Una meditazione a partire dall’ultimo libro di don Marco Pozza, “Il balzo maldestro”, uscito il 17 gennaio e presentato a Ferrara: desiderio, dolore e speranza nell’essere umano, tra Vangelo e vita quotidiana
di Andrea Musacci
“Ave Maria piena di grazia: me la immagino così la Madre di Dio, stracolma di grazia, come un vaso che trabocca”. Don Marco Pozza, cappellano del carcere “Due palazzi” di Padova, sa come stravolgere una tranquilla serata invernale. Lo ha fatto, ancora una volta, lo scorso 20 gennaio nel Seminario di Ferrara, invitato dal Serra Club locale a parlare del suo libro-intervista a Papa Francesco (intitolato proprio “Ave Maria”) e della sua ultimissima fatica, “Il balzo maldestro” (San Paolo ed., 2020), uscito appena tre giorni prima, il 17. Due grandi pensieri ricorrono nelle parole di don Pozza, come anche nel libro: quello sull’importanza del saper cogliere l’inatteso, e quello sul sapersi affidare. L’inatteso è quello che Maria di Nazareth vive con l’annuncio dell’angelo, posta davanti alla decisione più difficile della storia, da cui è dipesa la salvezza di ognuno. Ma è anche, per collegarsi al secondo pensiero, l’inaspettata conversione di Antonio, detenuto a Padova, che ha saputo abbandonarsi a Dio, per uscire dal proprio personale inferno. Ed è, infine, la semplicità (per nulla banale) di quel madonnaro napoletano, ateo, che don Pozza ha incontrato, e che a lui, sacerdote, ha rinsegnato, ancora una volta, l’amore per il Cielo e per quella ragazza “stracolma” di grazia.
Sequestro e nuovi orizzonti
Torna sempre, nell’ultimo libro di don Marco Pozza, una contraddizione feconda: quella fra la passione per la sua terra vicentina, di cui spesso fa memoria, e l’amore per quei “nuovi orizzonti” che, a volte inconsapevolmente, tutti sogniamo. Con un continuo omaggio a “Cittadella” di Antoine de Saint-Exupéry (1900-1944), e usando spesso la metafora del sequestro e del riscatto per spiegare la caduta dell’uomo (appunto rapito da Satana ma riscattato da Dio tramite il Figlio), don Pozza amalgama con la sua scrittura inebriante, Incarnazione e realtà detentiva, poesia e cristianesimo, tristezza e ironia liberante.
In attesa dell’in-atteso
C’è sempre spazio per un’attesa, grande e vibrante, nell’essere umano, “insaziabile mendicanza” come lo definiva don Giussani. C’è, dietro l’angolo, sempre la possibilità di un incontro inatteso, che in tutto o in parte – in forme e in tempi strani – in qualche modo ci spiazza, ci destabilizza. La nostra attesa, quindi, in ogni caso non può mai essere inerte: “L’uomo non cambia a forza di ragionamenti – scrive don Pozza -, ma spinto dall’urto inatteso di un incontro, dall’attrazione di qualcuno che, davanti, faccia strada, apra una strada assieme a lui. […] L’opposto è sotto gli occhi: è la creatura destinata a seccarsi nel banale”, nell’inedia dell’ordinario. A volte, invece, il dis-ordine, l’an-archia è libertà, cioè semplice negazione di un ordine etero-imposto. In attesa del riscatto definitivo, scrive l’autore, “il mondo conobbe cos’è l’attesa”, un’attesa dolorosa: “perduta la grazia […] è andato spegnendosi il desiderio, che è diventato voglia”. Voglia di possesso, quindi falso anelito, adulterata apertura all’altro che è anche uno pseudo vedere, un non-riconoscimento di sé e del prossimo. “Appari a me, Signore, perché tutto è molto faticoso quando si perde il gusto di Dio”, scrive Saint-Exupéry in “Cittadella”. “Chi è attaccato alla vita – sono invece parole di Sergio Quinzio nel suo ultimo libro-intervista – possiede il senso della catastrofe che sovrasta, ma insieme spera che al di là di essa potrebbe finalmente manifestarsi una giustizia, una bontà delle cose”. “La mia voce verso Dio: io grido aiuto! / Nel giorno della mia angoscia io cerco il Signore, / nella notte le mie mani sono tese e non si stancano; / l’anima mia rifiuta di calmarsi” (Salmo 77 [76]): quest’inquietudine ci spinge vertiginosamente in alto, non per compiacerci in machiavelliche astrazioni, ma per tendere all’Oltre, al non-ancora detto, al non-dicibile. Al tempo stesso, però, ci immerge ancor più profondamente in noi stessi.
Quel desiderio che non ci fa dormire
Grazie a Dio – è proprio il caso di dirlo – non esiste dunque nulla di “oggettivo”, di già dato, di non necessitante di comprensione, accoglienza e ri-elaborazione. Se così non fosse, non esisterebbe sapere umano, perché non esisterebbe libertà di interpretazione, di comprensione delle cose. Se tutto fosse già de-finito, non esisterebbe spazio per la curiosità, il desiderio, per dare senso al reale: non esisterebbe la libertà, quindi nemmeno l’umano. “Solo due tipi di uomini – scrive don Giussani ne “Il senso religioso” – salvano interamente la statura dell’essere umano: l’anarchico e l’autenticamente religioso. La natura dell’uomo è rapporto con l’infinito: l’anarchico è l’affermazione di sé all’infinito e l’autenticamente religioso è l’accettazione dell’infinito come significato di sé”. La bellezza, scrive don Pozza, è “nascosta apposta per accenderci di desiderio. Per ridestare il desiderio di Lui”. L’importante è il cammino, il mettersi in cammino: “Viandante, sono le tue orme / il sentiero e niente più; / viandante, non esiste il sentiero, / il sentiero si fa camminando”, scriveva il poeta Machado. E anche De Andrè in “Khorakhanè” cantava della “stessa ragione del viaggio, viaggiare”. Appunto sapendo – per dirla con Giovanni Raboni – che “una storia / si fa da sola, e che è empio o almeno incauto / scriversi il finale”. “Lo stupore è stimolo alla scoperta – ci dice don Pozza -, una specie d’insonnia per chi ne viene contagiato”, mentre “essere soddisfatti […] è avere carenza di desiderio […]. Insegnare il fervore, dunque, è fare manutenzione dell’umano”. Abituiamoci quindi a non sentirci mai appagati: “il desiderio metafisico – scriveva Levinas – desidera ciò che sta al di là di tutto quello che può semplicemente completarlo”. Chi ha nostalgia di infinito non è fatto né per avere poltrone troppo comode, né orecchie troppo anestetizzate, né cuori troppo fiacchi per opporsi ai cattivi sentimenti delle masse, ai tiepidi conformismi dettati dalla paura; ma nemmeno per avere muri, per loro natura ciechi.
“Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo”: l’Assurdo che può riempirci
Oltre 40 anni fa Francisco “Chico” Buarque si domandava cantando: “Ah, che sarà […] Quel che non ha ragione ne mai ce l’avrà / Quel che non ha rimedio ne mai ce l’avrà / Quel che non ha misura…”. Citando da Saint-Exupéry quando parla di quelle anatre domestiche attirate dal volo libero delle anatre selvatiche, scrive don Pozza: “il cristianesimo, per me, è tutto qui: custodito in questo ‘balzo maldestro’ provocato dal passaggio di una Presenza […] il cui sguardo provoca ancora oggi, nelle anime cui transita accanto, delle ‘strane maree’ ”. Un salto – per dirla con Kierkegaard – in cui il “già” è fatto di fibre di pane e di carne tra loro amalgamate: “che il Cielo piantasse tenda quaggiù nessuno poteva immaginarlo: era troppo”, sono ancora parole di don Pozza. “E’ bellezza inaudita, inaspettata, fuori misura”. Ma è così la stessa persona, per sua natura in-stabile, dunque sempre tesa all’Eccedente, a quel “cielo nuovo” e a quella “terra nuova” (Ap 21, 1). “Tutte le volte che intendiamo la fede come una conoscenza acquisita o garantita – diceva Quinzio -, siamo già fuori dell’orizzonte della fede”. Quindi dell’umano. È quel che purtroppo fa Mazzarò, ricco possidente siculo, protagonista di una novella del Verga – “La roba” -, quando nel finale, sapendo di dover presto lasciare questa terra, dice: “Roba mia, vientene con me!”. Un desiderio piccolo: Mazzarò con il suo – che è il nostro – sguardo distorto, si fa ingannare dalle cose, ingigantendo ciò che è misero e a breve scadenza, e non vedendo ciò che è già, seppur non-ancora (del tutto). Possiamo, dunque, sognare molto di più, sperare speranze sempre più grandi. Come scrisse Aldo Moro nella sua ultima lettera alla moglie prima di essere ucciso: “vorrei capire, con i miei piccoli occhi mortali, come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo”.
Andrea Musacci
Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 31 gennaio 2020
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