
Il 9 febbraio importante incontro all’ISCO di Ferrara con Andrea Baravelli e Andrea Rossi. Nessun intento nostalgico, ma la volontà di andare oltre un’inutile damnatio memoriae
«Che qui si fa l’Italia e si muore / Dalla parte sbagliata / In una grande giornata si muore»: così cantava De Gregori nella sua “Il cuoco di Salò”, e in pochi versi riuscì a racchiudere la tragedia di «quindicenni sbranati dalla primavera» nella Repubblica Sociale Italiana (RSI), regime collaborazionista della Germania nazista esistito tra il settembre ’43 e l’aprile del ’45. Una “memoria nera” che solo i grandi artisti o gli storici onesti hanno ancora il coraggio di raccontare, senza rigurgiti nostalgici.
Di questo si è parlato in un coraggioso incontro svoltosi lo scorso 9 febbraio nella sede dell’Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara, che ha visto, dopo i saluti della Presidente dell’ISCO Anna Quarzi, gli interventi degli storici Andrea Baravelli, docente di Storia contemporanea all’Università di Ferrara, e Andrea Rossi, dottore di ricerca in Storia militare. Una 20ina i presenti, coinvolti anche in un appassionato dibattito finale
STORIOGRAFIA REPUBBLICHINA, DAL LIMBO ALLA RINASCITA
Ma partiamo dall’inquadramento proposto da Baravelli, che ha parlato del periodo della RSI come di «un tema sommerso, che nei decenni a volte riemerge per poi inabissarsi di nuovo». La memorialistica repubblichina iniziata nel ’46 «ha rappresentato una sorta di contro-storiografia che ha impedito il formarsi di una vera storiografia». Un «limbo», quello della storiografia sulla RSI, in particolare del periodo dal ’45 al ’62, «riflesso della scarsa storiografia, negli stessi anni, della Resistenza» e del desiderio di «rimuovere l’evento traumatico della guerra civile». Nei primi anni ’60 qualcosa inizia a cambiare grazie agli studi di Enzo Collotti e Frederick W. Deakin, oltre a quelli del parlamentare missino ed ex repubblichino Giorgio Pisanò. Quest’ultimo, ha spiegato Baravelli, «negò il concetto antifascista della Resistenza come “Guerra di Liberazione” e tolse alla Resistenza la sua dimensione nazionale, identificandola come scatenata e diretta esclusivamente dal PCI». Bisognerà aspettare la fine degli anni ’70 per veder avviarsi una «storiografia complessiva» sulla RSI. Negli anni successivi, importanti saranno gli studi di Giorgio Bocca (“La repubblica di Mussolini”, 1977) e Claudio Pavone (“Una guerra civile”, 1991). Proprio grazie a quest’ultimo è partita «una nuova stagione storiografica sulla RSI», con i successivi contributi di Renzo De Felice,Nicola Tranfaglia e Luigi Ganapini.
Ma la storia repubblichina non poteva non vivere e alimentarsi anche di immagini, e per questo Baravelli ha dedicato parte del proprio intervento all’opera dell’illustratore Gino Boccasile, che lavorò prima per la RSI poi, fino alla morte avvenuta nel ’52, per il MSI.
MEMORIE FRA ONORE E MORTE
Il lavoro degli storici nel caso dei reduci della RSI deve tener conto dell’importanza del «vissuto personale», ha sottolineato poi Rossi:«Ho lavorato molto sulla loro memorialistica, intervistando anche diversi reduci». Alcuni di loro, aderirono alla RSI da adolescenti. La RSI «non era un monolito ma qualcosa di molto magmatico», al cui interno vi erano sostanzialmente «quattro categorie» di persone: gli irriducibili, cioè «coloro che, anche nelle mie interviste, non compivano nessuna revisione critica del proprio periodo repubblichino, rimuovendone tutti gli aspetti sgradevoli. Altri, invece, da persone mature hanno riguardato criticamente quel loro vissuto», fra cui Piero Sebastiani e Carlo Mazzantini, quest’ultimo autore del libro “A cercar la bella morte” (1986). A un’altra categoria appartengono poi coloro che non vi aderirono per motivazioni politico-ideologiche ma militari, essendo soldati di leva, spesso alpini. Vi è poi il gruppo, non irrilevante, di coloro che, nonostante vissero un’esperienza giovanile nella RSI, nel resto della loro vita «scelsero un’importante militanza antifascista». In ogni caso, per Rossi la memoria fascista è «una memoria funerea:nessuno di coloro che ho intervistato, pensava al dopo RSI: tutti sapevano che sarebbe finita male. E, infatti, raccontano quei 18 mesi a Salò e poi nulla», come se non vi fosse nulla di degno di nota dopo quell’esperienza totalizzante, dopo quella tragedia vissuta e mai superata. Il loro ricordo, quindi, non può che essere «cimiteriale», come un volto scolpito da Wildt. La morte e l’onore, per loro, erano tutto. Il resto è stato tradimento, piccole bassezze borghesi. Salò o niente.
Andrea Musacci
Pubblicato sulla “Voce” del 16 febbraio 2024

