Tag Archives: Scuola teologia Ferrara

Dire Dio oggi: due incontri a Ferrara con Jean Paul Hernandez e Adrien Candiard

20 Apr

Articoli di Andrea Musacci

Le nostre chiese sono luogo dell’annuncio: lo sappiamo ancora?

Jean Paul Hernandez: «porta del cielo per chi cerca Dio»

Nell’epoca dell’homo turisticus, le nostre chiese possono essere non meri spazi di fruizione ma luoghi di evangelizzazione? È la domanda che si pone da una vita Jean Paul Hernandez, gesuita classe ’68, ex docente di teologia alla Pontificia Università Gregoriana, docente alla Facoltà Teologica di Napoli e volto noto di TV2000 grazie alla trasmissione “Sulla strada“, oltre che fondatore di “Pietre Vive”. Hernandez è intervenuto on line l’11 aprile per la lezione della Scuola diocesana di teologia per laici intitolata “Ridire il kerigma attraverso l’arte”. 

GERUSALEMME TERRENA: IL TEMPIO 

Per il relatore, viviamo un kairos «antico e sempre nuovo»: la stessa prima generazione di cristiani, «usava abbondantemente il Tempio di Gerusalemme, l’architettura sacra, per parlare di Gesù, per il kerigma»: ciò è esplicitato in Giovanni e negli Atti degli apostoli. Ciò avveniva «non strumentalizzando il tempio, ma spiegando il motivo profondo per cui questo esisteva: tutto ciò – pensavano – serve a dire Gesù». C’è dunque «una sorta di connessione, di simbiosi tra kerigma pasquale di Gesù Cristo e il tempio». L’edificio sacro è «aggancio per dire che come questo rimandi ad altro, all’Indicibile, all’Irrapresentabile»: è la differenza tra icona e idolo di cui ha parlato Jean-Luc Marion: «la prima rimanda ad altro, l’idolo invece rimanda solo a sé stesso». 

DIETRO IL TURISTA, IL MENDICANTE

Venendo al presente, Hernandez ha riflettuto su come esista un fenomeno di massa senza precedenti: il boom del turismo in tutta l’Europa, in tutto il mondo: «meno si va in chiesa, più si va nelle chiese…». Il turismo di massa è dominante, «viviamo nell’epoca dell’homo turisticus», dell’uomo che vaga sapendo di tornare a casa, del mordi e fuggi di esperienze in giro per il mondo. E così è per il cibo, per le relazioni, gli affetti, la formazione. Questo modo turistico di essere, per il relatore, «descrive una nostalgia del cuore che cerca un senso, proprio perché viviamo in una società senza senso condiviso. E questo senso la gente lo cerca in testimonianze forti, in identità forti». Hernandez ha poi citato un sondaggio dell’inglese Telegraph dagli esiti sorprendenti, secondo cui la maggior parte di coloro che hanno risposto, hanno dichiarato di essere tornati o arrivati alla fede cristiana dopo aver visitato una chiesa antica.

«Noi sappiamo accogliere questa sete di Dio? Lo Spirito Santo – ha proseguito – ci manda fiumi di non credenti a casa nostra. Le opere d’arte nelle nostre chiese possono essere molto importanti per spiegare loro la nostra fede». Ma dobbiamo saperlo fare: non serve tanto la descrizione tecnica, ma l’opera «dev’essere finalizzata al kerigma, all’annuncio di Dio e della salvezza». 

PORTA DEL CIELO E DEL CUORE

Due episodi dell’Antico Testamento sono essenziali per spiegare la potenza che può avere una chiesa nel convertire i cuori delle persone. Il primo, è il sogno di Giacobbe in Genesi 28, «il primo testo fondamentale per capire l’essenza dell’arte cristiana». Anche oggi «consideriamo le nostre chiese come la pietra di Giacobbe, pietra che unisce cielo e terra. Ogni chiesa – soprattutto l’abside -, è quindi porta del cielo. Cristo è questa pietra, è l’altare, e tutta la chiesa è simbolo del Suo corpo», ha proseguito. L’episodio del roveto ardente (Esodo 3) richiama l’esperienza del fedele nel tempio: in quest’ultimo «ti accade ciò che è accaduto a Mosè: ascoltando la Parola di Dio, scopri te stesso». Nel luogo sacro, quindi, «si riceve la propria identità, si viene educati ad ascoltare dentro di sé, a fare memoria di Dio dentro di sé». Comunicare al turista, al visitatore, al pellegrino, a chiunque entra nelle nostre chiese «le spiegazioni profonde del senso di una chiesa, di un edificio sacro», serve in ultima analisi a questo. «La chiesa è un luogo per incontrare Dio, è un luogo che dice Dio, per ascoltare in ogni suo punto la dichiarazione di amore di Dio per noi: in questo modo – ha detto Hernandez -, scopri che il vero luogo sacro sei tu, che il luogo dove incontrare Dio sei tu, è la tua vita».

GERUSALEMME CELESTE: LE PIETRE

Questo continuo, essenziale rimandare a Dio si esprime anche nel richiamo alla Gerusalemme celeste (Ap 21), le cui fondamenta sono ricche di pietre preziose. Pietra che è anche simbolo del figlio, quindi la «Gerusalemme celeste rappresenta la diversità dentro il genere umano e dentro la Chiesa, e al tempo stesso la comunione tra le persone», tra i figli di Dio. E la preziosità di queste pietre colorate e sfavillanti «dice di quanto ognuno di noi sia ricercato, voluto, amato, proprio come lo è un figlio per il padre». La Gerusalemme celeste, quindi, non ha più un tempio, non ne ha più bisogno perché «non c’è più separazione tra sacro e profano: con l’Incarnazione questa distinzione non ha più senso, il Dio incarnato rende sacro anche il profano». Di conseguenza, anche quest’ultimo «diventa luogo per incontrare Dio». Tutto può dire Dio, richiamare il suo Amore per noi.

***

Solo dalla conversione nasce il Regno di Dio: ci lasciamo amare?

Adrien Candiard: «il peccato è male, la scienza non salva»

C’era molta attesa nelle nostre comunità per l’arrivo a Ferrara – dopo due tappe a Milano – di Adrien Candiard, 42enne domenicano residente da anni a Il Cairo. Nel tardo pomeriggio a Casa Cini, Ferrara, circa 80 persone si sono ritrovate per ascoltarlo, oltre a una 70ina collegate on line. «Sono molto legato a Bologna ma è la prima volta che vengo a Ferrara», ha confessato con sincera emozione per l’aver potuto ammirare, pur di sfuggita, la bellezza della nostra città.

SPERANZA, NON OTTIMISMO

“Qualche parola prima dell’Apocalisse” il titolo scelto per l’incontro (lezione della Scuola diocesana di teologia eccezionalmente aperta a tutti), che richiama il suo libro uscito l’anno scorso in Italia, mentre da poco è nelle librerie la sua ultima fatica, “La grazia è un incontro. Se Dio ama gratis, perché i comandamenti?” (Lev, pp. 109, 13 euro).

E sfidando luoghi comuni purtroppo diffusi anche fra i credenti, per parlare di Apocalisse ha parlato di speranza. Innanzitutto, «per affrontare il tema della speranza – ha detto -, bisogna guardare la realtà così com’è e non rifugiarsi in un mondo spirituale». L’“andrà tutto bene” del Covid, per Candiard, «era ottimismo, non speranza cristiana. La speranza in sé non vale nulla, se non è speranza in Dio».

I motivi per disperare oggi sono tanti: guerre, minaccia nucleare, crisi climatica, secolarizzazione, abusi nella Chiesa, «che in Italia devono ancora emergere nella loro totalità». Queste crisi, ha aggiunto, «ci possono cambiare solo se le affrontiamo nella maniera giusta». Nella Bibbia, e anche in alcuni testi ebraici, esiste il genere apocalittico, da intendersi – ha specificato – «come rivelazione, non come fine del mondo», ad esempio nel libro di Daniele e naturalmente nell’Apocalisse di Giovanni. E negli stessi Vangeli sinottici, in particolare Marco 13: un brano, questo, «da molti cristiani oggi ignorato, considerato strano, disturbante», oppure erroneamente inteso come «un enigma da decifrare». Mc 13 invece «rivela il senso della storia umana». Non dobbiamo, perciò, «usare Dio per spiegare tutto l’inspiegabile del mondo, come spesso fanno i nostri cuori pagani e superstiziosi». Come, dall’altra parte, è altrettanto superstizioso «affidarsi totalmente alla scienza e ignorare il Vangelo», ha incalzato.

IL PECCATO È MALE, LA STORIA NON È PROGRESSO DI BENE

Ciò che Gesù ci ha rivelato e ci rivela è innanzitutto «il vero senso del peccato», che non va inteso, in modo infantile, come meccanismo di trasgressione/punizione ma come spiegazione, semplice ma profonda, che «il male fa male a chi lo compie e agli altri, distrugge sé e gli altri». Nei confronti di Dio, perciò, «non dobbiamo né ribellarci né sottometterci, ma comprendere che Lui ci vuole liberi». Di conseguenza, «la pace del mondo non bisogna innanzitutto affidarla ai diplomatici ma costruirla affrontando il male, il peccato dentro di noi, convertendo prima di tutto i nostri cuori». Il discorso apocalittico, quindi, ci rivela innanzitutto il male. D’altronde, «Gesù non ci ha mai promesso che, nel corso della storia, saremmo andati sempre più verso il bene, anzi diceva “Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada”» (Mt 10, 34). Non ci spiega, dunque, «la storia umana come una crescita progressiva verso il Regno di Dio». Questo serve anche a confutare visioni, di certo mondo cristiano, ottimistiche, dunque in ultima analisi secolari. Gesù nel discorso apocalittico – e non solo – «ci parla del bene e del male, cioè del Regno di Dio e del nostro possibile rifiuto. Siamo pronti ad accettare il Suo amore? Questa la sfida che ci lancia ancora».

LASCIATI AMARE, IMPARA A PERDONARE

È, infatti, più difficile lasciarsi amare, che amare. «Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi» (Gv 15, 12), cioè «Amatevi con l’amore che io vi ho dato», con la Grazia, non tentando di imitarLo come fosse un modello. «Rifiutare il Suo amore – ha spiegato Candiard – è rifiutare il Regno di Dio, è il peccato, ciò che porta al male, alla distruzione anche della nostra stessa vita. La scelta davanti alla quale ci mette Gesù è dunque fra conversione o distruzione». Distruzione di noi stessi oltre che del pianeta, «che non va dominato ma nemmeno divinizzato».

Diverse le domande finali tanto dai presenti in sala quanto da quelli collegati a distanza. Una di queste, ha permesso a Candiard di tornare sul tema del peccato e del male nella chiave del perdono e della riconciliazione: «si perdona solo l’imperdonabile», ha detto. È facile, infatti, perdonare cose piccole, senza peso. Chi, invece, «tollera non perdona davvero e anzi diventa complice del male, anche se l’ha subìto». Si deve sempre partire dal proprio cuore: «riconoscere il male in me stesso mi permette di perdonare il male compiuto dagli altri». Mai dimenticando che siamo stati e siamo sempre perdonati da Dio», e tante volte anche da altre persone. Tutte piccole ma decisive rivelazioni del Regno di Dio.

Pubblicati sulla “Voce” del 19 aprile 2024

La Voce di Ferrara-Comacchio

Apocalisse è rivelazione profonda di Dio sulla nostra vita e sulla storia

12 Apr

“Qualche parola prima dell’Apocalisse”: Lectio Magistralis di padre Adrien Candiard il 12 aprile a Casa Cini, Ferrara. «Rimane un fatto difficilmente contestabile: Gesù ha annunciato il suo ritorno alla fine dei tempi». Ma noi cristiani pieghiamo con  letture secolari questa verità, l’unica che spiega il senso del mondo

di Andrea Musacci

L’Apocalisse è Gesù Cristo, lo svelamento, la rivelazione di ciò che fonda la realtà e di ciò che sono i nostri cuori: luoghi pronti ad accogliere l’Amore di Dio o luoghi di rifiuto dello stesso, quindi di peccato? Adrien Candiard, classe 1982, saggista e padre domenicano, rientra a pieno titolo nel gruppo di quegli scrittori francesi – contemporanei e non, da Peguy ad Hadjadj – che hanno la rara dote di raccontare la fede e di sfidare il moderno laicismo attraverso un linguaggio originale e uno stile provocatorio ma mai fine a sé stesso. “Qualche parola prima dell’apocalisse. Leggere il Vangelo in tempi di crisi” è il titolo del suo ultimo libro (Libreria Editrice Vaticana, 2023) di cui discuterà il 12 aprile alle 18.30 a Casa Cini, Ferrara, in un incontro della Scuola diocesana di teologia per laici eccezionalmente e gratuitamente aperto a chiunque voglia parteciparvi.

Candiard, dopo essersi dedicato alla politica, nel 2006 entra fra i domenicani e oggi risiede al Cairo, dove è membro dell’Institut dominicain d’études orientales (Ideo) e priore del convento del suo ordine. Si occupa di islam e ha scritto diversi saggi di spiritualità.

«Il Vangelo non è un manuale di saggezza che somministra buoni consigli per affrontare le difficoltà: esso svela il Regno di Dio». In questo senso è interamente apocalittico, cioè rivelatore. Da questo ragionamento essenziale prende le mosse Candiard nel suo libro nel quale analizza in particolare il capitolo 13 del Vangelo secondo Marco, uno dei – non pochi – testi apocalittici della Bibbia. Spiega Candiard: «curiosamente, proprio quando dovremmo drizzare le orecchie verso Gesù che parla di guerre, epidemie, carestie e catastrofi naturali, quando abbiamo più che mai bisogno di aiuto e di senso, il più delle volte preferiamo saltare la pagina e andare a cercare nel Vangelo versetti più solari». Ma Cristo o sconvolge la nostra vita o non è. Bisogna quindi «accettare di parlare un po’ della fine del mondo per ritrovare, in questo stesso mondo, un pizzico di speranza».

ABBIAMO RESO INOFFENSIVA L’APOCALISSE DI GESÙ

Nei secoli abbiamo sempre più rimosso l’essenza apocalittica del Vangelo: «Abbiamo elaborato – scrive Candiard -, collettivamente e certo implicitamente, alcune strategie per sottrarci all’imbarazzo, per rendere inoffensivo un discorso evangelico come questo, inoffensivo al punto che non lo vediamo nemmeno più». 

Quello che dice il capitolo 13 di Marco non lo si può né ridurre a un episodio storico preciso (la distruzione del Tempio di Gerusalemme nel 70 d.C.) né spiritualizzare, leggerlo cioè come simbolo di qualcosa che riguarda la mera vita interiore: «È intrigante presentare il cristianesimo come un deismo puramente spirituale, sbarazzato da questo annuncio escatologico che può apparire bizzarro o poco ragionevole ai nostri contemporanei, ma questo comporterebbe il rischio di snaturarlo profondamente. Perché rimane un fatto difficilmente contestabile: Gesù ha annunciato il suo ritorno alla fine dei tempi, e questo ritorno è un evento per la creazione intera». Queste «strategie di neutralizzazione dell’ingombrante discorso apocalittico arrivano in pratica a vanificarsi precisamente quando la realtà ci raggiunge»: minaccia nucleare, cataclismi naturali. Noi, invece, spesso «vorremmo ridurre la fede cristiana a un esercizio di meditazione individuale, a un rivale dei metodi di sviluppo personale o a un complesso di ingiunzioni moralizzatrici sulla sessualità».

MEGLIO DIO O GLI ESPERTI?

Né «lugubri profezie» né riduzione del cristianesimo all’«insignificanza», dunque: «Il rischio che si fa correre alla Parola di Dio quando la si priva di ogni portata reale sulla marcia del mondo è quello dell’insignificanza. La fede cristiana non può essere un lusso per tempi tranquilli, un piccolo, simpatico supplemento d’anima da convocare una volta che le questioni serie siano state risolte, una volta che le minacce siano state neutralizzate grazie all’intervento dei vari esperti – geopolitici, climatologi, epidemiologi, senza trascurare gli editorialisti evidentemente dotati di tutte le competenze. Se la Parola di Dio non ha nulla da dirci nelle situazioni drammatiche quali sono i pericoli che oggi affrontiamo, allora che interesse ha?», ci sfida l’autore.

IL FINE PRIMA DELLA FINE

Il Vangelo, quindi, non è né uno strumento simili-zodiacale né un mero manuale per comprendere con criteri razionali, “mondani”, le crisi del nostro tempo. Nessuno sa quando avverrà la fine dei tempi ma «la fine è già presente come principio che agisce nel cuore della nostra storia, la quale non avanza del tutto alla cieca. La fine è presente lungo tutto il corso della storia come lo scopo verso cui essa tende», il «compimento verso cui tende tutta la storia umana». Apocalisse è, quindi, “svelamento”, “rivelazione” di «questo principio in atto, questa/o fine già all’opera nella storia». Non vi è dunque nessun «rebus da decifrare» su quando finirà il mondo, ma «un senso da accogliere». Si rivelano sbagliate, di conseguenza, le filosofie della storia che, dall’Illuminismo in poi, la leggevano come un progresso, pur discontinuo, «verso il bene, l’abbondanza, verso il trionfo della scienza, verso la società senza classi o l’abolizione del predominio di pochi». Nemmeno Gesù ci promette tempi migliori (v. Mc 13, 9-13): l’annuncio dell’amore di Dio al mondo «agisce come una rivelazione», un’apocalisse, «di ciò che avviene nel cuore di ciascuno»: vogliamo o no accogliere questo Amore? Per questo, «l’evangelizzazione del mondo non è l’espansione del club dei cristiani che va reclutando nuovi membri; è l’annuncio, a tempo opportuno e non opportuno, dell’amore di Dio per il mondo che Gesù Cristo ci ha rivelato».

ACCOGLIERE L’AMORE

Di conseguenza, «la nostra vita spirituale altro non è che l’accoglienza paziente di questo amore che un giorno si autoinvita nella nostra esistenza», mentre la nostra resistenza a questo amore è il peccato. E «più la rivelazione è chiara, meno è possibile rimanere in una confortevole ambiguità»: l’amore, se ricevuto, «fiorisce in gioia e gratitudine»; se rifiutato, diventa «letteralmente insopportabile e si cerca di sbarazzarsene con ogni mezzo». Dall’amore alla croce, appunto.

«I sistemi politici e sociali meglio pensati, i meccanismi internazionali più ingegnosi, le legislazioni più sofisticate» sono importanti ma «impotenti a intercettare il male alla radice, cosa che può fare solo la conversione personale». Conversione che non significa «adottare un’identità cristiana» ma accogliere l’amore di Dio offerto in Gesù.

CRISTO CI LIBERA E SALVA, FUORI DAI NOSTRI COMFORT 

«Salvare e rivelare»: in ciò consiste essenzialmente il Suo agire. Rivelare Dio e il male: «A cosa porta il peccato? Alla morte (…). Lasciando andare il male fino all’estremo della sua logica, Cristo ci mostra dove esso conduce», come ad esempio in Mc 5 nel racconto dell’uomo posseduto dai demoni. Cristo, quindi, «stravolge comfort acquisiti» ma spesso «inquietanti, solitudini infelici che tuttavia non tollerano di essere disturbate da una visita imprevista, rancori talmente strutturati che il perdono lascerebbe un gran vuoto in cuore. Ci sono comfort dall’odore di chiuso insopportabile che preferiamo alle correnti d’aria dello Spirito Santo». In ultima analisi, dunque, il peccato è «un rifiuto di lasciarsi amare che cresce in violenza contro di sé o contro gli altri». Così è oggi, com’è sempre stato e sempre sarà. Lo possiamo vedere ogni giorno nella nostra piccola quotidianità e, su più larga scala, nelle conseguenze della logica della guerra e di un consumo senza freni.

Per Candiard, quindi, «la fine dei tempi» è «in corso d’opera non come evento inquietante di cui paventare l’approssimarsi, ma come realtà presente nella storia fin dal principio (…). Abbiamo bisogno di questo svelamento perché altrimenti, finché la natura del male resterà sconosciuta, si potrà beatamente credere all’efficacia di soluzioni meramente tecniche alle minacce che pesano sulle nostre esistenze». Il male, perciò, va combattuto alla radice, e a partire dalla propria vita. «Dentro di me si sta già combattendo la lotta escatologica» e «vincere, in questa lotta, è innanzitutto accettare che la vittoria è già guadagnata» grazie al sacrificio di amore del Cristo. 

Cristo che, dunque, «ci ricorda con forza come la nostra speranza non si possa limitare alla salvaguardia del mondo quaggiù, fragile e deperibile». Il mondo non va né assolutizzato né rifiutato. Essenziale, invece, è percepire «il silenzio in cui cresce il Regno di Dio, che è ciò che dà al mondo il suo senso». Tutto il resto è moralismo, secolarismo, idolatria.

Pubblicato sulla “Voce” del 12 aprile 2024

La Voce di Ferrara-Comacchio

Memoria e Incontro col Dio vivente: riflessione su Emmaus

25 Mar

Lectio divina su Emmaus il 21 marzo a Casa Cini per la Scuola di teologia per laici. Relatrice, Francesca Pratillo

L’Incontro che cambia la vita, la memoria del Dio vivente che vince sulla disperazione del sepolcro. Lo scorso 21 marzo a Casa Cini si è svolta la nuova lezione della Scuola di teologia per laici, “Una lectio divina su Emmaus” (questo il titolo) tenuta da Francesca Pratillo, biblista della comunità paolina di Arezzo.

Questi i prossimi incontri della Scuola (sempre alle ore 18.30): 11 aprile, “Ridire il kerigma attraverso l’arte”, Jean Paul Hernandez SJ (solo on line); 12 aprile, “Qualche parola prima dell’apocalisse, leggere il Vangelo in tempi di crisi”, Adrien Candiard op;2 maggio, “Prendersi cura dell’altro: l’ospite che non diventa ostaggio”, padre Claudio Monge;9 maggio, “Istituire comunità”, Stefano Rigo; data da destinarsi, “Arte del celebrare. Solo ritualismo?”, don Giacomo Granzotto. In via di definizione anche una data per la presentazione dell’ultimo libro di Timothy Radcliffe, “Il Dio delle domande”.

SE LA SPERANZA TORNA NEL CUORE

Il cammino come luogo centrale, «luogo dell’incontro e dell’annuncio» inEmmaus: da qui è partita Pratillo per la sua riflessione. «Anche noi, quindi, «dobbiamo essere camminanti, pellegrini, con poche sicurezze». E nel brano in questione, a una prima «linea discendente» – il cammino dei discepoli dal Calvario alla parte più bassa della Giudea, «simbolo del punto più basso della loro esperienza» – seguirà una «linea ascendente» – col ritorno pieno di gioia a Gerusalemme. Tra la disperazione e il ritorno alla comunità, c’è l’incontro con Gesù, «la Sua massima vicinanza». 

Tutto il brano di Emmaus – secondo Pratillo – si gioca quindi sulla scelta tra «memoria» e «sepolcro», cioè tra «memoria della Parola del Cristo, Parola vivente», e «ricordo triste, pessimista», sepolcrale.Quest’ultimo è per i discepoli di Emmaus il «simbolo del loro fallimento». Per loro, infatti, il Crocifisso non è Risorto, non credono alle parole delle donne dopo esser state al sepolcro. «Tra loro si scambiano parole, non la Parola»; però sono in cammino. SaràGesù,Parola vivente ad avvicinarsi a loro, a farsi compagno di viaggio, chiedendo – come chiede a ognuno di noi – di «fermarsi, di stare in silenzio, ascoltando anche la propria tristezza». Gesù chiede loro «ospitalità», ci invita ad avere «fede nella Parola», a non perdere, come i due discepoli, la speranza. Ma l’invito – «Resta con noi perché si fa sera e il giorno già volge al declino» – è chiaro, com’è evidente ciò che sentono quando lo riconoscono «nello spezzare il pane». Nel cuore dei discepoli, dunque, è «nata una novità, il gusto per le Sacre Scritture che in Gesù diventano Parola di Dio per svelare il mistero della morte e dell’amore, del dolore e della gioia». Gesù – sono ancora parole della relatrice – «spezza il pane della propria vita, donando amore, spezza la propria vita per ognuno di noi». E Gesù «sparì dalla loro vista», affidando a loro e a ognuno di noi la «responsabilità del Vangelo». Ora i discepoli «hanno ripreso forza, la speranza è tornata nei loro cuori. Possono tornare alla loro comunità perché hanno incontrato Gesù».

Andrea Musacci 

Pubblicato sulla “Voce” del 29 marzo 2024

La Voce di Ferrara-Comacchio

Le donne al sepolcro e l’incontro personale col Risorto: riflessioni

20 Mar

La lezione di Annalisa Guida per la Scuola di teologia per laici diocesana

L’incontro con la Parola è sempre incontro col Risorto. Ce lo ha ricordato lo scorso 14 marzo Annalisa Guida, biblista e Docente incaricata di Esegesi del Nuovo Testamento presso la Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale – Sezione “San Luigi” di Napoli. “«Esse uscirono e fuggirono via dal sepolcro, perché erano piene di spavento e di stupore» (Mc 16, 8)” il titolo del suo intervento (tenutosi solo on line) per l’11^ lezione della Scuola diocesana di teologia per laici. Prossimo appuntamento (sia in presenza sia on line) il 21 marzo con Francesca Pratillo su “Una lectio divina su Emmaus”.

LO SGUARDO E LA SEQUELA

Questo racconto di Marco, secondo Guida, «mette al centro figure fino ad allora marginali: le donne». Donne fin dall’inizio alla sequela di Gesù e «testimoni di eventi importanti»: la sua crocifissione, deposizione e sepoltura, e poi l’annuncio del Risorto. Donne che, lungo il Suo ministero, «Lo servivano nel senso della diaconia: nel Vangelo, la diaconia si riferisce solo alle donne e agli angeli nel deserto. Una presenza, questa delle donne, spesso silenziata nella tradizione della Chiesa». Molte, poi, in Mc 15-16 «le indicazioni di quanto le donne guardino, osservino», ad esempio quando si dice che «videro un giovane, seduto sulla destra, vestito d’una veste bianca» (Mc 16, 5). Qui si richiama anche il giovinetto che subito prima dell’arresto di Gesù era con lui al Getsemani e che quando lo arrestano, fugge via (Mc 14). E anche quel giovinetto aveva una veste bianca: «non si tratta di un angelo e assume una dimensione connotativa molto forte, fuggendo come gli altri discepoli». In Mc 16, invece, il giovinetto «la veste bianca la indossa ed è un’immagine simile a quella del Risorto». Il giovane di Mc 14, quindi, «non riesce a condividere il peso della sindone, del lenzuolo funebre, mentre in Mc 16 condivide la Gloria della Resurrezione». Inoltre, in Mc 16 «l’angelo alle donne annuncia un legame tra ciò che è appena accaduto – l’esistenza terrena di Gesù – e il suo epilogo» – «il crocifisso»: per Marco – ha aggiunto la relatrice, «è nella Croce che si rivela davvero il Figlio di Dio». «Egli vi precede in Galilea. Là lo vedrete, come vi ha detto», dice, poi, l’angelo alle donne: «Cristo, nel suo ministero, le ha sempre precedute. Il Vangelo, quindi, «torna ai luoghi del “primo amore”. È, però, un’esperienza completamente nuova». E poi, l’ultimo versetto, quello centrale (Mc 16, 8). Qui, per Guida, «le donne hanno la percezione di aver vissuto qualcosa al di fuori della loro portata, quindi la loro reazione è assolutamente normale». Non seguono l’indicazione di andare a dire ciò che han visto ai discepoli e Pietro «perché erano impaurite», sono cioè «l’ultima coda di un discepolato che più volte ha avuto dubbi e paure, anche se sicuramente fino ad ora sono state più coraggiose dei discepoli». Ma ora «c’è qualcosa che supera la loro capacità di comprensione: non l’hanno capito prima e non lo capiscono ora. Il sepolcro vuoto dice loro solo assenza. Per capire veramente il Risorto, quindi – è il messaggio per ogni lettore – devo incontrarLo, non basta che me Lo annuncino». Il racconto, quindi, «ci porta oltre l’annuncio: ci invita all’incontro personale col Risorto».

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce” del 22 marzo 2024

La Voce di Ferrara-Comacchio

Spagnoletti: «scommettere sui ragazzi e sulla relazione con loro»

8 Mar

La giudice del tribunale per i minorenni di Roma è intervenuta on line per la Scuola di teologia per laici diocesana

La cronaca nel nostro Paese ci racconta sempre più di casi in cui i giovani sono protagonisti in negativo: baby gang, femminicidi, tragiche challenges. Un punto di vista alternativo sulla questione – oltre la demonizzazione di un’intera generazione e la sua assoluta giustificazione – l’ha portata lo scorso 29 febbraio Maria Teresa Spagnoletti, giudice del tribunale per i minorenni di Roma e Presidente del Collegio dibattimentale del Tribunale per i Minorenni di Roma, oltre che Capo Guida Scout d’Italia e autrice del libro “Il mio territorio finisce qui” (Futura ed.). L’occasione è stata la nona lezione dell’anno in corso della Scuola diocesana di teologia “Laura Vincenzi”.Spagnoletti ha riflettuto – in collegamento on line – su “Esperienze di custodia dell’umano”. Il prossimo incontro della Scuola è in programma giovedì 7 marzo, ore 18.30, con suor Veronica Donatello che rifletterà su “La grazia non conosce barriere architettoniche” (incontro solo on line).

NESSUN GIUDIZIO SULLA PERSONA. E NESSUN BUONISMO

Tante le storie e gli aneddoti raccontati  dalla relatrice, legati ai ragazzi e ragazze che ha incontrato nella sua lunga carriera. «Innanzitutto – ha detto -, come adulti dobbiamo essere percepiti come persone giuste: il complimento migliore ricevuto è stato quello di un ragazzo che era stato arrestato, ai tempi facevo il gip, e lui era contento: “la Spagnoletti è severa ma giusta”, disse. E poi è importante rispettare le regole anche minime, nella vita e creare un’intensa relazione con la ragazza o ragazzo imputato o detenuto: è decisivo – ha proseguito – che percepisca che il giudice è interessato a lui come persona, al di là del dover giudicare il reato commesso. Ogni persona è diversa e diverse sono quindi le motivazioni che stanno dietro a un reato». Dall’altra parte, però, nessuno spazio al buonismo: «con i ragazzi non bisogna sminuire la colpa, ma bilanciare tra loro giustizia e misericordia». Che significa innanzitutto «scommettere su di loro, senza aver fretta e accettando anche i loro fallimenti». A tal proposito, la Messa alla prova – per Spagnoletti – è «sicuramente l’istituto più importante per la riabilitazione di un giovane che ha commesso un reato. Il carcere spesso è necessario ma ad esso devono seguire misure alternative per reinserirlo nella società e perché non commetta più reati. Non bisogna mai buttare la chiave. È facile scommettere solo su chi è un “bravo ragazzo”…». In ogni caso, «prima di valutare un percorso alternativo per il ragazzo, bisogna cercare di conoscerlo: la relazione con lui è fondamentale: prima di giudicarlo, ho sempre cercato di capire cosa pensasse del proprio periodo trascorso in carcere, del proprio futuro, quali riflessioni aveva fatto». D’altra parte – ha aggiunto -, «non bisogna nemmeno avviare percorsi alternativi quando il ragazzo non è pronto a sostenerli: bisogna avere pazienza, non fretta, altrimenti si mette il ragazzo di fronte a impegni troppo gravosi da rispettare e quindi si aumenta il rischio di recidiva». Giustizia e misericordia – verità e carità, potremmo aggiungere -, si diceva prima: parole che richiamano anche l’educazione alle regole:«è importante far capire ai giovani che le regole esistono non per imporle ma perché sono necessarie per la convivenza comune. A volte i genitori non insegnano, o non testimoniano, questo rispetto ai loro figli». I casi di violenza fra i giovani, per Spagnoletti hanno fra le cause anche «la responsabilità degli adulti, spesso incapaci di educare realmente i ragazzi: non insegnano né testimoniano nemmeno il rispetto per l’opinione altrui, non sono in grado di dialogare. Mancano quindi esempi veri di cosa voglia dire una convivenza civile fra le persone, rispettosa degli altri».

Diverse le domande e le riflessioni provenienti tra le persone collegate on line per ascoltare la relazione di Spagnoletti. Un intervento non solo tecnico, ma innanzitutto umano: «nel mio lavoro – ha infatti spiegato -, c’è un forte coinvolgimento emotivo ma ho sempre cercato di tener fuori le mie convinzioni personali nel giudizio sui ragazzi». L’ultima riflessione l’ha dedicata al suo rapporto con la fede e a come questa influisce sulla propria vita: «amare il prossimo è più facile se davvero si ama Dio, e se davvero capiamo qual è il nostro modo di rispondere alla Sua chiamata. Nel mio lavoro, la mia fede, la mia appartenenza alla Chiesa e allo scoutismo hanno giocato un ruolo fondamentale: ho imparato l’importanza da dare al rispetto dell’altro e al non giudicare l’altro, ma solo il suo comportamento».

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce” dell’8 marzo 2024

La Voce di Ferrara-Comacchio

Apocalisse è consolazione (e verità sul male e la sofferenza)

2 Mar

La lezione di don Paolo Bovina sul testo di Giovanni per l’8^ lezione della Scuola di teologia

Nell’immaginario comune, il termine “apocalisse” è sinonimo di distruzione totale. Non è così: deriva, infatti, dal latino apocalypsis e dal greco apokálypsisοcioè “rivelazione, svelamento, manifestazione”. Ce lo ha ricordato il biblista e sacerdote dell’UP Borgovado don Paolo Bovina in occasione della lezione della Scuola diocesana di teologia “Laura Vincenzi”, che ha ripreso lo scorso 22 febbraio a Casa Cini, Ferrara. “Le sette chiese, una lettura pastorale di Apocalisse” il titolo dell’intervento, cui seguirà, allo stesso orario, giovedì 29 febbraio, la lezione “Esperienze di custodia dell’umano” con relatrice sarà Maria Teresa Spagnoletti (l’incontro si svolgerà esclusivamente on line).

«Apocalisse è un libro estremamente simbolico, dove ricorre spesso il numero 7, numero della completezza», ha detto don Bovina. Di conseguenza, le sette lettere alle Chiese vanno interpretare come «lettera alla Chiesa nella sua totalità». «Io, Giovanni, vostro fratello e vostro compagno nella tribolazione, nel regno e nella perseveranza in Gesù» (Ap 1,9):già dall’inizio si comprende l’approccio del libro. In Giovanni, «non vi è solo la sofferenza, c’è anche una risposta positiva a questa. Il cristiano si distingue per come affronta una situazione di sofferenza.Seguire Cristo non significa non avere difficoltà nella vita, ma cambiare atteggiamento davanti a queste».La perseveranza, infatti, è «conseguenza della speranza:cristiano è chi custodisce nel proprio cuore la speranza di Gesù, senza lasciarsi andare alla disperazione, non abbandonando la gioia». Il fine di Apocalisse è quindi quello di «consolare, di ricordare che andiamo verso la Gloria». Di conseguenza, ha proseguito don Bovina, «la tribolazione non può essere motivo per non testimoniare la propria fede».Anzi, inApocalisse la tribolazione «è la situazione migliore per evangelizzare». Il periodo di Apocalisse, lo ricordiamo, è quello dell’Impero romano, in Asia Minore: qui, il culto a Dio non era vietato ma si doveva sottometterlo a quello dell’imperatore.«Oggi – secondo don Bovina – non siamo molto distanti da una situazione del genere: ad esempio, se domani verrà meno l’obiezione di coscienza come possibilità in casi quali l’aborto, un medico sceglierà l’ingiusta legge dello Stato o la legge di Dio («non uccidere»)?». 

Giovanni in Apocalisse «parla alla luce di un’esperienza contemplativa dello Spirito, della preghiera, non da una sua opinione, da un suo prurito.Parte dall’ascolto dello Spirito». La preghiera non è, dunque, «una fuga dal reale» ma, al contrario, «ciò che ci permette di scavare in profondità nella vita quotidiana, nel reale, per capire anche il domani». Il Signore si rivolge a Giovanni «nell’intimità più profonda», così come conosce la Chiesa nel suo profondo. «La Parola ci è vicina, ma la sente solo chi, col cuore, vuole ascoltarla. E ascoltare porta con sé una fiducia in una promessa, in qualcosa che hai udito e non vedi». Non bisogna, perciò, fare come la Chiesa di Sardi che «dorme, non vigila», non è cioè «cosciente di ciò che gli accade attorno». Da questa «purificazione tramite la Parola di Dio», poi, in Apocalisse si arriverà all’apertura del cielo e della liturgia. Insomma, questo libro ci dice che «il male non ha l’ultima parola. Il male va riconosciuto e combattuto ma nella speranza che non trionferà». Apocalisse è un libro sulla consolazione più grande.

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce” del 1° marzo 2024

La Voce di Ferrara-Comacchio

Vita e liturgia scollate: don Belli per la Scuola di teologia

21 Dic

Una liturgia per tutti, attiva e partecipata (anche col corpo), comprensibile, abbandonando concettualizzazzioni sempre più dannose. Sull’importanza di questa “rivoluzione” nei nostri rituali ha riflettuto don Manuel Belli, intervenuto lo scorso 14 dicembre a Casa Cini per la settima lezione della Scuola diocesana di teologia per laici. Sacerdote della Diocesi di Bergamo e docente di Teologia dei sacramenti presso la Scuola di teologia del Seminario diocesano, don Belli è anche autore di alcuni volumi sul tema.

Ricordiamo che la Scuola riprenderà il prossimo 22 febbraio alle 18.30 con don Paolo Bovina che relazionerà su “Le sette chiese, una lettura pastorale di Apocalisse.

«Noi non facciamo riti, siamo fatti di riti e la qualità della nostra vita dipende dalla qualità dei nostri riti», ha esordito il relatore.Nelle nostre società, e spesso nelle nostre comunità ecclesiali, spesso però viviamo «riti tristi», cioè staccati dalle nostre vite, dal nostro cuore, dalle nostre fragilità: «Non abbiamo più vissuto a cuore aperto l’urto della realtà né percepito il modo d’essere delle cose», scriveva Guardini in “Formazione liturgica”. I nostri riti invece – secondo don Belli – sono troppo «ierocratici» e «troppo pensati», mentre essi «sono molto più dei concetti», delle nostre inutili sovrastrutture. Il relatore ha accennato come esempi quelli dell’atto penitenziale («che sia almeno di dieci secondi!»), la frazione del pane, le preghiere dei fedeli (che dovrebbero essere davvero loro frutto), il ruolo degli accoliti. «Ci vuole di più della forma – ha proseguito -, quel più che può essere dato solo dall’amore», per cambiare tutte le forme della nostra intelligenza (da quella interpersonale a quella estetica, da quella spaziale a quella musicale, solo per citarne alcune). In una società tecnocratica e digitalizzata come la nostra, invece, «siamo troppo abituati alla funzionalità delle cose e troppo poco, o nulla, ai loro aspetti simbolico ed estetico, che invece ci permettono di vivere la Messa con la sensazione di star incontrando il Signore». Solo così, per don Belli, «le fragilità di ognuno potranno sentirsi a casa». La sfida sta, per ogni sacerdote e semplice fedele, nel saper «riavvicinare vita e liturgia». Senza, però, banalizzare quest’ultima, mantenendone la sacralità e solennità. 

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce” del 22 dicembre 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

Siamo tutti legati (per fortuna): relazioni e fraternità nella Chiesa

1 Dic

La quinta lezione della Scuola diocesana di teologia con Simona Segoloni: comunità, gioia e femminile

Siamo tutti legati in reti invisibili ma fondamentali, che intessono la nostra essenza personale, la nostra esistenza. Su questo lo scorso 23 novembre ha riflettuto a Ferrara la teologa Simona Segoloni, intervenuta a Casa Cini per la quinta lezione dell’anno della Scuola diocesana di teologia per laici. Tema, “Fratelli tutti! La comunità espressione di gioia”. Il prossimo appuntamento sarò il 14 dicembre con “Sacramenti tra il dire e il fare, paradossi celebrativi”, relatore don Manuel Belli. Poi la Scuola rinizierà il 22 febbraio con don Paolo Bovina e “Le sette chiese, una lettura pastorale di Apocalisse”.

Segoloni è Docente invitata al Pontificio Istituto Teologico Giovanni Paolo II per le Scienze del Matrimonio e della Famiglia, e insegna anche alla Facoltà teologica del Triveneto, alla Pontificia Facoltà teologica San Bonaventura (Roma) e alla Facoltà teologica pugliese. Nella sua lezione a Casa Cini, ha preso le mosse dalla «sostanziale vulnerabilità degli esseri umani, dal loro essere toccati dalla realtà»: questa loro «apertura fondamentale» permette di legarsi, di «dar vita a legami». In questo, l’essere umano si scopre «a immagine di Dio, che è relazione, è un Dio che stringe legami, crea alleanze». Ed è un Dio che, come si nota nelle Scritture, «viene toccato dal grido dell’uomo, dalle sue sofferenze». Dio, quindi, si fa conoscere come «un legato, come uno che stringe legami, non come uno sciolto da questi, assoluto».

Di conseguenza, l’annuncio del Vangelo, cuore della fede cristiana, determina «un noi, l’essere tutti legati dalla Parola crea legami tra le persone e tra queste e Dio, l’Assente che si fa Presente e che ci vuole salvare assieme, come Suo popolo». Questi legami, questo popolo è il solo «che ci fa sperimentare una gioia vera, cioè quella data dal legame col Risorto». L’Eucarestia, gesto centrale della nostra fede, non a caso «è un gesto che non si può non fare assieme agli altri, perché è un gesto di comunità, di condivisione». Ma incontrare il Risorto significa «cercare di comprenderLo secondo il suo stile», che è quello indicato ad esempio in Matteo 18, con il «se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli», con la parabola della pecorella smarrita e con quella del servo malvagio. In sintesi, quindi, con la necessità dell’umiltà, con l’importanza del custodire i legami e di saper perdonare.

L’ultima parte della propria riflessione,Segoloni ha deciso di dedicarla a un ambito che le sta particolarmente a cuore e al quale ha dedicato diverse pubblicazioni: quello del femminile e della sua condizione all’interno della Chiesa e della società. Un aspetto, dunque, per nulla secondario quando si parla di legami e di fraternità. Ed è proprio sul linguaggio, che spesso (come appunto nel caso del termine “fraternità”) appiattisce, o ingloba, il femminile nel maschile, che la relatrice si è soffermata, spiegando come non sia una questione di lana caprina, ma come il modificare il linguaggio sia importante «per dare la legittima visibilità alle donne, valorizzandone i carismi e custodendo quindi i legami» anche all’interno delle nostre comunità.

Quasi tutte le domande rivolte dai presenti alla relatrice, si sono concentrate proprio sul tema del rapporto femminile-maschile (ad esempio, in termini di disuguaglianze, di ministeri nella Chiesa, di violenza), a dimostrazione di quanto la questione sia sentita – dalle donne e dagli uomini – e quindi diventi necessario creare momenti ad hoc di discussione e confronto. 

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce” del 1° dicembre 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

Discepoli, ovvero il ripartire grazie a Lui

22 Nov

La quarta lezione della Scuola diocesana di teologia per laici: don Paolo Mascilongo ha relazionato sul tema “Immagini di sequela dal Vangelo di Marco”. Come essere Suoi discepoli anche oggi?

Proseguono le lezioni del nuovo anno della Scuola diocesana di teologia per laici “Laura Vincenzi”.

Lo scorso 16 novembre a Casa Cini, Ferrara, don Paolo Mascilongo (Referente per l’Apostolato Biblico della Diocesi di Piacenza-Bobbio) ha riflettuto sul tema “Immagini di sequela dal Vangelo di Marco”.

«A metà del Vangelo, prima dell’annuncio della morte  a Gerusalemme (Mc 10) – ha spiegato il relatore dopo una breve introduzione del testo – c’è un episodio spartiacque»: «”Chi dice la gente che io sia?”. Ed essi gli risposero: “Giovanni il Battista, altri poi Elia e altri uno dei profeti”. Ma egli replicò: “E voi chi dite che io sia?”. Pietro gli rispose: “Tu sei il Cristo”» (Mc 8, 27-29).

Il Vangelo secondo Marco, secondo don Mascilongo, «narra non solo di Gesù ma anche dei suoi discepoli: leggerlo, quindi, in questo modo può aiutarci nella nostra aspirazione a essere, oggi, suoi discepoli». Fra i discepoli, ha sottolineato più volte il relatore, c’erano anche delle donne;un fatto anomalo, questo, che in quel periodo storico delle donne non fossero relegate all’ambito domestico ma addirittura seguissero in questo modo un maestro come Gesù. 

Ma come si fa a riconoscerLo? E perché Pietro Lo riconosce? Fra i discepoli, naturalmente ci sono i 12 apostoli, scelti dallo stesso Gesù (Mc 3,14-15):«Ne costituì Dodici – che chiamò apostoli -, perché stessero con lui e per mandarli a predicare con il potere di scacciare i demòni».Questa apparente contraddizione tra lo “stare” e l'”andare” si può spiegare o considerando che «nella missione di Gesù i due aspetti coincidono», oppure come fosse (e sia) necessario «una prima fase a contatto con Lui (con la sua Parola, con la Sua presenza) per poi andare missionari», in una lontananza fisica ma non spirituale.

La passione e morte di Gesù (capitoli 14 e 15) rappresentano «il  culmine» di questo rapporto coi Suoi discepoli: dalla «comunione fortissima» durante l’ultima cena al dramma subito dopo vissuto nel Getsemani con l’arresto e la fuga dei 12, il loro «abbandono». L’antitesi, quindi, di quello “stare” con Lui sopracitato, «il fallimento» della loro missione. Cristo apparentemente morirà solo: sarà solo prima un centurione (un estraneo) a riconoscerlo, poi «alcune delle donne» e Giuseppe d’Arimatea, mai citati prima da Marco. Non i 12, lontani da Lui e ora non solo fisicamente.

«Ma egli [il giovane vestito di bianco] disse loro: “Non abbiate paura! Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso. È risorto, non è qui. Ecco il luogo dove l’avevano posto. Ma andate, dite ai suoi discepoli e a Pietro: ‘Egli vi precede in Galilea. Là lo vedrete, come vi ha detto’ “» (Mc 16, 6-7). «L’ultima Sua parola per i discepoli è quindi, per don Mascilongo, «non di fallimento ma per una nuova chiamata, al di là dei loro meriti. Essere un bravo discepolo non significa non fallire mai, perché si può sempre ripartire: e solo Gesù può farci davvero riniziare ogni volta».

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce” del 24 novembre 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

Come essere «satolli di Dio»? Riflessioni sulle Beatitudini

17 Nov

Scuola di teologia per laici: il 9 novembre la comunità dei beati al centro della relazione di Valeria Poletti

“Maestro cosa devo fare per essere felice?” è il titolo della terza lezione della Scuola diocesana di teologia per laici “Laura Vincenzi”, svoltasi a Casa Cini lo scorso 9 novembre. Relatrice, la docente e teologa Valeria Poletti. Le rimanenti lezioni di novembre sono in programma (ore 18.30, Casa Cini o in streaming) il 16 con don Paolo Mascilongo che relazionerà su “Immagini di sequela dal vangelo di Marco”; il 23 con Simona Segoloni su “Fratelli tutti! La comunità espressione di gioia”; il 30 con don Ruggero Nuvoli su “Immaginazione sacramentale”.

Nella sua lezione, Poletti ha analizzato nel dettaglio le Beatitudini (Mt 5,1-12 e Lc 6,20-23), ponendo innanzitutto l’accento sul fatto che Gesù «è venuto a parlare a tutti, a dar vita a una comunità completamente nuova», annunciando che «il Regno di Dio è già ora, si può sperimentare già nel presente». Ma com’è possibile ciò, in questa “valle di lacrime” che è l’esistenza umana?

Gesù quando ci chiede di essere poveri, «non ci chiede tanto di spogliarci, ma di vestire gli altri, di prenderci cura di chi è nel bisogno. “Signore”, quindi, è chi dà agli altri, e lo fa ora, perché il dare mi rende felice, beato già ora», ha spiegato Poletti.

Questo donarsi agli altri è anche il consolare chi è nel pianto, cioè «chi ha un dolore talmente grande da non poterlo tenere dentro. Costui è beato perché mostrandolo può essere consolato, aiutato dalla sua comunità. E la consolazione è già in sé un’azione liberante». È questa la chiave di tutto: il comprendere che «si è felici, beati solo quando si dà, la comunità di persone felici è tale quando non volta la testa dall’altra parte» davanti ai bisogni dei fratelli e delle sorelle.

Allo stesso modo – e proseguendo nell’analisi delle Beatitudini -, «i giusti sono coloro che hanno fame e sete di giustizia». Ma per giustizia non si intende tanto l’osservanza delle norme, ma «è qualcosa che va oltre la legge, e porta anche a subire la persecuzione». La beatitudine sta dunque «nell’essere sazi, satolli di giustizia, quindi di Dio: si sazia la propria fame saziando quella degli altri».

Questa misericordia, questo «chinarsi sull’altro sofferente per rialzarlo», non è dunque un mero sentimento ma «un’azione» concreta. Ed è una purezza del cuore, quindi non solo esteriore ma «interiore, completa, tipica di chi possiede quell’inquietudine che lo porta a giocarsi la propria pace per gli altri, per la pace della propria comunità». Una pace dunque in fieri, un Regno da costruire, vivendo così la propria figliolanza e somiglianza al Padre.

Da qui, solo da qui, può nascere quella «comunità dei felici, dei beati nel Signore», dei «satolli di Dio». 

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce” del 17 novembre 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio