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Daniele Lugli, testimone del bene e costruttore di pace

6 Giu

Addio a uno dei padri della nonviolenza italiana. Ritratto di un uomo mite, di una presenza positiva 

di Andrea Musacci

«Mi piace andare al mare in primavera: fine aprile, maggio. C’è poca gente. A fare il bagno nessuno. Ho tutto il mare a disposizione. Così ci vado anche quest’anno. Gli anni e la stagione mi inducono però a rinviare il mio lento nuoto. Le notizie dell’alluvione vicina rattristano e preoccupano». Scriveva così, Daniele Lugli, sul sito di “Azione nonviolenta”, appena due giorni prima di morire per un malore proprio mentre faceva il bagno nel suo mare di Lido di Spina.

Il 31 maggio, a 82 anni, ci ha lasciati, all’improvviso, una personalità molto amata per il suo impegno per la pace e la democrazia. Originario di Suzzara (MN), a 21 anni è tra i fondatori, insieme ad Aldo Capitini (detto il “Gandhi italiano”), del Movimento Nonviolento di cui sarà nella segreteria dal 1997 per divenirne in seguito presidente.

Daniele aveva lo sguardo e la posa del saggio. La sua presenza, anche silenziosa, era sempre carica di esperienza. Un’esperienza forgiata nelle lotte, nella ricerca, nello studio, nella costruzione lenta di relazioni, di progetti, di parole. Il suo era un corpo antico, quasi scolpito nella pietra, come certe maestose statue antiche. Ma nulla aveva, Lugli, del distacco solenne, della freddezza marmorea, della sapienza che intimorisce e allontana. In lui la nonviolenza era carne. Lo si poteva notare nel suo viso rassicurante mentre si scioglieva nel calore di un sorriso accogliente.

La sua era una presenza priva di algidità, mite e mai austera. Era difficile immaginare piedistalli sotto i suoi piedi. Rifiutava la violenza dell’arroganza, della verbosità usata come clava, volontà di supremazia, mezzo per non incontrare l’altro.

Nel 2018 andai a casa sua per intervistarlo in vista di uno speciale nel 50esimo del ’68: anche in quell’occasione notai la sua capacità di sapersi, all’occorrenza, decentrare, di evitare inutili narcisismi. Forse non sempre in maniera consapevole, ogni suo brano di vita era alimento per la narrazione, per la memoria, per ogni sua nuova testimonianza.

Qualche anno fa mi fece dono di una copia del suo volume dedicato a Silvano Balboni. Un giorno mi disse: «Sei una persona curiosa, ti consiglio di leggere questo libro». Si trattava di “Religione aperta” di Capitini (che dopo, in effetti, comprai), suo amico e maestro. Capii che Daniele sapeva cogliere la bellezza dentro le cose, dentro le vite. Anche questo significa essere “costruttori di pace”: saper riconoscere il bene, dargli spazio, forza. Non solo denunciare il male, non rimanere alla polemica sterile e che avvelena. Costruire la pace in ogni gesto, in ogni parola. Col corpo e nello spirito. 

Per Capitini la nonviolenza era «un’apertura affettuosa all’esistenza, alla libertà, allo sviluppo di ogni essere», ciò che pone «in primo piano assoluto la presenza e la compresenza degli esseri viventi». La nonviolenza è «positiva», cioè sempre attiva; è «lottatrice», ha cioè «bisogno di coraggio»; ed è «creativa» e «inesauribile», «inattuabile tutta perfettamente».

Così era Daniele Lugli, vero «amico della nonviolenza»: la sua presenza (ancora forte tra chi gli ha voluto bene) era apertura affettuosa all’altro, coraggio e continua ricerca creativa. La sua vita è stata testimonianza di bene, dell’intima positività del reale. Testimonianza che il male non ha l’ultima parola.

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 9 giugno 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

(Foto di Francesca Brancaleoni)

Notte dei Santuari, la città unita in processione sotto il Cuore di Maria

6 Giu

Il 1° giugno 200 persone in corteo nella zona di via Bologna a Ferrara per l’annuale appuntamento. Quest’anno al centro il neonato Santuario mariano nella chiesa della Sacra Famiglia

Un semplice telo bianco ricamato di rose rosse, una candela unica sentinella mariana a illuminare un palazzo, una statuetta della Madonna. Sono immagini della devozione, sempre viva, del popolo ferrarese, a Maria. Sono immagini che ci siamo portati a casa dalla processione svoltasi la sera del 1° giugno scorso in zona via Bologna, in occasione dell’annuale “Notte dei Santuari” promossa a livello nazionale dalla CEI, e che quest’anno nella nostra Chiesa locale si è scelta di celebrare nel neonato Santuario diocesano del Cuore Immacolato di Maria (parrocchia della Sacra Famiglia).

Circa 200 i presenti che si sono radunati col nostro Arcivescovo sul piazzale della chiesa lungo via Bologna per una preghiera iniziale affidando alla Madonna in particolare la nostra Arcidiocesi, le popolazioni alluvionate, il cammino sinodale, i popoli vittime delle guerre. L’accensione, quindi, nel braciere, delle fiaccole per la processione, “accolta” dagli immancabili petali di rose rosse sull’asfalto, e con in testa i tanti bambini, ragazzi e giovani assieme alla Banda di Cona diretta dal Maestro Roberto Manuzzi, formata per l’occasione da una ventina di musicisti su 41 elementi totali.

IL CORTEO E LA DEVOZIONE NEL QUARTIERE

La processione si è snodata lungo le vie Bologna, Poletti, Poltronieri, Grillenzoni, Leoniceno, Canani, Manardo, e ancora Poletti, Bosi, Grillenzoni, Bologna. Una zona nevralgica e densamente abitata della nostra città che per circa un’ora e mezza ha metaforicamente trattenuto il fiato, rallentando i propri ritmi, interrompendo i propri traffici per lodare, osservare, o semplicemente sbirciare con curiosità l’affollato corteo snodarsi nelle vie del quartiere. E così, si scorge un volto femminile dietro una zanzariera, dai balconcini e dalle finestre a tratti spuntavano candele, ceri, immaginette sacre. Proprio su via Bologna, quasi commuove vedere una luce accesa all’ultimo piano, l’unica non spenta di tutto il condominio. Alcune donne si fanno trovare davanti al cancelletto di casa, il cero in mano, il segno della croce. Su alcuni davanzali al secondo piano, qualcuno ha posto una statuina della Madonna e una del Sacro Cuore di Gesù. Un’altra signora, nonostante abiti al terzo piano di un palazzo, non ha rinunciato a fare il proprio altarino: ha spento la luce appena intravisto il corteo, ha acceso un cero, si è seduta in preghiera. Si scorgono, anche, da alcuni davanzali i drappi rossi, alcuni fiori ad accompagnare una semplice candela, fiocchi bianchi e blu ai cancelli. E un telo bianco – forse una tovaglia – ricamata di rose rosse e adornata con un fascio di luce.

LE MEDITAZIONI E LA CONCLUSIONE

«Maria ci è offerta e presentata come esempio; è un modello per ogni cristiano, soprattutto per chi si è consacrato al servizio di Dio e dei fratelli. Modello nell’ascolto della Parola di Dio e nell’attenzione agli avvenimenti della vita, modello nella lode di Dio. Maria sa ascoltare Dio». Così una delle meditazioni lette durante il corteo. Oppure Maria è presentata come «la piccola serva del Padre che trasalisce di gioia nella lode (…). Quale madre di tutti, è segno di speranza per i popoli che soffrono i dolori del parto finché non germogli la giustizia. È la missionaria che si avvicina a noi per accompagnarci nella vita».

La processione si è conclusa col ritorno in chiesa dov’è avvenuto l’Atto di Consacrazione al Cuore Immacolato di Maria del cammino sinodale e, specialmente, dei lavori della XVI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovo. A seguire, sul piazzale vi è stato un piccolo concerto della Banda di Cona.

