11 settembre 2001: cos’è rimasto vent’anni dopo?

6 Set

Il crollo delle Twin Towers, l’attacco al Pentagono, l’aereo dei passeggeri eroi. Meditazioni su un colpevole oblio

di Andrea Musacci

L’11 settembre di 20 anni fa non è successo niente. Cerco nelle librerie della città e su internet eventuali recenti pubblicazioni sul tema. Nulla. Evidentemente non è accaduto niente, o ciò che è accaduto non era così rilevante da dedicarvi, nel ventennale, pubblicazioni, riflessioni, approfondimenti. Forse, il prossimo 11 settembre, o nei giorni immediatamente prima, sarà trasmesso un qualche speciale in TV, qualche articolo uscirà su riviste e quotidiani. Vi saranno giusto due parole fugaci, il 12 settembre già vecchie, già fuori luogo.E perlopiù saranno legate alla – non meno tragica e importante – questione afghana, quindi all’attualità. A ciò che è “fresco” (in realtà anch’esso già consumato, quindi nuovamente poco o per nulla interessante per i più). Due decadi sono un’eternità per una società come la nostra, la società di Snapchat, il social network dove messaggi, foto e brevi video vengono cancellati automaticamente al termine della visualizzazione da parte del destinatario. 


1. Il trauma dell’11 settembre è stato rimosso.
Nell’epoca del comfort, bisogna rimuovere il terrore di essere spazzati via da un momento all’altro, di bruciare vivi su una torre alta oltre 400 metri, di essere obbligati a gettarsi nel vuoto da altezze vertiginose. Nulla deve più turbarci. Gli stessi ciclici attacchi terroristici nelle città occidentali quasi non fanno più notizia (basti pensare al recente attentato islamista in un supermercato di Auckland, in Nuova Zelanda). 


2. La violenza non ha più parole per essere detta. Quella violenza inattesa, cieca e furiosa degli attentatori islamisti dell’11 settembre, quella collera cosciente e diretta non sappiamo più nominarla con coraggio. È scomparsa. In un’epoca «post-narrativa» qual è la nostra – come la definisce il filosofo Byung-Chul Han -, più in generale la violenza è bandita dal nostro immaginario, dai nostri discorsi, o al massimo relegata all’ambito psichico, medico, giudiziario. E con essa il dolore, la morte. Insomma, il limite.


3. Il perturbante. In tedesco heimlich è ciò che è familiare ma “tenuto nascosto”, rimosso. Al contrario, unheimlich è lo svelamento del rimosso, il perturbante, il traumatico, ciò che disturba. Gli attentatori dell’11 settembre 2001, pur non residenti negli USA, da diversi mesi vi soggiornavano, nascosti, “camuffati” nelle loro reali intenzioni. La loro emersione, l’affiorare del loro desiderio di morte ha rotto, in maniera inaudita e incontrollabile, la stabilità delle nostre esistenze.


4. Far diventare famigliare ciò che non lo è. Nel romanzo di Don DeLillo, L’uomo che cade (Falling Man), il piccolo Justin – figlio dei due protagonisti – e due suoi amici di giochi chiamano “Bill Lawton” colui che hanno sentito nominare ai telegiornali come “Bin Laden”. La pronuncia simile ha fatto mal intendere ai bambini il nome del terrorista, oppure si tratta di un inconscio bisogno di riportare alla normalità, traslando in un rassicurante inglese, l’estraneo e incomprensibile nome arabo? 


5. Nel regno dell’immagine, del mediatico, del virtuale, il corpo tornò centrale. Tanto quello distruttore quanto quello inerme da distruggere (insieme alla maestosa impotenza della torre, luogo fisico sfacciato nella propria grandezza) si riprese la scena. Quasi a dire che vi è qualcosa che resiste al dominio del digitale, dell’istantaneo, del rimovibile. 


6. Il dolore e la passione sono sempre di carne e sangue, prossime. Hanno odore e consistenza, pregnanza, e sono possibili, quindi sempre a noi vicine. E per questo ricercano condivisione, apertura, comunità. Così è stato, l’11 settembre 2001 e nei mesi successivi, sotto quella nube di distruzione, in quella valle di macerie, sangue e strazio. E condiviso non può non essere un discorso sulle profondità del nostro essere umani, del male che ci abita e di che speranza poter vivere.


7. Il Covid-19, per molti aspetti, è opposto alla violenza jihadista. È subdolo nella sua invisibilità, silenzioso, lento e potenzialmente infinito nella propagazione. Si diffonde, non si concentra. Strazia il corpo dall’interno. La guerra che ci invita a fare è falsa, al massimo metaforica, impossibile. Non è, come i truci stragisti di 20 anni fa, un nemico reale, non ha corpo né nome. Allora, nel 2001, l’aria della metropoli fu attraversata da quegli aerei mortiferi. Ora, nella pandemia ormai quasi endemica, l’aria è campo intangibile per il propagarsi del virus. Allora, vivevamo la paura concreta del potenziale terrorista, in aeroporto e non solo. Ora, la fobia che ogni persona a noi fisicamente prossima, possa essere vettore di male, di contagio.


8. “Nulla sarà più come prima”. Tante volte lo si è ripetuto dopo l’11 settembre. Facciamo in modo che sia così, con consapevolezza e conseguente ricerca, sofferta ma inevitabile, su come porsi davanti al dolore inevitabile. La pandemia, di nuovo, ci mette di fronte al limite e al deperimento. Siamo di nuovo disarmati, non tanto di fronte al virus in sé, ma all’imprevisto negativo che trova la nostra società fiacca, sazia e pur vuota, insensibile a tutto ciò che è trascendenza del dato e del materiale.


9. Facciamo che non sia più così. Che non si dimentichi la matrice di quel male – lucida e fanatica nella sua falsa religiosità -, che non si rimuova, ancora, la grande domanda sul vivere e sul morire. Sul mistero insondabile, ineliminabile. Sull’Inatteso e su come ci troverà.

Pubblicato su “La Voce di Ferrrara-Comacchio” del 10 settembre 2021

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