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Aprire le porte all’altro: partecipazione è relazione

1 Mar

La Prolusione di padre Giuseppe Riggio SJ per la Scuola di politica diocesana: «”compromesso” è una bella parola. Senso di appartenenza contro l’istantaneità del mondo contemporaneo»

Spesso ci lamentiamo dello scollamento tra politica e società: la prima, sempre più percepita come “casta”, la seconda come luogo della “vita reale”. Una semplificazione non solo retorica ma anche pericolosa, causa, negli ultimi 30 anni, di un’ondata di antipolitica della quale non solo non si vede la fine ma che, anzi, permea sempre più idee, prassi e linguaggi.

Partire da questa constatazione è necessario, pur col dovere di non abdicare a uno sterile pessimismo. È l’approccio che ha scelto – nella sua missione di giornalista, oltre che di religioso – anche padre Giuseppe Riggio SJ, Direttore Responsabile di “Aggiornamenti Sociali”, intervenuto lo scorso 19 febbraio a Casa Cini a Ferrara per il primo incontro della Scuola di politica diocesana. “La partecipazione alla vita politica come segno di una cittadinanza autentica”, il titolo scelto per la sua Prolusione. Partecipazione: una parola pesante, carica di significati, che richiama l’impegno, la costanza, il sacrificio, la condivisione, la responsabilità. Un tema critico, più che mai attuale, che a Ferrara ha richiamato 80 persone (45 in presenza, 35 collegate on line), con una dozzina di interventi dal pubblico.

SE LA PORTA RESTA CHIUSA

«Noi cittadini ci sentiamo esclusi dalle stanze della politica, di cui spesso non conosciamo le “forze cieche” che la governano», ha esordito p. Riggio. «Per i più, la politica non è attraente, anzi è il luogo dove ci si sporca le mani, il luogo dei compromessi», in senso negativo. «Ciò porta al rischio di una sempre maggiore separazione tra i due mondi, che rischiano di correre paralleli». La “casta” contro il “popolo”, come dicevamo. Una separazione, questa, «che impoverisce tutti, cittadini e politica, perché impedisce la circolazione di idee, di domande e l’espressione di emozioni e bisogni».

LE CAUSE DELLA CRISI

È importante, però, andare alle radici di questa disaffezione nei confronti della politica, non limitandosi a una lamentela populista contro il “potere”: «viviamo sempre più in una cultura centrata sull’individuo e sui suoi bisogni, una cultura contrapposta all’idea di comunità», ha riflettuto p. Riggio. «Ciò finisce per frammentare e spezzare i legami». Le cosiddette «piazze virtuali», cioè la “partecipazione digitale” non fanno che acuire questa dinamica: «il rischio è di non uscire da questa bolla. Gli stessi algoritmi ci lasciano nel brodo culturale nel quale già ci troviamo, nei nostri piccoli circoli. Così non si crea vera partecipazione, non si aiuta la democrazia». E terzo, ma non meno importante, il «fattore tempo»: la partecipazione politica è anche disincentivata «dalla rapidità, dall’istantaneità dei tempi della vita di oggi. Siamo nel tempo del “tutto subito”». Da qui, la «politica pop», fatta di spot, di annunci, che parla alla pancia. L’esatto opposto della partecipazione, «che ha bisogno di tempo, anche di tempi lunghi». L’opposto di una «politica di visione». «C’è bisogno di tempo», ha aggiunto p. Riggio: «tempo per incontrarsi, per ragionare, per discutere». 

Anche nel mondo del volontariato, spesso (e a ragione) lodato perché centrato sulla gratuità, si nota come buona parte delle persone attive siano ormai i cosiddetti «volontari senza divisa», cioè che si impegnano solo per un singolo evento o progetto.

POSSIBILI RISPOSTE

Fare leva sulla responsabilità nei confronti degli altri: questa potrebbe essere una prima necessaria risposta alla crisi della partecipazione. «Ma in una società dominata dalla cultura dei diritti, quasi sempre individuali – ha riflettuto il relatore -, è molto difficile fare appello al senso del dovere». E appassionarsi a qualcosa, in questo caso alla politica, vuol dire non solo, non tanto usare «la testa», ma anche e soprattutto «il cuore». Un’altra possibile risposta, per padre Riggio, consiste nel «portare fuori dal mondo virtuale quel che c’è di positivo dell’approccio degli influencer». Questi, hanno un grande seguito perché nel proprio ramo «sono considerati credibili: essi, pur dando risposte parziali, rispondono a bisogni sociali e fan credere ai propri follower che la porta del “potere” e del “successo” è aperta anche per loro: “se ce l’ho fatta io, ce la puoi fare anche tu”». Certo, attorno a loro si crea una «community, cosa ben diversa da una vera comunità in quanto formata da fan, da seguaci, da meri ripetitori. Ma rimane che al fondo di ciò vi sia un bisogno di aggregarsi intorno a qualcosa o a qualcuno». 

“APPARTENERE A” 

Insomma, il senso di appartenenza – quello vero, reale, di carne – è fondamentale: «senza di esso non può esserci partecipazione», ha aggiunto p. Riggio. Senso di appartenenza significa «riconoscere che nella propria storia c’è un’origine», delle radici, «ci sono legami». Legami che «proiettano nel futuro» e che ci fanno percepire come «parte di qualcosa di più grande di noi», soprattutto «quando ci sentiamo ascoltati e quando si condividono obiettivi concreti». Oggi, però – è il parere di chi scrive – mancano fedi, visioni grandi, grandi passioni, che danno un senso alla vita, che alimentano a fondo, alla radice la partecipazione, senza ridurla a mero – pur necessario – “atto amministrativo”. 

CERCARE L’ALTRO

Partecipare ha alla propria radice il relazionarsi con l’altro. Significa «aprire delle porte che sembrano invalicabili»: spesso noi, invece, «restiamo chiusi nelle nostre case e negli ambienti in cui ci rifugiamo perché la pensiamo tutti allo stesso modo». Dovremmo, invece, «cercare il dialogo con chi è portatore di un’altra visione, di una rappresentazione dello stare assieme, metterci davvero in gioco». Un gesto politico lo compiamo innanzitutto «quando creiamo spazi di dialogo» e «ogni volta che “saliamo a compromessi”». “Saliamo”, non “scendiamo”, perché il compromesso con l’altro è il raggiungimento di qualcosa di importante, di alto, di nobile. Così, ad esempio, è stato per la nostra Carta costituzionale. Compromesso significa «riconoscere dignità all’altro da me, riconoscergli il diritto alla parola. Per questo ci vuole empatia, compassione, sentire che l’altro non mi è indifferente». Dobbiamo dunque «accettare che dentro la città – e la Chiesa – ci possano essere idee diverse, conflitti» tra chi viene da visioni, partiti diversi. A tal proposito, per padre Riggio è anche ormai tempo di iniziare a superare la falsa e ideologica contrapposizione fra i cosiddetti “cattolici della morale” e i “cattolici sociali”: «sempre di vita si parla»: si tratta quindi, fra cattolici, di «ragionare sul come dare alla vita una priorità», sempre.

MA CHI È L’ALTRO? 

Un tema spinoso, questo, ma mai veramente affrontato fra gli stessi laici cattolici, per i quali la legittima visione politica spesso viene prima della comune appartenenza alla Chiesa, della comune fede in Cristo risorto.

Senza nessun intento generalizzante, spesso può essere più “facile” parlare dell’altro inteso come “il povero”, “il migrante”, compiendo un’“apertura all’altro” comoda, a costo zero. Più difficile, invece, può risultare confrontarsi col fratello o la sorella in Cristo che compie scelte politiche differenti dalle nostre. Partire dalla comune fede, e da una comune dottrina, anche sociale, quindi. Per ricordarci che l’essere cristiani cattolici non è un’etichetta come tante, un abito fra i tanti che compongono il mosaico fluido della nostra personalità:è, invece, ciò che più nel profondo definisce l’identità di ognuno di noi.

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce” del 1° marzo 2024

La Voce di Ferrara-Comacchio

Mitezza e profondità: ricordo di Giuliano Sansonetti

1 Mar

Oltre 80 i presenti lo scorso 24 febbraio a Casa Cini per il pomeriggio in memoria del prof. Giuliano Sansonetti: diversi gli interventi di colleghi, amici, allievi: «traduttore e “introduttore”, figura fondamentale»

Circa 80 i presenti lo scorso 24 febbraio a Casa Cini, Ferrara, per il pomeriggio dedicato a Giuliano Sansonetti, docente, saggista, traduttore e sindacalista venuto a mancare il 6 febbraio 2023. L’evento è stato organizzato innanzitutto dalla vedova Anna Lodi e dalla figlia Silvia, assieme all’Istituto di Cultura “Casa Cini” e all’Istituto Gramsci di Ferrara. Nel suo intervento introduttivo, Piero Stefani ha ragionato proprio sui vari ambiti di impegno di Sansonetti e dell’importanza, nella sua vita, «della parola da ricercare, sempre da scegliere». Un’arte sopraffina, dedicata in particolare a quattro autori: Gadamer, Levinas, Henry e infine Tilliette, di cui era anche amico.

Come amico gli era anche Silvano Zucal, docente di Filosofia Teoretica e di Filosofia della Religione all’Università di  Trento, che lo ha ricordato anche come intellettuale «attento e raffinato» e ha parlato degli studi di Sansonetti sulla cosiddetta “Cristologia filosofica”, ad esempio sulla diatriba fra Tilliette e Fabro del ’76. Risale, invece, al 1988 l’inizio della collaborazione di Sansonetti con l’editrice Morcelliana, rappresentata a Casa Cini dal Direttore Editoriale Ilario Bertoletti che – oltre a sottolineare il suo «tratto garbato dell’amicizia» – si è concentrato sulla sua ricerca teoretica fra ermeneutica, fenomenologia ed etica. «Sansonetti – ha proseguito – ha tradotto testi filosofici importanti del dibattito contemporaneo». E proprio tra «filosofia dell’interpretazione» e «filosofia della traduzione» si è mosso l’ultimo relatore, Francesco Ghia, professore di Filosofia morale all’Università di Trento (assente Piergiorgio Grassi per un grave lutto familiare). Ghia ha riflettuto sull’arte della traduzione come arte ermeneutica simile alla scultura, nella quale fondamentale è l’aspetto del «togliere», per far emergere il più possibile l’essenza del testo originario.

L’essenza e l’essenziale rappresentati nella vita di Sansonetti, dunque. Cuore e semplicità emersi anche dagli interventi successivi, come quello di Roberto Formisano, docente di UniFe, che definito Sansonetti non solo, non tanto un traduttore ma un «introduttore» per aver portato in Italia filosofi del Novecento prima sconosciuti o poco conosciuti. Del suo carattere «solo apparentemente burbero ma in realtà pacato ed equilibrato» ha parlato poi Mirella Tuffanelli, ricordando anche il loro comune impegno nella CISL, mentre il collega di UniFe e conterraneo (marchigiano) Marco Bertozzi ha ricordato il loro percorso simile e il comune maestro Italo Mancini.

Spazio poi ad alcuni suoi ex allievi: Caterina  Simoncello, che lo ha definito come «presenza potente ma sempre delicata e discreta» e capace di «fare filosofia gettando sempre un ponte sulla vita»; Antonio Moschi, che lo ha definito una figura «distinta e accogliente», e Giovanni Albani: «ci chiedeva di interrogare alla pari gli autori e di rendere la filosofia sempre viva, contemporanea», ha detto quest’ultimo.

Sempre viva è rimasta, in Sansonetti, anche la fede in Cristo. Per questo, al convegno è seguita una S. Messa in sua memoria nella vicina chiesa di S.Stefano, presieduta da mons.Massimo Manservigi e accompagnata dall’Accademia Corale “Vittore Veneziani” (di cui era Presidente), che ha eseguito la Messa di Roveredo dello stesso maestro Veneziani.

«Mite nei modi, profondo nel pensiero e fermo nella parola» lo ha definito mons. Manservigi nell’omelia, ricordando il suo intervento a Casa Cini nel marzo 2022 sul tema della “giustizia”, per la “Cattedra dei credenti”. Per Sansonetti, ha detto, «giusto è colui che fa dono di sé, agendo per il bene degli altri. Ora Giuliano può godere del “faccia a faccia” con il Giusto, con l’Altro, cioè Dio».

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce” del 1° marzo 2024

La Voce di Ferrara-Comacchio

Il Card. Pizzaballa «amico» di Ferrara: ecco perché

28 Feb

Dal 1981 al 1984 è a Ferrara coi frati di S. Spirito e studia in Seminario, dove si diploma. Ancora oggi, che è Patriarca Latino di Gerusalemme, mantiene i contatti con alcune amiche

La guerra in corso fra lo Stato di Israele e i terroristi palestinesi di Hamas, scatenata da questi ultimi con la strage del 7 ottobre scorso, ha posto ancor più al centro dell’attenzione una personalità carismatica, con uno dei ruoli forse più delicati nella nostra Chiesa: il card. Pierbattista Pizzaballa, O.F.M., Patriarca di Gerusalemme dei Latini ed ex Custode di Terra Santa.

Ma forse in molti non sanno come un periodo importante della propria giovinezza, Pizzaballa l’abbia trascorso nella città di Ferrara, tra il Seminario Arcivescovile di via G. Fabbri e il Convento di Santo Spirito. Siamo nei primi anni Ottanta, e per alcune vicissitudini, Pizzaballa arriva nella nostra città. Città dove tornerà – pur “virtualmente” – il 1° marzo per il primo dei quattro incontri dell’Ottavario di Santa Caterina Vegri al Monastero ferrarese del Corpus Domini. Alle ore 20.45, infatti, si collegherà on line da Gerusalemme per dialogare assieme a Cristiano Bendin, caporedattore del Resto di Carlino di Ferrara, sul tema “Su di te sia pace” .

GLI ANNI FERRARESI, TRA GLI STUDI E LA MUSICA

Pierbattista Pizzaballa nasce a Cologno al Serio (BG) il 21 aprile 1965, e vive a Liteggio, ma quand’è ancora bambino con la famiglia si trasferisce in Romagna, a Rimini, dove la vicinanza del mare può donare anche al piccolo Pierbattista un’aria più salubre. A Rimini frequenta le Elementari e poi le Scuole Medie nel Seminario Minore “Le Grazie” di Rimini, che però chiuderà di lì a poco. Pizzaballa nel 1981 viene quindi trasferito a Ferrara assieme a due suoi compagni di studi, Gianni Gattei (riminese, attuale custode della Provincia dei Frati Minori in Papua Nuova Guinea) e Marco Zanotti (che sceglierà di non prendere i voti). I tre vivranno assieme ai frati minori francescani nel Convento di Santo Spirito in via della Resistenza. Allora la parrocchia è guidata da padre Atanasio Drudi, che sarà parroco per 30 anni, fino al ’97. Pizzaballa svolge gli studi superiori nel Seminario di via Fabbri e nel giugno dell’84 consegue la maturità classica come privatista del Liceo Ariosto. La mattina segue le lezioni, nel pomeriggio è a Santo Spirito, dove studia, fra gli altri, con don Valentino Menegatti, attuale parroco di Pontegradella, col quale trascorrerà anche due anni a Bologna di studi di teologia. «Ricordo il suo carattere asciutto, energico, impulsivo ma schietto, sincero, buono», ci racconta don Menegatti. A Santo Spirito, Pizzaballa suona l’organo con cui accompagna il coro di giovani voluto da padre Drudi, di cui Pizzaballa diventa responsabile ma che sarà guidato in quegli anni anche da suor Celestina Valieri, attualmente missionaria in Paraguay. Forte, infatti, è sempre stata la sua passione per la musica. «Ricordo anche – prosegue don Menegatti – come Pizzaballa fosse innamorato della comunità degli ebrei cattolici», movimento di ebrei convertiti al cattolicesimo. E «ha sempre amato le missioni francescane. “Tu studi da Provinciale”, gli dicevamo scherzando, già però intuendo le sue qualità e il suo amore per l’ordine di cui faceva parte».