DEVOZIONE MARIANA ALLA SACRA FAMIGLIA

Ricordiamo che lo scorso 29 novembre è avvenuta l’erezione ufficiale della chiesa della Sacra Famiglia di Ferrara a Santuario mariano (è rimasta, però, la parrocchia). «Scuola di Chiesa, luogo di vera ecclesialità» l’ha definita, con un auspicio, il parroco don Marco Bezzi nel suo saluto finale. Il mese mariano per la parrocchia della Sacra Famiglia è iniziato il 1° maggio con la consegna dell’immagine mariana da esporre nei luoghi del fioretto (le cosiddette “basi missionarie”). Infine, domenica 18 giugno, Solennità del Cuore Immacolato di Maria, alle ore 11.30 è in programma la S. Messa solenne presieduta dal rev.do padre abate dom Christopher Zielinski, guida dei monaci olivetani dell’abbazia del Pilastrello in Lendinara (RO). La Celebrazione sarà accompagnata dalla Corale “Musica Insieme” di Castel Franco Veneto (TV) diretta dal maestro Renzo Simonetto. Al termine pranzo comunitario con la corale e l’abate.

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 9 giugno 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

(Foto di Pino Cosentino)

Rock’n’roll theology: Springsteen e la fede

10 Mag

In vista dello storico concerto di Bruce Springsteen a Ferrara il 18 maggio, scopriamo come in molti dei suoi testi siano presenti le domande della fede: vita e peccato, morte e redenzione, comunione e salvezza. Un viaggio nell’umano

di Andrea Musacci

Spesso si riduce a un gioco ozioso il voler attribuire etichette di “cristianità” a scrittori, registi, cantanti. La bellezza nell’indagare la loro spiritualità spesso non dichiarata, d’altra parte, porta alla luce come l’immaginario biblico (neo e vetero testamentario) sia così radicato nelle nostre vite da non poterlo eludere. Ed è una forza, la sua, non derivante da veri o presunti “indottrinamenti” ma dalla radicalità di come l’umano e il divino vengano, in ogni pagina della Bibbia, sviscerati, dando una risposta alla sete di verità e di assoluto insita in ogni persona.

Questa premessa per dire di come anche la poetica di un grande cantautore come Bruce Springsteen – che il prossimo 18 maggio si esibirà al Parco Urbano di Ferrara con la sua E Street Band – sia infarcita di parole e immagini legate al tema della colpa, della salvezza, della comunione.

Ne parla ad esempio Luca Miele, giornalista di “Avvenire”, nel suo libro “Il vangelo secondo Bruce Springsteen” (Claudiana ed., 2017), che l’autore presenterà il 13 maggio alle ore 18 nella sede di “Accademia” (chiostro chiesa di San Girolamo, accesso da via Savonarola), nell’incontro dal titolo “Everybody’s Got A Hungry Heart. Un viaggio alla riscoperta di sé nella musica di Bruce Springsteen”.

È lo stesso Miele a chiedersi innanzitutto se nel caso di Springsteen si possa parlare di “rock’n’roll theology”, o meglio di teologie (al plurale) nei suoi brani, vista l’ambivalenza e la frammentazione del tema religioso in esse contenuto. Di certo c’è, ad esempio, il legame con la “teologia nera” contenuta nei gospel e negli spiritual. 

CATTURARE LA VITA

E come nella musica del riscatto e della redenzione dei neri, è l’esistenza concreta, di carne e sangue, a essere imprescindibile. La sua ricerca, insomma, si muove sempre coi piedi per terra, pur con uno sguardo capace di rivolgersi verso l’alto. Springsteen – scrive Miele nel libro – sa «muoversi, senza rotture, con disinvoltura, tra i campi del secular e del religious. Infondere, catturare la vita – esprimere le sue cadute, le sue speranze quotidiane – dentro e con un tessuto di simboli, immagini, figure trasparentemente religiose. Springsteen, però, non decide né per l’uno né per l’altro, la sua scrittura si muove in quello spazio di indistinzione tra secular e religious, tende gli orli di secular e religious fino a farli toccare, li spinge a sconfinare, a ibridarsi, contaminarsi. Uno restituisce, specchiando, l’altro. La liberazione è qui, è ora». E ancora: «Lo storytelling di Springsteen non mira a svelare il mistero, ma a incarnarlo nelle vite che canta. Non mira a sciogliere il secular e il religious, ma a rendere trasparente la loro cucitura». 

IL PADRE E LA CASA: AMBIVALENZE

A Freehold, nel New Jersey, dove visse l’infanzia e l’adolescenza, Bruce frequentò la primaria nell’istituto della sua parrocchia, la St. Rose of Lima, per poi trasferirsi alla Freehold High School dove si diplomò nel 1967. L’approccio del giovane con la scuola cattolica fu difficile, in quanto non accettò la disciplina imposta dalle suore. A questo, si aggiunse il difficile rapporto col padre Douglas, costretto a cambiare vari lavori per mantenere la famiglia (Bruce ha due sorelle), e malato di depressione. Proprio il tema del padre torna spesso nei suoi brani, in una continua lotta con questa figura, nel tentativo di allontanarla, di comprenderla e infine di riconciliarla a sé. 

Un percorso lungo, questo, che passa nelle sue canzoni dall’immagine del peccato ereditato, nelle forme della malattia mentale (la depressione, appunto) e della malattia dell’anima (l’incapacità di amare): «la catena dell’amore è la catena del peccato», è una «de-generazione», scrive ancora Miele. Il lavoro – simbolo della figura paterna – è vissuto, esso stesso come colpa da espiare.

«Molte delle mie canzoni hanno a che fare con l’ossessione del peccato», ha riconosciuto lo stesso Springsteeen. Da questo abisso, ne uscirà solo con l’amore per una donna e per il loro figlio, diventando quindi egli stesso padre. 

Ma lo stesso luogo domestico, protetto e pieno di calore, può nascondere fantasmi che ritornano, mali mai del tutto sconfitti: «posso sentire la soffice seta della tua camicetta / e quelle leggere emozioni nella nostra piccola casa divertente / poi le luci si spengono e siamo solo noi tre / io, te e tutte quelle cose di cui abbiamo paura (…) / Un uomo incontra una donna e questi si innamorano / ma la casa è infestata» (Tunnel of love, 1987). O ancora: «Stasera il nostro letto è freddo / Sono perso nel buio di un amore / Dio abbia misericordia dell’uomo che dubita delle sue certezze» (Brilliant Disguise, 1987).

La casa è quindi infestata dall’ospite del male. E dalla certezza che è un ospite sempre inatteso, sempre indesiderato: «Io non riesco a capire neppure ciò che faccio», scrive San Paolo: «infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto. Ora, se faccio quello che non voglio, io riconosco che la legge è buona; quindi non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene; c’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio» (Romani 7, 15-19).

NELLA COMUNITÀ, OLTRE LA COMUNITÀ

Come uscire dalle sabbie mobili in cui il male ci trascina, dalla sua mano che non ci lascia la gola? «La salvezza individuale, o qualcosa che le si avvicina, esiste veramente?», si è chiesto alcuni anni fa Bruce Springsteen. «O non è forse che nessuna salvezza individuale è possibile, e che qualsiasi forma di salvezza si realizza soltanto stando insieme? Dopo tutti questi anni sono convinto che la risposta sia chiara: non c’è salvezza senza unità». È la comunità, è l’altro a salvarci, ogni volta. In un altro brano, Land of hope and dreams (2001), scrive Miele, «è la comunità intera a essere il luogo in cui si fa, in cui si tenta, in cui ci si approssima, in cui si incarna la liberazione. La comunità è il farsi stesso dell’evento liberazione». Nulla di astratto, di vanamente idilliaco, quindi. Ma nemmeno qualcosa che possa ridurre tutto alla fragilità dell’esistere terreno. Ancora Miele: «Nelle canzoni di Wrecking Ball (2012, ndr), la giustizia è insopprimibilmente legata a un rinvio, si situa in un altro orizzonte, rimanda a una eccedenza, si disloca. Questo orizzonte, questa eccedenza, è la trascendenza». L’inappagabile può essere appagato solo da qualcosa di incommensurabile.

LA RISURREZIONE, L’ASCESA VERSO “L’ALTRO MONDO”

In The Rising, l’album dedicato agli attentati dell’11 settembre 2001, sempre presente è la tensione fra quell’abisso di polvere, fantasmi, corpi straziati (quel Nothing man, uomo annullato nel suo corpo, nella sua speranza), e l’urgenza di «articolare l’inarticolabile, trasformare il grido in dolore, il dolore in rappresentazione, la rappresentazione di ciò che sfugge alla presa di ogni rappresentazione – il vuoto, la perdita, la morte – in senso». La morte, quindi, non è l’ultima parola, sembra dirci il cantautore. Nella sua autobiografia, è lui stesso a scrivere: «Tra le tante immagini tragiche di quella giornata, ce n’era una in particolare che non riuscivo a togliermi dalla testa: quella dei soccorritori che salivano mentre gli altri scendevano di corsa per salvarsi. Quale senso del dovere, quale coraggio c’era dietro quell’ascesa verso…che cosa? L’immagine religiosa dell’Ascensione, il superamento del confine tra questo mondo, un mondo fatto di sangue, lavoro, famiglia, figli, fiato nei polmoni, terra sotto i piedi, tutto ciò che è vita, e…l’altro mondo (…). Insieme alla rabbia, al dolore e al lutto, la morte apre una finestra di possibilità per i vivi, rimuovendo il velo che “l’ordinario” ci posa delicatamente sullo sguardo. Aprirci gli occhi è l’ultimo, amorevole dono del martire».

In questo immolarsi risuona il grido della Croce presa su di sé per la salvezza, in quella salita che è, insieme, al Golgota (alla morte) e al Cielo. Contro le macerie del male, il desiderio è di innalzarsi verso quella luce che non muore.

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 12 maggio 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

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Roberto, fan da quando aveva 10 anni: «un incontro che mi ha cambiato la vita»


Roberto Mela (a sinistra) assieme a due amici (Caterina Maggi e Francesco Turrini) nel 2016 al concerto di Bruce Springsteen al Circo Massimo di Roma

«Undici anni fa lo vidi per la prima volta in concerto: quel giorno mi cambiò la vita». Roberto Mela ha 26 anni, è praticante commercialista e ha una passione smisurata per tutto ciò che riguarda Bruce Springsteen. Il 18 maggio, naturalmente, sarà uno degli oltre 50mila presenti al Parco Urbano. Gli abbiamo rivolto alcune domande.

Come e quando hai conosciuto Springsteen?

«A casa mia abbiamo sempre “respirato” la musica di Springsteen:mio padre è andato a sentirlo nel suo primo concerto in Italia, lo storico San Siro del 1985, e da allora non ha mai smesso. Nel 2007, lo ricordo bene tornare a casa dal negozio di dischi con il cd nuovo: qualche giorno dopo l’ho ascoltato da solo. L’album si apre con Radio Nowhere: rimasi folgorato da quell’intro».

Il primo concerto, invece?

«Fu l’indimenticabile notte di Firenze del 10 giugno 2012: ha piovuto tutto il tempo, tornai a casa fradicio ma con il cuore pieno. Quella sera vidi sul palco un uomo che dava veramente tutto per ciò che amava fare. Quante volte nel lavoro ti capita di incontrare gente così? Quel giorno mi cambiò la vita, fu uno dei miei primi concerti e se da allora sono andato a più di cento live di artisti diversi, in Italia e all’estero, è solo per ritrovare quel che ho visto quella sera in lui».

Quali altri suoi concerti hai visto?

«Nel 2013 a Padova e a Milano, nel 2016 a Roma e di nuovo a Milano. E dopo Ferrara, il prossimo 16 giugno andrò a sentirlo a Birmingham…».

Cosa ti ha colpito la prima volta della sua musica?

«Dei suoi testi mi colpisce come sia capace di trattare i temi della vita di tutti i giorni, dagli amori ai dolori, dalla famiglia al lavoro, con un tono che esalta la realtà dei personaggi».

Immagino sia difficile, ma se dovessi scegliere una sua canzone…

«Thunder Road. Springsteen l’ha sempre definita come “un invito” e per questo l’ha messa come prima traccia dell’album Born To Run».

I suoi testi sprigionano religiosità. Come definiresti la sua fede?

«Nell’autobiografia Springsteen parla chiaramente della sua fede, di come la sua formazione cattolica non l’abbia mai lasciato. In un’intervista disse:”Io frequentavo una scuola cattolica. L’anima non è un’astrazione per un bambino. È molto reale. La prendi alla lettera. E l’immaginario cattolico, così come la Bibbia, è un modo straordinario di esprimere il viaggio dell’uomo, dello spirito umano. Io ritorno a quelle immagini d’istinto”. In un’altra, in merito al disco The Rising, ha affermato:”Penso che le canzoni facciano appello a una sovrapposizione sfumata di queste idee: il religioso e la vita quotidiana devono in certo qual modo fondersi”, per cui egli afferma di muoversi “verso un immaginario religioso per spiegare l’esperienza”. E nel 1988, prima di un concerto, introducendo la canzone Born To Run disse: “Alla fine ho capito che la libertà individuale finisce per non significare nulla se non è collegata a degli amici, a una famiglia e a una comunità”. È la stessa concezione di libertà individuale che ho incontrato nella compagnia della Chiesa, nella fraternità di CL».

Un’identità chiara, quindi, la sua…

«Sì. Anni fa, nei suoi spettacoli a Broadway, ripeteva: “Una volta che diventi cattolico, non puoi più uscirne”. E in quell’occasione, per 256 serate ha concluso i concerti recitando il Padre Nostro al pubblico».

Tre sue canzoni dove il tema religioso è più marcato, che vuoi condividere con noi? 

«Penso, fra le tante, a “Jesus Was an Only Son” e ad altre due in particolare: “Land of Hope and Dreams”, nella quale c’è una terra promessa a cui si può tendere insieme, che prende dentro tutti e questo dà senso alla comunione. La salvezza non è individuale ed è per tutti. E poi, “My City Of Ruins”, dell’album The Rising, scritto dopo l’attentato alle Torri Gemelle, in cui nel testo arriva a pregare il Signore per avere la forza di risorgere».

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 12 maggio 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

Salvia, un martire del dovere. Antonio Mattone: «quel giorno che incontrai Cutolo»

8 Mag
Claudio Salvia e Antonio Mattone

Giuseppe Salvia, vicedirettore del carcere di Poggioreale, fu ucciso nel 1981 per volontà del boss Raffaele Cutolo. Il 5 maggio a Ferrara la testimonianza del giornalista Mattone e del figlio Claudio

«Salvia era un martire del dovere, un integerrimo funzionario delloStato che incappò nel più grande delinquente italiano del secondo dopoguerra: Raffaele Cutolo. Ma che non si volle piegare alla sua prepotenza».

Sempre più persone iniziano a conoscere la straordinaria testimonianza di coraggio e di amore alla verità e alla giustizia rappresentata dalla vita e dalla morte di Giuseppe Salvia, vicedirettore del carcere di Poggioreale ucciso nell’aprile del 1981 per volere di Cutolo.

Due anni fa Antonio Mattone, giornalista napoletano, raccontò la sua storia nel libro “La vendetta del boss. L’omicidio di Giuseppe Salvia”, presentato la sera del 5 maggio nel Monastero del Corpus Domini di Ferrara. Un incontro voluto da Dario Poppi, insegnante in pensione, e organizzato dall’Unità Pastorale Borgovado. Un libro scritto sotto richiesta dei familiari di Salvia:della moglie Giuseppina e dei figli Antonino e Claudio. Quest’ultimo, che nell’81 aveva solo 3 anni (il fratello, 5) è intervenuto a Ferrara proprio insieme a Mattone, alla presenza di circa 80 persone. 

«TANTI AGENTI HANNO PAURA DI PARLARE»

Sono oltre trenta le presentazioni del libro di Mattone in giro per l’Italia, fra cui una col card. Zuppi, e tante nelle scuole. Qui, purtroppo, ha spiegato l’autore, «nessuno sapeva chi fosse Salvia, molti sapevano invece chi fosse Cutolo».

«Ho ascoltato 90 persone in diversi modi legate a Salvia: familiari,  agenti di polizia penitenziaria, terroristi, magistrati, inquirenti, forze dell’ordine, giornalisti». A proposito degli agenti di polizia penitenziaria, «alcuni di loro, dopo oltre 40 anni, non hanno voluto parlarmi: alcuni, forse perché collusi, altri perché si vergognano ancora di averlo allora lasciato solo, altri ancora per paura o per non voler riaprire vecchie ferite».

IN CARCERE, COME UN PRINCIPE

Innanzitutto, Mattone ha ricordato come Cutolo si trovasse a Poggioreale per omicidio, ma lì, dietro le sbarre, costruì la Nuova Camorra Organizzata, «il suo impero». Alcuni testimoni «mi hanno raccontato di quali privilegi godesse in carcere, fin dal ’73», segno di forti collusioni: «aveva la cella sempre aperta, la moquette, il frigo, la tv, passeggiava in vestaglia e un altro detenuto gli  faceva, di fatto, da maggiordomo. E un agente mi raccontò che un giorno nella posta destinata a Cutolo, trovò anche alcuni biglietti di auguri di buon onomastico provenienti da Deputati della nostra Repubblica. Questo agente mi ha chiesto di rimanere anonimo».

Arriviamo al 1981. Al ritorno dall’udienza in un processo, Cutolo incrocia casualmente Salvia.Quest’ultimo dice agli agenti di perquisirlo, come da regolamento. Prima di allora, invece, Cutolo era l’unico detenuto a non venir mai perquisito.Allora Cutolo, davanti agli altri detenuti e agli agenti, gli dà uno schiaffo, così forte da fargli cadere gli occhiali. Giorni dopo, Salvia gli negò, dopo aessersi consultato col Ministero, di poter fare il “compare di nozze” per il matrimonio di un boss anch’egli detenuto a Poggioreale. Allora Cutolo ordinò, dal carcere, di ammazzarlo. L’omicidio avvenne sulla tangenziale di Napoli il 14 aprile 1981.

Giuseppe Salvia

IL MIO INCONTRO CON RAFFAELE CUTOLO: «SÌ, L’HO UCCISO IO»

Oltre ad aver potuto incontrare Mario Incarnato, l’esecutore materiale dell’omicidio, Mattone il 21 luglio 2019 ha potuto parlare con Cutolo nel supercarcere di Parma, un anno e mezzo prima della sua morte. «Era isolato, e non incontrava giornalisti da 30 anni. Parlammo 1 ora, un vetro ci divideva. Era molto invecchiato, col parkinson e l’artrite. Iniziò a fidarsi di me quando gli dissi che dal 2006 ero volontario nel carcere di Poggioreale: gli si illuminarono gli occhi. “Sì, l’omicidio Salvia l’ho fatto io”, mi disse. Prima di allora, almeno pubblicamente, non l’aveva confessato a nessuno».

CLAUDIO SALVIA: «MIO PADRE MI HA INSEGNATO MOLTO»

Il figlio Claudio lavora in Prefettura a Napoli, si occupa di antiracket, in passato si è occupato anche di antimafia. «Mio padre in casa non parlava mai di lavoro. Nel libro di Mattone viene raccontato un episodio che dice molto di che persona fosse mio padre. Un giorno andò a trovare in ospedale “Zio Antonio”, un suo caro amico.Ma con sé aveva anche dei cioccolatini: doveva portarli  a un ragazzino figlio di detenuto, lì curato, e lasciato solo».

Erano gli anni di piombo, del terrorismo, della corruzione dilagante. «Servivano, allora più che mai, servitori dello Stato integerrimi, come mio padre. Tanti corrotti lavoravano anche nel carcere di Poggioreale». Tra l’altro, «a mio padre 2 o 3 volte rifiutarono anche la richiesta di trasferimento in un altro carcere. Richiesta che fu accettata solo il giorno dopo la sua morte».

«Mio padre servì lo Stato fino all’estremo sacrificio», ha proseguito. «La camorra, prima di ammazzarlo, aveva anche cercato di corromperlo, e poi lo minacciò. Fu vittima di una delle peggiori, se non la peggiore, associazione criminale al mondo», la Nuova Camorra Organizzata.

«Io, come Mattone, faccio tanti incontri nelle scuole per sensibilizzare sul tema della legalità, per parlare di antimafia e antiracket. Per parlare di mio padre. E negli incontri con gli studenti, spesso noto come molti giovani e giovanissimi abbiano il mito del camorrista killer, anche per colpa di serie tv come “Gomorra”, che non apprezzo anche perché non vi è mai un risvolto positivo. E poi bisogna continuare a lavorare molto sulla forte correlazione tra dispersione scolastica e devianza sociale:così tanti ragazzi iniziano a delinquere».

«Mio padre, quindi – ha aggiunto -, mi ha insegnato molto, anche se praticamente non ho avuto modo di conoscerlo di persona: il suo sacrificio mi ha consegnato valori altissimi e profondi. A mia figlia, che ha 8 anni, cerco di trasmetterglieli a mia volta. E ho capito quanto sia importante testimoniare ciò che si dice coi fatti». È quel che ha fatto Giuseppe Salvia, testimone di verità e giustizia fino alla morte.

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 12 maggio 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

Purezza e silenzio nelle foto di Cristina Garzone

24 Apr

La mostra “Misticismo copto” esposta nella Basilica di San Giorgio fuori le Mura

Purezza e silenzio, una preghiera fatta anche di gesti lenti, impercettibili.

Sono forti le emozioni che trasmette la mostra di Cristina Garzone, “Misticismo copto”, esposta dal 21 al 25 aprile nell’ex chiostro olivetano della Basilica di San Giorgio fuori le Mura. In occasione della Festa del patrono, la nostra città ha ospitato le fotografie della fotoreporter di fama internazionale. Foto scattate nella città di Lalibela nel nord, patrimonio UNESCO dal 1978, con le sue 11 chiese monolitiche ipogee costruite nel XII secolo e collegate da un intricato sistema di tunnel sotterranei.

«Abbiamo pensato che questo chiostro, per secoli luogo del silenzio, potesse essere adatto per questa mostra», ha detto il diacono Emanuele Pirani durante l’inaugurazione del 21. «Il silenzio e l’osservazione – ha proseguito – sono caratteristiche necessarie perché ogni fotografia sappia cogliere sentimenti, azioni, storia e cultura delle persone, dei luoghi, dei popoli». 

«Lasciamoci prendere dal silenzio, dal fascinosum di queste fotografie», ha aggiunto padre Augusto Chendi, Amministratore parrocchiale di San Giorgio.

Presente all’evento inaugurale anche il nostro Arcivescovo mons. Gian Carlo Perego: «sono stato due volte in Etiopia, la prima per un progetto Caritas Italiana legato alla guerra, la seconda da Direttore della Migrantes. Nei miei viaggi ho potuto ammirare anche queste meravigliose chiese. È una mostra importante – ha proseguito – anche perché ci fa riflettere sui monasteri presenti nella nostra città, una città storicamente religiosa e di preghiera, fortemente mistica». 

Dopo un breve saluto da parte di don Lino Costa, amico da anni di Garzone, ha preso la parola proprio quest’ultima: «nei sotterranei che ho visitato e fotografato sono venuta in contatto con la gente di queste tribù. Persone dure, difficili, ma devote e che trasmettono un senso di purezza da cui mi sono fatta trasportare. Persone che ho avvicinato considerandole non cose, oggetti del mio lavoro, ma con una dignità. Mi sono avvicinata a loro, quindi, in punta di piedi, mettendomi “al loro livello”. Ero diventata la loro fotografa, ho anche regalato loro una foto scattata da me».

Garzone ha quindi donato due copie della sua foto della chiesa di San Giorgio a Lalibela in Etiopia, una al Vescovo e una a padre Chendi come rappresentante della parrocchia. A lei, invece, padre Chendi ha regalato una statuetta di San Giorgio. Poi, il giro con mons. Perego per presentargli la mostra, attraversando le immagini della processione di Santa Maria, della luce che filtra nelle fessure, del bacio della croce prima dell’ingresso in chiesa, delle scarpe tolte prima di entrarvi. Del profondo raccoglimento e stupore di questo popolo così profondamente – è il caso di dire – immerso nel divino.

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 28 aprile 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

Misticismo copto, l’Etiopia tra Matera e San Giorgio: mostra di foto a Ferrara

17 Apr

Dal 21 al 25 aprile la Basilica di San Giorgio fuori le Mura a Ferrara ospita la mostra di Cristina Garzone, fotoreporter di fama internazionale. Le abbiamo rivolto alcune domande

di Andrea Musacci

La Basilica di San Giorgio fuori le Mura ospita la mostra personale di una fotoreporter di livello internazionale, Cristina Garzone. Dal 21 al 25 aprile, in occasione della Festa di San Giorgio, nell’ex Chiostro Olivetano sarà esposto il progetto fotografico dal titolo “Misticismo copto”. Inaugurazione il 21 aprile alle ore 18.45. Protagonista delle opere in parete, la città di Lalibela nel nord dell’Etiopia (a oltre 2600 metri di altezza), patrimonio UNESCO dal 1978, con le sue 11 chiese monolitiche ipogee costruite nel XII secolo e collegate da un intricato sistema di tunnel sotterranei. Come ha scritto Carlo Ciappi a proposito del progetto della Garzone, «è proprio in quell’interiorità della terra che gli Etiopi cercano di immedesimarsi in quell’Uno, di avvicinarsi al suo esempio ideale poggiando mani e volto a pareti non levigate o in presenza di sontuosi arazzi o pregiate rappresentazioni di ogni genere». 

“Misticismo copto” è anche il titolo del suo libro fotografico con contributi, fra gli altri, di Derres Araia (Segretario Diocesi ortodossa Eritrea in Italia) e mons. Antonio Giuseppe Caiazzo (Arcivescovo Diocesi Matera-Irsina). È stato realizzato anche un audiovisivo, a cura di Lorenzo de Francesco (https://www.youtube.com/watch?v=v49yHeP5Wso).

Garzone, originaria di Matera e residente in provincia di Firenze, negli anni ha conseguito numerosi riconoscimenti nei più importanti concorsi internazionali. Fra questi, nel 2010, ha ottenuto il 1° Premio nel concorso “3° Emirates Photographic Competition” in Abu Dhabi, e nel 2014 ha conquistato il Grand Prize nell’8a edizione dell’“Emirates Award of Photography”, sempre in Abu Dhabi: qui, è risultata prima assoluta fra 8500 partecipanti di 58 Paesi, presentando il portfolio “Pellegrinaggio a Lalibela”. Ad aprile 2020 le è stata conferita la più alta onorificenza della fotografia internazionale MFIAP (Maitre de la Federation Internationale de l’Art Photographique): Garzone è ancora la prima ed unica donna fotografa italiana ad aver conseguito un titolo così importante. Infine, nel Luglio 2021 le è stata conferita l’onorificenza EFIAF (Eccellenza della FIAF) e nel marzo 2023 l’onorificenza EFIAF/b. Sue mostre personali sono state esposte in Italia e all’estero.

L’abbiamo contattata per rivolgerle alcune domande.

Dove nasce il progetto “Misticismo copto”?

«Il progetto parte da lontano, nel 2011, quando scelgo di “abbandonare” la mia macchina analogica per iniziare a usare quella digitale, e il mio amato Oriente – sono stata, ad esempio, una decina di volte in India – per visitare il sud dell’Etiopia, alla ricerca delle antiche tribù. Successivamente ho scelto di visitare anche il nord del Paese, in particolare la città di Lalibela, famosa per le sue chiese monolitiche scavate nella roccia».

Cos’ha scoperto qui?

«Ho scoperto innanzitutto queste chiese splendide, scavate nel tufo. Fin da subito mi ha impressionato vedere tanti fedeli così profondamente assorti nella preghiera, molti di loro all’esterno delle strutture, dato che le chiese sono piccole: alcuni di loro – avvolti in mantelli bianchi così da trasmettere una sensazione di purezza – gli ho visti baciare le pareti in segno di devozione». 

Da qui, l’idea del progetto…

«Esatto. Una volta tornata a casa, mi sono confrontata con un noto studioso di storia delle religioni, che mi ha incitato a realizzare un progetto di questo tipo sui copti, mai realizzato prima». 

Com’è nata l’idea di esporre a Ferrara?

«Sono venuta in contatto col diacono Emanuele Pirani tramite don Lino Costa, che conosco da diversi anni e più volte mi ha coinvolto nelle sue iniziative “In viaggio con don Lino”».

Il legame con San Giorgio è profondo…

«Sì, sembra che San Giorgio mi segua ovunque: la chiesa più importante a Lalibela è proprio la chiesa di San Giorgio (Bet Giorgis, ndr), la cui foto aprirà la mia mostra a Ferrara. Tra l’altro, il prossimo 7 settembre tornerò a San Giorgio fuori le Mura per esporre il mio progetto fotografico dedicato alla Festa della Bruna a Matera».

Avremo modo di riparlarne. In ogni caso, Matera per lei non rappresenta solo il luogo di nascita…

«Sì, questo progetto mi fu suggerito da un mio cugino: nel realizzarlo, ho provato emozioni molto forti, ricordi e sensazioni di quando ero bambina e ogni anno tornavo a Matera coi miei genitori. Ho deciso così di lasciare qualcosa d’importante di me nella mia terra, anche in memoria di mio padre, morto quando aveva 58 anni. Sono entrata in contatto anche con diversi artigiani del luogo, fra cui Francesco Artese, maestro dei presepi. Inoltre, lo scorso settembre ho partecipato al Congresso eucaristico nazionale di Matera come fotografa per Logos, la rivista della Diocesi».

A livello di spiritualità, esiste qualche legame tra una terra come Matera e l’Etiopia?

«Sì, a Matera come in tutto il Sud Italia la spiritualità è molto forte, la fede è molto sentita, vissuta in maniera intensa, come in Etiopia. Spesso, invece, al Nord Italia ad esempio, è ridotta a un fatto d’apparenza». 

In generale, qual è il suo rapporto con la fede?

«Sono credente, spesso amo “rifugiarmi” nel convento di S. Lucia alla Castellina a Sesto Fiorentino, perché sento il bisogno di staccarmi dalla quotidianità e perché la vita a volte ti mette davanti a dure prove. Da qui, il mio bisogno di avvicinarmi a Dio, di sentirmi vicino a Lui».

***

Festa di San Giorgio, tante iniziative fino al 25 aprile

Lunedì 24 importante Rassegna corale e strumentale diretta da Davide Vecchi

La Festa di San Giorgio, patrono della città di Ferrara, prevede venerdì 21 aprile alle ore 18.45 l’inaugurazione della mostra “Misticismo copto” di Cristina Garzone.

Sabato 22 aprile alle ore 18, S.Messa solenne presieduta dal nostro Arcivescovo mons. Gian Carlo Perego, mentre domenica 23 aprile, S. Messe alle ore 11.15 (solenne) e 18 (in memoria dei contradaioli di San Giorgio).

Lunedì 24 aprile alle ore 21, I^ Rassegna corale & strumentale “San Giorgio, Patrono di Ferrara”, diretta da Davide Vecchi.Si esibirannoCoro della Basilica di S. Giorgio in Ferrara (Dir. Davide Vecchi), Coro dell’Arengo, Bologna (Dir. Daniele Sconosciuto), Ensemble strumentale “Otto e mezzo” Accademia Corale Teleion, Mirandola (MO) (Dir. Luca Buzzavi),Coro da camera del Conservatorio “G. Frescobaldi” di Ferrara (Dir. Manolo Da Rold).

Ma sono tanti anche gli eventi organizzati dalla Contrada di San Giorgio col Palio di Ferrara:fra questi, “Le Taverne all’ombra del campanile” (dal 21 al 25 aprile), il 22 alle 18 l’inaugurazione dei nuovi giardini della Contrada diSan Giorgio con spettacolo del gruppo sbandieratori e musici; il 23 aprile alle 9.30 è invece in programma la “Caminada Par San Zorz – Trofeo AVIS”. Infine, il 25 aprile sul piazzale San Giorgio alle ore 10, XI Trofeo dell’Idra, Torneo Sbandieratori e Musici.

Pubblicati sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 21 aprile 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

Sacramento e abbandono: Marina Salamon a Ferrara

3 Apr

La sera del 30 marzo a Casa Cini è intervenuta la nota imprenditrice. In dialogo con Piero Stefani e coi presenti, è emersa la  complessità di una vita tra fede, carriera e famiglia

di Andrea Musacci

Per don Lorenzo Milani era centrale l’aspetto sacramentale oppure quello caritatevole/pastorale? Era un esponente ante litteram della “Chiesa in uscita” o, semplicemente, un sacerdote della Chiesa pre Concilio Vaticano II, che cercava, ogni giorno, di incarnare il Vangelo?

Da questi dilemmi, escono, da decenni, accesi dibattiti. Uno di questi, si è svolto la sera del 30 marzo a Casa Cini, Ferrara, in occasione dell’ultimo incontro della Cattedra dei credenti organizzata dalla Scuola di teologia “L. Vincenzi” e coordinata da Piero Stefani. Proprio quest’ultimo ha dialogato con Marina Salamon, personalità eclettica del mondo imprenditoriale italiano, verve da ragazzina e forza da matriarca.

Anelli e catene: il dono, il denaro, la profezia

«Vengo da una famiglia borghese e non credente ma amante di don Milani, che diventava quindi un anello di congiunzione», ha esordito Salamon. Un anello, dunque, il primo che la tenne legata, per alcuni anni, alla Chiesa. Poi ne vennero altri, gli scout («ho avuto il grande dono di incontrare Dio attraverso lo scoutismo e S. Francesco d’Assisi»), Comunione e Liberazione, con quella Jeep comprata coi primi soldi guadagnati e donata a un amico ciellino missionario in Africa.

«La mia fede è un dono» ma ho passato parte della mia vita a sentirmi fuori posto, a essere considerata irregolare, per i figli che ho avuto fuori dal matrimonio e i miei due divorzi alle spalle». Quegli anelli, segno di profonda unione e di libertà, sono diventati catene da cui liberarsi. 

Marina inizia dunque la propria carriera imprenditoriale: da lì il successo, la ricchezza, la fama. Ma sempre senza diventarne schiava. Sì, perché le catene possono anche essere quelle del guadagno, della ricchezza e della sua ostentazione. «Da tanti anni faccio filantropia, ma solo da alcuni rifletto su come possa diventare metadone, cioè possa aiutare a tenere la propria coscienza a posto. Non amo la ricchezza che diventa simbolo del lusso, ostentazione», sono ancora sue parole. «Il denaro dovrebbe essere solo uno strumento e invece troppo spesso ho visto ricchi farsi del male perché non sapevano usarlo». Denaro che, «come ci insegna la Parabola dei talenti, non è davvero nostro», e quindi è da restituire e reinvestire.

Da qui, una riflessione sul mondo di oggi, dove ostentazione e speculazione dominano. «Il tema della finanziarizzazione è serio, grave, incombente, le disuguaglianze aumentano ma bisogna ancora tentare di creare nuove possibilità. Per questo, c’è bisogno di profezia, e di una profezia incarnata nel fare». Per Salamon, pensando anche alle lotte di queste settimane in Francia, «dobbiamo ridefinire l’impegno, l’utilità sociale e il senso del lavoro: perché lavoriamo? Per costruire quale società?». Il suo pensiero è quindi andato alla lettera che don Milani nel ’50 a San Donato a Calenzano scrisse a Pipetta, giovane comunista, suo “compagno” di battaglie, ma che ammonisce così: «Quando tu non avrai più fame né sete, ricordatene Pipetta, quel giorno io ti tradirò. Quel giorno finalmente potrò cantare l’unico grido di vittoria degno d’un sacerdote di Cristo: “Beati i… fame e sete”». È questa la profezia, il non sentirsi mai appagati, il «saper andare oltre», il sapere che c’è sempre Qualcosa che ci supera. 

Sempre capaci di rimetterci davanti a Dio

Questo suo bisogno – di don Milani, e di Salamon – di andare sempre oltre il presente, la concretezza così velocemente tramutabile in grettezza, è stato ripreso da Piero Stefani, che ha posto l’accento sulla «spiritualità “tridentina”» di don Milani, nella quale «centrali erano i sacramenti e un’idea del peccato molto forte».

Ai suoi ragazzi di Barbiana una volta disse: «Per me che l’ho accettata, questa Chiesa è quella che possiede i sacramenti. L’assoluzione dei peccati non me la dà mica l’Espresso (settimanale laico di sinistra, ndr). L’assoluzione dei peccati me la dà un prete. Se uno vuole il perdono dai peccati si rivolge al più stupido, arretrato dei preti pur di averla. (…). In questa religione c’è fra le tante cose, importantissimo, fondamentale, il sacramento della confessione dei peccati. Per il quale, quasi per quello solo, sono cattolico. Per avere continuamente il perdono dei miei peccati. Averlo e darlo». Don Milani era quindi, per Stefani, «il rappresentante di un cattolicesimo che non c’è più».

«Sento spesso il bisogno di rimettermi davanti a Dio – ha risposto Salamon -, perché quando senti la spaccatura dentro di te fra intelligenza e libertà, logica e desiderio di bene, di ciò hai bisogno, e solo di ciò: per questo, don Milani amava la Confessione». Senza, però, «rifugiarsi nei sacramenti» ma vi aderiva per appartenere alla Chiesa, «altrimenti penso avrebbe spaccato tutto… . Non credo, quindi – ha proseguito Salamon – che la sacramentalizzazione fosse centrale in lui». E a maggior ragione oggi, i sacramenti sono ancora fondamentali ma «dobbiamo anche riscoprire il bisogno, di ognuno, di sentirsi accolto, di potersi fidare e abbandonare all’altro».

Un dialogo, con Stefani e col pubblico, conclusosi con la commozione di Marina Salamon. Lacrime di dolore, le sue, per la giovane nipote morta suicida, e per il ricordo dei sei figli perduti in gravidanza. Ma anche lacrime di riconoscenza, segno sacro. Come segni sono quelle piccole chiese gotiche di cui Marina è sempre alla ricerca, e quel Santuario parigino della Medaglia Miracolosa tante volte sfiorato e solo dopo tanto tempo davvero “visto”, come una rivelazione. Un luogo dove potersi abbandonare, dove vedere – col cuore – sacramento e carità uniti oltre ogni falsa separazione.

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 7 aprile 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

(Foto Pino Cosentino)

Bimbi ucraini, grande gioia al Circo 

29 Mar
I bambini ucraini assieme agli artisti

Nel pomeriggio di sabato 25 marzo, oltre 30 bimbi della comunità di Ferrara sono stati invitati al Circo Armando Orfei, grazie anche a Fondazione Migrantes

Un pomeriggio all’insegna dello spasso e del puro divertimento, fra clown, giocolieri, trapezisti e molto altro. Sabato 25 marzo oltre 30 bambini ucraini della nostra città hanno avuto l’opportunità di essere ospiti del Circo Armando Orfei, per uno spettacolo che non dimenticheranno facilmente. Circo Orfei che sarà presente in via della Fiera fino al 2 aprile.

L’iniziativa di regalare ai bambini e ai loro genitori alcune ore di distrazione, è stato possibile grazie alla Fondazione Migrantes della nostra Chiesa e all’Ente Circhi.

Galyna Kravchyk, responsabile gruppo insegnanti del circolo “Luce da luce” della parrocchia ucraina ferrarese, ha coordinato assieme al parroco don Vasyl Verbitskyy l’iniziativa: in pochi giorni, si sono iscritte 58 persone, fra cui 32 bambini (oltre la metà di loro, profughi). Per molti dei piccoli, si è trattata della prima esperienza al circo. Ricordiamo che anche l’Ucraina ha un’importante tradizione circense, tanto da ospitare, per esempio, a Leopoli un circo stabile.

Inoltre, il giorno successivo, domenica 26, nella chiesa di S. Maria dei servi i bimbi ucraini hanno rappresentato la parabola del figliol prodigo, coordinati dalla stessa Kravchyk. E da domenica 19, fino a dopo Pasqua, in chiesa è allestito un mercatino pasquale solidale, il cui ricavato sarà usato per sostenere la popolazione ucraina.

Il nostro Arcivescovo mons. Gian Carlo Perego, Presidente della Fondazione Migrantes, non ha potuto essere presente nel pomeriggio del 25 e così ha visitato il Circo Armando Orfei nel pomeriggio successivo, intrattenendosi con gli artisti e impartendo la benedizione.

Il diploma a Kristal Brinati, giovane artista

La compagnia di Armando Orfei raccoglie 30 fra artisti e tecnici. Fra i primi, vi è la famiglia Brinati, storica famiglia circense: Oscar, 88 anni, il figlio Renato con la moglie Alba Ferrandino, e le loro due figlie Sharon, 28 anni, e Kristal, 20. Tutti artisti. Quest’ultima, sabato, alla fine dello spettacolo pomeridiano a cui hanno assistito anche i bambini ucraini, ha ricevuto dalle mani di Monica Bergamini della Migrantes il diploma del Liceo Artistico “Bruno Munari” di Castelmassa (RO), scuola che ha frequentato “a distanza”, concludendo gli studi l’anno scorso. «Mediamente mi alleno 2 o 3 ore al giorno, tutti i giorni», ci spiega Kristal, che ha debuttato nell’autunno 2020. «Fin da piccola ho fatto la giocoliera, iniziando prima con la ginnastica artistica». Kristal viene da una tradizione di giocolieri, come il padre Renato (al cardiopalma il suo numero di tiri di precisione con la balestra) e il nonno Oscar. La Migrantes nazionale attualmente segue 400 ragazzi circensi studenti in tutta Italia: li aiuta per l’iscrizione, poi i ragazzi seguono le lezioni su classroom, prima di fare una sorta di verifica “a casa” e in seguito un’altra in presenza a scuola.La Migrantes segue, fra gli altri, alcuni ragazzi circensi iscritti all’IPSIA “Bari” di Badia Polesine e all’IPSAA “Bellini” Alberghiera di Trecenta, dove seguono anche un corso di sicurezza. Inoltre, il presidente dell’Ente Circhi Antonio Buccioni collabora in modo costante con la Migrantes, facendo anche in modo che molti giovani circensi possano svolgere l’alternanza scuola-lavoro all’interno del proprio circo.

E a proposito di Migrantes, a Ferrara, oltre a Monica Bergamini, erano presenti il marito Flaviano Ravelli (che viene da una famiglia di giostrai, attività che ha portato avanti fino al 1989) e la loro figlia Valeria: sono i tre operatori pastorali Migrantes che nello specifico si occupano del mondo dello Spettacolo viaggiante. Un anno fa, nella nostra città, si sono prodigati per permettere che i figli di esercenti del Luna Park in San Giorgio, potessero ricevere, nella Basilica di S. Maria in Vado, il sacramento della Confermazione. Un’azione pastorale, questa, importante e non scontata, anche per la presenza, fra i circensi, di evangelici e, in misura minore, di testimoni di Geova.

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 31 marzo 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

(Foto Pino Cosentino)

«La fede è dei testimoni: ecco il mio don Milani». Intervista a Marina Salamon

24 Mar
Don Lorenzo Milani con alcuni dei suoi ragazzi di Barbiana

Sono gli incontri che cambiano la vita, che ci riaprono allo Spirito. Marina Salamon ci racconta della fede giovanile, e di quella ritrovata da adulta. Una fede più che mai incarnata

di Andrea Musacci

Per chi nutre ancora dubbi sulla possibilità, in una sola anima, di unire un forte senso del sacro con una mentalità imprenditoriale, uno slancio all’Assoluto con le ultime statistiche demografiche, si ricreda. 

Marina Salamon, nella sua personale esperienza incarna questa aspirazione. O almeno ci prova, data l’umiltà che dimostra pur avendo alle spalle una vita di successo nel mondo dell’impresa: nata nel 1958 a Tradate (Varese), è diventata imprenditrice quand’era ancora universitaria, fondando “Altana”, azienda leader nel settore di abbigliamento per bambini. Nei primi anni ’90 assume il controllo della società di ricerche di mercato “Doxa” mentre nel 2014 diventa azionista di maggioranza di “Save the Duck”, azienda che produce piumini senza fare uso di penne d’oca. Oggi tutte le sue attività fanno parte della holding “Alchimia”, impresa che opera nel settore della compravendita immobiliare. Nel ’94, per qualche mese, ha fatto anche parte della Giunta di Venezia guidata da Massimo Cacciari. Salamon ha quattro figli (da due padri diversi), una figlia in affido e attualmente assieme al marito Paolo Gradnik (col quale vive a Verona) ospita due famiglie ucraine. 

Giovedì 30 marzo alle ore 20.30 interverrà a Casa Cini a Ferrara (via Boccacanale di Santo Stefano, 24) per il terzo e ultimo incontro della “Cattedra dei credenti” coordinata da Piero Stefani con la Scuola di teologia per laici “Laura Vincenzi”. Tema dell’incontro, “Un’imprenditrice alla scuola di don Milani”.

L’abbiamo contattata per rivolgerle alcune domande.

Marina, com’è nata la sua fede cristiana, dove ha attinto? 

«Vengo da una famiglia non credente, ma grazie a mia nonna, che amavo molto, feci comunque i sacramenti. Quel che però ha fatto la differenza, è stata la mia esperienza negli scout, a partire dai 10 anni. Mio padre Ennio teneva ai valori dello scoutismo, perché anche lui era stato uno scout cattolico, anche se poi è diventato agnostico. È stata un’esperienza meravigliosa, fondante sia per la mia fede che per i miei valori: mi ha insegnato a riconoscere Dio nella creazione, mi ha tenuta attaccata a Dio attraverso San Francesco d’Assisi, anche negli anni in cui sono stata lontana dalla Chiesa. Poi, tra i 14 e i 16 anni, ho frequentato Gioventù Studentesca (movimento interno a CL, ndr), un’altra esperienza per me importante, grazie anche a molti amici di CL che mi sono rimasti amici dopo la mia uscita dal movimento. Le loro testimonianze di vita, legate alla missionarietà, mi hanno aiutato molto». 

Da adulta, invece, quali testimoni l’hanno accompagnata nella fede?

«Ne ho incontrati diversi, ma ne cito tre su tutti, in ordine cronologico: mons. Gianfranco Ravasi, che ho conosciuto grazie a mio padre, il quale non sempre ha condiviso le mie scelte di vita come imprenditrice. Parlò di me a mons. Ravasi, che iniziò a invitarmi a presentare i suoi libri. Un giorno mi disse: “penso che tu non sia così male…”».

Il secondo testimone?

«A un incontro del Forum Ambrosetti, nei primi anni del 2000, fu invitato l’allora card. Joseph Ratzinger. Ci arrivai carica di pregiudizi, ma con dentro una forte domanda sulla fede. Sono rimasta assolutamente affascinata dalla sua intelligenza – proprio nel senso di saper leggere oltre l’apparenza – e dalla sua umiltà. In vita mia non avevo mai visto una combinazione così dei due aspetti: da lui, il carisma usciva prepotentemente, smontando tutto quel che avevo dentro». 

Per quale motivo in particolare? 

«Nel mio mondo imprenditoriale, spesso ciò che conta è esibirsi ed esibire. Ratzinger, invece, era come un monaco eremita del Medioevo…». 

L’ultimo testimone che voleva citare?

«Salvatore Martinez (Presidente di Rinnovamento nello Spirito Santo, ndr), a capo di un movimento a cui non appartengo e non ho appartenuto, ma che in periodi di crisi della mia vita, ad esempio per la separazione col mio ex marito, mi ha preso per mano, invitandomi ad alcuni pellegrinaggi: io, “irregolare” in quanto divorziata, partii quindi con loro a Gerusalemme, poi a Lourdes. Insomma, nell’epoca delle beauty farm e della new age, tutti abbiamo bisogno di qualcuno che ci prenda per mano e ci accompagni. Senza rigide appartenenze ecclesiali». 

Marina Salamon

In una recente intervista, parla dei momenti di studio e preghiera che si ritaglia nella sua pur intensissima vita, per affrontare quelle «ardue domande che si fanno strada in ognuno di noi ed esigono risposta»: a cosa si riferiva?

«Le ardue domande non riguardano l’esistenza di Dio, su cui non ho dubbi, ma il come riuscire a tenere insieme l’insegnamento del Vangelo con le scelte di lavoro, con la famiglia e la vita in genere. Appena riesco, quindi, mi “prenoto situazioni” per poter meditare e studiare: pellegrinaggi, ritiri spirituali o periodi in conventi dove vado senza pc, solo con libri, quaderno e penna. Sono stata, ad esempio, a Bose e a Camaldoli. E sono iscritta, assieme a mio marito, all’Istituto di Scienze Religiose di Verona – dove sto lavorando a una tesi su don Milani -, oltre a frequentare un Master in dialogo interreligioso a Venezia».

Riguardo a don Lorenzo Milani, che cosa della sua testimonianza l’ha colpita e ancora considera importante?

«Avevo 10 anni quando trovai in casa la prima edizione di “Lettera a una professoressa”: già da giovane mi provocava in ciò che mi era più scomodo, è questo era per me commovente, sapeva davvero muovermi il cuore. Capii che non potevo accontentarmi dei miei privilegi, che erano stati soprattutto culturali, venendo da una famiglia colta e aperta al mondo. Don Milani sa invece essere duro come il Vangelo del giovane ricco». 

Come iniziò a concretizzarsi questo suo bisogno di cambiamento?

«Facendo caritativa con CL: andavamo a casa degli immigrati meridionali, case senza pavimento e coi bagni in bugigattoli esterni. Anni dopo conobbi Pietro Ichino (noto giuslavorista, ndr), citato da don Milani come “pierino”, perché i due si conobbero quando Pietro era piccolo. Anche lui mi raccontò come il sacerdote gli cambiò la vita».

“Un’imprenditrice alla scuola di don Milani”: che cos’ha imparato, e che cosa, ancora, impara da lui?

«L’amore per la vita e la valorizzazione di ogni persona. Nel mio caso, soprattutto nelle mie aziende. L’economia, però, si è pesantemente finanziarizzata, e questo ha avuto un impatto su tante scelte delle mie aziende, che a volte ho vissuto con grande angoscia, come una ferita». 

Non è possibile trovare un punto di equilibrio tra persona e finanza? 

«Lo sto cercando in ogni mia scelta. Mi son sempre sentita un genitore nei confronti di tutte le persone che lavorano con me: genitore nei termini di responsabilità nei loro confronti. Ma nei prossimi anni – ne sono convinta, basta leggere le statistiche – l’Italia andrà in crisi, con forti ripercussioni sociali. Il calo demografico è troppo forte, non c’è possibilità di invertire questa tendenza, se non in futuro».

A livello educativo, di trasmissione della fede e dei valori, qualcosa però si può sempre fare. Su questo, cosa può dirci don Milani oggi?

«Don Milani era ed è un profeta e quindi va ascoltato: da giovanissima pensavo fosse troppo “di sinistra”, ma dopo capii che mi sbagliavo. Quando, ad esempio, ai sindacalisti diceva che, una volta conclusa la lotta al fianco dei lavoratori, sarebbe tornato nella sua chiesa, intendeva dire che i valori della fede vanno ben oltre quelli secolari, politici. Dovremmo quindi ripartire da valori forti e chiari, scomodi ma profetici: la Chiesa innanzitutto ha questo compito, questa grande responsabilità educativa».

La Chiesa, però, è sempre più minoranza…

«Non è un problema, anzi può essere positivo: il mondo viene cambiato dalle idee e dai testimoni che le incarnano».

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 24 marzo 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

Laura Vincenzi e il suo sguardo sempre fisso sul Regno

13 Mar

Il 17 marzo a Santo Spirito la Via Crucis con i testi di Laura Vincenzi. Il testamento di un’anima nella prova ma sempre, profondamente, radicata nella fede 

di Andrea Musacci

«Tutta la vita è bellezza nella sua trepida attesa. Nulla nella vita delude, nulla ci inganna, perché la vita non tanto deve darci qualcosa, quanto piuttosto deve far crescere nel cuore dell’uomo la speranza, perché, crescendo la speranza, il cuore dell’uomo si renda capace sempre più, si dilati sempre più ad accogliere un Bene che rimanga infinito. Così l’anima si proporziona al dono di Dio».  (don Divo Barsotti)

La postura della fede è l’abbraccio. L’abbraccio come gesto semplice, così profondamente umano, nel quale l’abbandono non è sinonimo di dispersione di sé, ma di un ritrovarsi, “perdendosi” nell’Altro.

Si avvicina l’attesa Via Crucis prevista per venerdì 17 marzo alle ore 17.45 nella chiesa di Santo Spirito a Ferrara, sul tema “Abbracciare la Croce = Vivere l’Avventura”. Una Via Crucis particolare per percorrere le Stazioni con le meditazioni tratte dalle lettere della Serva di Dio Laura Vincenzi al fidanzato (nella foto, i due insieme), nella chiesa in cui la giovane amava rifugiarsi nei momenti più difficili della malattia che l’ha segnata, temprata, santificata. Quella Croce, appunto, su cui Laura ha saputo non perdersi ma ritrovare, con ancora più forza e intensità, Dio, quell’Assoluto vicino che l’ha accompagnata, sorretta, abbracciata nelle drammatiche fasi che ha iniziato a vivere ancora 21enne: la scoperta di un rigonfiamento nel piede sinistro, l’operazione, la chemio, l’amputazione dell’arto, il calvario che continua, fino al ritorno alla Casa del Padre il 4 aprile 1987. Un calvario fatto di dubbi, paure, di «acque nere», come le chiama lei, ma sempre irrimediabilmente attraversate dalla fede, dall’abbandono dentro quell’abbraccio con l’Eterno. Una lotta nella gioia, la sua, che cercheremo qui di ripercorrere brevemente attingendo ad alcune sue riflessioni contenute nella Via Crucis.

PIANGERE CON CHI PIANGE

«Non ci si perde, non si affonda, Egli ci ama, l’uomo non scompare. Dio mi ama; quanto più mi ama, tanto più io sono. Se mi perde, Dio perde sé stesso, perché se ama, Egli è più in colui che ama che in Sé». (don Divo Barsotti)

Nel luglio 1984 a Laura compare un piccolo rigonfiamento nel piede sinistro che i medici diagnosticano come semplice cisti. In poche settimane però il numero dei noduli cresce. Un chirurgo del Traumatologico di Bologna decide di operarla ritenendo che si tratti di “sarcoma sinoviale”. L’esame istologico conferma purtroppo la diagnosi. Comincia la dura prova della ragazza di Tresigallo. «Bisogna – scrive lei stessa – che il Signore mi aiuti a tenere sotto controllo la situazione perché io non voglio essere schiava della paura, ma al limite, tutt’al più, convivere con il male, che significa Amare nonostante il male». Ma la tentazione di disperare, di non perdersi nell’abbraccio col Dio-Amore ma nel vuoto dello sconforto, a tratti è grande. «Non è facile tenere sotto controllo le “acque nere”», sono ancora sue parole. «Sento che ci sarà molto da imparare nel campo della pazienza, che c’è tutto un altro aspetto della serenità da coltivare (…), per essere di aiuto agli altri».

Essere di aiuto agli altri: nel pieno dello smarrimento, Laura riesce a vedere oltre a sé, a trovare nel cuore l’abbraccio del Signore nel Suo essere sempre Presente, sempre attesa di noi. «Lo sguardo al Crocifisso Le ha insegnato il valore del pianto», scrive mons. Perego nella prefazione alla Via Crucis. «Piangere con chi piange ha fatto uscire la sofferenza di Laura dall’individualismo e dal ripiegamento su sé stessa, l’ha aiutata a superare i tempi della Quaresima per aprirsi allo stupore e alla gioia della Pasqua».

SERENA FINO ALLA MORTE

Spesso «più che l’immortalità, noi desideriamo la sopravvivenza» ma «in realtà la vita eterna è Dio medesimo, perché Egli solo è la vita e l’eternità. Ed è difficile accettarla. Non si può di fatto senza morire a noi stessi». (don Divo Barsotti)

«Signore fa’ che i miei occhi rimangano sempre attratti da ciò che veramente conta, e che è la certezza del Regno, dell’eternità insieme a te». Ripenso a queste parole scritte da Laura nel suo testamento spirituale pochi giorni di rendere l’anima a Dio. E mi torna in mente un’immagine che Guido Boffi, il suo fidanzato, evoca nelle riflessioni contenute in “Lettere di una fidanzata” (ed. AVE, 2018): le ultime ore di Laura trascorse assieme a lui, ai fratelli e ai genitori a guardare un film in televisione. «Attimi di comunione profonda tra tutti noi», scrive Guido. «Vivere la morte non passivamente ma nella fede e nell’amore, è la presenza stessa della resurrezione», scrive don Barsotti, che ho voluto mettere in dialogo con Laura. Parole che sembrano disegnate sulla vita della giovane: una parola – detta e insieme vissuta – per ognuno di noi, su come si possa «vivere l’Avventura».

***

(I brani di don Divo Barsotti sono tratti dal suo libro “Credo nella vita eterna”, ed. San Paolo, 2006)

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 17 marzo 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio