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Laura De Paoli, medico: «vi racconto i morti in mare e gli orrori in Africa»

13 Mag

Di origini ferraresi, De Paoli negli ultimi anni come medico soccorre in mare i migranti nel Mediterraneo. E dal 1998 cura gli ultimi del mondo in vari Paesi dell’Africa. Abbiamo raccolto la sua testimonianza

di Andrea Musacci

I cadaveri galleggianti nel Mediterraneo, il dolore di non poterli salvare. E le tante storie di orrore e rinascita frutto di anni in missione nel mondo come medico. 

Di Laura De Paoli colpisce la calma nel raccontare un quarto di secolo vissuto negli angoli più bui e dimenticati della terra, a contatto con miserie di ogni tipo: dal Bangladesh alla Sierra Leone, dalla Repubblica Centrafricana ai cimiteri del nostro mare. Calma che non è freddezza ma profonda empatia, lucida consapevolezza. 

L’abbiamo incontrata per farci raccontare questa sua vita che non conosce sosta nel curare, ovunque ce ne sia bisogno, persone che vivono la fame, la guerra, che affrontano quei drammatici viaggi della speranza per arrivare in Europa.

Ferrarese, ha lasciato la nostra città dopo la laurea per lavorare come medico chirurgo prima in Gran Bretagna, poi in Sudafrica, e poi tornare in Italia, a Milano. In seguito, ha iniziato la sua esperienza prima come chirurgo di guerra con la ICRC – Croce Rossa Internazionale e altre organizzazioni, per poi dedicarsi al management sanitario soprattutto con l’OMS. Negli ultimi anni, si occupa di assistenza ai migranti naufraghi nel primo soccorso in mare e una volta fatti sbarcare. L’ultima sua missione è stata a Lampedusa, dopo la tragedia vissuta in prima linea a Cutro lo scorso febbraio. E a breve tornerà in Sicilia per una nuova missione.

MEDICO IN AFRICA E IN PAKISTAN

La prima missione come medico è stata nel 1998-’99 in Sierra Leone, ai tempi della guerra civile, con la Croce Rossa, a Freetown: «ho visto tante persone, anche bambini, con le mani amputate dai guerriglieri», racconta a “La Voce”. Poi è stata a Juba nel Sud Sudan e a seguire, nel 1999-2000, a Cibitoke in Burundi: «qui dalla nostra casa sentivamo sparare tutte le notti». Sono gli anni della guerra civile tra le fazioni tribali Hutu e Tutsi. «Una volta è stato portato in ospedale da me anche un ragazzino impalato, e in un’altra occasione il corpo di un Hutu torturato, ucciso e lasciato per strada al fine di terrorizzare la popolazione. Ero molto stanca e traumatizzata, ho avuto quello che si definisce un Post-Traumatic Stress Disorder». Decide quindi di ritornare e di seguire un Master in Sanità Pubblica. Poi inizia la collaborazione con l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) in altri Paesi poveri del mondo. Nel 2013 Laura è a Peshawar, nel nord del Pakistan, per conto di Medici Senza Frontiere, come direttrice di un grande ospedale di maternità. «A parte un uomo, eravamo tutte donne medico. Gli uomini, islamisti radicali, non volevano far visitare le proprie mogli da maschi, quindi le portavano nel nostro ospedale».

Negli anni 2014-2015 Laura è, invece, sempre con Medici Senza Frontiere, in Guinea. È il periodo dell’emergenza ebola. «Ho visto morire tre miei colleghi per questa pandemia», ci spiega. Nel 2020 (come anche nel 2014-2015), presta invece servizio nella Repubblica Centrafricana, durante la guerra civile. Di questa esperienza ci riporta il racconto fattole da alcuni colleghi: «la guerra civile, mi dissero, non era tra cristiani e musulmani, ma era stata fomentata da milizie francesi, interessate a riprendere il controllo delle miniere dopo che il governo aveva tolto alla Francia l’utilizzo esclusivo, per appaltarle a compagnie cinesi e giapponesi. La guerra civile aveva, quindi, l’obiettivo di destabilizzare il Paese».

Nel maggio 2020 rientra in Italia dove coordina il forum delle varie agenzie dell’ONU. In queste esperienze, Laura come altri, per motivi di sicurezza legati alla guerra, trascorreva anche interi periodi chiusa in casa o in ospedale: «nel 2015 nella Repubblica Centrafricana ho vissuto, di giorno e di notte, in ospedale. Per questo, dopo alcune settimane o mesi, ci spostavano in altri luoghi. L’Africa – prosegue – la considero ormai la mia seconda casa, ho sofferto anche del cosiddetto “mal d’Africa”. E ho quasi sempre trovato nei colleghi africani una grande umanità e un grande spirito di collaborazione».

NEI CAMPI PROFUGHI E IN MARE PER I SALVATAGGI 

Non meno drammatico e sentito è il suo racconto delle esperienze vissute nei campi profughi e in soccorso ai migranti in mare. «Come coordinatore medico sono stata nel campo profughi degli etiopi di Kassala in Sudan: ho conosciuto persone nate e vissute solo in quel campo». Più tardi, nel 2016, con l’UNHCR (l’Agenzia ONU per i rifugiati), ha il compito di mantenere in Grecia le relazioni tra le varie ONG e il Ministero della Salute. Era il periodo delle diatribe tra Unione Europea da una parte, e Polonia e Ungheria dall’altra sulla questione dell’accoglienza dei migranti siriani. Nel 2018, con Medici Senza Frontiere ha prestato, invece, servizio nei campi rifugiati dei Rohyngya (minoranza etnica perseguitata nel Myanmar) a Cox’s Bazar, nel Bangladesh.

Nel 2017 Laura è sulla nave Prudence di Medici Senza Frontiere in soccorso ai migranti, provenienti soprattutto dall’ovest dell’Africa: «dal porto di Catania uscivamo in mare per soccorrerli: credo di non aver visto nessuno che non fosse stato torturato nei campi libici, e quasi tutte le donne erano state stuprate, anche se molte magari per vergogna non lo ammettevano. Anche alcuni uomini erano stati violentati». 

E pure da Lampedusa «è un continuo uscire in mare dei soccorsi per qualche segnalazione di imbarcazioni in pericolo. Mi è capitato di dover uscire ogni giorno, e a volte di rimanere in mare anche per 12-13 ore di fila. È un compito delicato quello dei soccorritori, è importante anche avvicinarsi lentamente alla barca, per evitare di sollevare onde. Negli anni – prosegue Laura – ho visto anche come sono cambiate le imbarcazioni dei migranti: dai gommoni alle barche di legno, a quelle di ferro. Barche stracolme di persone, che spesso, muovendosi, fanno oscillare il mezzo». Spesso anche per questo avvengono le tragedie. «Ogni volta che partivo da terra per soccorrere i migranti, mi aspettavo di vedere di tutto. La speranza è sempre che si salvino, ma tante volte non è così. Noi soccorritori dobbiamo essere forti, ma non ci si abitua mai del tutto, soprattutto quando si vedono bimbi morire in mare».

E a tal proposito, è impossibile dimenticare le strazianti immagini viste a Cutro, nel crotonese, quando la notte tra il 25 e il 26 febbraio scorso un caicco partito dalla Turchia e carico di almeno 180 migranti, è naufragato. L’ultimo bilancio parla di 94 morti e un numero imprecisato di dispersi. Laura era lì durante il salvataggio: «Quando siamo arrivati sul punto del naufragio – racconta – abbiamo visto cadaveri che galleggiavano ovunque e abbiamo soccorso due uomini che tenevano in alto un bimbo. Purtroppo il piccolo era morto. C’era mare forza 3 o 4, era difficile avvicinarci. La barca dei migranti era già a pezzi sulla spiaggia e noi avevamo intorno tanti cadaveri galleggianti», continua.

Mentre ci racconta, le preme fare anche un appello: «voglio che questi racconti arrivino a più gente possibile. Questi migranti quando arrivano sulle nostre coste sono malnutriti, non bevono da giorni, spesso sono senza scarpe, con sé hanno solo uno zainetto (a volte nemmeno questo). E provengono tutti da situazioni di miseria. Sono soprattutto giovani uomini, ma ci sono anche donne e bambini. Molti subsahariani non solo non sanno nuotare, ma hanno proprio paura del mare».

«Un giorno – prosegue – eravamo partiti per compiere un salvataggio. A un certo punto nell’acqua abbiamo visto dei cadaveri con addosso delle camere d’aria per le ruote, usati come possibili salvagenti. Una camera d’aria la tenevano sotto l’ascella, l’altra a tracolla. Non ho idea – continua – di quanti possano essere i naufragi che avvengono al largo delle nostre coste, perché molti non vengono segnalati. E appunto, alcuni di questi, si scoprono solo casualmente».

Le chiediamo come i bambini che arrivano sulle nostre coste possano sopportare tutto questo strazio: «può sembrare strano, ma tante volte i più piccoli dimostrano una grande forza di reazione». E poi ci sono gli scarni racconti che, rare volte, alcuni migranti si sentono di fare, sempre di loro spontanea volontà, mai interpellati dagli operatori: «lo scorso dicembre ero in servizio come medico al CARA (Centro di accoglienza per richiedenti asilo, ndr) di Crotone. Qui ho conosciuto una coppia di afghani, lui dentista, lei medico, fuggiti anche perché lei, col ritorno dei talebani nel loro Paese, non può più esercitare la professione». La speranza è che possa tornare a esercitarla in un Paese libero. In Laura De Paoli ha trovato sicuramente un modello da imitare.

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 12 maggio 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio