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Tanti soldi, zero diritti: Qatar, l’abisso oscuro dietro i Mondiali di calcio

21 Nov

Discriminazioni contro donne, lavoratori, altre religioni. Ingenti finanziamenti per “comprare” pezzi importanti d’Italia e ai terroristi islamisti

Diritti umani, finanziamento a gruppi terroristici, affari con l’Occidente: i campionati del mondo di calcio hanno acceso i riflettori sui molti lati oscuri del Qatar, emirato del Vicino Oriente ricco di petrolio ma povero di democrazia. Un piccolo Paese (1,8 milioni di abitanti) segnato da grandi disuguaglianze.

Lavoro, donne, religioni: diritti inesistenti

Dall’indagine svolta da Amnesty International si evince innaanzitutto come le autorità del Qatar utilizzano leggi repressive nei confronti di chi critica le istituzioni, c’è poco spazio per l’informazione indipendente, la libertà di stampa è limitata da crescenti vincoli imposti agli organi d’informazione.

I lavoratori migranti non possono formare sindacati né aderirvi e, insieme ai cittadini locali, rischiano ripercussioni se vogliono esercitare il diritto alla libertà di manifestazione. Ad oggi i lavoratori migranti costituiscono oltre il 90% della forza-lavoro del Qatar. Senza di loro, i Mondiali non si sarebbero svolti. Nonostante i tentativi in corso di riformare il sistema del lavoro, mancato o ritardato versamento dei salari, condizioni di lavoro insicure, diniego dei giorni di riposo, ostacoli alla ricerca di un nuovo lavoro e accesso limitato alla giustizia restano una costante nella vita di migliaia di lavoratori. La morte di migliaia di essi non è mai stata indagata. Cifre ufficiali (da un’inchiesta del Guardian) parlano di 6500 operai deceduti solamente durante i lavori per i Mondiali, ma il numero potrebbe essere più alto. Erano persone provenienti da India, Pakistan, Nepal, Bangladesh e Sri Lanka.

Nell’ultimo decennio vi sono stati anche molti processi iniqui nei quali gli imputati hanno denunciato di essere stati torturati e condannati sulla base di “confessioni” estorte. 

Capitolo religioni: La costituzione del Qatar stabilisce che l’islam è la religione di stato e la sharia è la fonte principale per la legislazione. La conversione dall’islam ad un’altra religione è illegale. Il proselitismo da parte di una religione diversa dall’islam è vietato, e le religioni non musulmane non possono esporre in pubblico simboli religiosi.

Le donne non hanno vita facile: il sistema del tutore maschile (di solito il marito, il padre, un fratello, un nonno o uno zio) prevede che debbano chiedere il permesso per sposarsi, studiare all’estero, lavorare nell’amministrazione pubblica, viaggiare all’estero se hanno meno di 25 anni e accedere ai servizi di salute riproduttiva. L’articolo 296.3 del codice penale, inoltre, criminalizza vari atti sessuali consensuali tra persone dello stesso sesso e prevede il carcere.

Fiumi di soldi per le moschee

Decine di milioni di euro sono stati versati dal Qatar per finanziare in Europa moschee e centri islamici: un’”invasione” finanziaria e dottrinale documentata nel libro “Qatar Papers” (2019) dei giornalisti francesi Christian Chesnot e Georges Malbrunot. 

Attraverso la ong “Qatar Charity” fiumi di soldi sono arrivati in Francia, Italia, Germania, Svizzera, Gran Bretagna e nei Balcani. La “Qatar Charity” nel mondo ha finanziato 8148 moschee e 490 centri di memorizzazione del Corano, di cui 138 tra moschee e centri islamici nella sola Europa. Negli ultimi anni, la ong avrebbe largamente sponsorizzato progetti legati ai Fratelli musulmani, movimento mondiale fondamentalista fuori legge in diversi Paesi fra cui l’Austria. 

Solo nel 2014 sono arrivati in Europa 72 milioni di euro (per 140 progetti). Negli anni in Italia dalla “Qatar Charity” sono giunti ben 50 milioni di euro per 45 progetti (di cui 10 milioni sarebbero dovuti andare per la grande moschea di Milano, zona Sesto San Giovanni). Yassine Lafram, Presidente dell’UCOII (Unione delle Comunità Islamiche in Italia), ha ammesso di aver ricevuto la somma di 25 milioni euro dal Qatar «per una trentina di progetti nel quadro di una collaborazione iniziata nel 2013 e andata avanti per un paio di anni». Tuttavia, bisognerebbe fare chiarezza, soprattutto sui restanti 25 milioni di euro che la “Qatar Charity” ha versato nelle sue casse.

Questi soldi sono arrivati ad esempio alle comunità islamiche di Saronno, Bergamo, Brescia, Vicenza, Ravenna, Piacenza, Mirandola e di diverse in Sicilia. Anche il nostro territorio è interessato: nel 2016 il centro culturale islamico di via Traversagno a Ferrara ha ricevuto dal Qatar 100mila euro per la ristrutturazione dello stabile. Nello stesso anno, soldi dal Qatar sono giunti al centro islamico di Argenta.

Inoltre, come rivelato da “The National News” (giornale negli Emirati Arabi Uniti), nel 2020 «gli ultimi resoconti disponibili mostrano che anche [la ong] Islamic Relief ha ricevuto 1,4 milioni di dollari nel 2018 da Qatar Charity». Pochi mesi dopo, il Dipartimento di Stato USA ha condannato Islamic Relief per le ripetute esternazioni e atteggiamenti antisemiti da parte di suoi leader.Senza parlare del suo appoggio – più volte esplicitato – ai Fratelli Musulmani e ad Hamas. 

Finanziamenti al terrorismo

E proprio in Palestina il Qatar è un attore rilevante: dal 2008 offre sostegno economico per la ricostruzione di Gaza e direttamente ad Hamas, classificata da alcuni paesi (ad esempio Stati Uniti e Regno Unito) e potenze regionali (Israele, Egitto, Emirati) come entità terroristica alla luce delle azioni di carattere suicida e degli attacchi missilistici compiuti ai danni di obiettivi stranieri e di civili. Dal 2018 il Qatar fornisce ad Hamas pagamenti mensili in media di 20 milioni di dollari. 

Inoltre, durante lo scoppio della “Primavera araba”, il Qatar si è mostrato favorevole all’istituzione di governi filo-islamisti in Medio Oriente e Nord Africa, come in Egitto e Tunisia, incontrando le ostilità da parte delle petromonarchie tradizionaliste del Golfo, in primis Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, intenzionate a preservare lo status quo nella regione. Infine, si sospetta che il Qatar finanzi o abbia finanziato anche gruppi terroristici quali al-Qaeda, lo Stato Islamico e forze paramilitari filoiraniane.

Italia terra di conquista 

Come documentato su “Panorama” del 13 maggio 2019, sempre più forte è anche l’invasione di capitali qatarioti nel nostro Paese per motivi non di proselitismo: negli ultimi anni, solo per fare alcuni esempi, i fondi sovrani del Paese arabo hanno comprato Valentino Fashion Group, fatto forti investimenti in Costa Smeralda, comprato l’ex Meridiana (compagnia aerea sarda, oggi Air Italy), i grattacieli di Porta Nuova a Milano, l’Excelsior di Roma, l’ospedale Mater Olbia. In cambio, l’Italia ha venduto al Qatar, tramite Fincantieri, sette navi da guerra per 4 miliardi di euro, 24 caccia da combattimento con il consorzio Eurofighter, dato 3 miliardi di euro per l’acquisto di 28 elicotteri. 

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 25 novembre 2022

La Voce di Ferrara-Comacchio

(Foto Amnesty International)

«Vogliamo vivere da donne libere»: storie di iraniane contro il regime

3 Ott
Kimia Ghorbani

Kimia Ghorbani, giornalista, cantante e musicista, racconta a “La Voce” la sua storia di oppositrice della Repubblica Islamica: «mi hanno arrestato quattro volte e frustrato perché suonavo per strada. Ma andiamo avanti senza paura»

di Andrea Musacci

Durante il sit-in a sostegno delle donne iraniane svoltosi lo scorso 28 settembre sul Listone a Ferrara, ho avuto modo di conoscere Kimia Ghorbani, giornalista, musicista e cantante 38enne originaria di Teheran. Kimia collabora con “Farda English – Radio Free Europe / Radio Liberty” e “Iran International tv”, tv indipendente con sede a Londra con cui si è collegata in diretta durante il sit-in in piazza Trento e Trieste, prima di cantare in persiano una versione di “Bella ciao” che parla del diritto di tutti a “pane, lavoro e libertà”.

Musiche proibite

Arrivata in Italia nel 2013, Kimia, dopo un periodo a Bologna, da 4 anni vive a Ferrara col marito Samuele e le loro due figlie, di 4 e 6 anni. Dall’Iran è uscita con un visto per motivi di studio, dopo aver frequentato la scuola di italiano a Teheran. «Amo l’Italia da quand’ero bambina, da quando in tv guardavo il cartone animato “Libro del cuore”. E poi mi sono innamorata della musica di Ennio Morricone». Proprio la musica è la ragione della sua vita: «a Teheran ho fatto il Conservatorio, e dal 2009 al 2013 sono stata musicista di strada, suonavo la melodica e il daf (un tipo di tamburo, ndr). Penso di essere stata la prima donna musicista di strada nel mio Paese. Per questo, alcuni uomini musulmani mi disturbavano, mi urlavano dietro, a volte mi sputavano addosso. Per loro, vedere una donna cantare e suonare per strada era come vedere una prostituta. Altre persone, invece, ci ascoltavano e ballavano». Kimia è stata arrestata e trattenuta alcuni giorni in prigione per ben tre volte, dove è stata anche frustrata: 70-80 frustrate, «la maggior parte, perlomeno – mi dice – controllate. Per non infierire, facevano mettere un libro sotto l’ascella di chi colpiva, in modo che non gli venisse la tentazione di dare forza…».

Ma la prima volta che Kimia è stata arrestata aveva 16 anni: «scrissi un articolo in difesa degli scrittori uccisi dal regime quell’anno, ne stampai alcune copie e lo distribuii ai miei compagni a scuola. Un insegnante chiamò la polizia, che mi arrestò appena tornata a casa: mi bendarono e portarono via, nell’indifferenza dei vicini. In macchina i poliziotti mi minacciarono: “ti stupriamo e poi ti ammazziamo”, mi dissero. Ebbi molta paura. Dopo questo arresto, mi hanno impedito di concludere gli studi. Mi sono dovuta diplomare alle scuole serali». Successivamente ha lavorato in una libreria della capitale.

La questione del velo

Mentre suonava per strada, Kimia indossava sempre il velo, anche se non le piaceva. «Ora, col senno di poi, dico che è stato un errore indossarlo. Dicevamo: “è un aspetto secondario, l’importante è lottare per la democrazia, per la difesa delle scrittrici arrestate…”. I giovani di oggi, invece, sono diversi, anche più coraggiosi di noi». A scuola le bambine sono obbligate a portare il velo nero fin dall’età di 7 anni, in modo che lasci scoperto solo l’ovale del viso. Per strada, invece, almeno la scelta del colore del velo è libera. 

 «Chiedevo ad altre donne di unirsi a noi musicisti, ma avevano paura. Ho sofferto tanto di depressione, mi sentivo soffocare, non mi sentivo libera: per questo ho deciso di lasciare il Paese. Negli ultimi anni, invece, è più facile vedere donne suonare per strada». Kimia ha trovato un riscatto in Italia anche esibendosi nel 2016 nel noto talent RAI “The Voice of Italy”.

La prigionia del padre

«Mia madre era un insegnante, mio padre operaio, entrambi iscritti al partito comunista, sempre stato partito clandestino (il partito del Tudeh, ndr)». Kimia aveva 4 anni quando arrestarono suo padre. Era il 1988, anno in cui il regime guidato dall’ayatollah Khomeini, imprigionò oltre 5mila iscritti a quel partito. «Quel giorno tornata a casa vidi mio padre già bendato per essere portato via. Aveva la maglietta sporca di sangue. In casa avevano messo tutto sottosopra, strappato anche i cuscini per trovare volantini o libri proibiti. A me e a mia sorella, nostro padre disse: “sono miei amici, è solo un gioco, non preoccupatevi. Poi andremo in montagna”». Lo tennero in carcere per 1 anno: «per tutto il tempo non sapemmo niente di lui, non potevamo vederlo. Eravamo sicure l’avessero impiccato come han fatto con tanti altri oppositori. Dopo 1 anno ci hanno permesso di portargli i vestiti e l’hanno fatto uscire. Ma i suoi amici, per paura, smisero di rivolgergli la parola». 

Uno Stato terrorista

Kimia riesce a rimanere ancora in contatto con alcuni suoi familiari in Iran, facendo molta attenzione a ciò che dice. Per comunicare con loro usa la VPN (Virtual Private Network), un sistema difficilmente rintracciabile. Le chiedo, quindi, di spiegarmi meglio qual è la situazione nel suo Paese: «la grave crisi economica in Iran è perlopiù colpa del regime, e poi, in minima parte, delle sanzioni americane. In ogni caso, il regime islamico invece di aiutare la popolazione finanzia gruppi terroristici in Medio Oriente, come Hamas in Palestina e Hezbollah in Libano, coi soldi che perlopiù ricava dalla vendita di gas e petrolio». Lo scorso 20 settembre – se n’è parlato poco sui media – l’Ucraina ha tagliato i rapporti diplomatici con l’Iran perché fornisce droni anche al regime di Putin. 

«Voglio che sia chiaro – conclude Kimia – che noi iraniani non stiamo lottando solo per la nostra libertà, ma per libertà del mondo intero. Il regime iraniano è un pericolo per tutti, un tumore: per lo sviluppo del nucleare, per il finanziamento di gruppi terroristici anche in Europa e altre parti del mondo, per il caos che provoca in Medio Oriente».

Iran, Afghanistan e Ferrara

Proprio nei giorni in cui redigo questo servizio dedicato al movimento di protesta in Iran, due notizie giungono dall’Afghanistan, a rafforzare l’importanza di ciò che avviene nel Paese da oltre 40 anni soggiogato dal regime islamico.

Sit-in di solidarietà alle donne iraniane (Ferrara – foto Francesca Brancaleoni)

A Kabul il 29 settembre un gruppo di coraggiose donne afghane ha manifestato con slogan e cartelli  davanti all’ambasciata iraniana a sostegno delle proteste in Iran. Le forze talebane sono intervenute duramente, sparando mitragliate in aria, spingendo e minacciando percosse per disperdere la manifestazione. L’altra notizia riguarda l’ennesimo terribile attentato nella capitale afghana: lo scorso 30 settembre all’interno del Centro formativo Kaaj, nel distretto di Dasht-e-Barchi, a Kabul ovest, un attentatore, munito di cintura esplosiva è entrato nell’istituto uccidendo la guardia all’entrata e dirigendosi in una classe dove avrebbe fatto detonare l’ordigno. 30 i morti e più di 40 feriti, tutti tra i 18 e i 25 anni. Ben 18 ragazze sono decedute.

Due episodi drammatici che raccontano del desiderio di libertà e autonomia di tante donne in Afghanistan e in tutti quei paesi dove regimi islamici, o comunque dittatoriali, fondano parte del loro potere oppressivo sul controllo dei corpi e delle menti delle donne.

Donne – perlopiù giovani – che da settimane scendono in piazza a Teheran e in tante altre città iraniane per manifestare contro l’obbligo dello hijab, in particolare dopo l’omicidio da parte della polizia della giovane curdo-iraniana Mahsa Amini. Secondo la ong Iran Human Rights almeno 92 persone sono state uccise durante la repressione delle proteste. Ma sempre più forte è il sostegno in molti altri Paesi, con manifestazioni in varie capitali europee, e in Italia in tante città.

Come detto, anche a Ferrara lo scorso 28 settembre si è svolto un sit-in di protesta e solidarietà che ha visto la partecipazione di oltre 100 persone, di cui una buona parte iraniane (quasi tutte giovani) e molti italiani.

Durante il sit-in i presenti hanno intonato un canto di protesta, “Yare dabestanie man” di Fereydoon Foroughi, un invito a scendere in piazza e a lottare insieme. Una donna, Leily, ha raccontato: «ho lasciato l’Iran perché non volevo che mia figlia crescesse senza libertà». Ora lei, il marito Amir e la  figlia vivono a Ferrara.

A margine della manifestazione, ho chiesto ad alcune iraniane di raccontarci la loro storia. Una di queste, N. M. – ci chiede di scrivere solo le iniziali del suo nome – vive a Ferrara da 5 anni dov’è iscritta al corso di Lingue e letterature moderne dell’Università. «Quand’ero bambina sono scappata dall’Iran e ho vissuto nel Tagikistan. Fino a quando avevo 15 anni tornavo ogni tanto in Iran, e lì mi mettevo lo hijab, perché avevo paura. In Italia ho imparato di quanto è bello essere liberi, ma ora dai miei coetanei in Iran sto imparando che lì è ancora più bello lottare per la libertà. Vogliamo rovesciare il regime. Se anche stavolta non ci riusciremo, dovremmo mettere in eterno hashtag sui social per i tanti giovani che verranno ancora imprigionati e uccisi. Non lo vogliamo».

Arezoo Tahmoaresi, invece, ha 28 anni, è originaria di Karaj, e vive a Ferrara, dove attualmente lavora al McDonald di piazza Trento e Trieste. È arrivata in Italia con la madre e le due sorelle, e da un anno è sposata, ma suo marito vive a Vienna. «Da dieci giorni – prosegue – non sento mio padre, nessuno in Iran, perché hanno bloccato l’accesso a internet».

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 7 ottobre 2022

La Voce di Ferrara-Comacchio

Cristiani e musulmani, «ragioniamo insieme anche su ciò che ci divide»

22 Nov

Proficuo incontro il 20 novembre tra Piero Stefani e Hassan Samid

La conoscenza reciproca tra le religioni non può avvenire solo cercando, spesso a tutti i costi, punti di convergenza, ma anche ragionando e confrontandosi assieme su ciò che divide.

Sulle differenze e l’importanza di non sottovalutarle, si è trovato – “paradossalmente” – un accordo nel corso del confronto pubblico svoltosi il 20 novembre tra Piero Stefani, biblista e scrittore, e Hassan Samid, Presidente del Centro di Cultura islamica di Ferrara.L’appuntamento pomeridiano – il terzo in memoria del giornalista trentino Piergiorgio Cattani -, organizzato in collaborazione con l’Ufficio diocesano per l’ecumenismo, riguardava la presentazione del libro di Stefani, “Bibbia e Corano, un confronto”, pubblicato lo scorso giugno da Carocci. “In memoria di Piergiorgio Cattani (1976-2020). ‘Allora quando uscirà il libro mi prenoto per fare la recensione’ ” il nome dell’incontro che ha visto un’ottima partecipazione di pubblico nella sala parrocchiale di Santa Francesca Romana.

Marcello Panzanini, Direttore del sopracitato Ufficio diocesano, ha introdotto ricordando lo storico incontro tra San Francesco e il Sultano del 1219: «grazie al dialogo e alla conoscenza – ha riflettuto -, hanno compreso che dall’altro si può imparare qualcosa. Solo col vero ascolto si possono avere frutti di pace».Dopo il ricordo di Cattani da parte di Stefani, Samid ha preso la parola. «Il Corano – ha riflettuto – è un libro al servizio del dialogo interreligioso, ma è utile anche per il dialogo coi non credenti. Spesso sbagliamo quando cerchiamo di trovare solo ciò che ci accomuna», ha proseguito. «È importante, invece, anche ragionare insieme su ciò che ci divide, ad esempio su chi è per noi Dio. Sarebbe una forma di dialogo più matura».

Sempre confrontandosi con Stefani, e sollecitato da alcune domande di donne presenti fra il pubblico, Samid ha poi spiegato come  nel Corano – «che per noi musulmani è incontestabile» ed è «l’unico libro tra quelli sacri rimasto intatto per com’è stato rivelato» -, «quando si parla di avvicinarsi agli altri popoli del Libro (ebrei e cristiani, ndr) il più delle volte vi siano situazioni di conflitto. Oggi, invece, siamo ben oltre il dialogo: siamo conviventi».

Alcune riflessioni di Samid hanno riguardato poi, ad esempio, l’importanza, quando si parla di Islam, di non trattare solo questioni concrete, “terrene” (il velo, i diritti ecc.) ma anche – com’è nel libro di Stefani – temi riguardanti la trascendenza, l’Aldilà, i concetti di bene e di male, il giorno del Giudizio. Ma riguardo a temi più “terreni”, Samid ha chiarito ad esempio come nel testo coranico «vi siano indicazioni sulla vita di tutti i giorni, ma non così dettagliate – a suo dire – da potersi applicare a tutte le epoche». O riguardo al tanto discusso termine “jihad”, ha spiegato con chiarezza come nel Corano venga usato «sia per indicare lo sforzo personale nella fede sia la guerra per difendere la fede stessa, anche quando non si tratta di autodifesa».

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 26 novembre 2021

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(Foto, da sx Samid, Stefani, Panzanini)

Dialogo interreligioso a Ferrara: «Incontriamoci nella carità concreta»

14 Ott


Frammenti dell’incontro

Ebrei, cattolici, protestanti e musulmani si sono confrontati il 10 ottobre a Ferrara per la Giornata Europea della Cultura Ebraica

«Rincontriamoci». Si è concluso con questo auspicio il dibattito organizzato dalla Comunità Ebraica di Ferrara in occasione della 22esima Giornata Europea della Cultura Ebraica.

Una promessa reciproca fra i presenti, nella comune volontà di costruire non solo momenti di confronto amicale ma progetti concreti a favore degli ultimi. E proprio sul dialogo e l’accoglienza dell’altro si sono interrogati i relatori nella tavola rotonda trasmessa in diretta streaming la mattina di domenica 10 ottobre sul tema “Dialogo interculturale sulle problematiche dell’accoglienza del profugo”. Un dibattito rispettoso ma non retorico moderato da Cristiano Bendin, Direttore della redazione ferrarese de “Il resto del Carlino” e introdotto dal saluto di Fortunato Arbib, Presidente della locale Comunità Ebraica.

Col ricordo di Germano Salvatorelli, consigliere ferrarese dell’Associazione Medica Ebraica morto di Covid l’anno scorso, il Rabbino Capo Rav Luciano Meir Caro ha dato il via al confronto. Partendo dalla Torah, ha riflettuto sui doveri nei confronti dello straniero che arriva sulla nostra terra, banco di prova utile anche per «capire meglio la nostra cultura. Lo straniero non deve uniformarsi a noi ma godere dei nostri stessi diritti». Nella Bibbia – ha proseguito – egli «è titolare di particolare protezione divina: chi lo offende, offende anche Dio».

Da Maometto e dagli altri profeti del Corano, «esempi di dialogo e accoglienza dell’altro», ha invece preso le mosse Hassan Samid, Presidente del Centro di cultura islamica di Ferrara. «È importante – ha riflettuto – anche nelle nostre comunità islamiche fare sempre un lavoro sulla paura del diverso. Spesso nelle nostre famiglie c’è quasi il “terrore” di contaminarsi con la cultura di chi ci accoglie, paura di perdere la propria identità e le proprie tradizioni». Invece, per Samid «si può essere italiani senza rinunciare a essere musulmani». «È importante – ha poi concluso – andare per gradi e porre attenzione non solo all’accoglienza momentanea del “forestiero” ma a quella a lungo termine, che porta alla convivenza».

Dell’esperienza all’interno delle proprie comunità ha parlato anche Giuseppina Bagnato, pastora metodista-valdese in servizio a Bologna, in passato alla guida delle comunità di Ferrara e Rimini. «Negli anni ’80 e ’90 – ha spiegato – nelle nostre comunità aumentarono i figli di stranieri, portando spesso le loro difficoltà nell’essere accettati in Italia. Oggi queste nuove generazioni nate e cresciute nel nostro Paese possono indicarci la direzione della convivenza». Convivenza che, per don Andrea Zerbini, Presidente dell’Unità Pastorale Borgovado, non può non «proliferare ai margini, negli interstizi delle relazioni “corte”», nella prossimità di chi si trova a dover convivere con persone o famiglie straniere. «Il modello della fede come mero contenuto da trasmettere – ha proseguito – non funziona più». Ciò che fa la differenza è «lo stile» delle relazioni, inteso come «modo di stare nel mondo». Don Zerbini ha poi parlato della costruzione delle nostre UP come esempio «intercattolico» di dialogo e convivenza fra diversi, lanciando quindi una proposta: «il Centro di Ascolto presente da anni nell’UP Borgovado diventi luogo di incontro» – all’insegna della carità concreta – «fra persone delle nostre comunità religiose». Un’idea subito raccolta da Rav Caro, che ha “incaricato” il sacerdote di organizzare entro la fine dell’anno un nuovo incontro, più “operativo”. Sulla stessa linea d’onda anche Samid, che ha insistito sulla collaborazione fattiva tra le religioni, e la pastora Bagnato: «dobbiamo costruire una comunità interculturale e interreligiosa nel fare concreto».

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 15 ottobre 2021

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11 settembre 2001: cos’è rimasto vent’anni dopo?

6 Set

Il crollo delle Twin Towers, l’attacco al Pentagono, l’aereo dei passeggeri eroi. Meditazioni su un colpevole oblio

di Andrea Musacci

L’11 settembre di 20 anni fa non è successo niente. Cerco nelle librerie della città e su internet eventuali recenti pubblicazioni sul tema. Nulla. Evidentemente non è accaduto niente, o ciò che è accaduto non era così rilevante da dedicarvi, nel ventennale, pubblicazioni, riflessioni, approfondimenti. Forse, il prossimo 11 settembre, o nei giorni immediatamente prima, sarà trasmesso un qualche speciale in TV, qualche articolo uscirà su riviste e quotidiani. Vi saranno giusto due parole fugaci, il 12 settembre già vecchie, già fuori luogo.E perlopiù saranno legate alla – non meno tragica e importante – questione afghana, quindi all’attualità. A ciò che è “fresco” (in realtà anch’esso già consumato, quindi nuovamente poco o per nulla interessante per i più). Due decadi sono un’eternità per una società come la nostra, la società di Snapchat, il social network dove messaggi, foto e brevi video vengono cancellati automaticamente al termine della visualizzazione da parte del destinatario. 


1. Il trauma dell’11 settembre è stato rimosso.
Nell’epoca del comfort, bisogna rimuovere il terrore di essere spazzati via da un momento all’altro, di bruciare vivi su una torre alta oltre 400 metri, di essere obbligati a gettarsi nel vuoto da altezze vertiginose. Nulla deve più turbarci. Gli stessi ciclici attacchi terroristici nelle città occidentali quasi non fanno più notizia (basti pensare al recente attentato islamista in un supermercato di Auckland, in Nuova Zelanda). 


2. La violenza non ha più parole per essere detta. Quella violenza inattesa, cieca e furiosa degli attentatori islamisti dell’11 settembre, quella collera cosciente e diretta non sappiamo più nominarla con coraggio. È scomparsa. In un’epoca «post-narrativa» qual è la nostra – come la definisce il filosofo Byung-Chul Han -, più in generale la violenza è bandita dal nostro immaginario, dai nostri discorsi, o al massimo relegata all’ambito psichico, medico, giudiziario. E con essa il dolore, la morte. Insomma, il limite.


3. Il perturbante. In tedesco heimlich è ciò che è familiare ma “tenuto nascosto”, rimosso. Al contrario, unheimlich è lo svelamento del rimosso, il perturbante, il traumatico, ciò che disturba. Gli attentatori dell’11 settembre 2001, pur non residenti negli USA, da diversi mesi vi soggiornavano, nascosti, “camuffati” nelle loro reali intenzioni. La loro emersione, l’affiorare del loro desiderio di morte ha rotto, in maniera inaudita e incontrollabile, la stabilità delle nostre esistenze.


4. Far diventare famigliare ciò che non lo è. Nel romanzo di Don DeLillo, L’uomo che cade (Falling Man), il piccolo Justin – figlio dei due protagonisti – e due suoi amici di giochi chiamano “Bill Lawton” colui che hanno sentito nominare ai telegiornali come “Bin Laden”. La pronuncia simile ha fatto mal intendere ai bambini il nome del terrorista, oppure si tratta di un inconscio bisogno di riportare alla normalità, traslando in un rassicurante inglese, l’estraneo e incomprensibile nome arabo? 


5. Nel regno dell’immagine, del mediatico, del virtuale, il corpo tornò centrale. Tanto quello distruttore quanto quello inerme da distruggere (insieme alla maestosa impotenza della torre, luogo fisico sfacciato nella propria grandezza) si riprese la scena. Quasi a dire che vi è qualcosa che resiste al dominio del digitale, dell’istantaneo, del rimovibile. 


6. Il dolore e la passione sono sempre di carne e sangue, prossime. Hanno odore e consistenza, pregnanza, e sono possibili, quindi sempre a noi vicine. E per questo ricercano condivisione, apertura, comunità. Così è stato, l’11 settembre 2001 e nei mesi successivi, sotto quella nube di distruzione, in quella valle di macerie, sangue e strazio. E condiviso non può non essere un discorso sulle profondità del nostro essere umani, del male che ci abita e di che speranza poter vivere.


7. Il Covid-19, per molti aspetti, è opposto alla violenza jihadista. È subdolo nella sua invisibilità, silenzioso, lento e potenzialmente infinito nella propagazione. Si diffonde, non si concentra. Strazia il corpo dall’interno. La guerra che ci invita a fare è falsa, al massimo metaforica, impossibile. Non è, come i truci stragisti di 20 anni fa, un nemico reale, non ha corpo né nome. Allora, nel 2001, l’aria della metropoli fu attraversata da quegli aerei mortiferi. Ora, nella pandemia ormai quasi endemica, l’aria è campo intangibile per il propagarsi del virus. Allora, vivevamo la paura concreta del potenziale terrorista, in aeroporto e non solo. Ora, la fobia che ogni persona a noi fisicamente prossima, possa essere vettore di male, di contagio.


8. “Nulla sarà più come prima”. Tante volte lo si è ripetuto dopo l’11 settembre. Facciamo in modo che sia così, con consapevolezza e conseguente ricerca, sofferta ma inevitabile, su come porsi davanti al dolore inevitabile. La pandemia, di nuovo, ci mette di fronte al limite e al deperimento. Siamo di nuovo disarmati, non tanto di fronte al virus in sé, ma all’imprevisto negativo che trova la nostra società fiacca, sazia e pur vuota, insensibile a tutto ciò che è trascendenza del dato e del materiale.


9. Facciamo che non sia più così. Che non si dimentichi la matrice di quel male – lucida e fanatica nella sua falsa religiosità -, che non si rimuova, ancora, la grande domanda sul vivere e sul morire. Sul mistero insondabile, ineliminabile. Sull’Inatteso e su come ci troverà.

Pubblicato su “La Voce di Ferrrara-Comacchio” del 10 settembre 2021

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«La vera forza è la mitezza»: dialogo cristiano-islamico sulla violenza

17 Mag

Il 16 maggio a Sant’Agostino incontro cattolici-musulmani sul tema della violenza nei testi sacri

Da sx: Samid, El Hachimi, don Zecchin

È possibile difendere la giustizia, la vita e la dignità delle persone non rispondendo al male con il male, trattenendo la collera? Su questo complesso tema, sul quale non si riflette mai abbastanza, la sera dello scorso 16 maggio si sono confrontati don Michele Zecchin, parroco di Sant’Agostino, Hassan Samid, Presidente del Centro culturale islamico di via Traversagno e l’imam di Ferrara Mohammed El Hachimi. Un appuntamento organizzato dal gruppo “Incontro” di amicizia tra cristiani e musulmani della comunità di viale Krasnodar, da anni impegnato a livello caritatevole, sociale, culturale e teologico nel rafforzare i rapporti tra gli appartenenti alle due fedi.

«Il Corano proibisce l’aggressione e l’ingiustizia», ha esordito l’imam. «Tre sono i tipi di musulmani: quello che usa le parole solo per il potere e per compiere violenza, quello troppo debole, che soffre di vittimismo, e quello forte, che fa valere la giustizia senza violenza». Samid ha invece esordito con un messaggio di speranza: «quest’anno per il Ramadan abbiamo ricevuto i consueti auguri da parte dell’Arcivescovo, quelli del MEIS e, per la prima volta, anche quelli del Rabbino di Ferrara». «Il Corano – ha poi riflettuto – è un messaggio universale che non invita alla vendetta o alla violenza, né fisica, né verbale, nemmeno contro gli animali». La violenza, infatti, «non può durare nel tempo, mentre la pace e la giustizia sì. Nell’islam, la persona timorata cerca di rimanere sulla retta via e di trattenere la collera, anche se vittima di ingiustizia». Riguardo alle critiche che a volte vengono rivolte al Corano di contenere diversi passaggi di incitamento alla violenza, Samid, pur non negando che vi siano, ha spiegato come il testo sacro dell’islam «non vada usato come fosse un manuale tecnico, ma continuamente studiato e interpretato, sempre leggendolo in maniera complessiva e unitaria». 

«Anche noi cristiani dobbiamo compiere sempre uno sforzo di interpretazione del testo biblico», ha commentato don Zecchin. «In ogni caso, dovremmo innanzitutto evitare di assegnare a Dio le nostre qualità negative», come appunto l’essere vendicativi, cattivi, violenti. Il sacerdote ha brevemente analizzato alcuni episodi della Bibbia, tra cui l’uccisione di Abele per mano del fratello Caino, la vicenda di Mosè, dell’omicidio da lui compiuto e del lungo pentimento, quello del profeta Osea, fino ad arrivare a Gesù. In particolare nelle beatitudini, «mitezza, misericordia e ricerca della giustizia sono al centro: la vera forza è proprio la mitezza, l’umiltà, che rappresenta un cambiamento reale del cuore». I racconti della Passione sono il culmine di questo rifiuto della violenza: «davanti a un’enorme ingiustizia, il Figlio di Dio non risponde come avrebbe potuto». «Benedite coloro che vi perseguitano, benedite e non maledite» (Rm 14) è la riflessione di San Paolo con cui don Zecchin ha voluto concludere l’incontro. Nella speranza che, già dopo l’estate, si possano organizzare momenti di confronto non solo tra cristiani e musulmani, ma anche con ebrei.

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 21 maggio 2021

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“Il covid? Colpa degli ebrei” L’antisemitismo nell’epoca della pandemia

18 Gen

Indagine nella quotidianità dell’odio contro gli ebrei, fra web, tv e carta stampata. Dal Brasile all’Iran, dalla Turchia agli USA, suprematismo bianco, antisionismo di sinistra e islam si intrecciano in una spirale di disprezzo e violenza tanto arcaica quanto contemporanea. A rimetterci sono sempre loro, colpevoli di tutto. Anche di esistere

di Andrea Musacci

In un libro scritto nel 2018, Deborah E. Lipstadt, storica della Shoah, riflette: «Al cuore di tutte le teorie del complotto c’è l’idea di una congrega segreta di potenti, un’élite demoniaca che controlla elementi cruciali di una determinata società. I teorici del complotto si affidano a un ragionamento tortuoso: proprio il fatto che non si possa identificare con precisione i cospiratori “prova” l’esistenza del complotto» (“Antisemitismo. Una storia di oggi e di domani”, Luiss University Press, gennaio 2020).
Il libro non poteva certo immaginare l’arrivo del Coronavirus, ma in quella citazione l’autrice intuisce cosa la pandemia avrebbe portato nell’odio millenario contro gli ebrei in quanto tali. Quale occasione migliore, infatti, per folle sparse in ogni angolo del globo per marchiare ancora una volta gli ebrei come responsabili e approfittatori della nuova “peste”.

Gli ebrei untori: dai territori palestinesi agli USA (passando per la Germania)
La storia non è certo nuova a complotti di questo tipo: negli anni della peste nera in Europa (1347-1351) le accuse contro gli ebrei di essere gli untori causarono pogrom che portarono alla distruzione di 200 comunità ebraiche in tutta Europa. Gli ebrei vennero accusati di avvelenare pozzi e fontane, così da permettere la diffusione della “morte nera”. Qualche secolo più tardi, solo per fare qualche esempio, nel 1719 a Udine un proclama reiterava il divieto del 1556: agli ebrei, accusati dell’introduzione della peste in città, fu proibito di abitarvi e di condurre attività di prestito, pena sanzioni pecuniarie e il sequestro dei beni, compresi i depositi presso il Monte di pietà. Le cronache del 1556 riferiscono che il contagio fu introdotto a Udine da masserizie infette trasportate da ebrei della città che si erano recati a Capodistria. Questi deliri furono riproposti dalla propaganda nazista nel 1941 quando si diffuse la voce che gli ebrei polacchi fossero colpevoli della diffusione del tifo.
Ma veniamo ai giorni nostri. Sull’edizione italiana di “Pars Today”, sito di notizie di proprietà del feroce regime iraniano, un articolo del 12 marzo 2020 accusa Israele di usare il virus per uccidere i prigionieri palestinesi: «Israele ha inviato un medico malato tra i prigionieri palestinesi della prigione di Ashkelon in modo da contagiarli tutti con il coronavirus», spiega il delirante articolo. «Dopo il contagio dei prigionieri palestinesi con il coronavirus, le autorità carcerarie israeliane si sono rifiutate di fornire qualsiasi tipo di assistenza medica lasciando morire i carcerati». Naturalmente tutto falso: il medico seppe solo dopo la visita di essere positivo al Coronavirus e nessuno mai provò che avesse contagiato altre persone.
Carlos Latuff è un fumettista brasiliano osannato nell’area della sinistra antisionista. Nel 2006 ha partecipato (vincendo il secondo premio) all’International Holocaust Cartoon Contest, concorso negazionista promosso per la prima volta nel 2014 dal quotidiano iraniano Hamshahri. L’estate scorsa ha realizzato una vignetta in cui si vede un soldato israeliano che, dopo aver demolito un presunto “Covid-19 testing centre” a Hebron in Cisgiordania, sorride vittorioso all’ormai noto simbolo del Coronavirus con sembianze umane. Alcuni funzionari del ministero della Salute dell’Autorità Palestinese hanno dichiarato al Jerusalem Post di non essere a conoscenza dei piani per costruire un “Covid-19 testing centre” a Hebron. Si è poi scoperto, infatti, che l’edificio costruito illegalmente sarebbe dovuto diventare la sede di una concessionaria di auto.
Spostandoci in Europa, ad Amburgo in Germania, il 7 aprile nei vagoni della metropolitana sono stati scoperti alcuni adesivi rappresentanti la stella di David che i nazisti applicarono agli indumenti degli ebrei durante la Seconda guerra mondiale. L’adesivo ha al centro il simbolo che indica “rischio biologico” e due scritte – “infetto” e “Coronavirus” -, per porre in relazione gli ebrei con la diffusione del Covid-19.
Un altro esempio, fra i tanti, della teoria degli “ebrei untori” lo peschiamo negli USA: il 12 marzo l’ex-capo del Ku Klux Klan David Duke ha twittato l’ipotesi che Donald Trump fosse rimasto contagiato, incolpando di ciò Israele e «l’elite sionista globale». I gruppi di estrema destra statunitensi, servendosi di social e altri siti web, affermano regolarmente che il loro Paese è governato da quello che definiscono ZOG (Zionist Occupied Government, “Governo d’occupazione sionista”), un gruppo internazionale di ricchi ebrei che ha come obiettivo un unico governo mondiale guidato da loro.


«Un complotto giudaico mondiale»
Gli ebrei come eterni “burattinai” che controllano le redini del mondo, cospirando di continuo a tal fine, è uno dei tropi più diffusi nella storia.
Negli ultimi mesi gli esempi si sprecano. Lo scorso 6 marzo in Turchia Fatih Erbakan, leader della formazione islamista Nuovo Partito del Benessere (Yeniden Refah Partisi) in un intervento pubblico ha affermato: «Anche se non ne abbiamo la prova certa, questo virus serve gli interessi del sionismo, che sono quelli di diminuire il numero degli esseri umani e di impedire che cresca. Il sionismo è il batterio vecchio di cinquemila anni che ha causato la sofferenza di tanta gente». Sempre in Turchia, l’ex colonnello dell’esercito, Coskun Basbug, sul canale televisivo A-Haber, di proprietà della famiglia del presidente Erdogan, ha sostenuto che gli ebrei avrebbero inventato e diffuso il Coronavirus «per modellare il mondo a loro piacimento e neutralizzare il resto della popolazione».
Sempre a marzo in Iran vari organi di stampa hanno rilanciato l’intervista rilasciata dal complottista americano James Fetzer, professore di filosofia in pensione dell’Università del Minnesota, alla catena televisiva iraniana in lingua inglese Press TV, di proprietà della Irib, la TV di Stato: «credo che quello a cui stiamo assistendo, sotto il mantello della pretesa epidemia di coronavirus, è un attacco con armi batteriologiche contro l’Iran da parte di elementi sionisti che sfruttano la situazione».
Anche in questo caso il nostro Continente si dimostra tutt’altro libero da certe nefandezze. Il report di un ente di consulenza indipendente del governo britannico ha studiato 28 popolari forum NO VAX sui social media: «molti di questi post – è scritto nel report – suggeriscono che gli ebrei abbiano creato il coronavirus e che stiano tramando dietro le quinte per destabilizzare banche e Paesi attraverso la diffusione del virus».
In Spagna il 14 marzo sul sito di estrema sinistra “Kaosenlared”, vicino agli indipendentisti baschi, è uscito un articolo secondo il quale «il coronavirus è uno strumento per la Terza Guerra Mondiale rilasciato dall’imperialismo yankee sionista. L’elite anglosassone capitalista e sionista, nemica di tutta l’umanità, ha compiuto un ulteriore passo nella sua offensiva criminale e genocida».
Nella vicina Francia, Alain Mondino, capogruppo del partito RN (successore del Front National) nel comune di Villepinte vicino Parigi, ha postato sul social network russo VK un video secondo cui il virus è stato creato dagli ebrei «per imporre la loro supremazia».

Le tesi antisemite sul vaccino anti Covid
In queste settimane grande diffusione su ogni media ha avuto la notizia – poi rivelatasi una fake news – secondo cui Israele stia negando ai palestinesi la distribuzione del vaccino anti Covid-19. Una forma aggiornata, insomma, dell’“ebreo untore” che ora, al contrario, non contagerebbe il resto del mondo ma impedirebbe agli altri di curarsi. Sul Jerusalem Post, a inizio gennaio è stato il giornalista arabo israeliano Khaled Abu Toameh a ristabilire la verità dei fatti: «i palestinesi non si chiedono che Israele venda loro, o acquisti per loro, il vaccino da qualsiasi paese. I palestinesi affermano che riceveranno presto quasi quattro milioni di vaccini di fabbricazione russa. L’Autorità Palestinese dice che, con l’aiuto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, è riuscita ad assicurarsi il vaccino da altre fonti». L’Autorità Palestinese, infatti, come altri Paesi mediorientali vicini, a febbraio inizierà a ricevere dosi di vaccini Sputnik V e AstraZeneca. Inoltre, gli Accordi di Oslo del ’93 tra israeliani e palestinesi stabiliscono che l’Autorità Palestinese è responsabile dell’assistenza sanitaria per i palestinesi in Giudea, Samaria e striscia di Gaza, comprese le vaccinazioni. Da allora l’Autorità Palestinese tutela gelosamente questa sua prerogativa.
Come scrive Uri Pilichowski sul Times of Israel del 4 gennaio scorso, «gli accusatori di Israele (…) esigono che Israele dia massima autonomia ai palestinesi e allo stesso tempo pretendono che Israele garantisca ai palestinesi tutto ciò che garantisce ai propri cittadini. È un’argomentazione che ignora i fatti. I fatti sono che i palestinesi hanno voluto l’autonomia anche per quanto riguarda l’assistenza sanitaria della propria gente».
II 16 marzo scorso un profilo Twitter legato alla statunitense “Nation Of Islam”, il gruppo islamico afroamericano suprematista e antisemita di cui fece parte Malcolm X, ha insinuato che il virus sia stato creato da Israele come arma biologica. Diversi mesi dopo, il 27 dicembre, Ishmael Muhammad, Assistente nazionale del leader della “Nation of Islam” Louis Farrakhan, ha messo in guardia i neri contro i vaccini per il Covid-19 durante una recente serie di conferenze intitolate “American Wicked Plan” (“Il piano perverso dell’America”). Citando Farrakhan, Muhammad ha detto: «Negli anni Sessanta (…) Elijah Mohammed (che guidò la “Nation of Islam” prima di Farrakhan, ndr) consigliò ai suoi seguaci di non assumere il vaccino per la polio». Farrakhan – ha aggiunto Muhammad – aveva scoperto che esistono due tipi di vaccini per l’influenza, uno che contiene il mercurio e altri additivi e un altro, privo di queste sostanze, «per gli ebrei e per coloro che sono al corrente degli additivi chimici presenti in questi vaccini».
Sempre a marzo 2020 un anonimo lettore ha recapitato al quotidiano “Libero” un messaggio dove spiegava che il coronavirus è stato diffuso dal Mossad, i servizi segreti israeliani, in modo che gli israeliani stessi potessero poi produrre «un vaccino che, essendo ebrei, venderanno al miglior offerente».

«Gli ebrei? Non sono cittadini»: pensieri dall’Italia di oggi
A breve ricorrerà il Giorno della Memoria per commemorare le vittime dell’Olocausto. Furono 6.806 gli ebrei italiani deportati nei campi di sterminio nazisti, dai quali ne sono ritornati soltanto 837. Sono stati 322, invece, gli ebrei italiani arrestati e uccisi nel nostro Paese tra il 1943 e il 1945. Dei 6.806 sopracitati, 1.023 furono le vittime del rastrellamento del ghetto di Roma, deportate direttamente al campo di sterminio di Auschwitz. Soltanto 16 di loro sopravvissero.
Il 21 febbraio del 2020 Sergio Mattarella si è recato alla Sinagoga di Roma per incontrare la Comunità ebraica della capitale, la più antica di Europa, che ancora oggi conta 13mila membri, oltre un terzo di quelli in tutta Italia. Sempre Deborah E. Lipstadt nel sopracitato libro spiega come «l’antisemitismo non è semplicemente l’odio per qualcosa di “straniero”, ma l’odio per un male perpetuo che agisce nel mondo. Gli ebrei non sono un nemico, ma il nemico per eccellenza».
Come darle torto. Passato e presente si fondono in un unico turbine di disprezzo e violenza. “Dalla vostra parte” è un gruppo Facebook di “discussione politica” (si fa per dire) seguito da 33.400 persone. Alcuni dei 120 commenti di risposta al post sulla visita di Mattarella alla Sinagoga romana recitano così: «Per Mattarella [gli ebrei] sono i veri romani. Contenti loro…», scrive ad esempio Massimo L. . «A Mattarella interessano tutti tranne noi italiani», è il pensiero di Manuela C. .
Persone normali che, nel 2020, un secolo dopo le squadracce fasciste, credono, esternandolo senza problemi, che gli ebrei non siano cittadini italiani, e che quindi non abbiano gli stessi diritti degli altri.
Ancora un esempio del “quotidiano” e diffuso odio antisemita. Novembre 2019: nello stesso gruppo Facebook, sotto un post denigratorio nei confronti di Liliana Segre, rivolgendosi a lei, Leonardo R. commenta: «Purtroppo 80 anni fa qualcuno non ha fatto bene il suo mestiere, è per questo che la finanza mondiale, della quale la tua gente è a capo, sta strangolando il mondo».
Continue dimostrazioni di come purtroppo storia e presente siano uniti in un’unica terribile ossessione antiebraica.
Buon Giorno della Memoria, allora. Ce n’è davvero bisogno.

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 22 gennaio 2021

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Giovani e impegnate: le volontarie di “Islamic Relief” nella nostra città

27 Gen

L’incontro con i musulmani nella nostra città passa anche dalla ONG “Islamic Relief”: 50 i giovani attivi a Ferrara dal 2015. Abbiamo incontrato tre di loro (Khadija Lahmidi, Nadia Ziani e Malek Fatoum) per parlare di dialogo e identità

di Andrea Musacci

IMG_20200121_145451I loro hijab (i veli), uno bianco e uno nero, circondano volti al tempo stesso vivaci e posati, abituati al confronto e “pazienti” nel sopportare le troppe domande di chi, come il sottoscritto, le interroga su questioni riguardanti la loro identità. Identità, quella di Khadija Lahmidi e Nadia Ziani, chiara ma non esclusiva, e che le due ragazze vivono prevalentemente, dal 2018, nel gruppo ferrarese della ONG “Islamic Relief” (IR), organizzazione benefica nata nel 1984 nel Regno Unito e oggi operante in 40 Paesi in tutto il mondo per fornire acqua, cibo, alloggio, assistenza sanitaria e istruzione, nonché per portare aiuto in caso di catastrofi (ad esempio, in Australia nei recenti casi di incendi o in Italia nel 2009 durante il terremoto in Abruzzo). Nadia, marocchina ma nata in Italia, originaria del vicentino, frequenta il IV° anno di Medicina a Ferrara, mentre Khadija, nata in Marocco e trasferitasi in Italia quando aveva 6 anni, è impegnata in una cooperativa sociale di Sermide, località dove vive, ed è iscritta a Giurisprudenza nella nostra città.

malekUna delle fondatrici del gruppo di IR a Ferrara è invece Malek Fatoum, nata e cresciuta nella nostra città da genitori di origine tunisina, iscritta alla Facoltà di Ingegneria e impegnata anche nell’associazione “Occhio ai media”: “sei anni fa – ci racconta – io e mia sorella Amira veniamo in contatto con una volontaria del gruppo di Bologna che ci racconta di questa realtà di cui fa parte e noi, affascinate dall’idea, decidiamo di fondare un gruppo anche nella nostra città facendo passaparola tra amici e conoscenti”. A Ferrara IR attualmente conta una cinquantina di giovani aderenti che si ritrovano solitamente, ci spiega ancora Malek, “una volta mese (in sale della parrocchia di Sant’Agostino o in altre messe a disposizione dal Comune) per programmare e organizzare eventi di raccolta fondi umanitari e per gestire attività utili all’intera comunità, come per esempio il doposcuola per i bambini che hanno bisogno di supporto nella preparazione dei compiti”. Riguardo agli eventi pubblici, “l’ultimo da noi organizzato – ci raccontano Khadija e Nadia – si è svolto lo scorso novembre, una cena solidale alla quale hanno partecipato non solo islamici”. Sì, perché IR, nonostante la sua ispirazione ben precisa, è aperta a chiunque ne condivida i valori di fratellanza e solidarietà. Tanti, però, “sono i pregiudizi nei confronti dell’islam, dettati perlopiù dalla paura, lo sperimento anche nella mia Facoltà”, ci spiega Khadija. Ma si può vedere il bicchiere mezzo pieno: “dallo scorso dicembre noi studenti musulmani possiamo pregare in un’aula interna alla biblioteca del Dipartimento, grazie all’interessamento del Direttore Negri”. Il confronto con i “non musulmani” per loro sarebbe impensabile senza il continuo dialogo interno a IR: “tra volontari – sono ancora parole di Khadija – ci ritroviamo liberamente per ragionare e dialogare su tematiche riguardanti la nostra appartenenza di fede. Non vogliamo, infatti, ripetere meccanicamente le cose che abbiamo imparato, come alcuni musulmani fanno”. Limite, quest’ultimo – le spiego -, purtroppo anche di non pochi cattolici. “Ognuno è libero di usare il proprio intelletto, il proprio senso critico – interviene Nadia -, non bisogna accettare le cose passivamente. Ad esempio, io porto il velo dal 2016, ma prima ho voluto approfondire perché molte donne musulmane fanno questa scelta. Per me indossarlo è un semplice atto di modestia e di pudore, simile a quello di Maria di Nazareth, e serve a fare in modo che l’attenzione di chi mi guarda non cada sulle mie forme fisiche ma sulle mie virtù. Sapendo, comunque – prosegue -, che l’abito non fa il monaco, e che quindi non basta indossare il velo per essere virtuose”. “E’ vero, non ha senso indossarlo solo per tradizione – ci spiega Khadija -, io lo porto dall’età di 17 anni: per me è una forma di testimonianza”.

Andrea Musacci

Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 31 gennaio 2020

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Hassan Samid: “aumentiamo i momenti di incontro e preghiera fra cattolici e musulmani”

27 Gen

33 anni, di origine marocchine, Hassan Samid dirige l’Associazione della comunità musulmana di via Traversagno a Ferrara: “da noi in aumento i giovani e gli studenti”

di Andrea Musacci

hassan samidGiovane, maschio e lavoratore: è questo l’identitkit della maggioranza dei musulmani che settimanalmente frequentano la moschea di via Traversagno a Ferrara, zona Mizzana. Con un aumento, negli ultimi anni, di richiedenti asilo subsahariani. A spiegarcelo è Hassan Samid, 33 anni, nato in Marocco e trasferitosi in Italia coi genitori quando aveva sei anni, dal 2017 (e appena rinconfermato per un altro biennio) presidente dell’Associazione “Centro di cultura islamica di Ferrara e provincia” che dirige la comunità. L’Associazione nasce nel ’98 ma i primi gruppi di musulmani nella nostra città risalgono a circa 40 anni fa, ritrovandosi prima in una sede in via Scandiana, poi in un’altra in Foro Boario, e infine nel 2011 con il trasferimento nell’ex capannone industriale di via Traversagno, acquistato e trasformato grazie anche al finanziamento di 100mila euro da parte della Qatar Charity, e con la mediazione dell’UCOII (Unione delle Comunità Islamiche d’Italia). Ricordiamo che altre comunità musulmane nel nostro territorio sono in via Oroboni (un Centro guidato dall’Associazione Pakistani ferraresi), in zona Barco, a Portomaggiore, Argenta, Bondeno, Copparo e Cento. “Normalmente – ci spiega Samid – circa 150/180 persone frequentano la preghiera del venerdì, e oltre 200 nei venerdì festivi o durante il mese del ramadan. Generalmente sono nordafricani, albanesi, subsahariani e mediorientali. L’età media è inferiore ai 40 anni, con una prevalenza di uomini rispetto alle donne”, prosegue. “Principalmente sono lavoratori, ma non pochi sono studenti e studentesse”. Gli chiediamo se negli anni ha visto cambiare il tipo di persone che frequentano la moschea: “sì, c’è stato un aumento notevole di ragazzi subsahariani richiedenti asilo. Anche se da un anno circa ne vediamo umeno, forse per certe politiche che hanno messo in crisi i sistemi di accoglienza. Sono in aumento anche gli studenti universitari nordafricani”. Nella sede, oltre alle cinque preghiere quotidiane e alla preghiera e sermone del venerdì, viene insegnata ai bambini la lingua araba (“attualmente abbiamo tre classi con circa 20 studenti ciascuna”), oltre a lezioni religiose rivolte a uomini e donne. Inoltre, ci spiega ancora Samid, “si rivolgono spesso a noi persone bisognose: cerchiamo di aiutarle con le pochissime risorse a disposizione, dando la priorità a famiglie con figli piccoli o malati”. Per quanto riguarda i rapporti con la città, sono buoni da diversi anni, e ottime sono le relazioni con la parrocchia di Mizzana e con quella di Sant’Agostino. “Tanto piacere – commenta ancora Samid – ci ha fatto l’anno scorso il messaggio che mons. Perego ha rivolto ai musulmani di Ferrara in occasione del ramadan. L’incontro tra cattolici e musulmani del 4 febbraio a Casa Cini è importante – conclude – perché oggi più che mai c’è bisogno di momenti come questo. Il documento di Abu Dhabi (siglato un anno fa dal Papa e dal Grande Imam, ndr) contiene riflessioni importanti, che tocca a noi sviluppare e rendere vive. Se poi guardiamo la cronaca e la dialettica politica nel nostro Paese, ci rendiamo conto che eventi come questo assumono un’importanza ulteriore, anche se le comunità religiose devono riuscire nel difficile intento di rendere queste occasioni patrimonio di tutta la cittadinanza”.

Andrea Musacci

Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 31 gennaio 2020

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Se a Ferrara il “cappelletto accogliente” esiste da 20 anni…

7 Ott

L’esempio di una famiglia italo-pakistana di Ferrara: una riflessione a partire dalla querelle bolognese e di come la tradizione sia da intendere come apertura all’altro senza necessariamente rinnegare le proprie radici

02_Cappelletti_-_Cappellacci_-_Pasta_ripiena_-_Cucina_tipica_-_FerraraA livello nazionale si è discusso per giorni del famigerato “tortellino dell’accoglienza”, proposto a Bologna in occasione della festa del patrono, San Petronio, come alternativa, accanto al turtlén tradizionale, a chi, ebreo o musulmano, per cultura, abitudine o tradizione, sceglie di non mangiare carne di maiale. Apriti cielo: l’Arcidiocesi è stata costretta a spiegare, con un comunicato ufficiale, come incontro con l’altro significhi, appunto, andargli “incontro”, e quindi rispettarne anche usi e costumi sempre che a venir meno non siano principi fondamentali (e non è certo questo il caso). Evidentemente, però, per alcuni puristi – ideologici a tutto tondo, non solo a livello culinario – è più importante la forma che la sostanza. Sostanza che, fra l’altro, certo non manca nemmeno a livello gastronomico, per questa novità ideata dall’Associazione Sfogline di Bologna e Provincia insieme al Forum delle associazioni familiari dell’Emilia Romagna, organizzatori della festa insieme al Comitato per le manifestazioni petroniane, di cui fanno parte Comune e Diocesi. Ma questa diatriba felsinea ha lasciato “basita” una famiglia ferrarese, composta da Elena, Ullah e dai loro figli adolescenti, Haroon e Sagid, abituata dal 2001 a gustarsi nelle feste natalizie il “cappelletto musulmano”, come loro stessi lo hanno battezzato. Elena, infatti, è cattolica e ferrarese doc, e non intende rinunciare alle proprie tradizioni. Ullah, invece, pakistano e musulmano. Essendo a conoscenza delle usanze del suo Paese d’origine, la nonna e la prozia materne di Haroon e Sagid, di comprovata stirpe estense (dunque ben consapevoli di cosa significhi, anche a tavola, l’identità), hanno “alleggerito” il batù della carne suina, sostenute dagli altri membri della famiglia, senza che “l’ombelico di Venere” fosse in alcun modo “desacralizzato”. Questa innovativa tradizione famigliare e interreligiosa, apparsa a loro da sempre come “naturale”, nel 2017 ha anche ricevuto un piccolo ma importante riconoscimento pubblico. Haroon, allora 12enne frequentante il secondo anno dell’Istituto Comprensivo “Dante Alighieri”, insieme alla propria classe ha partecipato all’annuale concorso indetto dall’Istituto, denominato “Habitat”, nel quale gli studenti sono invitati – attraverso le più svariate forme artistiche – a raccontare, partendo dalla traccia “C’era una volta…e c’è ancora”, cosa significhi l’ambiente nel quale si vive, dunque anche di riflettere sulle proprie tradizioni. Haroon realizzò un video di quasi tre minuti nel quale, mentre nella prima parte venivano illustrati alcuni luoghi e piatti tipici della sua duplice identità – quella ferrarese e quella pakistana -, nella seconda, lui stesso spiega la genesi e la realizzazione, grazie anche alla prozia, del “cappelletto musulmano”. Nella cerimonia di premiazione, svoltasi il 10 maggio al Teatro Comunale, Haroon non solo vinse il secondo premio (ex aequo con altri) ma anche un premio speciale, che la giuria gli assegnò all’unanimità per l’originalità con la quale scelse di declinare il tema della tradizione e dei valori. “Questi due mondi sembrano inconciliabili, vero?”, spiega lui stesso all’inizio del video, concludendo poi con questa frase argutamente ironica e che mostra come fossero evitabili tanti “travasi di bile” emersi nei giorni scorsi sulla querelle bolognese: “non esiste differenza culturale che riesca a fermare nonne e zie emiliane!”.

Andrea Musacci

Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” l’11 ottobre 2019

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