Come «timido e riservato, schivo» lo ricordano anche alcune storiche parrocchiane di Santo Spirito: Monica Malin, Maria Silvia Ariati e Maria Luisa Panzanini. Con lui come organista, ci raccontano, «abbiamo partecipato a diverse rassegne corali che allora la Diocesi organizzava, oltre a spettacoli nel nostro cinema parrocchiale». Nel settembre 1983 Pizzaballa col coro di Santo Spirito partecipa a Roma a un incontro internazionale dei cori sacri che cantano a San Pietro nella Messa presieduta dal Santo Padre. Il 5 settembre 1984 a S. Spirito veste l’abito francescano. «L’ingresso nell’ordine francescano – ha raccontato durante la cerimonia per la sua ordinazione episcopale nel 2016 – era per me una scelta naturale visto che venivo da quel mondo: lì ho dato espressione concreta a quel desiderio di semplicità, di scelta radicale, di sobrietà».

DA BOLOGNA A GERUSALEMME

Nel 1984 Pizzaballa lascia Ferrara e vive l’anno di noviziato nel Santuario Francescano di La Verna, dove emette la Professione Temporanea nel settembre del 1985. A Bologna presso la Chiesa di S. Antonio emette invece la Professione Solenne nell’ottobre 1989 e sempre a Bologna, nel settembre 1990 è ordinato sacerdote. Dopo un periodo a Roma, un mese dopo, nell’ottobre del ’90 si trasferisce a Gerusalemme. Qui, dopo gli studi filosofici-teologici, consegue la Licenza in Teologia Biblica allo Studium Biblicum Franciscanum. Nel 1995 cura la pubblicazione del Messale Romano in lingua ebraica e poi traduce vari testi liturgici in ebraico per le Comunità cattoliche in Israele. Dal 2 luglio 1999 entra formalmente a servizio della Custodia di Terra Santa: ricopre il ruolo di Vicario Generale del Patriarca Latino di Gerusalemme per la cura pastorale dei cattolici di espressione ebraica in Israele ed è Consultore nella Commissione per i rapporti con l’Ebraismo del Pontificio Consiglio Promozione Unità dei Cristiani. Prima nel 2004, poi nel 2010 e nel 2013, sempre per tre anni, Pizzaballa è nominato Custode di Terra Santa. Nel 2016 Papa Francesco lo nomina Amministratore Apostolico del Patriarcato latino di Gerusalemme e viene ordinato Vescovo a Bergamo. Quattro anni dopo, il 24 ottobre 2020 Papa Francesco lo nomina nuovo Patriarca Latino di Gerusalemme. Pizzaballa, che è anche Membro del Dicastero per le Chiese Orientali e di quello per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, sempre da Papa Francesco è creato e pubblicato Cardinale nel Concistoro del 30 settembre 2023. Il giorno dopo, presiede la sua prima Messa da Cardinale nella Basilica di Santa Maria Maggiore. Gli viene assegnata la chiesa di Sant’Onofrio al Gianicolo a Roma, retta dai frati minori francescani.

UN’AMICIZIA CHE RIMANE

Ma per le sue amiche ferraresi, il card. Pizzaballa rimane ancora «Pierbattista», «un amico». È soprattutto Ariati ad aver sempre mantenuto i contatti con lui in questi 40 anni, prima in forma epistolare e raramente telefonica, poi via mail e WhatsApp, anche incontrandolo nel 2014 al Meeting di Rimini, dove partecipava come relatore all’incontro “Il potere del cuore. Ricercatori di verità”. Alcune di loro hanno anche partecipato alle sue ordinazioni episcopale e cardinalizia a Bergamo e a Roma, dove hanno potuto salutarlo per alcuni minuti: «è rimasta una persona umile, disponibile e gentile, che ha mantenuto vivo lo spirito francescano», ci raccontano. È rimasto quel ragazzo.

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce” del 1° marzo 2024

La Voce di Ferrara-Comacchio

Tutto si può comprare: se una tecnica malvagia stravolge corpi e identità

2 Feb

La tragica illusione della “riassegnazione sessuale”, i bloccanti della pubertà ai bambini, la gravidanza ridotta a profitto, l’orrore degli uteri artificiali…Fulvia Signani, psicologa e sociologa di UniFe, riflette sulle sempre più urgenti sfide della bioetica

di Andrea Musacci

Una certa nefasta narrazione sembra volerci convincere che non esistono più uomini né donne, ma che il genere è una mera scelta individuale. Anzi, che l’umano come l’abbiamo conosciuto (come abbiamo sempre pensato che fosse) è destinato ad essere cancellato. E che – è solo una delle conseguenze di tutto ciò – i bambini non nasceranno più dall’utero materno dopo un rapporto sessuale tra un uomo e una donna. Fantascienza? Assurdità? Nulla di tutto ciò, purtroppo. Queste a dir poco angoscianti prospettive sono già realtà. Di questi temi ha parlato lo scorso 23 gennaio a Ferrara Fulvia Signani, psicologa e sociologa, Docente UniFe incaricata di Sociologia di genere a Studi Umanistici e Medicina, Membro del Centro Strategico Universitario di Studi sulla Medicina di genere ed ex Dirigente psicologa all’AUSL di Ferrara. Invitata dal gruppo “Caschi Blu della Cultura”, ha dialogato con le moderatrici Gianna Andrian e Mara Guerra (ex Assessora alla Sanità del Comune di Ferrara) e con i presenti all’iniziativa svoltasi a Palazzo Bonacossi.

«La scienza si sta discostando sempre più dall’umano, dall’etica», riflette Signani. Una voce critica, la sua, da laica, su temi sui quali forte incombe una volontà di censura e di conseguente delegittimizzazione di ogni voce minimamente dubbiosa. 

LA TEORIA GENDER E LA «RIASSEGNAZIONE SESSUALE»

Signani ha iniziato la propria riflessione dalla critica del postgenderismo. Quest’ultimo – che nasce da “A Cyborg Manifesto” (1985), saggio della filosofa USA Donna Haraway – «ha come obiettivo la creazione di un individuo non sessuato, già ipotizzato da Aldous Huxley. Secondo questa teoria, la tecnologia applicata ai corpi è liberante, per me invece come per tante altre femministe, è oppressiva». Di conseguenza, secondo il postgenderismo, «a nessun individuo si può assegnare un genere: il genere è solo una scelta personale». 

