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Colpa, vergogna e responsabilità: nazismo e Shoah secondo Hannah Arendt

6 Feb


L’intervento di Federico Varese in Ariostea va a toccare punti etici delicati

Dove porre il limite che ci permette di indicare qualcuno come “colpevole” rispetto al male compiuto dal potere? A partire da questa insidiosa e complessa domanda si è mossa la riflessione di Federico Varese lo scorso 30 gennaio nella Biblioteca Comunale Ariostea di Ferrara (foto sotto). “Colpa organizzata e responsabilità universale: Hannah Arendt, ieri e oggi” il titolo dell’incontro (che ha visto un’ampia presenza di pubblico e la presentazione e moderazione di Paola Zanardi) organizzato dall’Associazione “Amici della Biblioteca Ariostea”. Nato a Ferrara, Federico Varese è professore di Criminologia e Direttore del Dipartimento di Sociologia dell’Università di Oxford, oltre che collaboratore di “Repubblica” e del “Times Literary Supplement”. 

“Colpa organizzata e responsabilità universale” è il nome del saggio della pensatrice tedesco-statunitense pubblicato nel 1945. In esso, Arendt riflette innanzitutto sulla «strategia del sistema totalitario nazista di distruggere ogni zona neutra nella vita quotidiana, rendendo così ogni cittadino “colpevole”, corresponsabile del sistema genocidario». Riuscendo, cioè, «a trasformare il “padre di famiglia” in “boia”». A tal proposito, Arendt distingue tra «responsabili» – coloro che attivamente favorirono e sostennero l’ascesa al potere di Hitler – e «colpevoli», coloro cioè che sono stati in qualche modo parte della macchina di sterminio, ad esempio in un qualche punto del livello burocratico. «L’Olocausto – ha proseguito Varese citando Arendt – ci fa quindi dubitare che possa esistere la legge morale kantiana dentro ogni persona». Milioni di tedeschi, infatti, «hanno cambiato morale come si cambia un abito».

Il male radicale (che comprende dunque anche quello noto come “banale”, cioè fatto di tanti, minuscoli aspetti anche quotidiani) deve dunque diventare «problema universale»: ogni persona al mondo dovrebbe, cioè, «vergognarsi» per ciò di cui sono stati responsabili i tedeschi.In questo senso la vergogna – a differenza della colpa – è «universale», è «un’emozione sociale, condivisa, che può portare a una risposta etica». Anche oggi, però, «il rischio di perdere il senso della vergogna è altissimo». Un possibile antidoto sta, secondo Varese, nella «riscoperta e nell’espressione delle emozioni, a partire dall’amore». Livello emozionale che deve andare di pari passo – se non incentivare – quello razionale. E su quest’ultimo livello si è mosso Varese nell’analizzare due aspetti fondamentali del regime nazista, come di tutti i regimi, incluso quello putiniano che domina la Russia da un quarto di secolo con un’ideologia nazionalista sempre più marcata che recupera elementi filonazisti, sovietici, zaristi e dell’ortodossia cristiana: il primo, quello dell’«identità» che, secondo Varese, è «un costrutto artificiale sempre funzionale a determinati fini politici. Possono esistere teorie generali» sui popoli e gli Stati ma «non esistono le identità collettive, che quindi vanno decostruite a partire dalle scienze sociali». E, secondo – legato al tema dell’identità -, quello del «confine etnico» che definisce la stessa identità (il dividere il “noi” dal “loro”) e che è più importante dello stesso «contenuto culturale» dell’ideologia identitaria. 

L’interessante analisi di Varese lascia spazio a riflessioni aperte, che richiederebbero tempi ben più ampi. Innanzitutto, una domanda: ognuno è colpevole anche solo per non aver combattuto il male, o per non averlo sufficientemente combattuto? Ma in tal caso chi decide se un singolo, in un determinato contesto, ha fatto il possibile per denunciare e lottare contro il male? Affinché quindi questo giusto e doveroso richiamo alla coscienza personale non si trasformi a sua volta in rigido moralismo, vi è bisogno non di un approccio giustificatorio ma di pietà, dello sforzo cioè di unire la denuncia al perdono.

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 7 febbraio 2025

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Berlinguer nell’Italia di oggi

19 Apr

BerlinguerL’11 giugno del 1984, quattro giorni dopo l’ictus che lo colpì durante un comizio a Padova, morì Enrico Berlinguer, indimenticato segretario nazionale del PCI. Ieri con la presentazione del libro “Casa per casa, strada per strada. La passione, il coraggio, le idee” nella Sala Agnelli della Biblioteca Ariostea in via Scienze, 17, l’Istituto di Storia Contemporanea e l’Istituto Gramsci di Ferrara hanno reso omaggio a uno dei politici che più hanno segnato la storia della Repubblica italiana. Sono intervenuti Fiorenzo Baratelli, Presidente Istituto Gramsci Ferrara, Federico Varese, Professore Oxford University, Pierpaolo Farina, curatore del libro e fondatore di enricoberlinguer.it, e ha moderato Roberto Cassoli dell’Istituto Gramsci cittadino. Secondo Baratelli dopo trent’anni “non vi è ancora un giudizio equanime sulla figura di Berlinguer”, politico che, nel solco “della sua storia, del suo mondo, quello comunista”, è stato forse il più grande innovatore. Ripercorrendo i suoi anni alla guida del PCI, Baratelli analizza alcuni dei temi principali del pensiero berlingueriano: l’austerità, l’idea della democrazia come “valore universale”, lo scambio epistolare con Mons. Bettazzi, la questione morale. Varese, invece, ha impostato il proprio intervento sull’analisi – scientifica, etica, politica – del marxismo e del pensiero berlingueriano, e sulla loro attualità nella crisi dell’odierno mondo globalizzato.

Andrea Musacci

Pubblicato su la Nuova Ferrara il 19 aprile 2014

(Nella foto, da sinistra: Federico Varese, Pierpaolo Farina, Fiorenzo Baratelli e Roberto Cassoli)