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Tanti soldi, zero diritti: Qatar, l’abisso oscuro dietro i Mondiali di calcio

21 Nov

Discriminazioni contro donne, lavoratori, altre religioni. Ingenti finanziamenti per “comprare” pezzi importanti d’Italia e ai terroristi islamisti

Diritti umani, finanziamento a gruppi terroristici, affari con l’Occidente: i campionati del mondo di calcio hanno acceso i riflettori sui molti lati oscuri del Qatar, emirato del Vicino Oriente ricco di petrolio ma povero di democrazia. Un piccolo Paese (1,8 milioni di abitanti) segnato da grandi disuguaglianze.

Lavoro, donne, religioni: diritti inesistenti

Dall’indagine svolta da Amnesty International si evince innaanzitutto come le autorità del Qatar utilizzano leggi repressive nei confronti di chi critica le istituzioni, c’è poco spazio per l’informazione indipendente, la libertà di stampa è limitata da crescenti vincoli imposti agli organi d’informazione.

I lavoratori migranti non possono formare sindacati né aderirvi e, insieme ai cittadini locali, rischiano ripercussioni se vogliono esercitare il diritto alla libertà di manifestazione. Ad oggi i lavoratori migranti costituiscono oltre il 90% della forza-lavoro del Qatar. Senza di loro, i Mondiali non si sarebbero svolti. Nonostante i tentativi in corso di riformare il sistema del lavoro, mancato o ritardato versamento dei salari, condizioni di lavoro insicure, diniego dei giorni di riposo, ostacoli alla ricerca di un nuovo lavoro e accesso limitato alla giustizia restano una costante nella vita di migliaia di lavoratori. La morte di migliaia di essi non è mai stata indagata. Cifre ufficiali (da un’inchiesta del Guardian) parlano di 6500 operai deceduti solamente durante i lavori per i Mondiali, ma il numero potrebbe essere più alto. Erano persone provenienti da India, Pakistan, Nepal, Bangladesh e Sri Lanka.

Nell’ultimo decennio vi sono stati anche molti processi iniqui nei quali gli imputati hanno denunciato di essere stati torturati e condannati sulla base di “confessioni” estorte. 

Capitolo religioni: La costituzione del Qatar stabilisce che l’islam è la religione di stato e la sharia è la fonte principale per la legislazione. La conversione dall’islam ad un’altra religione è illegale. Il proselitismo da parte di una religione diversa dall’islam è vietato, e le religioni non musulmane non possono esporre in pubblico simboli religiosi.

Le donne non hanno vita facile: il sistema del tutore maschile (di solito il marito, il padre, un fratello, un nonno o uno zio) prevede che debbano chiedere il permesso per sposarsi, studiare all’estero, lavorare nell’amministrazione pubblica, viaggiare all’estero se hanno meno di 25 anni e accedere ai servizi di salute riproduttiva. L’articolo 296.3 del codice penale, inoltre, criminalizza vari atti sessuali consensuali tra persone dello stesso sesso e prevede il carcere.

Fiumi di soldi per le moschee

Decine di milioni di euro sono stati versati dal Qatar per finanziare in Europa moschee e centri islamici: un’”invasione” finanziaria e dottrinale documentata nel libro “Qatar Papers” (2019) dei giornalisti francesi Christian Chesnot e Georges Malbrunot. 

Attraverso la ong “Qatar Charity” fiumi di soldi sono arrivati in Francia, Italia, Germania, Svizzera, Gran Bretagna e nei Balcani. La “Qatar Charity” nel mondo ha finanziato 8148 moschee e 490 centri di memorizzazione del Corano, di cui 138 tra moschee e centri islamici nella sola Europa. Negli ultimi anni, la ong avrebbe largamente sponsorizzato progetti legati ai Fratelli musulmani, movimento mondiale fondamentalista fuori legge in diversi Paesi fra cui l’Austria. 

Solo nel 2014 sono arrivati in Europa 72 milioni di euro (per 140 progetti). Negli anni in Italia dalla “Qatar Charity” sono giunti ben 50 milioni di euro per 45 progetti (di cui 10 milioni sarebbero dovuti andare per la grande moschea di Milano, zona Sesto San Giovanni). Yassine Lafram, Presidente dell’UCOII (Unione delle Comunità Islamiche in Italia), ha ammesso di aver ricevuto la somma di 25 milioni euro dal Qatar «per una trentina di progetti nel quadro di una collaborazione iniziata nel 2013 e andata avanti per un paio di anni». Tuttavia, bisognerebbe fare chiarezza, soprattutto sui restanti 25 milioni di euro che la “Qatar Charity” ha versato nelle sue casse.

Questi soldi sono arrivati ad esempio alle comunità islamiche di Saronno, Bergamo, Brescia, Vicenza, Ravenna, Piacenza, Mirandola e di diverse in Sicilia. Anche il nostro territorio è interessato: nel 2016 il centro culturale islamico di via Traversagno a Ferrara ha ricevuto dal Qatar 100mila euro per la ristrutturazione dello stabile. Nello stesso anno, soldi dal Qatar sono giunti al centro islamico di Argenta.

Inoltre, come rivelato da “The National News” (giornale negli Emirati Arabi Uniti), nel 2020 «gli ultimi resoconti disponibili mostrano che anche [la ong] Islamic Relief ha ricevuto 1,4 milioni di dollari nel 2018 da Qatar Charity». Pochi mesi dopo, il Dipartimento di Stato USA ha condannato Islamic Relief per le ripetute esternazioni e atteggiamenti antisemiti da parte di suoi leader.Senza parlare del suo appoggio – più volte esplicitato – ai Fratelli Musulmani e ad Hamas. 

Finanziamenti al terrorismo

E proprio in Palestina il Qatar è un attore rilevante: dal 2008 offre sostegno economico per la ricostruzione di Gaza e direttamente ad Hamas, classificata da alcuni paesi (ad esempio Stati Uniti e Regno Unito) e potenze regionali (Israele, Egitto, Emirati) come entità terroristica alla luce delle azioni di carattere suicida e degli attacchi missilistici compiuti ai danni di obiettivi stranieri e di civili. Dal 2018 il Qatar fornisce ad Hamas pagamenti mensili in media di 20 milioni di dollari. 

Inoltre, durante lo scoppio della “Primavera araba”, il Qatar si è mostrato favorevole all’istituzione di governi filo-islamisti in Medio Oriente e Nord Africa, come in Egitto e Tunisia, incontrando le ostilità da parte delle petromonarchie tradizionaliste del Golfo, in primis Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, intenzionate a preservare lo status quo nella regione. Infine, si sospetta che il Qatar finanzi o abbia finanziato anche gruppi terroristici quali al-Qaeda, lo Stato Islamico e forze paramilitari filoiraniane.

Italia terra di conquista 

Come documentato su “Panorama” del 13 maggio 2019, sempre più forte è anche l’invasione di capitali qatarioti nel nostro Paese per motivi non di proselitismo: negli ultimi anni, solo per fare alcuni esempi, i fondi sovrani del Paese arabo hanno comprato Valentino Fashion Group, fatto forti investimenti in Costa Smeralda, comprato l’ex Meridiana (compagnia aerea sarda, oggi Air Italy), i grattacieli di Porta Nuova a Milano, l’Excelsior di Roma, l’ospedale Mater Olbia. In cambio, l’Italia ha venduto al Qatar, tramite Fincantieri, sette navi da guerra per 4 miliardi di euro, 24 caccia da combattimento con il consorzio Eurofighter, dato 3 miliardi di euro per l’acquisto di 28 elicotteri. 

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 25 novembre 2022

La Voce di Ferrara-Comacchio

(Foto Amnesty International)

11 settembre 2001: cos’è rimasto vent’anni dopo?

6 Set

Il crollo delle Twin Towers, l’attacco al Pentagono, l’aereo dei passeggeri eroi. Meditazioni su un colpevole oblio

di Andrea Musacci

L’11 settembre di 20 anni fa non è successo niente. Cerco nelle librerie della città e su internet eventuali recenti pubblicazioni sul tema. Nulla. Evidentemente non è accaduto niente, o ciò che è accaduto non era così rilevante da dedicarvi, nel ventennale, pubblicazioni, riflessioni, approfondimenti. Forse, il prossimo 11 settembre, o nei giorni immediatamente prima, sarà trasmesso un qualche speciale in TV, qualche articolo uscirà su riviste e quotidiani. Vi saranno giusto due parole fugaci, il 12 settembre già vecchie, già fuori luogo.E perlopiù saranno legate alla – non meno tragica e importante – questione afghana, quindi all’attualità. A ciò che è “fresco” (in realtà anch’esso già consumato, quindi nuovamente poco o per nulla interessante per i più). Due decadi sono un’eternità per una società come la nostra, la società di Snapchat, il social network dove messaggi, foto e brevi video vengono cancellati automaticamente al termine della visualizzazione da parte del destinatario. 


1. Il trauma dell’11 settembre è stato rimosso.
Nell’epoca del comfort, bisogna rimuovere il terrore di essere spazzati via da un momento all’altro, di bruciare vivi su una torre alta oltre 400 metri, di essere obbligati a gettarsi nel vuoto da altezze vertiginose. Nulla deve più turbarci. Gli stessi ciclici attacchi terroristici nelle città occidentali quasi non fanno più notizia (basti pensare al recente attentato islamista in un supermercato di Auckland, in Nuova Zelanda). 


2. La violenza non ha più parole per essere detta. Quella violenza inattesa, cieca e furiosa degli attentatori islamisti dell’11 settembre, quella collera cosciente e diretta non sappiamo più nominarla con coraggio. È scomparsa. In un’epoca «post-narrativa» qual è la nostra – come la definisce il filosofo Byung-Chul Han -, più in generale la violenza è bandita dal nostro immaginario, dai nostri discorsi, o al massimo relegata all’ambito psichico, medico, giudiziario. E con essa il dolore, la morte. Insomma, il limite.


3. Il perturbante. In tedesco heimlich è ciò che è familiare ma “tenuto nascosto”, rimosso. Al contrario, unheimlich è lo svelamento del rimosso, il perturbante, il traumatico, ciò che disturba. Gli attentatori dell’11 settembre 2001, pur non residenti negli USA, da diversi mesi vi soggiornavano, nascosti, “camuffati” nelle loro reali intenzioni. La loro emersione, l’affiorare del loro desiderio di morte ha rotto, in maniera inaudita e incontrollabile, la stabilità delle nostre esistenze.


4. Far diventare famigliare ciò che non lo è. Nel romanzo di Don DeLillo, L’uomo che cade (Falling Man), il piccolo Justin – figlio dei due protagonisti – e due suoi amici di giochi chiamano “Bill Lawton” colui che hanno sentito nominare ai telegiornali come “Bin Laden”. La pronuncia simile ha fatto mal intendere ai bambini il nome del terrorista, oppure si tratta di un inconscio bisogno di riportare alla normalità, traslando in un rassicurante inglese, l’estraneo e incomprensibile nome arabo? 


5. Nel regno dell’immagine, del mediatico, del virtuale, il corpo tornò centrale. Tanto quello distruttore quanto quello inerme da distruggere (insieme alla maestosa impotenza della torre, luogo fisico sfacciato nella propria grandezza) si riprese la scena. Quasi a dire che vi è qualcosa che resiste al dominio del digitale, dell’istantaneo, del rimovibile. 


6. Il dolore e la passione sono sempre di carne e sangue, prossime. Hanno odore e consistenza, pregnanza, e sono possibili, quindi sempre a noi vicine. E per questo ricercano condivisione, apertura, comunità. Così è stato, l’11 settembre 2001 e nei mesi successivi, sotto quella nube di distruzione, in quella valle di macerie, sangue e strazio. E condiviso non può non essere un discorso sulle profondità del nostro essere umani, del male che ci abita e di che speranza poter vivere.


7. Il Covid-19, per molti aspetti, è opposto alla violenza jihadista. È subdolo nella sua invisibilità, silenzioso, lento e potenzialmente infinito nella propagazione. Si diffonde, non si concentra. Strazia il corpo dall’interno. La guerra che ci invita a fare è falsa, al massimo metaforica, impossibile. Non è, come i truci stragisti di 20 anni fa, un nemico reale, non ha corpo né nome. Allora, nel 2001, l’aria della metropoli fu attraversata da quegli aerei mortiferi. Ora, nella pandemia ormai quasi endemica, l’aria è campo intangibile per il propagarsi del virus. Allora, vivevamo la paura concreta del potenziale terrorista, in aeroporto e non solo. Ora, la fobia che ogni persona a noi fisicamente prossima, possa essere vettore di male, di contagio.


8. “Nulla sarà più come prima”. Tante volte lo si è ripetuto dopo l’11 settembre. Facciamo in modo che sia così, con consapevolezza e conseguente ricerca, sofferta ma inevitabile, su come porsi davanti al dolore inevitabile. La pandemia, di nuovo, ci mette di fronte al limite e al deperimento. Siamo di nuovo disarmati, non tanto di fronte al virus in sé, ma all’imprevisto negativo che trova la nostra società fiacca, sazia e pur vuota, insensibile a tutto ciò che è trascendenza del dato e del materiale.


9. Facciamo che non sia più così. Che non si dimentichi la matrice di quel male – lucida e fanatica nella sua falsa religiosità -, che non si rimuova, ancora, la grande domanda sul vivere e sul morire. Sul mistero insondabile, ineliminabile. Sull’Inatteso e su come ci troverà.

Pubblicato su “La Voce di Ferrrara-Comacchio” del 10 settembre 2021

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“Luca desiderava solo fare del bene”: intervista a suor Delia, missionaria in Congo

1 Mar

Intervista a suor Delia Guadagnini dopo l’attentato in Congo in cui hanno perso la vita Luca Attanasio, Vittorio Iacovacci e Mustapha Milambo: “era un amico sempre disponibile, ci sentivamo spesso”

di Andrea Musacci

«L’uccisione del nostro ambasciatore Luca, del suo carabiniere guardia del corpo Vittorio e dell’autista Mustapha, ci rattrista moltissimo. Luca era una persona amabile. Ci aveva appena incontrati a Bukavu sabato scorso. Si interessava di ciascuno di noi, ci è stato molto vicino durante e dopo l’alluvione qui a Uvira. Potevamo chiamarlo al telefono come si chiama uno di famiglia. Preghiamo per lui, per chi è morto con lui, per le loro famiglie, per i loro uccisori. Pregate per noi e il nostro popolo. Che possiamo tener duro in questi tempi difficili. Un forte abbraccio pieno di sofferenza, aspettando un’alba nuova».
Chi ci scrive è suor Delia Guadagnini delle Saveriane di Maria, dal 1989 in missione a Uvira come coordinatrice delle scuole della diocesi. Una città, quella di Uvira, vicina al luogo dove lunedì scorso è avvenuta la sparatoria nella quale hanno perso la vita l’ambasciatore italiano Luca Attanasio, il carabiniere della sua scorta Vittorio Iacovacci e il loro autista congolese Mustapha Milambo. I tre sono stati uccisi nel villaggio di Kibumba, nella regione del Nord Kivu, per la precisione lungo la strada che da Goma, capoluogo del Nord Kivu, sale verso Rutshuru, passando appunto vicino Kibumba e addentrandosi nel parco nazionale del Virunga.
Le abbiamo rivolto alcune domande sul suo rapporto di collaborazione e amicizia con Luca Attanasio.
Due giorni prima, infatti, il sabato, l’Ambasciatore era stato nella vicina località di Bukavu, per poi il giorno dopo recarsi a Goma dove ha cenato al ristorante italiano “Mediterraneo” con i suoi connazionali, soprattutto missionari saveriani e volontari.


Suor Delia, in che occasione aveva conosciuto Attanasio?
«Il nostro caro Ambasciatore l’ho conosciuto due anni fa quando dovevo rinnovare il mio Passaporto Italiano. Mi chiedevo se dovessi andare in Italia o recarmi a Kinshasa… Poco dopo, siamo state informate dal nostro Consolato a Kinshasa che l’Ambasciatore sarebbe venuto a Bukavu, non lontano da Uvira, e sarebbe stato accompagnato dalla signora Rita che lavorava all’Ambasciata, che si sarebbe resa disponibile a facilitare le pratiche a chi avesse avuto bisogno di rinnovare il passaporto senza andare a Kinshasa. La Provvidenza è arrivata!
In quella occasione abbiamo passato una serata insieme dai Missionari Saveriani a Bukavu dove ha alloggiato due giorni.
A dire il vero il mio primo incontro con lui è stato lì, in uno scantinato dei saveriani. Era in tuta da ginnastica e stava rovistando in un deposito di oggetti africani, statue, maschere, che gli stessi saveriani avevano accatastato lì, dopo aver scelto i pezzi migliori per il Museo che si trova all’entrata della loro casa. Lì ci siamo salutati per la prima volta, abbracciati come fratello e sorella. Subito mi ha fatto sentire a mio agio in quella stanza polverosa, chiedendo di me, delle mie sorelle, di quel che facciamo, delle difficoltà che incontriamo… Mi ha promesso che un giorno o l’altro sarebbe arrivato a Uvira. Lo aspettavamo questa volta ma mi aveva detto al telefono che la sua missione questa volta era piuttosto verso Goma. Non ha comunque rinunciato, anche a costi di una certa fatica, di fare “un salto” a Bukavu per incontrarci lo scorso fine settimana».

Suor Delia Guadagnini


Purtroppo l’ultimo della sua vita…Che persona era Attanasio? Come lo descriverebbe?
«Luca era una persona buona, attenta, amabile, aperta all’altro, desiderosa di fare del bene, di promuovere il bene. Amava il nostro Paese, la Repubblica Democratica del Congo. Penso che in ufficio all’Ambasciata, ci stesse poco. Uomo di relazione, capace di stare coi grandi e coi piccoli, sorridente, affettuoso, pieno di iniziative. Molto colto e altrettanto umile. Attento ai dettagli».


In che modo aiutava la vostra comunità?
«Quando nell’aprile dell’anno scorso, la furia delle acque si è abbattuta su Uvira, Luca mi ha telefonato più volte. Voleva accertarsi che stessimo bene, che avessimo trovato un luogo dove rifugiarci. Chiedeva dove era scappata la popolazione, chi ci stava dando una mano. La sua voce ci ha espresso vicinanza e affetto. Tutte le volte che mi chiamava al telefono, concludeva con queste parole: “Sr. Delia, non si faccia riguardo a chiamarmi, mi dica se avete bisogno di qualcosa, siamo qui per voi!”. Questo era il suo motto: “Siamo qui per voi!”».


Con quale frequenza lei lo incontrava o era in contatto con lui?
«Da quando era Ambasciatore qui in Congo, dal 2017, ci vedevamo una volta all’anno quando veniva a Bukavu per incontrare gli italiani presenti in questa regione, e tra essi, molti missionari. Spesso comunque ci sentivamo al telefono: era come averlo davanti, sorridente, affettuoso, sempre positivo».


Quando è stata l’ultima volta che l’ha incontrato?
«L’ultimo incontro risale all’anno scorso. Allegro, sprizzante, desideroso di conoscere la nostra realtà e di informarci sui vari progetti in cui era impegnato nella nostra Regione. Sempre molto accogliente, sobrio nel vestire e capace di tessere relazioni. Ci ha parlato di sua moglie, delle sue figlie e ci diceva che alla prossima sarebbe venuto anche con loro per far conoscere la nostra realtà. Era accompagnato da due carabinieri che, in un angolo del salone, mentre prendevamo una pizzetta, mi hanno fatto un bell’elogio del nostro Ambasciatore. Con lui stavano molto bene!».


Quando avrebbe dovuto rivederlo o risentirlo?
«Avrei dovuto salire a Bukavu per incontrarlo sabato ma visti i miei molteplici impegni di lavoro, ho rinunciato. Me ne pento…».


Stavate collaborando a qualche progetto in particolare?
«Niente di particolare poiché lui non aveva progetti specifici qui nella zona di Uvira, che peraltro desiderava tanto conoscere…».

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 5 marzo 2021

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“Io e mia moglie due anni fa siamo fuggiti da Rutshuru”: parla Carlo Volpato, volontario in Congo

1 Mar
Carlo Volpato con la moglie Kavira Kannette

Il racconto a “La Voce” di Carlo Volpato, dal ’95 volontario nel villaggio vicino al luogo del triplice omicidio di Luca Attanasio, Vittorio Iacovacci e Mustapha Milambo: “La strada della sparatoria è insicura da almeno 5 anni”, la sua denuncia

Carlo Volpato, 87 anni, dal 1995 (un anno dopo la pensione) è volontario in Congo per l’associazione “Mondo Giusto” di Lecco, che da oltre 50 anni è impegnata in diverse zone del Paese, tra cui il Nord Kivu. Tanti i progetti portati a termine, fra cui centri nutrizionali, centri sanitari di base (fondamentali in un Paese povero e dove la sanità non è gratuita), acquedotti, ponti, sale polivalenti e centrali idroelettriche.
Carlo attualmente è in Italia, nella sua Zelarino vicino Venezia, in attesa del vaccino anti-Covid-19. Una volta vaccinato, l’idea è di tornare a Goma con la moglie congolese Kavira Kannette (i due in foto), originaria proprio di Rutshuru, dove si sono conosciuti e poi sposati nel 2016.
«L’anno scorso ho conosciuto personalmente Luca Attanasio a una cena a Rutshuru», racconta a “La Voce” Volpato. «Essendo io il più anziano tra i volontari, ha voluto che gli raccontassi tutti i nostri progetti. Era molto interessato, abbiamo parlato tutta la sera.
Due anni fa io e mia moglie ci siamo trasferiti dal villaggio di Rutshuru, dove ho vissuto per quasi 25 anni, alla città di Goma perché non ci sentivamo più sicuri. Avevamo anche in cantiere la costruzione di una nuova sorgente, ma non siamo riusciti a portarla a termine. Per non parlare della manutenzione delle altre opere costruite negli anni, non ancora effettuata». In quella zona, infatti, imperversano bande armate organizzate, le quali, per la mancanza dello Stato (e con un esercito debole e mal pagato), in qualche modo lo sostituiscono anche nell’aiuto alla popolazione. O almeno così fanno credere. «È da almeno 5 anni che la strada dove lunedì scorso è avvenuta la sparatoria non è sicura», prosegue Volpato. «Negli anni l’ho percorsa tantissime volte – ogni settimana o quasi – per recarmi da Rutshuru a Goma per l’approvvigionamento del materiale necessario ai nostri lavori: non capisco, quindi, chi in questi giorni ha detto che quella strada solo ultimamente fosse diventata insicura. Mia moglie a Rutshuru ha diversi parenti, una casa, ma anche lei ha molta paura a tornarci, anche perché, avendo sposato un bianco, si sente ancor più in pericolo».
Prima di salutarci, Carlo ci racconta d’aver ricevuto nelle scorse settimane l’invito per la cena con l’ambasciatore Attanasio svoltasi la sera precedente alla sparatoria, nel ristorante italiano “Mediterraneo”. Così recitava: “Cari e gentili Connazionali,
questa domenica 21 febbraio l’Ambasciatore, accompagnato dal Dottor Alfredo Russo, Capo della Cancelleria Consolare, e dal Direttore del World Food Program (PAM) Dottor Rocco Leone, effettueranno una breve missione consolare in Goma. Siete tutti invitati a partecipare al cocktail di saluto (…) presso il Ristorante “Mediterraneo” questa domenica alle ore 18:00 (…). Speriamo di incontrarvi tutti a Goma!
Un caro saluto,
l’Ambasciatore ed il Capo della Cancelleria consolare”.
Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 5 marzo 2021

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