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Come attendiamo il Signore? Il Ritiro di Avvento dell’AC diocesana

7 Dic

Un’attesa, una veglia, che sia piena dello sguardo del Signore su ognuno di noi. Di questo ha riflettuto l’Azione Cattolica diocesana nel tradizionale Ritiro di Avvento svoltosi nel pomeriggio del 3 dicembre all’interno del Seminario di Ferrara. I circa 60 partecipanti hanno riflettuto assieme partendo dal versetto di Isaia 21, 11 –  “Sentinella, a che punto è la notte?” – e dal Vangelo del giorno, dal discorso escatologico di Marco.

Nella meditazione che ha anticipato il discernimento nei gruppi, don Mauro Ansaloni ha riflettuto sulla veglia come «attesa di qualcosa di importante che deve accadere», o «della persona amata».Nel caso del Signore, di «Qualcuno che deve ancora venire ma che è già venuto». Il rischio, però, nell’attesa del Suo ritorno è di addormentarci, di perderci, percependo dunque questa nuova venuta come lontana. Ma Gesù disse ai suoi discepoli: «Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28, 20). Tutti i giorni, anche ora, grazie all’azione dello Spirito. Ineliminabile, però, è anche «l’attesa di quelle notti, cioè di quei momenti di dolore, perdita, di smarrimento, nelle prove, nel nostro peccato». Per vivere l’attesa di Lui come attesa viva bisogna quindi «vigilare sempre, in ogni momento». A questo ci invita Gesù: «a fare attenzione, a non essere né distratti né superficiali ma ad avere uno sguardo concentrato, capace di discernimento e di giudizio sulla realtà». Uno sguardo che nasce da «una lucidità interiore, da un saper fare vuoto nella testa e nel cuore, da una capacità critica e di presenza nella storia, da una capacità di cura integrale», ha proseguito don Ansaloni. Ma questo «sguardo di cura e attenzione» è possibile solo se, in ultima analisi, i nostri occhi – il nostro cuore – sono fissi sulSignore, se «è su di Lui che vigiliamo. Solo un cuore in sintonia col cuore di Gesù, può percepire i segni nella vita di ogni giorno». Questa veglia attiva si attua, dunque, nella quotidianità, «nella ferialità del tempo. Davanti a Dio, il futuro si conquista col presente, con ciò che siamo oggi, ora», nel tempo che sempre dovrebbe essere pieno dell’invocazione “Maranathà”, “vieni, Signore!”. 

Altro appuntamento importante per la nostra AC diocesana sarà la tradizionale Festa dell’Adesione l’8 dicembre nelle parrocchie, anticipata la sera del 7 alle ore 21 nella chiesa di Tresigallo con la Veglia presieduta dal nostro Arcivescovo. 

Andrea Musacci

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Percorso formativo “Vite a contatto” per gli Adulti dell’AC diocesana, anno pastorale 2023-2024: ecco le prossime tappe

* Mercoledì 17 gennaio, ore 21, Porotto: II^ tappa adulti, sul tema “Pienezza”.

* Domenica 21 gennaio, ore 15.30, Ferrara (sede di via Montebello, 8): II^ tappa Adultissimi.

* Domenica 25 febbraio,ore 15.30, Seminario di Ferrara, Ritiro di Quaresima.

* Domenica 10 marzo, ore 15.30, Ferrara (sede di via Montebello, 8): III^ tappa Adultissimi.

*Mercoledì 20 marzo, ore 21, parrocchia di Vigarano Mainarda: III^ tappa Adulti, sul tema “Oltre”.

* Domenica 14 aprile, ore 15.30, Ferrara (sede di via Montebello, 8):IV^ tappa Adultissimi.

*Mercoledì 17 aprile, ore 21, parrocchia dell’Addolorata, Ferrara:IV^ tappa Adulti, sul tema “Cura”.

* Maggio:Convegno Adulti (luogo e data da definire).

*Estate: Campo estivo (luogo e data da definire). 

Pubblicato sulla “Voce” dell’8 dicembre 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

Siamo capaci di aprirci all’imprevisto?

30 Nov

Spaventati da un virus che rischia ogni giorno di invadere anche le nostre abitazioni e le nostre quotidianità, ci rifugiamo nella ragnatela di Internet o in quella del lavoro. La risposta, invece, soprattutto in questo tempo di Avvento, la possiamo trovare nella riscoperta di una capacità autentica di contemplazione

«Tutta l’infelicità degli uomini proviene da una cosa sola: dal non sapersene restare tranquilli in una camera»
(Blaise Pascal, “Pensieri”, 139)

di Andrea Musacci
Da molto tempo il nostro immaginario è colonizzato dall’idea che l’imprevisto, l’avventuroso e l’impervio appartengano all’uscita fisica verso luoghi quanto più lontani, verso esotici miraggi, esperienze mirabolanti, in un perpetuo movimento che fa equivalere la stasi alla morte.
Le limitazioni legate all’attuale emergenza sanitaria ci possono spronare a mettere in discussione questo assioma.


La casa invasa dal virus e dalla paura
Innanzitutto, sottolineiamo una differenza degli ultimi mesi rispetto al lockdown di marzo-maggio: l’intimo, il domestico, il privato hanno perso in sicurezza, i loro confini si sono fatti ancor più labili rispetto all’esterno. La chiusura è meno netta nelle zone non dichiarate rosse, e per questo le case sono, inevitabilmente, più permeabili al virus. Negli ultimi mesi, dunque, la geografia del dentro e del fuori si è fatta sempre più confusa. La casa non è più sicura. Ma lo è mai stata davvero del tutto?
In ultima analisi è un’illusione quella del confine invalicabile tra il sicuro e il non-sicuro, discrimine immaginario quanto quello fra il prevedibile e l’imprevedibile, fra controllo e caos. Dove trovare un’abitazione che ci faccia del tutto sentire “a casa”? Dove trovare un abito che ci calzi perfettamente, senza fastidi, incertezze, spaesamenti o timori di incespicare?
Spaesati e incerti nello spazio immaginato come regno del confortevole e del familiare, non abbiamo calcolato il perturbante che ci assale, che ci prende alle spalle, spesso all’improvviso e in maniera violenta.


La casa invasa dal lavoro
La casa può diventare anche rifugio estremo – come accade in questa pandemia -, prigione intima, addirittura luogo di lavoro, pervaso e invaso – attraverso la Rete che assomiglia sempre più a una ragnatela – dalla produzione, dal dovere di produrre, dall’efficienza. Un corto circuito le cui assurde conseguenze abbiamo già visto nei mesi scorsi e vedremo sempre più nei prossimi anni. Di sicuro sarà qualcosa che vivremo fin quando anche quel “nido” che è la casa sarà invasa da tempi, ritmi e modi di essere e di muoversi funzionali a quello che, prima dell’era dei dispositivi digitali, chiudevamo, quanto possibile, fuori dalla casa stessa.


Conseguenza? Siamo stranieri a casa nostra
Non eravamo abituati a dover fronteggiare un nemico, perlopiù così subdolo, proprio nel luogo dove ci disarmiamo, dove abbassiamo la guardia. Costretti a una “quarantena” domestica spesso ci sentiamo spiazzati, fuori luogo, imbarazzati nei nostri stessi spazi che altri/altro ci costringono a vivere. Luoghi che diventano spazi non più nostri, di cui non riusciamo più a essere abitanti fedeli, che non ci rappresentano. Gabbie che forse diventano tali perché abbiamo dimenticato come si possano vivere davvero come case e non come ameni luoghi di passaggio.
Spazi “vuoti”, insomma, pieni solo di tedio, che, come detto, cerchiamo di riempire col lavoro, con ogni input possibile che possa arrivarci tramite i dispositivi digitali. Un modo anche per esorcizzare quel perturbante che incombe, ma che, in realtà, mai dovrebbe essere rimosso dalla nostra coscienza, ma affrontato, sublimato.

Quale risposta? Profondità o chiusura
C’è chi ha il lusso di poter vivere, in totale intimità e spontaneità, la propria casa, chi invece in un momentaneo appartamento, magari da condividere con altri. In ogni caso, il potersi raccogliere – agevolato, anzi quasi invitato, dall’inverno incalzante – evoca in noi, giorno dopo giorno, il ripiegarci: un atto – più simbolico che fisico – che sta a noi tramutare in profondità (in preghiera, in spazio di contemplazione) oppure in chiusura – un rifugio, una fortezza, un’illusione dunque -, senza speranze da sperare o immaginazione da liberare.
«C’è solo la strada su cui puoi contare / La strada è l’unica salvezza», cantava Gaber e quanto ci sembrano assurde le sue parole nelle vie svuotate dalle ordinanze, dalla paura e dallo sconforto montanti. Per non arenarci in sterili lamentazioni sull’immobilità forzata, ripartiamo allora dal paradosso radicale per cui ciò che non potrà mai proteggerci del tutto – la casa – può, dall’altra parte, definire la nostra identità (seppur non granitica), evocare infinite memorie, aiutare il sogno a fluire liberamente. Non una fuga né un fortino, ma una riscoperta della densità dei nostri spazi, un’intensificazione (come dev’essere) della propria vita attraverso un’apertura a un Oltre dal quale lasciarci spiazzare. A un imprevisto che ci trascenda.
Un’avventura radicalmente diversa da come l’abbiamo sempre immaginata.

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 4 dicembre 2020

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