BRUCE, BRENDA, DAVID: IL TRAGICO CASO REIMER

Signani cita dunque il caso del piccolo Bruce Reimer che nel ’66, in Canada, a nemmeno un anno di vita, perse il pene in seguito a un intervento di circoncisione. I genitori, disperati, dopo una serie di consulti medici, si affidarono a John Money, un medico che avevano sentito parlare alla tv dei miracoli della «riassegnazione sessuale» al Johns Hopkins Hospital di Baltimora. Money convinse i genitori del piccolo Bruce a farlo castrare e a provare, nei suoi primi anni di vita, a vestirlo come una femminuccia, a non tagliarli i capelli. Insomma, a farlo sentire una lei e non un lui. Ma la piccola Brenda (questo il nome assegnatogli) era un maschio e da maschio si comportava. Da adolescente, quindi, Bruce/Brenda decise di tornare al suo sesso biologico e di prendere il nome David (pensando al re di Israele). Dopo si sposò anche con una donna, ma il trauma fu sempre troppo forte: nel 2004 si suicidò, due anni dopo lo stesso gesto estremo compiuto dal fratello gemello. «È possibile modificare l’anatomia sessuale – riflette Signani -, ma in questo modo la medicina viene meno alla propria vocazione, che è la cura della persona».

TRIPTORELINA PER BAMBINI

Sui casi di minori che vogliono cambiare sesso (minori gender variant), una svolta decisiva in Italia è stata l’approvazione nel 2019 da parte dell’AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco) dell’utilizzo off label della triptorelina. Questa molecola può, quindi, essere somministrata, sotto stretto controllo medico, ad adolescenti affetti da disforia di genere (persone che non si sentono nel proprio corpo, per la conformazione sessuale che hanno), allo scopo di procurare loro un blocco temporaneo (fino a un massimo di qualche anno) dello sviluppo puberale, con l’ipotesi che ciò “alleggerisca” in qualche modo il «percorso di definizione della loro identità di genere». 

Ma la disforia di genere per Signani, che porta a sostegno delle sue affermazioni, considerazioni di importanti psichiatri, «spesso è accompagnata da patologie psicologiche o psichiatriche» e l’uso off label (per scopi diversi da quelli per i quali è stato sperimentato) della triptorelina «può portare anche all’infertilità». Insomma, «dietro c’è un discorso di mero profitto».

Sarantis Thanopulos è il Presidente della Società Psicoanalitica Italiana. Un anno fa ha inviato un’allarmata lettera al Ministro della Sanità Orazio Schillaci: «La diagnosi di “disforia di genere” in età prepuberale è basata sulle affermazioni dei soggetti interessati e non può essere oggetto di un’attenta valutazione finché lo sviluppo dell’identità sessuale è ancora in corso», scrive in un passaggio, parlando a nome della Società che presiede. «Sospendere o prevenire lo sviluppo psicosessuale di un soggetto, in attesa della maturazione di una sua definizione identitaria stabile, è in contraddizione con il fatto che questo sviluppo è un fattore centrale del processo della definizione», continua. Lettera, che dice Signani, «ho sostenuto, scrivendo direttamente a Thanopulos». E proprio la settimana scorsa, ispettori del Ministero della Salute sono stati inviati da Roma all’Ospedale Careggi di Firenze per avviare un confronto in merito ai percorsi relativi al trattamento dei bambini con disforia di genere e all’uso del farmaco triptorelina. 

Ma la scelta di cambiare sesso quanto dura nel tempo? Il metodo di ricerca in questi casi è difficile da individuare e Signani cita quanto viene riportato nel 2016 facendo riferimento alle poche ricerche esistenti che forniscono dati complessivi, molto variabili e che dicono che appena il 6-23% dei maschi e il 12-27% delle femmine persiste nella scelta di cambiare sesso. In Italia, però, per Signani, «c’è ancora un silenzio ostinato sui bloccanti della pubertà: non si possono conoscere quanti minori ora sono sotto trattamento, in quali centri e ospedali, con quali risultati…». 

RIPENSAMENTI

Nei Paesi europei pionieri di queste pratiche, qualcosa però sta cambiando. È il caso della Tavistock, clinica pubblica inglese: lo psichiatra David Bell, che ne è stato dirigente, afferma che la disforia di genere viene confusa dal punto di vista diagnostico con l’effettiva omosessualità (maschile o femminile); in un documento ufficiale pubblicato lo scorso giugno, il Servizio Sanitario Nazionale britannico ha dichiarato che i bloccanti della pubertà non dovranno più essere prescritti «al di fuori di un contesto di ricerca» a bambine/i e adolescenti che presentano «incongruenza o disforia di genere». La svolta è confermata dalle linee guida per due nuove “cliniche di genere” private che sostituiranno la Tavistock. Ripensamenti di questo tipo sono sempre più frequenti: la finlandese Riittakerttu Kaltiala è una pioniera delle cure ormonali per i bambini transgender, ma oggi è in prima linea contro i bloccanti della pubertà: in un’intervista dello scorso ottobre a “The Free Press” ha raccontato di come i giovani pazienti della sua clinica soffrivano in effetti di depressione, ansia, disturbi alimentari, autolesionismo, episodi psicotici. Non di disforia di genere. 

MATERNITÀ, UTERO IN AFFITTO, ECTOGENESI

«Non è corretto parlare di cambio di sesso tanto che queste persone per tutta la vita assumono ormoni, proprio perché restano del sesso che hanno alla nascita. Le cellule non cambiano geneticamente se uno prende ormoni». Così Assuntina Morresi, membro del Comitato Nazionale di Bioetica all’Agenzia Dire, sul recente caso di cronaca che ha visto “Marco”, “donna che si percepisce uomo”, rimanere incinta (oggi è al quarto mese di gravidanza) durante il proprio percorso di transizione per “cambiare sesso”.

Da qui, Signani prende le mosse per riflettere sul radicale stravolgimento della maternità, uno dei segni più evidenti della rivoluzione antropologica in atto, e su quelle aberrazioni che arrivano a ribaltare la realtà parlando di “uomini gravidi” (seahorse dad), dissociando la figura materna dal proprio figlio o spezzettandola. Il microchimerismo (scambio di cellule tra feto e madre), spiega Signani, dovrebbe perlomeno far riflettere sulle conseguenze della rottura a tavolino della relazione primaria tra madre e figlio. Ma il business, purtroppo, anche in questo caso sembra essere più forte della realtà e del senso di umanità.

IL DOMINIO DEL MERCATO

Per Signani, alcune considerazioni sono dovute: «le tecniche di Procreazione Medicalmente Assistita – spiega – sono sostanzialmente eugenetiche, in quanto, attraverso la scelta dei gameti da far incontrare (quelli sani, o con determinate caratteristiche), l’obiettivo non può che essere quello di migliorare la “razza” umana». Per non parlare dell’utero in affitto (v. anche “Voce” del 31 marzo 2023), ipocritamente detta GPA – Gestazione Per Altri, che nulla di gratuito e solidale ha: Marie-Jo Bonnet, femminista di sinistra francese, così ne parlava su “Le Figaro” già nel 2014: l’utero in affitto estende «il dominio del mercato in modo quasi illimitato (…). Tutto si può comprare, tutto si vende, compreso il potere riproduttivo delle donne. Ciò che era un atto libero diventa un atto commerciale. È il ritorno della lotta di classe nel campo della procreazione».

NON CI SARANNO PIÙ MADRI

Questa negazione della madre  è sempre più incentivata anche dallo sviluppo delle tecniche legate all’ectogenesi, vale a dire la crescita del feto al di fuori dell’utero naturale, attraverso l’utilizzo di “uteri artificiali”. La filosofa e bioeticista inglese Anna Smajdor scriveva al riguardo: «Così come un tempo si riteneva assurdo che le donne votassero o andassero a cavallo, allo stesso modo potrebbe un giorno apparirci assurdo che fossero incatenate ai processi degradanti e pericolosi della gravidanza e del parto semplicemente a causa della nostra incapacità di immaginare un’alternativa». Uno scenario apocalittico. 

«Gli uteri delle donne – commenta Signani – non saranno più necessari per far nascere i bambini». Le conseguenze – volute – di tutto ciò, e già in atto, sono «la cancellazione della funzione procreativa della donna, l’espropriare la donna della procreazione e la cancellazione (anche mediatica) della figura della madre».

L’UE, purtroppo, su questo tema non manda buoni segnali: lo scorso settembre iI Parlamento europeo ha approvato in prima istanza una proposta di regolamento che equipara gli embrioni umani a cellule e tessuti, definendoli «sostanze di origine umana», aprendo così le porte all’eugenetica e «al libero mercato di embrioni e feti», dice Signani. 

Cos’altro deve accadere per una rivolta delle coscienze, tanto nel mondo cattolico quanto in quello laico, e al di là delle singole appartenenze politiche?

***

«Il nostro corpo carnale ci è proprio, ma non ci appartiene come un bene, ossia come una proprietà alienabile, che possiamo dare o vendere come una bicicletta o una casa. La confusione fatale tra i due termini è deliberatamente coltivata dall’ideologia ultraliberale che vuole persuaderci del fatto che, poiché il nostro corpo “ci appartiene”, noi siamo liberi di alienarlo. Un ammirevole paradosso».

Sylviane Agacinski, in “L’uomo disincarnato. Dal corpo carnale al corpo fabbricato” (Neri Pozza editore, 2019)

Pubblicato sulla “Voce” del 2 febbraio 2024

La Voce di Ferrara-Comacchio

Arnoldo Foà: arte come memoria 

31 Gen

L’intervento della figlia Orsetta e alcuni aneddoti, in un incontro svoltosi a Ferrara lo scorso 24 gennaio

«Mio padre era libero da condizionamenti e costrizioni, parlava liberamente e per questo spesso discuteva e veniva visto come “scomodo”». Così Orsetta Foà, figlia di Arnoldo, lo scorso 24 gennaio ha ricordato il padre, attore, regista teatrale e doppiatore, nell’incontro a Palazzo Roverella dal titolo “Ebraismo, cinema, teatro e vita ebraica”, organizzato da Istituto Provinciale Nastro Azzurro di Ferrara, Circolo Negozianti e Associazione De Humanitate Sanctae Annae. «Oggi se fosse qui in questa sala direbbe: “parlate, dite ciò che non va, parlate coi vicini e coi lontani”», ha proseguito. «Lui diceva quel che riteneva fosse giusto dire. Era scomodo, però la sua scomodità creava un’opportunità di crescita, riflessione, rielaborazione: ogni crisi è un’opportunità. Grazie, non dimenticate mio padre!», ha concluso.

Circa 120 i presenti all’incontro – fra cui gli Assessori Marco Gulinelli e Andrea Maggi -, che ha visto gli interventi di Riccardo Modestino e Carlo Magri e un finale in musica con Francesco Petrucci e Nicola Callegari: quest’ultimo ha incantato il pubblico con musiche della tradizione yiddish.

Modestino ha raccontato la storia del teatro ebraico, che nasce a fine ‘800-inizio ‘900 anche in vista «dell’acquisizione di un’identità nazionale» dentro il sogno della creazione di quello che diventerà lo Stato di Israele. “Habima” è la prima compagnia teatrale ebraica, nata a Mosca nel ’17 e nel ’31 trasferitasi a Tel Aviv, per poi diventare nel ’58 Teatro Nazionale di Israele. Modestino ha poi ricordato alcuni dei protagonisti del teatro ebraico, come Joshua Sobol (classe ‘39), Rina Yerushalmi, Edna Mazya e Semel Nava. «Il teatro in Israele – ha riflettuto – si è fatto interprete, anche critico, dei processi storico-sociali e culturali del Paese e della cultura ebraica. Arnoldo Foà è in comunione con questa grande storia artistica».

Magri ha invece riflettuto su come «spesso chi si dichiara ateo, in realtà nel suo intimo è alla ricerca di una grande spiritualità. E ciò vale anche per Arnoldo Foà». A seguire, vi è stata la proiezione di un documentario che lo stesso Magri ha dedicato a Foà. Tante le suggestioni di una vita raccolte nel video: dalla prima poesia da lui scritta all’età di 8 anni dopo una fuga notturna da casa («Cigola, cigola, macchina mia / Sai come piange l’anima mia»), all’impegno civile. Dall’intervista a Otto Frank, padre di Anna, alla sua lettura dell’Ariosto al Ridotto del Comunale di Ferrara. «Per essere un attore, bisogna innanzitutto essere», diceva Foà. E Foà non si può dire non sia stato, non abbia cioè vissuto fino in fondo la propria esistenza. 

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce” del 2 febbraio 2024

La Voce di Ferrara-Comacchio

Brilla famelica l’Attesa Novità che la Scienza ci promette

27 Nov

di Andrea Musacci

(Joaquim Mir, “L’abisso”, 1901)

Il tutto fin da principio è un incubo così lucido. Uno spot pubblicitario con protagonisti tre sperduti giovinastri, così, già nelle viscere della nostra amata città. Si ritrovano – pensate un po’ – per raggiungere una cittadina nemmeno troppo vicina.

Questo mostro sformato, privo di pilota e d’anima, ha larghe e stravaccate postazioni che affondano la terra, fendenti giusto sopra il magma. Ha grandi tavoli accoglienti, longilinei corridoi a dividerli, e connessioni, prese di luce, artifici di rete, virtualità inimmaginate.

È una notte così greve la fuori, lassù insomma, ma questa può essere, per loro tre, per chiunque lo desideri, spazzata via, resa viva dove luce non c’è, dove una cappa di bagliore d’artificio la spezza.

Ah, è così facile scivolare, anche qui, nella tua città, dentro il dolce metrò. Scendi qualche lieve e spazioso gradino, e, come in un sogno, nulla più dell’informe reale puoi vedere: castelli, ciminiere, autostrade, ingorghi, patimenti, nebbiose calure.

In pochi minuti respiri tra le viscere di Milano, o, perché no, di Parigi o New York.

L’inaugurazione, però, di questo nostro bel mondo che ci unisce, restituendocelo, al globo tutto, avviene di giorno, ebbene sì, nella noiosa luminosità. Ma ecco, quale delle sue cento gloriose fermate si è deciso di battezzare? Quella davanti alla storica struttura che in un magnetico e frugale abbraccio, nel suo consumabile, nel nostro consumabile, desiderio, dà forma alle nostre spendibili personalità: il Centro Commerciale Unificato Ferrarese (CCUF).

Lì s’attende, ognuno attende.

Un Assessore infervorato, impettito e stralunato, suda muovendo i piedi mentre li cela, le suole sul volgare suolo, superficie gretta di quell’utero di terra, del buio che fu, ora illuministico vanto dei nostri tecnici dagli sguardi che abbagliano.

“Ma quante transenne, nastri adesivi e divieti!” si lamentano i furiosi, s’indignano nel loro nulla i faziosi. Sono quelli, lo so, che abitano il melmoso rancido acciottolato del centro, che abitano case, chiese e botteghe, insomma le vere fogne, diciamolo! Ma non vedono quel fascio di luce che sprigiona dal cunicolo nostro amato! Oh sì, noi lo vediamo, Assessore, noi sì, loro no, sono ciechi.

Ah, l’Assessore stralunato! La sua stessa valigia quadrata attende al margine della folla l’imbarco ufficiale. E lui in testa ha già il discorso, ricorderà nel vanto suo solito e appiccicoso, “d’aver Innovato, che quelle colonne han sverginato, progressivamente e con l’avvallo della Scienza Nostra Grande, il vetusto suol non più infame che ora accoglie i nostri avi, perché la terra è Innovazione, si è scoperto, la terra profonda è là nel Futuro che ci attende radioso e magnifico. Perché noi teniamo alla nostra storia!, così tanto alle radici che le strappiamo dal loro soffocante lacciuolo. Così ci chiedete voi, così noi vi immergiamo…ehm…vi accontentiamo”.

Persone con enormi buste escono dal CCUF per lenire il triviale insopportabile tarlo del perire affamati, emozionati come bimbi accorrono, impiastrati nel loro appiccicoso innato infastidirsi, diretti verso il Sogno (ah, senza terrore!), s’avvicinano, si tendono, sembra loro di sfiorarlo quando non è, e poi è un attimo, lo ghermiscono o quasi, è un fremito il passo…è nulla.

Tace l’uterino crepaccio, tace l’inutile voragine. Fuori l’infuocata nebbia inghiotte i delusi, li rapisce ingrata.

Così poco s’intravede di quell’infernale vuoto che han sognato. Dove entrare, dove liberarsi, dove scendere, Assessore?

Lo intervisto l’Assessore, nuovamente impettito e sudato, che nega, scuote e zampilla come mai lo vidi scuotersi e zampillare, distratto e impaurito, distaccato e minacciato.

Nega che la valigia quadrata fosse stata in attesa. E allora? È svanito, nulla. Eppure.

Eppure un povero anziano col sorriso furtivo rideva già pensando al fragore dei suoi cari, degli applausi che sarebbero seguiti al suo racconto del metrò, che magico doveva sembrare seppur reale. Si tuffava lui, giovinetto, via il pane, la terra, la polvere e gli sputi, il vino che ama, la carne che consola. Lui si getta lì, nel Grande, nel Nuovo, nel Bello Sempre Atteso. E nulla. Poi nulla.

Risucchiato. Sì, ma dove? Nessuno sa, chiunque tace.

Una bici s’accosta come in una presa insolente, in un’indicibile vacuità, nell’acciottolata via, nel vil rilievo, verticale sì, ma in direzione sbagliata.

Nella vertigine bigotta e antiquata, polverosa di carne, sudore, che meschinità quei corpi mai filtrati, quel sole che bagna come un lago quando c’abbracciamo, noi nudi e fetidi nelle nostre vite cattive.

Persino sui palazzi quella polvere! Nei nostri anfratti sporchi! E quante colpe abbiamo negli occhi, quante preghiere da far affiorare, noi stupidi riluttanti al Libero Potere!

Nel metrò di notte non c’è polvere, né anfratto da scovare, rifugio da lenire, pertugio da godere. Tutto, si dice, scivola brillante e famelico. Ecco perché i nostri tre ragazzi non vogliono riaffiorare, sono ancora laggiù, disperati e mai vergini, alla ricerca di un’anima inodore da poter presto scordare.

(Scritto nel giugno 2015)

«Come AC sappiamo leggere le grandi sfide che abitano i cuori delle persone?»: il Convegno diocesano di Ferrara-Comacchio

17 Nov
Foto Pino Cosentino

L’intervento di Notarstefano (Presidente nazionale Azione Cattolica) per il Convegno diocesano a Vigarano Pieve

Se ascoltate con lo spirito giusto, le parole dette la mattina del 12 novembre in occasione del Convegno diocesano di AC, sono “pesanti”. Sono cioè parole che richiamano con forza la necessità di non adagiarsi in formali e “borghesi” abitudini, ma di riscoprire la potenza e l’audacia dell’essere cristiani.

“Azione Cattolica: una storia lunga un sì!” era il titolo scelto per la giornata svoltasi nella parrocchia di Vigarano Pieve, tappa del cammino assembleare di AC che ha visto la presenza di 120 persone con, oltre il Convegno nel quale è intervenuto il Presidente Nazionale Giuseppe Notarstefano (nella foto, assieme a mons.Perego e da alcuni dirigenti AC diocesana), la S. Messa presieduta dal nostro Arcivescovo, il pranzo comunitario e i laboratori pomeridiani.

Ricordiamo che fino all’8 dicembre le AC parrocchiali svolgeranno la propria assemblea per eleggere i referenti parrocchiali. Questi si ritroveranno l’11 febbraio per l’Assemblea diocesana, nella quale si eleggerà il nuovo Consiglio diocesano che, a sua volta, eleggerà i responsabili diocesani di settore e concorderà la terna di candidati da presentare al Vescovo per la nomina del nuovo Presidente.

MARTUCCI:«CUSTODIRE E INNOVARSI»

Dopo il saluto dell’Assistente ecclesiastico don Michele Zecchin e l’introduzione di Chiara Fantinato (vicepresidente Adulti AC diocesana), è intervenuto il Presidente diocesano Nicola Martucci. L’analisi del presente svolta da Martucci è stata impietosa: «un certo modo di vita pastorale e cristiana è ormai inconsistente», in una società «liquida e frammentata» l’appartenenza alla Chiesa è in forte crisi, molti «giovani hanno eliminato il futuro dal loro orizzonte». In questo «viaggio in mare aperto», la fede e la Chiesa sono «tesori che vanno custoditi» prendendo però più sul serio «il tema della responsabilità» e col bisogno di «pensarsi, strutturarsi e muoversi al passo coi tempi».

NOTARSTEFANO: «EUCARESTIA E COMUNITÀ»

Un intervento che in un certo senso ha anticipato quello del Presidente Nazionale Giuseppe Notarstefano: «L’AC non ha bisogno tanto di aggiornamenti formali, tecnologici, ma di saper affrontare le grandi sfide che abitano i cuori delle persone, che sono poi le grandi domande di sempre». L’intervento di Notarstefano è stato preceduto dalla proiezione di un video nel quale sono stati intervistati tesserati e non dell’AC diocesana, dalle quali sono emerse gioie e difficoltà nel vivere questo tipo di vita associativa oggi.

Nel nostro tempo di cambiamenti, ha riflettuto quindi Notarstefano, «dobbiamo essere in grado di leggere i “segni dei tempi”».Dobbiamo quindi «sintonizzarci col tempo in cui viviamo, senza viverlo né da spettatori né con uno sguardo neutrale». C’è dunque bisogno di una «conversione personale», di essere «segni di vita evangelica», di «tornare a parlare di salvezza, oggi sostituita da surrogati quali il “benessere”, la “tranquillità”, la “qualità della vita”». Questa nuova «missionarietà» consiste quindi nell’avere «il coraggio, l’audacia di andare alla ricerca di tutto ciò di meraviglioso che il Signore già costruisce nelle vite delle persone, nei loro cuori». Solo ripartendo «dall’autenticità della nostra esperienza e delle nostre relazioni« saremmo capaci di fare ciò, «rigenerando le nostre comunità così piene – soprattutto dopo il Covid – di paura e abitudini che non riescono a superare». Nell’epoca dell’individualismo, della frammentazione, del darwinismo sociale, dobbiamo ricordarci – ha proseguito Notarstefano – che «nessuno si salva da solo», che la salvezza «non è un bene di consumo ma è per tutti e va sperimentata nella comunità». «L’Eucarestia nella città, da portare dentro la città è lo “strumento” per tenere assieme le diversità, per riscoprire la gioia dello stare insieme, senza ridurci – com’è successo spesso anche in AC – a sportelli burocratici». Solo questo stile di vita rinnovato, questo impegno all’insegna della corresponsabilità può riaprire le porte al futuro.

MONS. PEREGO: «AC, LUOGO IN CUI SI TROVA DIO»

Il nostro Arcivescovo mons.Perego nell’omelia ha riflettuto: «lo specifico dell’AC sta nel servire la Chiesa locale, dove servizio è il “sì” dell’AC Italiana, che non è supina obbedienza ai Pastori, cadendo nel clericalismo, ma passione per una Chiesa con cui si cammina». «La Chiesa e il mondo oggi hanno bisogno di “servi” – ha detto poi -, di chi fa della carità, sia in politica che nella vita consacrata ed ecclesiale, la cifra del suo agire». L’AC è dunque, per mons. Perego, «un luogo in cui si trova Dio, perché si impara a pregare, si educa all’ascolto della Parola, s’impara la sapienza, non si resta nell’ignoranza su nessuna cosa».

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce” del 17 novembre 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

Dentro la natura, oltre la realtà: Lucia Boni a Porto Viro con “Custode di dune”

12 Giu

La visionarietà come «capacità di vedere dentro le cose tangibili», mettendosi in ascolto della realtà, della natura. 

È, questa, una delle riflessioni che Lucia Boni, scrittrice e poetessa ferrarese, fa emergere dal suo libro “Custode di dune” (Campanotto editore, 2018), un dialogo in prosa a due voci.

Libro presentato la sera del 9 giugno scorso nel suggestivo Parco “Le Dune” di Porto Viro (RO). Un posto scelto non a caso: le dune fossili di Porto Viro, infatti, costituiscono qualcosa di unico nello studio dell’evoluzione della linea di costa, in quanto vi si trovano quattro cordoni litoranei fossili che testimoniano altrettante posizioni della spiaggia, spostatasi verso est in circa 2mila anni. Un luogo fatto, quindi, di memoria sedimentata, di cura necessaria, di mistero. «La realtà allude sempre ad altro», ha riflettuto Boni, e in questo essenziale è «l’uso della parola, andando oltre il senso razionale» e lasciando spazio «all’aspetto meditativo che permette di guardare meglio dentro sé stessi». Così, la voce femminile nel libro, desiderosa di silenzio e oblio, incontra Esblanco, che rappresenta quella «natura nella quale potersi perdere», la sua memoria e il suo custode. Un invito a ognuno di noi, dunque, alla cura della natura, ma un invito lontano da ogni tentazione di ecologismo.Anche nella natura, quindi, per Boni, «c’è un sentimento, una sorta di “intelligenza”, e dunque un dialogo» fra i suoi elementi.

Durante la serata, l’autrice ha dialogato con Gianpaolo Gasparetto, il quale ha letto alcuni brani del libro assieme a Lara Mantovani. Gli interventi musicali sono stati di Marco Baruffaldi (nome d’arte, Asia) e hanno portato i saluti Alessia Tessarin (Assessora alla Cultura) e Dismo Milani (Presidente Parco “Le Dune”).

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 16 giugno 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

Utero in affitto: se il mercato vende anche i bambini (e le relazioni)

1 Apr

In Italia si è riaperto iil dibattito sulla cosiddetta “maternità surrogata”. Chi la sostiene, non rispetta la dignità della donna e del bambino e la bellezza indisponibile della relazione materna. Alcune riflessioni su corpi e contratti

di Andrea Musacci

Nelle ultime settimane, il dibattito sull’utero in affitto si è riacceso dopo che la Commissione Politiche europee del Senato italiano ha respinto il certificato europeo di filiazione che prevede che la genitorialità stabilita in uno Stato membro UE venga riconosciuta in ogni altro Stato membro, senza alcuna procedura speciale (come l’adozione “in casi particolari”), che si tratti di figli di coppie eterosessuali, omogenitoriali, figli adottati o avuti con la maternità surrogata.

In tanti hanno denunciato (totalmente a sproposito) come questa scelta comporterebbe la negazione dei diritti del bambino. Ma chi, prima di questa surreale tesi, aveva il coraggio di sostenere che sia naturale che un bambino/a nasca senza la propria madre? Nessuno. La realtà, però, viene ancora una volta stravolta.

La realtà è che l’utero in affitto è un accordo commerciale fra due o più parti, in virtù del quale una donna si impegna, dietro compenso (in rari casi, a titolo gratuito), a farsi fecondare o a farsi impiantare un ovulo fecondato al fine di portare a termine una gravidanza per conto di uno o più committenti, e a consegnar loro il bambino dato alla luce rinunciando a ogni diritto su di esso. Commercio, committenti, rinuncia a ogni diritto. Bisogna partire da qui, da questi dati di realtà. E dal fatto che «gli aspiranti genitori lo realizzano [il figlio] facendo propria una creatura che viene al mondo per soddisfare» il loro desiderio di essere genitori, «unicamente. Soddisfarlo è la sua ragione di essere». Parole di Luisa Muraro, filosofa femminista (1).

LA DONNA TORNA A ESSERE OGGETTO

La liberazione sognata per secoli dalle donne, dove sarebbe in tutto ciò? La donna diventa mezzo di produzione, negando a sé stessa non solo il generare vita nell’amore, ma anche nel piacere, nel desiderio. «La riproduzione diventa produzione di cui siamo a un tempo mezzi e destinatari», scrive un’altra femminista, Marina Terragni (2): ci si vende (i propri gameti: ovociti e spermatozoi, pratica vietata in Italia) e si compra l’utero di un’altra (pratica altrettanto vietata). 

Il vero antiliberismo e il vero ecologismo oggi non possono non essere anche a tutela della naturalità della riproduzione umana, contro la mercificazione dei corpi (soprattutto delle donne), della parte più intima del corpo. E invece i maître à penser progressisti sono in buona parte schierati col mercato. Dall’altronde, è tipico del neoliberismo spacciare il commercio per libertà, per autorealizzazione. Siamo arrivati all’«autosfruttamento del proprio capitale umano, corporeo e sessuale» (3), scrive Ida Dominijanni, anch’essa filosofa femminista: il neoliberismo tecnicista ci ha chiesto di venderci integralmente, e noi lo stiamo facendo.

RELAZIONE IN VENDITA

Il mercato, quindi, non si ferma nemmeno davanti alla relazione tra la madre e la sua creatura, separandoli, strappando il neonato dal ventre subito dopo il parto. Ha qualcosa di sulfureo tutto ciò: strappare violentemente il legame più naturale, più sacro che esista, arrivando così all’origine della vita, interrompendo una relazione – quella tra creatura e madre – iniziata 9 mesi prima. I committenti non comprano solo un bambino, non affittano solo il corpo di una donna: in un certo senso, comprano anche la loro relazione. 

Ancora Terragni: «È paradossale che alla donatrice di utero si richiedano capacità empatiche straordinarie, al punto di saper provare compassione per perfetti sconosciuti infertili che spesso abitano dall’altra parte del pianeta e che le chiedono aiuto. Ma dal momento in cui l’embrione è impiantato le viene richiesto l’esatto contrario, cioè che rinunci a ogni empatia nei confronti della creatura che ospita». Un contratto commerciale diventa più sacro del legame tra madre e figlia/o.

IL CONTRATTO DI AFFITTO: CONTROLLO PIENO, SULLA VITA E SULLA MORTE

Ma cosa dice questo contratto? Riportiamo solo alcuni passaggi: i committenti possono controllare quasi ogni dettaglio della vita privata della “surrogante” fino al momento della nascita: la dieta, l’esercizio fisico, lo stile di vita, i viaggi. C’è chi pretende che la donna segua una dieta vegana o macrobiologica, chi le vieta di tingersi i capelli. E soprattutto, di non creare alcuna relazione genitore-figlio con il bambino. I compratori hanno anche diritto a tutte le notizie mediche sulla donna, sia sulla sua salute fisica, sia sulle sue eventuali sedute da uno psicologo. I contratti prevedono anche l’accesso diretto dei committenti a tutte le sue cartelle cliniche. E ancora: la “surrogante” non può avere nei 9 mesi nessun rapporto sessuale completo (per questo, spesso vengono scelte donne lesbiche). I compratori si riservano il diritto di far terminare la gravidanza entro 18 settimane. Diritto che possono esercitare a richiesta, in modo assoluto e senza dover addurre alcuna spiegazione o giustificazione. Infine, se alla “surrogante” dovesse capitare una fatalità, e morire, è inutile che abbia fatto testamento biologico: i compratori saranno gli unici ad avere voce in capitolo per tenere in vita la donna, eventualmente legata a una macchina salva-vita, qualora la gravidanza fosse nel secondo o terzo trimestre, per tutto il tempo necessario a raggiungere la vitalità del feto. Il marito della “surrogante”, o un suo parente prossimo, avranno voce in capitolo per il distacco dei macchinari o altri interventi sulla paziente solo dopo la nascita del bambino.

MADRE E CREATURA, UN LEGAME PROFONDO

Nel caso, invece, la gravidanza venga portata a termine senza ostacoli, la donna deve semplicemente sparire. Il suo compito è finito. Si prenda i soldi (sempre pochi, fossero anche 1milione di euro) e scompaia. E stia zitta: ora non è nemmeno più utile, ora deve tornare nel suo nulla, non rivendicare nulla sulla creatura che ha accudito e nutrito per 9 mesi. Come se nella gravidanza non avesse avuto nessuna relazione profonda: chimica, psichica, emotiva. È la scienza ad aver dimostrato questa relazione: a livello fisiologico, della comunicazione comportamentale e di quella empatica. Tra madre e creatura, nel grembo si instaura un legame profondo (“bonding prenatale”). «La relazione tra la madre e il feto – scrive Silvia Bonino, psicologa dello sviluppo (4) – garantisce lo sviluppo neurofisiologico e i primi apprendimenti, con conseguenze che non si limitano alla gestazione e non finiscono con il parto, ma possono durare per tutta la vita». 

MEZZO IN VISTA DI UN FINE

È la reificazione assoluta: la donna serve a qualcosa, è strumentale a soddisfare un desiderio altrui. È portatrice dell’oggetto del desiderio altrui (perlopiù maschile). È – con buona pace di Kant – mezzo in vista di un fine altrui. Perché se il fine (il mio desiderio di possesso di un figlio) è tutto, ogni mezzo è lecito. Il mio desiderio – criterio assoluto – giustifica anche il mezzo estremo: usare l’intimità di una donna.

Con l’utero in affitto, la donna che tanto ha lottato per affermarsi come soggettività libera e autodeterminata, ritorna ad antiche – e al tempo stesso nuove – catene: ancora vittima del maschile, di uomini che possono comprarla, dominarla, fare del suo corpo ciò che vogliono, carne per i propri desideri egoistici, mera fonte di (ri)produzione. I compratori sono anche persone che renderanno per il bambino angosciante domandarsi “chi sono io?”. Che significa anche “chi è mio padre?”, “chi è mia madre?”, e così a ritroso lungo le generazioni. Sono figli senza storia. Figli del dio mercato. Sta a noi salvarli dall’inferno che è stato progettato per loro.

1 L. Muraro, L’anima del corpo. Contro l’utero in affitto, La Scuola ed., 2016.

2 M. Terragni, Temporary Mother.  Utero in affitto e mercato dei figli, VandA ed., 2016.

3 https://idadominijanni.com/2014/05/15/il-corpo-e-mio-e-non-e-mio/

4 https://psicologiacontemporanea.it/blog/lintima-relazione-tra-feto-e-gestante/

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 31 marzo 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

Guerra contro l’Ucraina, mai tollerare le aggressioni

28 Feb
Un momento della manifestazione della comunità ucraina di Ferrara il 26 febbraio 2023

di Andrea Musacci

Sempre meglio partire dai fatti e dai numeri. Il 24 febbraio 2022 l’esercito russo invade la parte orientale dell’Ucraina e inizia a bombardare varie città del Paese, compresa la capitale Kiev. A un anno di distanza, l’Alto commissariato per i diritti umani dell’Onu ha conteggiato 8.006 civili morti e 13.287 feriti, di cui 487 bambini e 954 feriti. Ma i numeri sono sicuramente più alti. E a questi bisogna aggiungere i tanti soldati russi uccisi e feriti (200mila, si stima). Otto milioni sono invece gli ucraini che nel 2022 hanno lasciato il proprio Paese. E poi ci sono gli orrori di Bucha, Irpin, Mariupol, solo per citarne alcuni, le migliaia di manifestanti russi pacifici arrestati in Russia  e l’oltre mezzo milione di russi scappati dal proprio Paese: professionisti, ebrei (che temono torni l’antisemitismo), disertori. L’Ucraina è un Paese devastato, stuprato da un arrogante e feroce imperialismo, quello russo. 

«Un crimine contro l’umanità, un atto terroristico continuato» chiama la guerra contro l’Ucraina Vittorio Emanuele Parsi su “Il Foglio” del 24 febbraio scorso. Sì, perché uno è l’invasore (la Russia) e uno è l’invaso (l’Ucraina). Una sola è la terra martoriata, la casa da difendere, che ogni padre di famiglia difenderebbe. Da quando Putin è al potere, invece, il suo Paese non ha subìto nessuna invasione, nessuna guerra. Nessun bombardamento ha colpito il suo popolo. E così è anche ora: la Federazione russa non è minacciata né invasa né bombardata dall’Ucraina o da uno dei suoi alleati. Esiste un solo territorio invaso e bombardato da oltre 12 mesi: quello dell’Ucraina, paese libero e democratico, il cui popolo muore, soffre traumi indicibili, le cui donne e cui bambini per non essere ammazzati o stuprati sono costretti da mesi a fuggire raminghi per l’Europa, a portare nelle nostre città, come Ferrara, i loro occhi pieni di orrore, di angoscia per i mariti, per i padri lontani, per le loro anziani madri che non hanno nemmeno la forza nelle gambe, o nel cuore, per scappare dalla casa dove vivono da decenni. 

Questa è la sorte del popolo ucraino da quel 24 febbraio 2022. Una sorte non dettata dal caso, ma dalla violenza imperialista di Putin e del suo Governo, unici responsabili di ogni massacro, di ogni violenza, di ogni goccia di sangue, su una terra che cercava di vivere libera e in pace. Che non voleva e non vuole la guerra. Olga Onuch, storica e politologa ucraina, su “Il Foglio” dello scorso 23 febbraio ha scritto: «Il pacifismo è la posizione di chi esecra la guerra e le aggressioni militari. Non quello di chi le tollera o persino le premia, lasciando che gli aggressori ottengano quello che vogliono: non solo non sarebbe giusto, ma creerebbe il terreno per nuove e peggiori aggressioni. Una cosa intollerabile per un pacifista». Il finto pacifismo è anche un finto antimperialismo: in realtà è mero antiamericanismo, perché degli imperialismi d’altro tipo – russo, cinese o turco, ad esempio – non si interessa o anzi nega che siano tali.

Dall’altra parte ci sono quei popoli, come quello ucraino oggi, che ripudiano la guerra, che nei secoli sono riusciti a difendere i propri confini, la propria comunità, la propria libertà, senza avere il mito della guerra. Basti pensare a quei tanti partigiani antifascisti, anche cattolici, o agli eroi del Risorgimento. «L’eroica reazione» del popolo ucraino all’invasore russo «mi ha ricordato la nascita dello Stato italiano», ha detto lo scorso 21 febbraio Giorgia Meloni in visita a Kiev, da Zelensky: «è un po’ simile a quello che accade a voi oggi: che qualcuno riteneva che sarebbe stato facile piegare l’Ucraina, perché l’Ucraina non era una Nazione, ma con la capacità che avete avuto di battervi, di resistere», come l’Italia nel Risorgimento, «voi avete dimostrato di essere una straordinaria Nazione».

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 3 marzo 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio