Le parole profetiche scritte dal teologo: «l’elevatezza di un’istanza assoluta» non può venir meno per un giudizio «di utilità o danno»
di Andrea Musacci
«Quell’essere umano che matura nel grembo della madre è tutt’altro che un’escrescenza qualsiasi la cui estrazione può solo giovare», «non è semplicemente “corpo della madre”, non ne è una parte»: «esso è profondamente unito a tutto l’essere della donna e all’ethos della sua esistenza» senza però «dissolversi in esso». Queste parole pronunciate nel 1949 dal teologo Romano Guardini (pubblicate in “Il diritto alla vita prima della nascita”, Morcelliana, 2005) colpiscono per la loro lucidità e franchezza, oltre che per la ragionevolezza del contenuto che portano. E risuonano con ancora di più in questi giorni nei quali è ancora forte l’eco della «vittoria delle donne» per l’inserimento del diritto di aborto nella Costituzione francese.
«Tutti coloro che cooperano al «divenire di un individuo», prosegue Guardini, «anzitutto i genitori e lo Stato, ne sono responsabili. Non debbono forse, in certe circostanze, rappresentare l’interesse dell’essere non ancora indipendente, anche per ciò che attiene alla sua presenza fisica?». Ciò significa una cura e una tutela maggiore, quella necessaria per l’esistenza quando è più indifesa. Per questo, abortire un essere ai primi stadi del suo sviluppo, rappresenta per Guardini «la distruzione (…) di ciò che dovrebbe venir salvato». Il teologo era sempre impeccabile nell’uso attento delle parole; ma ciò non toglie loro una certa potenza. In questo caso, conseguenza anche dell’incubo nazista da poco conclusosi. «Nella misura in cui l’uomo usciva dalla barbarie – scriveva Guardini -, emerse sempre più chiaramente il principio che afferma: non è lecito toccare la vita dell’uomo finché non ha commesso un delitto per il quale è fissata, secondo il diritto vigente, la pena di morte, oppure finché non attacca un altro uomo che può salvarsi soltanto uccidendo l’aggressore (…). Non è [quindi] lecito distruggere la vita dell’essere umano che matura nel grembo materno, poiché non ha commesso nessun delitto, né ha posto un altro uomo in stato di legittima difesa». «Non appena (…) viene a mancare il principio assoluto» della sacralità della vita («l’elevatezza di un’istanza assoluta», la definisce Guardini), «e al suo posto subentra un giudizio pratico di utilità o danno, tutto va a rotoli»: diventa cioè «impossibile farsi un’idea di quali minacce possano sorgere per la vita e l’anima dell’uomo, se, privo del baluardo di questo rispetto, viene consegnato allo Stato moderno e alla sua tecnica».
E infine – logica conseguenza -, sul tema dell’obiezione di coscienza all’aborto, Guardini fa una riflessione radicale ma più che mai realistica e attuale: se l’aborto è un diritto assoluto della donna (tanto da inserirlo in una Carta costituzionale, possiamo aggiungere ora), la sua applicazione dev’essere portata avanti a ogni costo. Anche contro la volontà di terzi: «il singolo medico può rifiutarsi, se però si verificasse il caso limite che tutti i medici disponibili si rifiutassero, lo Stato dovrebbe costringerne uno». Parole da non dimenticare.
È l’Amore a poter salvare dall’abisso della morte. È solo un Dio che ha sofferto per noi, a poter dare una risposta alle nostre angosce più profonde: l’insegnamento di Papa Benedetto XVI
di Andrea Musacci
«Lo pregherò di essere indulgente con la mia miseria». Era il 2016 quando Papa Benedetto XVI rispose così a una domanda su cosa avrebbe detto all’Onnipotente una volta terminati i propri giorni terreni. Erano passati tre anni dalla rinuncia al ministero petrino, annuncio imprevisto che sconvolse il mondo. La profonda umiltà mostrata davanti alla Chiesa, al Popolo di Dio, al mondo intero, mai era venuta meno.
Parole, queste citate, presenti nello stupendo libro-intervista “Ultime conversazioni”, e che ci sono tornate alla mente dopo aver ricevuto la notizia del suo ritorno alla Casa del Padre. Parole in un certo senso riecheggiate anche nel finale dell’omelia esequiale pronunciata da Papa Francesco lo scorso 5 gennaio: «Benedetto, fedele amico dello Sposo, che la tua gioia sia perfetta nell’udire definitivamente e per sempre la Sua voce!». Come a pregare, lui stesso, il Padre di quell’indulgenza suprema che Benedetto XVI ha sempre implorato.
TESTIMONIANZA DI UN UOMO
La Parola del Vangelo «non si può rinunciare a diffonderla, non può diventare insignificante»
(“Ultime conversazioni”)
Si è già detto molto di Papa Ratzinger, anche se forse mai si riuscirà a dire davvero tutto di una figura così discreta e grandiosa. Altro, invece, si è voluto, da più parti, tacere in queste ultime due settimane: che la Verità e il suo annuncio scatenano anche il male. Così è accaduto, per fare due esempi, con la furia di buona parte del mondo islamico che seguì alla sua lectio magistralis nel 2006 a Ratisbona; e la censura, che subì un anno dopo, quando un manipolo di docenti, intellettuali e studenti gli impedì, invitato, di intervenire all’inaugurazione dell’anno accademico alla “Sapienza” di Roma.
Anche con la testimonianza, dunque, ha servito la sua Chiesa, sempre con uno stile ammirabile, pur nella fermezza delle idee. “Al cuore della fede” è il titolo di uno dei suoi libri ed è stata la sua missione di una vita, quella di un Papa, di un teologo, di un uomo. Il tornare sempre a Lui.
LA FEDE E LE SUE INQUIETUDINI
«L’amore richiama e chiede eternità»
Al centro non del suo pensiero, ma della sua vita intera, c’è sempre stato l’incontro personale con Cristo. «Nella liturgia, nella preghiera e nelle meditazioni per l’omelia domenicale lo vedo proprio davanti a me», confessò nell’intervista sopracitata. «È sempre grande e misterioso, ovvio. Molte parole del Vangelo le trovo ora, per la loro grandezza e gravità, più difficili che in passato». Emerge, quindi, anche nel suo racconto personale, il sentirsi inadeguati davanti alla Sua maestosità: «si percepisce quanto si è lontani dalla grandezza del mistero», anche se, proseguiva, «non è che io abbia la sensazione che Lui sia lontano. Posso sempre parlargli nel mio intimo. Ma sono comunque una piccola, misera creatura che non sempre riesce ad arrivare fino a Lui».
L’avvicinarsi della morte donava alla sua fede e alle sue inquietudini una densità ancora maggiore: «alcune parole che esprimono l’ira, la riprovazione, la minaccia del giudizio diventano più inquietanti, impressionanti e grandi di prima». E ancora: «pur con tutta la fiducia che ho nel fatto che il buon Dio non può abbandonarmi, più si avvicina il momento di vedere il suo volto, tanto più forte è la percezione di quante cose sbagliate si sono compiute. Perciò uno si sente oppresso dal peso della colpa, sebbene naturalmente la fiducia di fondo non venga mai meno».
Sulla morte rifletté anche nell’Udienza generale del 2 novembre 2011: «(…) abbiamo timore davanti alla morte perché abbiamo paura del nulla, di questo partire verso qualcosa che non conosciamo, che ci è ignoto. E allora c’è in noi un senso di rifiuto perché non possiamo accettare che tutto ciò che di bello e di grande è stato realizzato durante un’intera esistenza, venga improvvisamente cancellato, cada nell’abisso del nulla. Soprattutto noi sentiamo che l’amore richiama e chiede eternità e non è possibile accettare che esso venga distrutto dalla morte in un solo momento».
UN DIO CHE SOFFRE, UN DIO CHE AMA
«Vivi di noi: / Sei / la verità che non ragiona: / un Dio che pena / nel cuore dell’uomo»
(David M. Turoldo, “Vivi di noi”)
Cosa può, quindi, salvare, tutto ciò che ognuno di noi è stato, ha vissuto, di cui ha goduto e di cui ha sperato? Non “cosa” ma Chi. «Non è la scienza che redime l’uomo», scrive in “Spe salvi” 26. «L’uomo viene redento mediante l’amore». Ma nemmeno quello umano basta, «l’essere umano ha bisogno dell’amore incondizionato».
È l’Amore, unico, a poter salvare dall’abisso della sofferenza e della morte. È solo un Dio che si è fatto carne e che ha sofferto con noi, per ognuno di noi, che può dare una risposta alle nostre angosce più profonde. «Dio è un sofferente – scrive Papa Ratzinger in “Guardare al Crocifisso” -, poiché è un innamorato: la tematica del Dio che soffre deriva dalla tematica del Dio che ama e rimanda immediatamente ad essa. Il vero e proprio superamento del concetto antico di Dio da parte di quello cristiano sta nella conoscenza che Dio è amore». Dalla Passione di Gesù in modo pieno, quindi, «si diffonde in ogni sofferenza la con-solatio, la consolazione dell’amore partecipe di Dio e così sorge la stella della speranza» (“Spe salvi” 39).
L’UNICA LIBERAZIONE
«Benché noi non siamo in grado di erompere dall’angustia della nostra coscienza, Dio può però irrompere in questa coscienza rivelando sé stesso»
(“Introduzione al cristianesimo”)
«Credere significa sempre: uscire con Gesù Cristo, non temere il caos, poiché egli è il più forte. Egli è uscito e noi lo seguiamo». È questo l’irrompere di Dio nella nostra vita. Un moto dall’esterno all’interno – semplificando – che in realtà richiama il moto contrario. Ratzinger ne parla in tre commoventi meditazioni raccolte nel libro “Guardare al Crocifisso”, edito da Jaca Book.
«La vera alienazione, la non libertà e la prigionia dell’uomo – scrive – sta nella sua assenza di verità. Se egli non conosce la verità, se non sa chi egli è, per che cosa esiste, che cosa è la realtà di questo mondo, allora brancola solo nel buio, allora è un prigioniero e non un uomo libero nell’essere». Senza totalità, senza fine in ogni nostra parola, azione, aspirazione, non possiamo dirci davvero liberi. Ma questa libertà è possibile nella Chiesa, corpo di Cristo, il cui muro «è consolidato dal sangue del vero agnello, Gesù Cristo»: «La vera azione liberatrice della Chiesa consiste nel conservare la verità nel mondo»; perché «chi salta la questione della verità e la ritiene insignificante amputa l’uomo». Al tempo stesso la Chiesa, pur essendo luogo che ci protegge dalle forze del male, «non è un fortino o una fortezza chiusa», ma «una città aperta». E non può essere altrimenti.
Con la Pasqua, infatti, Dio «ci precede (…) e regge la fiaccola all’interno di un’estensione inesplorata per farci coraggio, per seguirlo». L’uomo è integralmente sé stesso «quando è divenuto perfetta apertura verso Dio», riflette, invece, in “Introduzione al cristianesimo”: «L’uomo perviene a sé stesso uscendo da sé stesso», «presso il totalmente Altro che è Dio».
Ma fino alla nostra morte terrena, ciò, per noi, «rimane una sortita nell’ignoto» (d’ora in poi di nuovo citiamo da “Guardare al Crocifisso”). «Guardiamo stupiti i segni della morte a cui in precedenza non avevamo mai prestato attenzione e sorge il sospetto che l’intera vita propriamente sia solo una variazione della morte; che noi siamo ingannati e che la vita propriamente non è un dono, ma una pretesa». Chi, però, «ha visto l’agnello – Cristo in croce – sa: Dio ha provveduto». In questo agnello «intravvediamo lontana, nei cieli, un’apertura; vediamo la mitezza di Dio, che non è né indifferenza né debolezza, ma suprema forza».
La gioia che ne consegue, è riflesso debole – eppur vero – di quella con l’incontro con l’Onnipotente, davanti al quale ognuno si presenterà nudo nella propria miseria, come nelle parole di Papa Benedetto XVI citate all’inizio. Il Giudizio – per usare parole di Guardini in “Le cose ultime” -, «significa che nella luce santa di Dio l’uomo ha una visione completa di sé stesso (…). Tutto ciò che di solito rende insensibili – orgoglio, vanità, distrazione, indifferenza – è assente. L’animo è aperto, sensibile, raccolto. E l’uomo vuole. Sta dalla parte della verità contro sé stesso. (…) Il cuore si mette a disposizione del pentimento e si consegna così alla potenza santificante dello spirito creatore».
Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 13 gennaio 2023
Mi chiamo Andrea Musacci.
Da aprile 2014 sono Giornalista Pubblicista, iscritto all’Ordine dei Giornalisti dell’Emilia-Romagna.
Sono redattore e inviato del settimanale "la Voce di Ferrara-Comacchio" (con cui collaboro dal 2014: http://lavoce.e-dicola.net/it/news - www.lavocediferrara.it), e collaboro con Filo Magazine, Periscopio e Avvenire.
In passato ho collaborato con La Nuova Ferrara, Listone mag e Caritas Ferrara-Comacchio.
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"L'unica cosa che conta è l'inquietudine divina delle anime inappagate."
(Emmanuel Mounier)