Cattolica nella parrocchia ferrarese di San Paolo, poi antifascista e partigiano, quindi dirigente dell’Azione Cattolica, prima diocesana poi nazionale, fino alla morte che lo ha colto nel ’77.

Sulla modernità

Una personalità la cui unicità emerge in maniera ancora più dirompente proprio nei suoi scritti più privati, nei quali  è chiaro lo sguardo di un uomo che ha attraversato il cuore – turbolento e affascinante – del Novecento. Dell’Occidente che si avvia verso il benessere economico, Paparella è capace di cogliere sottotraccia gli aspetti più degradanti. «Le civiltà degne di questo nome – scriveva il 6 novembre 1963 -, assecondando la natura, avevano (…) reso pregevole e gradita anche la vecchiaia dell’uomo che l’inciviltà moderna – tesa solo alla giovinezza ed al successo – considera il male peggiore». Quel mito della giovinezza è l’illusione di una visione del reale ristretta, schiacciata sul presente, senza ampiezza né profondità. «Per raggelare di colpo l’entusiasmo della gente per un’idea, una moda od una qualsiasi opera od attività, basta dire: “È superata!” (…)», scrive nel dicembre ’76. «Il modo di ragionare contemporaneo ha, infatti, sostituito le categorie “bene o male”, “giusto o ingiusto” ecc., con “nuovo o vecchio”, “moderno o antico”, ecc.». Il nuovismo, dunque, regna. Il passato va abolito, anche quello recente perde subito di senso spazzato via dal continuo bisogno di stimoli sempre differenti. 

Paparella temeva che questo spezzarsi del legame con le proprie radici potesse avvenire anche per l’AC e la Chiesa. «La separazione (di un popolo, di un’associazione) dalla propria storia, con la recisione di quel legame vivente con l’opera di ieri che sola può dar senso all’opera di oggi e indirizzare un avvenire che abbia significato, porta a conseguenze gravissime», scrive nell’agosto ‘74. «Un paese idealmente separato dal proprio passato, è infatti, un paese in crisi di identità e dunque potenzialmente disponibile, senza valori».

È un Paese che subisce quel processo che non va «verso la pienezza, ma verso il nichilismo», come scriveva Augusto Del Noce (L’idea di modernità, 1982). Nichilismo logica conseguenza di quel razionalismo assoluto che nega la possibilità del soprannaturale e quindi di verità sovrastoriche. 

«Quanto “terrenismo” – scrive nel febbraio ’65 Paparella – c’è anche oggi negli ideali messianici di tanti “innovatori” del mondo». E riferito all’ACI, dieci anni dopo rifletterà: da un apostolato universale «che aveva come radici e fine il piano di Dio per la salvezza di tutti gli uomini, si è via via passati a problemi sempre più interni, prima della Chiesa ed infine, quasi esclusivamente della stessa associazione». Una regressione dalla quale metterà in guardia fino all’ultimo, come anche ammonirà riguardo al rischio di riduzionismo sociologico ed economicistico della fede cristiana (si pensi a ciò che oggi Papa Francesco dice sul rischio che la Chiesa si trasformi in una ong).

Tutto ciò ha ricadute gravi sullo sguardo della Chiesa sulle persone: ciò che l’ateismo spaccia per libertà e per umanesimo, in realtà è una mortificazione dell’uomo. «L’uomo non vive di solo pane – scrive nel febbraio ’65 – e (…) dando oggi ai poveri la loro bistecca, ma non curandoci dei loro godimenti spirituali ed intellettuali, noi li consideriamo “bestie” oggi, o siamo diventati noi stessi più “bestie” di ieri». 

Spesso ricorre anche l’associazione tra relativismo e solitudine. Siamo nel ’69, la tensione tra comunità e individuo si fa sempre più forte. Paparella scrive: «Fin tanto che c’è una Chiesa, od un partito, o una nazione, che dicono che questo è bene e questo è male, che dicono che il male va combattuto (…), l’uomo comune si sente confortato – unito ad una comunità che soffre con lui e che resiste con lui (…). In questa nostra Italia e persino nella nostra Chiesa (…) – scrive sempre nel ’69 – male e bene, giusto e ingiusto, vero e falso sono la stessa cosa. E l’uomo comune rimane veramente solo (…), senza nessuno che gli dia più speranza». Parole dure, certo, ma di un figlio della Chiesa che la ama e che non dimenticherà mai la sua missione di salvezza per ogni donna e ogni uomo.

«Le sole parole che ci possono salvare»

Nell’ottobre del ’65 scrive: «Pare impossibile (…) che nel nostro mondo (e nella nostra vita quotidiana) ci sia d’ora in poi – e per sempre in questa vita – un’assenza, un buco vuoto che nessuno al mondo può più riempire. Lo “spirito” di una persona è veramente qualcosa di unico e di insostituibile e non si può – in questi casi – non pensare ad un altro mondo, dove tutte queste lacune drammatiche possano colmarsi e ci si possa sentire nuovamente “completi” (Ecco, ora ci siamo tutti, ora possiamo davvero cominciare a giocare, spensieratamente)». Dolci parole di fede che seguono, sempre, a parole di denuncia. «È strano come questa nostra civiltà impazzita ci spinga ogni giorno – dicendo di voler farci più felici – verso l’infelicità», scrive nell’aprile ‘66. «La Rivelazione dicendoci di amare gli altri, di dimenticare noi stessi (…) ci dà la ricetta della nostra felicità (…). E lo strano è che nessuno sembra accorgersene, nessuno pensa a dirlo, e quelli stessi che dovrebbero dirlo per “missione”, temono di apparire ridicoli o superati se annunciano le sole parole che ci possono salvare».

Commovente è la visione che scrive il 3 ottobre ’64, per dare l’immagine di ciò che, anche nella società moderna, possa e debba rappresentare la Chiesa: «Questa sera, a Ferrara, nel buio umido delle strade che la circondano, la chiesa di S. Girolamo sembrava un porto caldo di luce e consolazione, illuminata ed addobbata per la festa di S. Teresa del Bambino Gesù (…). E pensavo che una Chiesa così bella, calda, consolatrice, unico punto di riferimento e di appoggio nel buio nel mondo, bisognava pur guardarla».

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 7 ottobre 2022

Gianni Cerioli, la sua scomparsa lascia un grande vuoto nella cultura ferrarese

25 Mag

cerioli 3La notte tra il 22 e 23 maggio scorsi è deceduto a 77 anni l’ex preside della De Pisis, critico e curatore d’arte instancabile. Lo scorso autunno la collaborazione con la nostra Arcidiocesi per la III edizione della Biennale “don Patruno” per giovani artisti

di Andrea Musacci

La notizia della sua scomparsa ha lasciato allibiti e costernati amici, colleghi ed ex allievi. In poche settimane, dopo Renzo Melotti, se ne va un altro grande del mondo artistico ferrarese: Gianni Cerioli, 77 anni, è venuto a mancare per un infarto nella sua abitazione di Coronella la notte tra il 22 e il 23 maggio scorso. Curatore e critico d’arte, autore, indimenticato preside della scuola media “De Pisis” di viale Krasnodar, lascia la moglie Antonia e il figlio Tito Manlio. Tra i tantissimi incarichi, tra le molteplici collaborazioni in ambito artistico-culturale, alcune delle quali portava ancora avanti, ricordiamo quelle nell’Unicef provinciale, con la Fondazione Caricento, di cui era membro nel Comitato di Indirizzo, e per cui coordinava il Premio letterario riservato proprio all’infanzia. Ma collaborava anche con il Vergani, l’Istituto di Storia Contemporanea, il Museo Magi 900 di Pieve di Cento, con varie gallerie artistiche cittadine – fra cui il Carbone e, fino alla chiusura, Cloister -, oppure Al Tréb dal tridèl, solo per citarne alcuni. Lo scorso ottobre Cerioli aveva curato l’esposizione della III edizione della Biennale per giovani artisti dedicata a don Franco Patruno, ospitata dall’Istituto di Cultura “Casa G. Cini” di Ferrara.

cerioli artisti 2La mostra, inaugurata il 10 ottobre ed esposta fino al 25 dello stesso mese, è stata sostenuta dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Cento, in collaborazione con il Comune di Cento e con il patrocinio della nostra Arcidiocesi. Mostra che poi, da metà dicembre a metà gennaio scorso, è stata ospitata al Magi 900. Ricordiamo alcune delle parole che Cerioli pronunciò durante il vernissage della mostra: “sono contento di essere riuscito a far tornare don Franco qui a Casa Cini. Questa Biennale è stata pensata da anni per essere ospitata in questo luogo, che sta tornando sempre più ad accogliere attività culturali e artistiche”. Grande è stata la passione che aveva messo anche in questo progetto: il suo pensiero era costantemente rivolto ai giovani artisti, nella volontà di farli emergere. E sempre vivo era il suo ricordo dell’amico e collega don Patruno. Forte era il suo desiderio di portare, anche quest’anno, la Biennale a Casa Cini e di organizzare insieme altre proposte in questo luogo da lui amato. Non ne ha avuto il tempo.

Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 29 maggio 2020. Leggi e scarica gratuitamente l’intera edizione su http://www.lavocediferrara.it 

Quanto conterà la famiglia nelle politiche regionali? Un dibattito

27 Gen

Dibattito fra candidati il 13 gennaio a Casa Cini organizzato dal Forum Famiglie

e-r1Qual è la seconda causa di povertà nel nostro Paese? La nascita di un figlio. Quella che può sembrare una battuta infelice, è invece una triste realtà che ormai da troppi anni viene discussa – neanche eccessivamente -, citata all’occorrenza (spesso in modo strumentale), ma che poi, nei fatti, continua ad essere una questione seria, anzi sempre più grave. Siamo dunque in una fase storica in cui nascono sempre meno bambini (ma il problema della natalità, forse, non è solo legato a fattori economici ma anche culturali), e le sempre meno coppie o famiglie che ne hanno, non sono molto sostenute. Quest’analisi che può sembrare impietosa è invece al centro dell’attenzione da quasi 30 anni del Forum Nazionale delle Associazioni familiari, la cui propaggine regionale ha promosso un Manifesto con oltre trenta proposte divise in 7 macro-temi e invitato i candidati alle prossime elezioni regionali del 26 gennaio a discuterne. Il Forum di Ferrara – composto da ACLI, Agesci, Alleanza Cattolica, Associazione Medici Cattolici Italiani, Azione Cattolica, Associazione Famiglie Numerose, Famiglie per l’accoglienza, Comitato “Card. Carlo Caffarra”, Ass. Comunità Papa Giovanni XXIII, SAV, Scienza&Vita – ha organizzato per il 13 gennaio scorso una tavola rotonda nel salone di Casa Cini a Ferrara, alla quale hanno partecipato quattro rappresentanti di altrettante liste o coalizioni (sulle sette totali, quelle che hanno risposto all’invito): Dario Maresca (coalizione per Stefano Bonaccini), Mauro Malaguti (coalizione per Lucia Borgonzoni), Donatella Pasqualini (Movimento 5 stelle), Simone Berti (Movimento 3 V). All’inizio dell’incontro, presentato e moderato da Alberto Lazzarini e che ha visto la partecipazione di una cinquantina di presenti, è intervenuto Alfredo Caltabiano, presidente del Forum Regionale: “il Forum è laico ma di ispirazione cattolica – ha spiegato -, ed è diviso in 6 Forum provinciali. Con chi vincerà le elezioni vorremmo portare avanti un progetto partendo dai nostri 38 punti elaborati, divisi in 7 macro-temi. Come Forum – ha proseguito -, forte è il nostro richiamo alla Costituzione”, in particolare agli articoli 29, 30 e 31 dedicati alla famiglia, “articoli belli ma disattesi. Basti pensare che in Italia la seconda causa di povertà – dopo la perdita del lavoro di chi deve mantenere i famigliari – è la nascita di un figlio: questo è inaccettabile”. La natalità, per il Forum, rimane comunque il tema cardine, “l’obiettivo principe, la sfida centrale che lanciamo a tutti i candidati: in Italia il numero dei figli desiderati è superiore a quelli che effettivamente le coppie riescono ad avere”. Vi è poi il tema delle famiglie numerose, “che oggi sono la cartina di tornasole negativa della poca attenzione sulla famiglia, ma noi lavoriamo perché in futuro invece diventino uno status”. Una proposta / provocazione (giusta?) che da oltre dieci anni alcune associazioni di famiglie numerose portano avanti è quella di “Un figlio, un voto”, vale a dire il far diventare doppio il voto di un genitore con figli minorenni (che non possono votare). Altri ambiti fondamentali ai quali ha accennato Caltabiano sono quello del lavoro – ad esempio col problema della conciliazione coi tempi della famiglia -, della fiscalità, “con un sistema che non tiene adeguatamente conto dei carichi famigliari”, e delle politiche assistenziali. Fra le altre proposte del Forum vi sono quella di introdurre la “Valutazione d’impatto famigliare” su ogni delibera della Giunta regionale, più contributi per corsi sulla sessualità nelle scuole proposti da associazioni cattoliche, più aiuti alle scuole paritarie, attenzione agli affidi e alle adozioni e un contrasto più deciso a tutte le dipendenze.

Famiglia, un oggetto spesso non ben identificato

Un tema così importante, che riguarda milioni di persone, ed estremamente trasversale, dal momento che richiama altri ambiti della vita sociale. Eppure, troppo spesso poco valorizzato o sottovalutato, e, dispiace dirlo, da alcuni dei candidati invitati a discuterne il 13 gennaio, ignorato nei propri interventi. Quattro sono state le domande poste agli altrettanti candidati, e 3 i minuti di tempo per ognuno per rispondere a ogni singolo quesito. Risposte che, purtroppo, non sempre sono state precise, divagando spesso, come nel caso in particolare di due degli intervenuti, su polemiche gratuite e riguardanti poco o niente il tema in questione. Donatella Pasqualini (Movimento 5 stelle) ha posto l’accento sull’importanza del ripristino dei quattro punti nascita nell’Appennino, sul potenziamento dei consultori, e su una sanità che sia più pubblica e meno privata. Simone Berti (Movimento 3 V) ha ribadito a più riprese di come “le scuole cattoliche non sono state accoglienti nei confronti delle famiglie che hanno scelto di non vaccinare i propri figli”. Dario Maresca (coalizione Bonaccini) si è soffermato in particolare sul tema della conciliazione dei tempi della famiglia coi tempi di lavoro, e sulla sussidiarietà intesa come “creazione di reti di servizi intorno alle persone e alle famiglie”. Infine, Mauro Malaguti (coalizione Borgonzoni) ha denunciato le presunte dichiarazioni ISEE falsate da parte di famiglie straniere, ha parlato della sussidiarietà come “sempre più importante in futuro, anche perché nella nostra Regione la sanità sta peggiorando”, e sull’Europa di oggi come “fonte di disuguaglianze, anche per le famiglie”. a.m.

Andrea Musacci

Pubblicati su “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 24 gennaio 2020

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Corpi e luoghi della città: interazioni da ridefinire collettivamente

17 Dic

Del ricchissimo programma del VII Convegno Nazionale di Antropologia Applicata, svoltosi a Ferrara dal 12 al 14 dicembre, abbiamo scelto di raccontare alcuni frammenti: quello – a Casa Cini e in Arcivescovado – sulla relazione tra lo sguardo dei migranti e quello degli “indigeni” nella città che condividono, e quello sulle periferie urbane. Con uno spunto interessante sulla Ferrara di oggi, che Scandurra di UniFe spiega a “la Voce”

brini vescovoLe nostre città spesso si trasformano, o vengono vissute come spazi anonimi, freddi, disegnate non sulle persone e i loro bisogni ma seguendo logiche diverse, divenendo così ambienti dove a dominare sono la diffidenza reciproca e l’individualismo. Uno sguardo diverso sulla città è dunque quello che riesce a immaginarla come luogo vivo, non mero spazio utilizzabile, e dunque costruire un futuro differente, fatto anche di incontri, di interazioni tra diversità. Ferrara, dal 12 al 14 dicembre, ha ospitato per la prima volta il VII Convegno Nazionale di Antropologia Applicata, organizzato dalla Società Italiana di Antropologia Applicata (SIAA), con l’Università degli Studi di Ferrara e l’Associazione Nazionale Professionale Italiana di Antropologia (ANPIA), e il patrocinio del Comune. Un’occasione per uscire dall’autoreferenzialità accademica e spendere le competenze acquisite in ambiti specifici di lavoro (accoglienza, scuola, socio-sanitario e altri). Anche l’Istituto “Casa Cini” ha ospitato alcuni incontri, in particolare il 12 quello dal titolo “Luoghi comuni. Uno sguardo sulla città”, legato alle quattro esposizioni fotografiche – sul tema dell’accoglienza dei migranti – che hanno “invaso” i vari ambienti della sede di via Boccacanale: “Luoghi Comuni” (esposta anche al festival di “Internazionale”), con foto delle attività per l’integrazione realizzate dalla coop. CIDAS nell’ambito dei progetti SPRAR/SIPROIMI (per titolari di protezione Internazionale e per i Minori stranieri non accompagnati) per persone vulnerabili a Ferrara e a Bologna; “A casa loro. Ri-tratti di famiglia”, con foto di Michele Lapini delle famiglie che accolgono i rifugiati nelle loro case, nell’ambito del progetto Vesta; “Futuri Prossimi” (esposta anche al festival di “Riaperture”) che racconta l’idea di passato, presente e futuro delle ragazze e dei ragazzi, tra cui richiedenti asilo e rifugiati, che hanno partecipato al laboratorio organizzato da “Riaperture”, curato da Giacomo Brini; infine, “Bologna d’aMer”, collettiva su Bologna realizzata attraverso gli sguardi di chi giunge da lontano. Maria Luisa Parisi (CIDAS) e Brini hanno illustrato le mostre allo stesso Vescovo mons. Gian Carlo Perego. “E’ un esempio positivo di coesione tra le persone”, ha spiegato Brini, spiegando come “centrale sia il tema del futuro. E’ stato, quello per ‘Riaperture’, un laboratorio umanamente molto importante”. “Il nostro intento – hanno spiegato i rappresentanti di CIDAS – era di incrociare lo sguardo dei migranti col nostro sguardo, il loro sguardo su loro stessi e su noi, sulla città che insieme viviamo. Un altro aspetto importante – hanno proseguito – è stato l’averli aiutati a riappropiarsi delle parole, attraverso la riscoperta di storie e favole tipiche dei loro Paesi d’origine. L’idea è di ricavarne un libro per bambini. Per noi, città e corpi dei migranti sono strettamente intrecciati, preferiamo per questo parlare di ‘interazione’ più che di ‘integrazione’ ”. Mons. Perego, nell’elogiare questi progetti virtuosi di accoglienza diffusa, ha ricordato invece un esempio negativo di accoglienza, quando nel 2014 150 migranti minori furono radunati, appena sbarcati in Italia, tra l’altro senza mediatori culturali, nella scuola “Verdi” di Augusta a Palermo. “Il differenziare volti e storie – ha spiegato – è un passaggio fondamentale, e progetti come i vostri sono molto importanti per valorizzare le capacità di ogni singola persona migrante: loro, infatti, possono rappresentare un vero e proprio tesoro, che sta già trasformando le nostre città, anche per combattere le frequenti falsificazioni: ogni ragazzo ha una storia, una storia che cambia la città. Nella mia lunga esperienza con i migranti – ha concluso -, ho letto circa 15mila testimonianze, e la parola più ricorrente è ‘futuro’. Il loro e il nostro futuro passano quindi anche dall’incontrarci reciprocamente”. Durante l’iniziativa è intervenuto anche Luca Mariotti di CIDASC per spiegare il progetto “Migrantour” svoltosi di recente a Ferrara. Alcuni incontri del Convegno si sono svolti nella Sala del Sinodo del Palazzo Arcivescovile, fra cui quello sul tema “Rifugiati e richiedenti tra spazi urbani e non urbani: processi, dinamiche e modalità di accoglienza in Italia e nel mondo”, per ragionare sul rapporto tra città, urbano/non urbano e forme di vivere migrante dentro e fuori dal sistema di accoglienza. Maria Carolina Vesce, tra gli altri, ha presentato una ricerca-azione sull’accoglienza di persone transessuali e transgender titolari di protezione internazionale a Bologna. “Nello spazio della casa e nei luoghi della città le persone trans esprimono il loro genere ispirandosi a modelli socio-culturali diversi – ha detto Vesce – che l’antropologia può aiutare a comprendere ed esplorare. La sfida sta nel costruire politiche di intervento orientate ai bisogni, che tengano conto delle diverse esperienze di queste persone, dei loro desideri e delle loro aspirazioni”.

“La Ferrara contemporanea andrebbe raccontata dal punto di vista antropologico”

Giuseppe Scandurra dell’Università di Ferrara è stato uno dei tre coordinatori del Convegno di Antropologia Applicata svoltosi nella nostra città. “Ferrara – spiega a “la Voce”- ha una lunga tradizione legata alle scienze sociali, ma non è mai stata raccontata, nella sua contemporaneità, dal punto di vista antropologico”. Una mancanza alla quale lo stesso Scandurra, insieme ad altri colleghi, sta già cercando di porre rimedio: “io, ad esempio, sto portando avanti una ricerca sulla Ferrara degli anni ’70-’80 del secolo scorso”. Citiamo alcuni lavori virtuosi svolti sulla Ferrara contemporanea: nel 2017 UniFe, tramite Mimesis, ha edito il volume “Arte contemporanea a Ferrara”, a cura di Ada Patrizia Fiorillo, che, però, ripercorre il Novecento sotto l’ottica artistico-culturale, non etno-antropologica. Alfredo Alietti, sociologo di UniFe, il 12 dicembre scorso, nell’ambito del Convegno, ha anticipato alcune ricerche di un lavoro sul Grattacielo di Ferrara, e la sera stessa Ferrara Off ha ospitato il collettivo Wu Ming 1 per uno spettacolo dedicato al Delta ferrarese. Insomma, qualcosa si muove, senza dimenticare il progetto “Views 2.0. Narrazioni liquide”, la cui seconda edizione è in programma la prossima primavera.

Raccontare le periferie attraverso le voci di chi le vive: il 12 dicembre a Feltrinelli presentato il libro “Quartieri. Un viaggio al centro delle periferie italiane”, tra ricerca etnografica e graphic novel

feltrinelliAmbienti periferici di grandi città, spesso oggetto del racconto mediatico/politico come meri quartieri degradati e abbandonati. Due giovani ricercatori hanno invece deciso di raccontarne cinque (lo Zen di Palermo, San Siro a Milano, Tor Bella Monaca a Roma, Arcella a Padova e Bolognina a Bologna) incontrando direttamente chi ci abita, cercando di cogliere la loro relazione con gli spazi urbani che vivono. Da questo è nato il volume “Quartieri. Un viaggio al centro delle periferie italiane”, presentato il 12 dicembre in occasione del Convegno di Antropologia Applicata nella Libreria Feltrinelli di via Garibaldi a Ferrara. I curatori del volume corale, e autori di uno dei cinque racconti, Adriano Cancellieri (sociologo urbano all’Università IUAV di Venezia) e Giada Peterle (che insegna Geografia all’Ateneo patavino), ne hanno discusso con Roberto Roda, per tanti anni Responsabile del Centro Etnografico del Comune di Ferrara. Dopo un’approfondita analisi di quest’ultimo su vari aspetti del volume, ad esempio sul rapporto tra ricerca etnografica, fotografia e graphic novel, ha preso la parola Peterle, per raccontare il lavoro svolto insieme a Cancellieri ad Arcella. Il capitolo sul quartiere di Padova è nato unendo ricerca sul campo, interviste, ricerche etnografiche, partecipazione attiva a certe trasformazioni, e il racconto di tutto ciò attraverso il testo (Cancellieri) e il fumetto/graphic novel (Peterle). “Lo stile realistico usato – ha spiegato la ricercatrice – è stata una scelta ben precisa, come anche l’idea di inserirci noi stessi come personaggi nei racconti, la cui voce narrante è proprio quella del quartiere coi suoi abitanti. Abbiamo anche scelto il cammino come metodo, svolgendo molte interviste camminando, potendo così meglio incontrare le persone interessate”. “All’Arcella di Padova, dove io abito da anni e Giada ha abitato per diverso tempo – ha spiegato Cancellieri – abbiamo cercato di andare oltre due raffigurazioni speculari ma entrambe errate: quella che lo racconta come un quartiere solo degradato, e quello invece che lo presenta come sempre ricco ed effervescente di iniziative”. Un lavoro lodevole, che sarebbe importante svolgere anche in determinate zone della città di Ferrara.

Pubblicati su “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 20 dicembre 2019

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