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L’ebraismo ferrarese tra memoria e futuro

23 Mag

Asti, 16 aprile 1938: al centro Ermanno Tedeschi con la moglie Magda Tedeschi. Al fianco di Ermanno la sorella Aurelia con il marito Guido Debenedetti.  Seduto, con le mani sulle ginocchia, Marcello Tedeschi con la cugina Alda Debenedetti Jesi

“Una racchetta da tennis racconta. Ricordi familiari della Ferrara ebraica” è il nuovo libro di Ermanno Tedeschi: aneddoti e riflessioni

di Andrea Musacci

Tutta la vita in una racchetta da tennis. È possibile? Forse sì. Ma, si badi bene, non si intende concentrare un’intera esistenza dentro un pur nobile gioco ma, in questo, vedere l’essenza della vita vincere sulla morte, la compagnia, la gioia e la condivisione trionfare sullo spirito demoniaco. Insomma, la fede e la speranza avere l’ultima parola nonostante l’immagine tragedia della Shoah.

Questo ha voluto trasmetterci Ermanno Tedeschi, curatore, critico d’arte e scrittore torinese di origini ferraresi, nel suo nuovo libro “Una racchetta da tennis racconta. Ricordi familiari della Ferrara ebraica” (Silvio Zamorani editore, Torino, 2023). 

Il libro è stato presentato il 22 maggio al MEIS con interventi di Umberto Caniato (Presidente del Circolo Marfisa), Luciano Meir Caro (Rabbino capo di Ferrara), Dario Franceschini (Presidente Giunta elezioni e  Immunità parlamentari), Marcello Sacerdoti, Amedeo Spagnoletto (Direttore MEIS) e Silvio Zamorani (editore).

LA MEMORIA

Le radici estensi di Tedeschi sono nel ramo paterno: il padre Marcello si era trasferita da giovane a Torino per esercitare la professione di medico. Nel capoluogo piemontese a fine anni ’50 ha conosciuto e poi sposato Elsa Momigliano: dal loro amore, oltre a Ermanno sono nati Lino e Arturo. «Le radici ferraresi ereditate da mio padre sono sempre state molto forti in me e in tutta la mia famiglia», spiega Ermanno Tedeschi. Così, il fine settimana era rituale trascorrerlo a Ferrara: «allora non esisteva il Freccia Rossa e il viaggio era lungo, ma la gioia di vederla e respirare l’aria della grande casa di via Bersaglieri del Po facevano dimenticare ogni fatica. Durante quelle visite, non mancavamo mai di entrare nel negozio di giochi, in sinagoga, di andare al ristorante, da Giovanni o alla Provvidenza, e, naturalmente, al cimitero ebraico per recitare una preghiera sulla tomba del nonno Ermanno».

Ma il racconto più affascinante nel libro è quello di Marcello Tedeschi, padre di Ermanno, morto nel 2020, figlio di Magda ed Ermanno.

Marcello raccolse le proprie memorie dieci anni fa: ricordi amari ma sempre innervati da una tenacia che lo ha portato a superare ogni sorta di difficoltà. A partire da quel maledetto anno 1938: «eravamo in vacanza a Rimini quando fu annunciata l’imminente promulgazione delle leggi razziali. Stupore, smarrimento, tristezza, previsioni fosche. Era un fulmine a ciel sereno. In quegli anni abitavamo a Venezia (…). Comunicarono a mio padre che era stato sollevato dal suo lavoro per telefono. Andò quindi nel suo ex ufficio alla stazione Santa Lucia per gli adempimenti del caso. Alcuni dei colleghi avevano gli occhi lucidi. Io ho frequentato il liceo fino al fatidico 1938. Un giorno ho trovato nel grembiule nero un biglietto con sopra scritto “S. P. Q. E.” (Sempre Porci Questi Ebrei)». Poi, «da Venezia ci trasferimmo a Ferrara nella vecchia residenza di via Bersaglieri del Po 31. Per anni, fino alla fine del 1943, abbiamo trascorso una vita grigia di apartheid». 

Tedeschi racconta di quando fortunosamente scampò al rastrellamento dei poliziotti italiani e dei militari tedeschi. E poi la famiglia che si rifugia nella cascina di Porotto, dove ascoltano Radio Londra, poi a Sabbioncello San Pietro grazie all’aiuto di un dirigente fascista locale, e poi a Loano nel savonese, a Demonte vicino Cuneo, in una drammatica e avventurosa fuga per raggiungere la Svizzera. E quel bigliettino gettato dal carro bestiame dal fratello di Marcello, Arrigo, che purtroppo non ce la farà e morirà ad Auschwitz nell’ottobre ‘43.

Marcello e la sua famiglia, invece, riuscirono a tornare in Italia, prima a Firenze in un campo per rifugiati, poi a Ferrara.

IL FUTURO

Sulla Comunità ebraica ferrarese nel libro emergono alcuni spunti interessanti. «Dopo la Liberazione – scrive l’autore -, la comunità ebraica ferrarese è decimata e in totale declino. Oltre a quelli uccisi barbaramente dai nazi-fascisti molti avevano lasciato la città prima del 1938 per trovare lavoro altrove o all’estero. Oggi la comunità ebraica di Ferrara conta circa ottanta iscritti tra cui alcuni che vivono a Cento, Forlì, Lugo e Ravenna o in altre città in Italia e all’estero. Il tempio viene regolarmente aperto per le funzioni di Shabbat e delle festività principali anche se si fatica a raggiungere il numero di dieci uomini necessario per la celebrazione delle preghiere». 

E l’avv. Marcello Sacerdoti, figlio dello storico Rabbino Simone, spiega: «il futuro purtroppo non è esaltante, i numeri diminuiscono, non ci sono giovani, e il destino pare segnato. Desidero però evidenziare che già in passato in piccole comunità si è assistito all’immigrazione di ebrei provenienti da Paesi dove venivano discriminati (per esempio Egitto, Libia). (…) Quando ho ricoperto la carica di consigliere mi sono “dannato” per far venire un paio di famiglie a ripopolare la comunità. Purtroppo non si è arrivati a niente. (…) Il MEIS, un paio di famiglie (anche all’estero, vedi Venezuela, Argentina, ex Jugoslavia, Ucraina) potrebbero dare nuova linfa ed entusiasmo». 

L’attuale Rabbino Capo Luciano Meir Caro, invece, riflette così: «C’è un futuro per le piccole comunità? La risposta non è facile. Ritengo che negli anni passati qui, analogamente a quanto accade in comunità grandi e piccole, il problema non è mai stato affrontato come esigenza prioritaria. Inoltre nel tempo sono venuti a diminuire drasticamente i numerosi studenti israeliani ed ebrei che frequentavano la nostra comunità. La partecipazione alla vita religiosa è scarsa ma in linea con quanto avviene altrove. (…) La speranza è che l’afflusso di qualche famiglia ebraica da altre comunità concorra a garantire un futuro a un’istituzione prestigiosa che ha dato importanti contributi alla cultura italiana».

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 26 maggio 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

Nessuno può toglierci la nostra umanità, ci insegna Etty Hillesum

9 Mar

La mostra dalle Clarisse presentata il 1° marzo: «dobbiamo sempre cercare di scoprire questo debordare dell’umano, la positività nel reale»

Nulla ci viene strappato per sempre. Se immersi nell’orrore e nella miseria di un campo di concentramento, questa certezza è possibile solo grazie a un’assurda e smisurata fede.

È la fede di cui era piena Etty Hillesum, ebrea olandese deportata ad Auschwitz, dove muore il 30 novembre 1943 all’età di 29 anni. Di questo legame intimo con l’Assoluto, Etty lasciò traccia in un lungo Diario e in diverse Lettere (edite in Italia da Adelphi).

Fino al 9 marzo è possibile avvicinarsi al cammino di fede e di umanità di Etty grazie alla mostra realizzata dal Meeting di Rimini nel 2019 ed esposta nel coro del Monastero del Corpus Domini di Ferrara. La mostra è visitabile ogni pomeriggio dalle 15.30 alle 17.45. Per le visite guidate è possibile contattare Elisabetta Urban (cell. 351-5512283) o Giorgio Irone (3348045353), due giovani del CLU – Comunione e Liberazione Universitari di Ferrara. Negli stessi orari è possibile visitare la cappella del forno, alle ore 18 partecipare al Vespro e alle 18.30 alla Celebrazione Eucaristica. 

La mostra è stata presentata la sera del 1° marzo, davanti a una 40ina di persone, da uno dei curatori, il giornalista e scrittore Gianni Mereghetti, affiancato da Elisabetta Urban e Giorgio Irone. Proprio dal CLU è nata l’idea di portare l’esposizione dalle Clarisse. Una proposta nata grazie al fatto che da un po’ di tempo gli universitari di CL la Scuola di Comunità la svolgono proprio nel Monastero di via Campofranco.

Quello spiraglio di positività sempre da scoprire

Qualsiasi cosa accada non ci possono togliere nulla, non possono toglierci la nostra umanità: «questo pensava, viveva Etty Hillesum», ha spiegato Mereghetti.

«Etty ci insegna il metodo dell’ascoltare la realtà, per comprendere le cose vere», nella loro verità. «Un ascolto possibile solo nel pieno coinvolgimento».

Nel 1941 avviene l’incontro decisivo della propria vita, quello con lo psico-chirologo Julius Spier. È lui che la aiuterà ad ascoltarsi nel profondo, «ad aprirsi all’altro e a Dio in maniera autentica». Da qui la certezza che dentro la realtà «c’è sempre qualcosa di positivo, uno spiraglio di positività. Dobbiamo sempre cercare di scoprire questo debordare dell’umano». Di conseguenza, il compito che d’ora in poi si darà, sarà quello di «dissotterrare nel cuore dell’altro la positività della vita, di disseppellire Dio».

Nel campo di transito di Westerbork, dove Etty lavorerà come assistente sociale prima di essere deportata ad Auschwitz insieme ai genitori e al fratello Mischa, «non troverà solo miseria e disperazione» ma anche, nelle persone lì costrette, «un desiderio di bene e una grande umanità». Un “ascolto”, anche questo, fatto col cuore, tipico di chi «ha sempre vissuto l’impatto col reale, non difendendosi da esso ma vivendolo fino in fondo».

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” dell’11 marzo 2022

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Responsabilità e speranza: è questo il “fare” memoria

10 Feb

Free picture (Symbol of memory) from https://torange.biz/symbol-memory-17417In occasione del Giorno della Memoria, l’Eurispes ha reso noto il suo “Rapporto Italia” 2020, nel quale emerge anche un dato inquietante, seppur non del tutto nuovo: il 16,1% degli italiani sminuisce la portata della Shoah, e il 15,6% la nega. Ritornano puntuali, e necessari, dunque, riflessioni su ciò che è stato e sull’utilità di cerimonie e incontri pubblici sempre più simili a stanchi rituali da “consumare” quasi per dovere. La memoria della Shoah, infatti, non può mai diventare “ordinarietà”: “è nella natura delle cose – ricordava Hannah Arendt ne “La banalità del male” – che ogni azione umana che abbia fatto una volta la sua comparsa nella storia del mondo possa ripetersi anche quando ormai appartiene a un lontano passato”.

Se la memoria è azione

Per noi cattolici la memoria è essenza della nostra fede: «Questo è il mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoria di me», sono le parole di Gesù nell’ultima cena (Lc 22, 19). Papa Francesco in “Lumen Fidei” parla della trasmissione della fede nella Chiesa, attraverso la dottrina, la vita e il culto: “La conoscenza di noi stessi è possibile solo quando partecipiamo a una memoria più grande. Avviene così anche nella fede, che porta a pienezza il modo umano di comprendere. Il passato della fede, quell’atto di amore di Gesù che ha generato nel mondo una nuova vita, ci arriva nella memoria di altri, dei testimoni, conservato vivo in quel soggetto unico di memoria che è la Chiesa”. Per questo, “il credente – scrive il Papa in “Evangelii Gaudium” – è fondamentalmente ‘uno che fa memoria’ “. È su questo “fare” tipico della memoria (del credente e non), che vorrei soffermarmi. Etimologicamente, la memoria è legata alla sollecitudine, e richiama quindi un essere attivo del soggetto, una cura, un’“apprensione”. Hans-Georg Gadamer in “Verità e metodo” definiva la memoria non come una “semplice disposizione o facoltà” ma come qualcosa che appartiene alla “costitutiva storicità dell’uomo”, quindi come qualcosa di non meccanico, ma che presuppone una ricerca da parte del soggetto. “Mèmore” è colui che, attivamente, conserva il ricordo di un fatto, e lo conserva non solo nella mente ma anche nel cuore (oltre che in modo continuo). Memoria è dunque capacità di “ritenere”, nel senso di trattenere qualcosa prendendosene cura, perché ciò che è stato è per sua natura fragile, “corruttibile”: è qualcosa che non si mantiene in vita da sé, ma dev’essere di continuo ravvivato.

L’importanza del discernimento

E’ – inoltre – sempre in un presente che si fa memoria, l’eredità del passato va sempre ri(tradotta) in una situazione diversa. “Quello che hai ereditato dai tuoi padri, riguadagnalo, per possederlo” scriveva Goethe nel Faust. Ritradurre nel presente, quindi, significa fare un’azione di discernimento, letteralmente di “scegliere separando”, tra ciò che va trattenuto e curato, e ciò che invece va non rimosso ma non ripetuto, “ri-tenuto” nel presente. E’ un atto insieme di libertà e responsabilità che non spetta solamente alla collettività ma anche e soprattutto a ogni persona. E per far questo, è necessario rimparare la pazienza: la memoria, infatti, non richiede solo il distacco temporale dai fatti in oggetto, ma un ulteriore periodo necessario per discernere.

Fiducia e speranza, antidoti ai revisionismi

Sempre Gadamer nell’opera sopracitata scriveva: “il ‘ricordo’ (come oggetto) (…) ha in sé qualcosa di prezioso, perché mantiene presente per noi il passato in quanto è una parte di esso che non è passata”. Il passato, dunque, non si perde, ma “rimane presente” grazie al ricordo che lo tiene in vita, non lo fa “passare” del tutto, non lo fa essere “superato”. Nel mantenere i ricordi, naturalmente, le moderne tecnologie legate alla riproduzione di voci e immagini aiutano, e non poco. Ma non sono sufficienti, soprattutto in un’epoca come la nostra contrassegnata da una paura, quella delle cosiddette fake news, una paura “sana” e giustificata ma che ha come propria deformazione quella del “complottismo” come forma di revisionismo: un sospetto che, se diventa ossessione, porta a tragiche e ben note conseguenze. In un’epoca in cui il revisionismo è un pericolo concreto, tornano utili – pur nella loro radicalità – le parole di Herbert Marcuse ne “L’uomo a una dimensione”: la memoria, scriveva, può essere “sovversiva” perché “richiama il terrore e la speranza dei tempi passati”. Terrore e speranza: per riconoscerli come tali serve lucidità, serve la ricerca storica: seppur ci si muova nell’ambito delle scienze “inesatte”, non tutti possono essere “scienziati”, non tutti possono indagare allo stesso modo ogni documento, ogni segno del passato. Per questo, nella trasmissione della memoria vi è sempre, inevitabilmente, una parte di affidamento, di fiducia nell’onestà e nelle competenze di chi ce l’ha tramandata. Il resto sta a noi, quell’azione fondamentale del “fare” memoria spetta a ognuno, il saper sviluppare il più possibile una capacità di discernimento di ciò che riceviamo. Per questo, appunto, la memoria è sempre un gesto attivo, una scelta, una responsabilità. E la responsabilità è qualcosa di rivolto anche all’avvenire. Papa Francesco nell’enciclica “Lumen Fidei” parla della fede di Abramo come di “un atto di memoria” della promessa fattagli da Dio. Memoria che, però “non fissa nel passato”, scrive il Pontefice, ma “diventa capace di aprire al futuro, di illuminare i passi lungo la via”: la fede è, dunque, “memoria del futuro, memoria futuri”, è “strettamente legata alla speranza”. Una speranza attiva, per impedire che gli orrori del passato non si ripetano più, certi che il male non avrà l’ultima parola.

Andrea Musacci

Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 7 febbraio 2020

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Vite spezzate, vite salvate: a Ferrara storie di bimbi nella Shoah

17 Dic

“Stelle senza un cielo. Bambini nella Shoah” è il nome dell’esposizione aperta al MEIS fino al prossimo 1° marzo, un progetto didattico curato dallo Yad Vashem di Gerusalemme, in collaborazione con il MEIS, l’Assemblea legislativa della Regione Emilia-Romagna e il CDEC. Il 10 dicembre la presentazione pubblica

a cura di Andrea Musacci

gemellineGiovani, spesso giovanissime vite sconvolte, inghiottite dalle tenebre del male, vissute dentro l’orrore. Esistenze a volte distrutte per sempre, altre, invece, salvate.

“Stelle senza un cielo. Bambini nella Shoah” è il nome dell’esposizione aperta al MEIS dall’11 dicembre fino al prossimo 1° marzo, un progetto didattico, pensato quindi soprattutto per le scuole, curato dallo Yad Vashem, l’Ente nazionale per la Memoria della Shoah di Gerusalemme, in collaborazione con il MEIS, l’Assemblea legislativa della Regione Emilia-Romagna e il Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea (CDEC). Storie di bambine e bambini raccontate attraverso le loro immagini, a volte le loro stesse testimonianze e il racconto storico, una narrazione inevitabilmente commovente fatta di spezzoni di vita quoditiana, segni di storie di famiglie, di un popolo. La mostra è stata inaugurata ufficialmente nel pomeriggio del 10 dicembre scorso, anticipata, la mattina stessa, da una conferenza. Raccogliamo qui alcune vicende di bambine e bambini, le prime due accennate durante la conferenza stessa da Liliana Picciotto del CDE, le altre presenti in mostra.

Dino (classe 1929) ed Esther Molho, di Magenta (MI), che nel ’44, insieme ai genitori, imprenditori, dovettero nascondersi per 13 mesi in una stanza segreta (ideata da loro stessi insieme ad alcuni dipendenti) dello stabilimento di famiglia che produceva minuterie. La stanza era all’interno del magazzino, nascosta alla vista da una pila di casse alte fino al soffitto. Un sistema simile a quello usato dagli amici di Anna Frank.

Massimo Foa, nato l’8 novembre 43, torinese: la madre Elena Recanati è una sopravvissuta al campo di Bergen Belsen, mentre il padre Guido è morto, forse in una marcia della morte: Massimo, prima della deportazione dei genitori, è affidato a Suor Giuseppina De Muro, che lo fa uscire dalla prigione dov’è rinchiusa la madre in mezzo alle lenzuola sporche e viene affidato a una povera vedova di Cuorgnè di nome Tilde (Clotilde) Roda Boggio.

Leone (1930), Mirella (1932) e Davide Pecar (1935): tre fratelli milanesi che, insieme alla madre Ghenia vengono arrestati nel ’43 e portati al carcere di San Vittore, poi deportati ad Auschwitz, dove muoiono.

Franco Cesana, nome di battaglia “Balilla”, figlio di Felice e Ada Basevi, nato il 20 settembre 1931 a Mantova. A 13 anni si arruola nella brigata Scarabelli della seconda divisione Modena Montagna. Partecipa a numerosi scontri con i tedeschi e in uno di questi resta ucciso a Gombola (Polinago-Modena) il 14 settembre 1944.

Yehudit Czengery e Leah Czengery, gemelle rumene, hanno 6 anni nel ’44 quando vengono deportate con la madre Rosi nel campo di Auschwitz Birkenau. Il dottor Mengele le definì “le bellissime gemelle”: furono portate direttamente nel laboratorio riservato ai suoi esperimenti. La madre riuscì di nascosto a procurar loro del cibo. Si salvarono.

Marta Winter, classe 1935, polacca: nel ’43 la madre la affida a un amico di famiglia fuori dal ghetto. Fu poi deportata anche lei in un campo di concentramento ma si salvò.

Stefan Cohn, tedesco, nato nel ‘29: nel giugno ‘43 è deportato con la madre Bertha a Birkenau. Questa viene uccisa, Stefan fatto lavorare nella fabbrica di mattoni. Si salva e nel ’45 realizza 79 disegni raffiguranti la vita nei campi.

Sissel Vogelmann, torinese, nata nel ‘35, torino: il padre Shulim dirigeva la Giuntina editrice. Lei e la madre vennero uccise subito all’arrivo ad Auschwitz nel ’44, dopo esser state deportate dalla Stazione di Milano.

Henryk Orlowski e Kazimierz Orlowski, fratelli polacchi, rispettivamente del ‘31 e del ‘33.

Regina Zimet, classe ’33, nata a Lipsia. Nel ’39 con la famiglia fugge dalla Germania verso Israele, ma in Libia sono arrestati, riportati in Italia nel campo di Ferramonti. Poi rilasciati, sono costretti a vivere in clandestinità. Ma si salvano, e nel ’45 raggiungono Israele.

Sorte simile per Meir Muhlbaum, 1930, tedesco, e la sua famiglia, che nel ’44 riuscirono ad arrivare a Tel Aviv.

Adriana Revere: nasce alla Spezia il 18 dicembre 1934; i genitori Emilia De Benedetti ed Enrico Revere vengono arrestati in Vezzano Ligure per appartenenza alla “razza ebraica” ; la piccola viene catturata insieme ai genitori e inviata con loro al Campo di concentramento di Fossoli. Il 22 febbraio 1944 la famiglia è deportata al Campo di Auschwitz; il padre, trasferito a Flossenburg, è ucciso otto mesi dopo l’arrivo; la piccola e la madre sono uccise il giorno stesso dell’arrivo ad Auschwitz, il 24 febbraio 1944.

Maud Stecklmacher, cecoslovacca, classe ‘29: viene raccontata la sua amicizia con Ruth Weiss, poi proseguita nel ghetto di Terezin. Ma Ruth fu deportata in Polonia e non fece ritorno. Maud andò poi a vivere in Israele.

Marcello Ravenna, nato il 14 ottobre 1929 a Ferrara: figlio di Letizia Rossi e Gino Ravenna, fratello minore di Franca ed Eugenio. Nel ‘38 inizia a frequentare la scuola ebraica di via Vignatagliata. Il 12 febbraio ‘44 con la famiglia è deportato nel campo di Fossoli, insieme ad altre 500 persone, poi deportate ad Auschwitz. Marcello fu tra quelli che non tornò più. Non si ebbero notizie precise sulla sua deportazione e morte.

“Tenere accese più luci possibili”: memoria, didattica e ricerca

della setaLa mattina del 10 dicembre al MEIS, dopo i saluti del Direttore del Museo Simonetta Della Seta, di Alessandro Criserà (Assemblea legislativa della Regione Emilia-Romagna), Anna Quarzi (Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara) e Daniela Dana Tedeschi (vicepresidente Associazione “Figli della Shoah”), sono seguiti gli interventi di Liliana Picciotto (CDEC), Marcella Hannà Ravenna (Comunità ebraica di Ferrara), Rita Chiappini (collaboratrice dello Yad Vashem come contatto in Italia), e Cesare Finzi.

“La mostra – ha spiegato Della Seta – è dedicata a bambini che da un certo punto in poi non hanno più avuto un cielo, né luce: per questo, è importante anche oggi accendere più luci possibili. Vedere la Shoah attraverso gli occhi dei bambini che l’hanno vissuta, significa vederla con ancor più lucidità”. Dopo un omaggio a Piero Terracina, morto lo scorso 8 dicembre, uno degli ultimi sopravvissuti italiani ad Auschwitz, Della Seta ha ricordato anche i propri genitori, “anche loro ‘bimbi della Shoah’”. Dopo l’intervento di Criserà, che ha ricordato l’importanza della Legge regionale “Memoria del Novecento”, e l’intervento di Quarzi, ha preso la parola Tedeschi, la quale ha auspicato che la collaborazione tra l’associazione da lei rappresentata (e presieduta dalla Senatrice Liliana Segre) e il MEIS, ora iniziata, possa proseguire negli anni. “La Shoah – è stata la sua riflessione – ha negato tutti i diritti fondamentali dei bambini, compresi quella alla libertà, all’identità, all’educazione”. Ricordiamo che il 10 dicembre era l’anniversario dell’adozione della dichiarazione universale dei diritti umani da parte delle Nazioni Unite, avvenuta nel ’48.

“Nel fascismo e nel nazismo – sono invece parole di Picciotto – l’educazione era militarizzata, i bimbi venivano cresciuti come soldati obbedienti, non vi era più posto per l’educazione civile e al senso critico”. Nel ripercorrere i tragici passaggi della discriminazione e repressione antiebraica, la relatrice ha posto l’accento sulle conseguenze di tutto ciò per i più piccoli, in termini di “fame, freddo, spavento e terrore, promiscuità, fetore dei vagoni usati per la deportazione”.

Senza dimenticare la frequente separazione dai genitori, la vita clandestina, la falsificazione dei documenti d’identità, il dover dare nome e cognome inventati – non ebrei – per non essere riconosciuti ed evitare quindi l’arresto.

Sorte, questa, toccata anche a Eugenio Ravenna (1920-1977), uno dei cinque ebrei ferraresi sopravvissuti al campo di Auschwitz. La figlia Marcella ha analizzato come le leggi razziste iniziarono concretamente con l’espulsione dalle scuole di studenti e insegnanti ebrei, ricordando, per quanto riguarda la scuola di via Vignatagliata, alunni come Cesare Finzi, Corrado Israel De Benedetti, Giampaolo Minerbi, Donata Ravenna, Franco Schönheit, Maurizia Tedeschi e Gianfranco Rossi; tra i maestri, Giorgio Bassani, Matilde Bassani e Primo Lampronti.

“Da un lato, dalle testimonianze di alcuni studenti – ha spiegato – emerge tristezza, una sensibilità ferita nel sentirsi trattati come diversi, il senso di inferiorità; dall’altra, l’ammirazione per gli insegnanti, il poter stare insieme, i legami molto forti instauratisi, il poter svolgere attività coinvolgenti, come lo spettacolo teatrale diretto da Giorgio Bassani”. Ma dal ‘43 vi saranno gli arresti, le fughe, le deportazioni. La scuola verrà chiusa, Lampronti e i Bassani arrestati.

Ravenna ha ricordato uno per uno i bambini deportati nei campi di sterminio i cui nomi sono impressi sulle lapidi di via Mazzini: bambine e bambini che non hanno fatto ritorno: Marcella Bassani, Bruno Farber, Carlo Lampronti, Camelia Matatia, Roberto Matatia, Amelia Melli, Novella Melli, Marcello Ravenna, Roberto Ravenna, Vittorio Ravenna, Nello Rietti, Walter Rossi (studente alla scuola di via Vignatagliata, non indicato nella lapide perché non ferrarese), Adele Rothstein, Giorgio Rothstein, Wanda Rothstein, Cesarina Saralvo.

Dopo l’intervento di Chiappini, che ha spiegato il fondamentale ruolo informativo e didattico dello Yad Vashem di Gerusalemme, ha portato la sua testimonianza Cesare Finzi, scampato al campo di concentramento, la cui storia abbiamo raccontato nel numero del 13 settembre scorso e accennato – legato alla profumeria di famiglia (presente nella mostra “Ferrara ebraica” ancora visitabile al MEIS) – in quello del 22 novembre scorso.

Finzi nel suo racconto ha mostrato anche una foto della sua classe del ’36, quando aveva 6 anni, e una dell’autodenuncia, in quanto ebrei – ai tempi, obbligatoria – dei genitori: “hanno dovuto autodenunciare se stessi e i propri figli come ebrei, quindi come esseri inferiori”, ha spiegato.

Fra gli aneddoti, “il viso viola di rabbia di Giorgio Bassani quando – già escluso dal Tennis Club Marfisa in quanto ebreo – sentiva il rumore delle palline da tennis nel campo vicino”, o i documenti falsi che lui e i famigliari erano riusciti ad avere una volta fuggiti a Gabicce, nel ’43, dove il cognome era stato trasformato in “Franzi”. Traumi non da poco, per un 13enne, costretto a dover “rinnegare” il proprio nome, dunque la propria più profonda identità.

Il 16 gennaio Furio Colombo a Ferrara

Il 16 gennaio al MEIS è in programma un’intera giornata di incontri:

ore 10: “Dalle carte le vite. Gli archivi raccontano gli effetti delle leggi razziste del 1938”. Progetto nato dal Fondo Egeli della Compagnia di San Paolo, a cura della Fondazione 1563 per l’Arte e la Cultura.

Intervengono: Walter Barberis, Elisabetta Ballaira, Piero Gastaldo.

Ore 16: Inaugurazione della mostra “1938: L’umanità negata”. Lancio del progetto didattico con il MIUR sulle leggi razziali, la Shoah e l’antisemitismo.

Ore 18.30, Ridotto del Teatro Comunale: “20 anni dalla Legge della Memoria: riflessioni per il futuro”, con Furio Colombo, promotore della Legge, in collaborazione con Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara.

Pubblicati su “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 20 dicembre 2019

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Progetto, elevazione o liberazione: cos’è davvero il sogno?

17 Set

Il 15 settembre anche a Ferrara il tema è stato al centro della Giornata europea della cultura ebraica

giacobbe riberaI sogni, si sa, sono per loro natura sfuggevoli, “materia” inafferrabile sui quali è possibile disquisire all’infinito. Anche per questo, una cultura come quella ebraica, che fa dell’interpretazione un suo carattere sostanziale, trova nel mondo onirico e nei suoi innumerevoli richiami, terreno fertilissimo sul quale lavorare. L’annuale Giornata Europea della Cultura Ebraica, giunta alla XX edizione, in programma domenica 15 settembre, era proprio dedicata a “Sogni. Una scala verso il cielo”. A Ferrara, sono state organizzate due iniziative. La prima, svoltasi nella mattinata nel Tempio italiano, organizzata dalla Comunità ebraica di Ferrara al secondo piano della sede storica di via Mazzini, 95, ha visto diversi relatori alternarsi sulla traccia della Giornata. In serata, invece, è stata la Sala Estense di piazza Municipale a ospitare il concerto “Shemà – Sogni con anima e corpo”, organizzato dal MEIS, con le poesie in musica di Primo Levi, incentrato sui sogni di libertà e liberazione dopo il trauma della Shoah. Protagonisti di quest’ultimo evento, la cantante Shulamit Ottolenghi, il compositore e trombettista Frank London e il pianista e produttore Shai Bachar, pianista e produttore, introdotti da Simonetta Della Seta, Direttrice del MEIS . Quattro le relazioni della mattinata, presentata e moderata dal vice Presidente della Comunità Ebraica di Ferrara, Massimo A. Torrefranca: “Sogni nella Torà” del Rav Luciano Meir Caro, Rabbino capo della Comunità ebraica di Ferrara; “Il sogno sionista di Theodor Herzl a Ferrara”, Simonetta Della Seta, Direttore del MEIS; “La scala di Giacobbe: un oratorio incompiuto di Arnold Schönberg”, Massimo A. Torrefranca; “La Torà sogna? / Sognare la Torà?”, prof. Gavriel Levi. Da un sogno concreto e possibile ha preso le mosse il Presidente della Comunità Ebraica ferrarese, Fortunato Arbib, nel suo saluto iniziale: “che i lavori nell’edificio che ci ospita finiscano presto e che quindi questa sede torni a essere viva, accogliente, luogo di ritrovo e di socialità”. Ricordiamo, infatti, che il complesso di via Mazzini 95, che ospita tre sinagoghe, gli uffici della Comunità e il Museo ebraico, è chiuso per restauri a causa degli effetti del sisma del 2012.

Sogno, comunicazione di Dio o espressione dell’uomo?

Il Rav Caro nel suo intervento ha spiegato come il sogno nella tradizione ebraica è “lo strumento usato da Dio, in maniera enigmatica, per comunicare all’uomo la propria volontà in forma di avvertimento, o come indicazione pratica, o ancora per avvertirlo su ciò che avverrà. Nella Bibbia, però, sono presenti anche interpretazioni critiche nei confronti del sogno, in quanto il sognatore sarebbe il mago, l’indovino, lo stregone”. Sempre nella Torà il sogno “è anche espressione dei desideri più profondi della persona”, quindi non di Dio, oppure sinonimo di “apertura”, e “segno, anche se molto parziale, di profezia. Altre interpretazioni molto importanti del sogno presenti nella tradizione ebraica, lo indicano come “anticipazione della morte o come discesa nelle profondità divine, o, ancora, come albero della vita”. Un’ultima esegesi, ha concluso Rav Caro, descrive la vita narrata in Genesi come “mondo dei sogni, imprecisio, mentre quello successivo, normativo, dopo la rivelazione di Dio a Mosè sul Monte Sinai e la consegna dei Dieci Comandamenti e della Torà, è quello davvero reale, dove l’uomo inizierà a vivere nella consapevolezza delle proprie responsabilità nei confronti di Dio e delle altre persone”.

L’utopia concreta (e ferrarese) di Theodor Herzl

“Se il sogno è ciò che dà possibilità di cambiamento”, ha spiegato invece Della Seta, proprio da un “sogno” è stato incitato Theodor “Beniamino” Herzl (1860-1904) (prima foto in basso), giornalista, scrittore e avvocato ungherese naturalizzato austriaco, padre del sionismo e dello Stato Israele, da lui, appunto, preconizzato e progettato nella sua celebre opera “Lo Stato ebraico” (1896). “Dobbiamo vivere come uomini liberi nella nostra terra”, scriveva. Fondamentali per la sua decisione furono i progrom di cui erano vittime gli ebrei nell’est Europa (l’antisemitismo violento), e, in Francia, l’affaire Dreyfus, caso di antisemitismo sottile, intellettuale, ma non meno grave. Un sogno, il suo, che passa anche da Ferrara. Nel 1904 Herzl, infatti, viene in Italia per tentare di avere un colloquio diplomatico sia col re Vittorio Emanuele III sia con papa Pio X, al fine di convincerli della bontà del suo progetto. Due incontri assolutamente fondamentali, resi possibili dall’intermediazione dell’avvocato ferrarese Felice Ravenna (1869-1937), figlio di Leone, residente in via Voltapaletto. Nei suoi diari parla dell’“amico Ravenna” e dei suoi famigliari, persone dai “cuori molto caldi”. Herzl e Ravenna si scambiarono ben 17 lettere tra il 1902 e il 1904. Mentre il re esprime positività nei confronti del sionismo, il pontefice è netto nella sua contrarietà al progetto di uno Stato ebraico: “gli ebrei – era il suo pensiero – non hanno riconosciuto nostro Signore”, quindi “non possiamo riconoscere lo Stato ebraico”. Non poche critiche i sionisti ricevettero anche da giornalisti e politici italiani, nonostante in quel periodo, ad esempio, 18 erano i parlamentari ebrei nel nostro Paese, fra cui Giacobbe Isacco Malvano, meglio noto come Giacomo Malvano (1841-1922), che fu in contatto con Herzl.

Musica, una scala che eleva a Dio

Della figura e dell’opera di Arnold F. W. Schönberg (1874-1951), compositore ebreo austriaco naturalizzato statunitense, uno dei teorici del metodo dodecafonico, ha parlato, invece, Torrefranca. Convertito nel 1908 al protestantesimo per profonda convinzione (non per opportunismo, come invece era uso fare), e tornato all’ebraismo nel 1933, iniziò a comporre l’oratorio “La scala di Giacobbe” negli anni immediatamente successivi alla prima guerra mondiale. Come nel racconto biblico, l’oratorio rappresenta una sorta di “elevazione spirituale verso Dio”, anche se fondamentale è la figura dell’Arcangelo Gabriele.

Agente di trasformazione, strumento contro la “dimenticanza”

Gavriel Levi  ha, invece, riflettuto su come il sogno notturno “condensa desideri e censure verso gli stessi, quindi i conflitti profondi della persona”, e come dunque sia “un continuo racconto di se stessi, sempre aggiornato dalle spinte dell’esistenza”. Inoltre, “come la Torà scritta è quasi insignificante senza la cosiddetta Torà orale, cioè senza le interpretazioni, così il sogno coincide con la sua interpretazione, quindi anche con chi lo interpreta”. Levi ha poi analizzato i sogni nella vita del patriarca Giuseppe, figlio di Giacobbe, nipote di Isacco, bisnipote di Abramo: due sogni è Giuseppe a farli (quello dei covoni, e quello del sole, della luna e delle stelle). Negli altri casi, invece, Giuseppe è interprete di sogni altrui: prima quelli del coppiere e del panettiere coi quali divide la prigionia in Egitto, poi del faraone stesso. Questa sequenza, per Levi, dimostra bene il passaggio di Giuseppe “dal pensare se stesso all’interagire con gli altri e dunque, ancora più in grande, all’intero Egitto”, e, aspetto importante, “preannuncia l’esilio e la schiavitù del popolo d’Israele, conditio sine qua non per diventare popolo. Per essere ebrei, insomma, bisogna passare per la schiavitù, per la perdita di legami”. In conclusione, questo significa che, “qualunque avvenimento tragico possa accadere, la vita fiorirà”, ha spiegato il relatore. Fondamentale è, perciò, il sogno, che “ci evita la dimenticanza, ci permette di ricordare le cose nuove, ci mette in crisi, dicendoci qualcosa di importante su noi stessi. Sta a noi, dunque, usarlo come agente di trasformazione, di liberazione”.

Andrea Musacci

Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” il 20 settembre 2019

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“Quella volta che la maestra mi chiese: ma voi ebrei non avete la coda?”: Cesare Finzi si racconta

9 Set

La testimonianza del ferrarese, scampato nel ’43 alla deportazione, il 4 settembre a Ferrara in un incontro organizzato da CDEC, MEIS e ISCO

cesare finziDa una vita normale, scandita dalle ore a scuola, trascorse nel caldo nido della comunità, con i propri famigliari, nel negozio del padre, fino a venire a conoscenza, dal giornale, di essere diversi, dunque degni di esclusione dal consorzio umano. E di conseguenza dover sopportare derisione, odio, l’essere considerati simili a bestie, degni di un disprezzo del quale non provar vergogna. Cesare Finzi, nato nel 1930 a Ferrara, cardiologo in pensione, faentino d’adozione, ha vissuto tutto questo, e da anni è impegnato a raccontare la sua testimonianza di vita soprattutto ai più giovani (testimonianza lasciata anche in un libro, “Il giorno che cambiò la mia vita”). Ma la commozione, il dolore traspaiono intatti dalla voce e dagli occhi.

L’ultima occasione è stata nel pomeriggio del 4 settembre scorso, quando nella Sala Estense di Ferrara si è svolto l’incontro “Pratiche formative sulla Shoah e sui diritti umani”, conferenza aperta a tutti ma pensata soprattutto per i docenti. La conferenza era parte del secondo seminario residenziale in programma in quei giorni a Ferrara, pensato per offrire a un gruppo di docenti delle scuole secondarie di secondo grado da tutta Italia gli strumenti per l’educazione alla cittadinanza attiva e il Giorno della Memoria. L’evento, introdotto e moderato dal vicepresidente della Comunità ebraica di Ferrara, Massimo Acanfora Torrefranca, è stato organizzato da The Olga Lengyel Institute for Holocaust Studies and Human Rights – TOLI e la Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea – CDEC, in collaborazione con il Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah – MEIS e con l’Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara – ISCO . “Sono nato e cresciuto in una famiglia ebraica, mio padre Enzo era ferrarese, mia madre mantovana. Una famiglia nella quale l’ebraismo era vissuto con una certa liberalità, pur essendo legata alle proprie radici. A quei tempi a Ferrara – ricorda Finzi – vi erano 4 sinagoghe, circa 700 ebrei (ancora nel ’37, mentre nel ’43 saranno la metà, e di questi, oltre 100 saranno deportati), di cui una parte rivestiva ruoli di rilievo nella pubblica amministrazione” – basti pensare ad esempio al direttore di CARIFE, del Consorzio agrario, al Podestà Ravenna, ai presidi dei Licei Scientifico e Classico. “Mio padre aveva ereditato da suo padre la profumeria in via Mazzini, la prima nella nostra città (dove oggi c’è ancora una profumeria, “Limoni”, ndr), che un tempo era anche e soprattutto una cartoleria e tabaccheria”. Enzo era uno dei tanti ebrei fieramente patriottici, riconoscenti all’Italia unita di aver loro concesso diritti e libertà. “Nel ’15 mio padre scappò di casa pur di arruolarsi nell’esercito” durante la Grande Guerra. “A Ferrara fu tra i primi a prendere la tessera del Partito fascista, un giorno la ritrovai, era la numero 12”, convinto di agire da patriota, “ma nel ’23, dopo l’omicidio di don Minzoni, scelse di uscire dal Partito”.

“Fino all’anno scolastico 1937-’38 frequentai la scuola ebraica di via Vignatagliata”, ha proseguito. “Per sostenere l’esame di accesso al 4° anno delle Elementari (una volta funzionava così) andai dunque in una scuola pubblica. Ma il 3 settembre 1938, tornando a casa, aprii il quotidiano e lessi: ‘Insegnanti e studenti ebrei esclusi dalle scuole governative e pareggiate’. Capii il concetto ma non il perché. Mio padre rimase frastornato. Ricordo ancora quando, nel giugno ’40, sentii il celebre discorso di Mussolini (“Vincere! E vinceremo!”): ne rimasi sconvolto”. Nella scuola di via Vignatagliata, fra gli insegnanti Finzi ebbe Giorgio e Matilde Bassani, Primo Lampronti (campione di boxe) e Riccardo Veneziani. “Nel ’43 andai a presentarmi alla scuola media di via Borgo dei Leoni, per sostenere gli esami conclusivi. Insieme a me vi era Nello Rietti, che morirà il 13 marzo ’45 nel campo di Buchenwald. Quel giorno a scuola vennero chiamati tutti i bambini presenti, ma non noi due. Chiedemmo allora spiegazioni al Preside: i nostri nomi erano in fondo ai fogli, nell’ultima pagina. Una volta fatti entrare nell’aula, ci isolarono dagli altri, i quali, una volta saputo che eravamo ebrei, iniziarono a ridere, a fischiarci, a sbeffeggiarci. Era ‘normale’, dopo 5 anni che sentivano e leggevano che gli ebrei non erano del tutto umani, considerati più simili a bestie”. Ma l’assurdità dell’ideologia antiebraica aveva intaccato anche l’umanità degli adulti, anche di persone laureate: “all’improvviso una giovane insegnante dice a me e Nello: ‘tanto non attaccherete la malattia’. ‘Quale malattia?’, chiesi. ‘Come, voi ebrei non avete la coda?’, rispose serafica, credendo davvero in quel che diceva”.

Poi nel luglio ’43 cadde il regime, ma le leggi razziali, anche con Badoglio, rimasero in vigore, e furono riprese dalla Repubblica Sociale Italiana: “per questo è corretto chiamarle non solo ‘leggi fasciste’ ma ‘leggi italiane’ ”. La notte dell’8 settembre dello stesso anno, subito dopo la firma dell’armistizio, il cugino 17enne di Cesare, Alberto, residente con la famiglia a Bolzano, esce a festeggiare. Viene riconosciuto, arrestato col padre, Renzo Carpi, portati nel carcere di Bolzano. Furono i primi ebrei italiani presi dai fascisti e consegnati ai tedeschi. La zia di Cesare, Lucia Rimini e la cugina Germana, di 16 anni, non vollero scappare. Furono presi con gli altri ebrei dell’Alto Adige la notte fra il 15 e 16 settembre. L’intera famiglia venne di fatto riunita nel campo di concentramento di Reichenau, e lì rimase fino al febbraio del ’44 quando vennero caricati su uno dei treni della morte. Solo di un’altra cuginetta, Olimpia, 3 anni e mezzo, era noto il destino: fu uccisa il giorno stesso dell’arrivo ad Auschwitz, il 7 marzo ’44, gasata e bruciata. “Grazie a un altro mio parente, lo zio Renato – ha proseguito il racconto Finzi -, io e i miei famigliari di Ferrara ci salvammo, perché scappò e venne da noi per avvisarci. La notte fra il 13 e il 14 novembre del ’43 io, lui e mio padre con una fune ci calammo dalla finestra nel cortile del vicino per scappare da fascisti e carabinieri che erano venuti a prenderci. Andammo a Gabicce – dove una persona riuscì a farci avere documenti falsi, privi del timbro di appartenenza alla razza ebraica – poi Mondaino, e poi sulle colline di Montefiore Conca. Una volta finita la guerra, sono tornato a scuola, al terzo anno del Liceo Scientifico: i miei nuovi compagni mi hanno accettato come se fossi sempre stato loro amico: è anche grazie a questo che sono riuscito ad arrivare fino ad oggi”. E’ questo il ricordo più intenso – che ancora lo fa commuovere, spezzandogli la voce –, insieme a quello della cuginetta: “ogni mattina, da 75 anni, appena mi sveglio penso alla piccola Olimpia e ai miei cari che non ci sono più”.

Antisemitismo ieri e oggi

Dopo la proiezione di un video sulla storia dell’ebraismo italiano (normalmente proiettato al MEIS), il 4 settembre nella Sala Estense hanno preso la parola Simonetta Della Seta, Direttore del MEIS, la quale ha posto l’attenzione sull’importanza di ripercorrere tutta la storia dell’antisemitismo, le cui radici sono molto lontane, e Anna Quarzi, Presidente dell’ISCO (Istituto di Storia Contemporanea) di Ferrara. Quest’ultima ha ripercorso la storia degli insediamenti ebraici in Emilia-Romagna: i primi si registrano fra l’XI e il XX secolo d. C. fra Ravenna e Rimini, ma è nel XIV secolo che l’immigrazione ebraica aumenta nella nostra Regione, dal sud Italia e dal centro-nord Europa. Anche a Ferrara, per secoli gli ebrei hanno vissuto pacificamente, in particolare furono ben accolti nel periodo di Ercole I° d’Este. I ghetti a Ferrara come in altre città emiliano-romagnole (in tutto 32 località) verranno creati successivamente, sotto lo Stato Pontificio (a Ferrara, nel 1627). Proseguendo, durante i moti risorgimentali e poi con l’unità d’Italia molti ebrei furono in prima linea, sentendosi a pieno titolo italiani, cittadini, partecipando anche in massa al primo conflitto mondiale. Fino ad arrivare, appunto, all’antisemitismo di Stato, già anticipato da una campagna d’odio e, nella nostra città, nel ’37, da una schedatura degli ebrei residenti, anticipazione, grazie all’“intraprendenza” dei funzionari locali, delle leggi razziali (o, meglio, razziste). Dopo l’intervento di Cesare Finzi e prima delle relazioni di cinque docenti formati da TOLI – Fondazione CDEC – ISCO, ha preso la parola la professoressa di Pedagogia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano Milena Santerini, che ha affrontato il tema specifico dei discorsi d’odio oggi, in particolare sul web. Antisemitismo, antigitanismo, maschilismo, islamofobia, odio contro i migranti, razzismo, sono forme d’intolleranza tra loro correlate, e vanno quindi combattute insieme: “non è vero che la scelta di un capro espiatorio mette ‘al sicuro’ altre categorie. Vale invece la logica dei vasi comunicanti, per cui l’odio si riverbera su ogni categoria considerata ‘altra’, ‘diversa’ ”, ‘inferiore’, attraverso parole e discorsi d’odio che, la storia ce lo insegna (ma spesso, come si dice, non ha allievi…), preparano le azioni. È importante dunque prevenire, non solo reprimere legalmente e legare i discorsi d’odio del passato a quelli del presente.

Andrea Musacci

Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 13 settembre 2019

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“Quando scrivevo a Otto Frank”

4 Feb

“E’ stato per me un maestro e un amico”: in un libro Cetty Muscolino racconta la sua amicizia col padre di Anne Frank e con la sua seconda moglie Fritzi

“Non l’ho mai visto dolente o lacrimoso. Sì, la forza e l’allegria lo dominavano tutto. Otto è stato per me un maestro di vita e quando si è molto giovani è importante avere maestri”. Scrive così Cetty Muscolino, docente ed ex Direttore del Museo Nazionale di Ravenna, nel suo libro “Quando scrivevo a Otto Frank” (Edizioni La Carmelina), nel quale racconta il suo rapporto epistolare d’amicizia col padre di Anne Frank e con Elfriede “Fritzi” Markovits-Geiringer, dal ’53 moglie di Otto e anch’essa reduce da Auschwitz. Lo scorso 28 gennaio il libro è stato presentato in Biblioteca Ariostea a Ferrara e per l’occasione l’autrice ha dialogato con Anna Maria Quarzi (direttrice ISCO, che ha scritto la prefazione), e con Silvia Pesaro (presidente della sezione ferrarese di Adei Wizo – Associazione Donne Ebree d’Italia). A 12 anni, nel ’63, Cetty legge il “Diario” di Anne Frank: “per me fu come una rivelazione”, scrive nel libro, “avevo Anne Frank nel mio cuore”. Nell’aprile dello stesso anno, viene a sapere che il padre Otto poco prima è stato ospite della classe II B della Scuola Rambaldi di Molinella, nel bolognese, al confine con la provincia di Ferrara. Cetty, incredula, contatta subito l’insegnante della scuola convincendola a farle avere l’indirizzo di Otto a Basilea. Dopo anni di intenso scambio epistolario, mentre il primo incontro avviene nel ’74.
“ ‘Considera sempre le tue benedizioni (Count your blessings), vedi il lato positivo’, mi scriveva sempre. Mi ascoltava e dava sempre consigli”, ha spiegato la Muscolino. “Otto era una persona buona, serena, positiva, proprio come la figlia Anne. Era sempre evidente anche il suo pudore a parlare dei drammi riguardanti la sua famiglia. Una volta mi disse – ha proseguito l’autrice -: ’non mi rendevo del tutto conto cosa Anne esattamente stesse esprimendo. Ora posso solo far conoscere al mondo il suo messaggio’ ”. Cetty ha mantenuto i contatti con Fritzi anche dopo la morte di Otto, avvenuta nel 1980.

Andrea Musacci

Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” dell’8 febbraio 2019

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“Amo così tanto gli altri perché amo in ognuno un pezzetto di te, mio Dio”

28 Gen

Raccontare l’Olocausto attraverso le vite di alcune persone: fra quelle scelte dal MEIS per il Giorno della Memoria, Etty Hillesum e Schulim Vogelmann. Due straordinarie testimonianze di amore e di perdono in mezzo all’orrore

etty

“Mi sembra che si esageri nel temere per il nostro corpo. Lo spirito viene dimenticato, s’accartoccia e avvizzisce in qualche angolino. Viviamo in un modo sbagliato, senza dignità. Io non odio nessuno, non sono amareggiata: una volta che l’amore per tutti gli uomini comincia a svilupparsi in noi, diventa infinito”. E’ stata questo Etty Hillesum, una straordinaria donna d’amore e di fede, alla vita, alle persone e a Dio. Il MEIS ha scelto di dedicarle uno degli eventi del Giorno della Memoria, svoltosi nella sede di via Piangipane a Ferrara nel pomeriggio di lunedì 21 gennaio. “Etty Hillesum. Osare Dio” (Edizioni Cittadella) è il nome dell’antologia (con testi dalle sue lettere e dai suoi diari) presentata, curata da Alessandro Barban (monaco camaldolese) e Antonio Carlo Dall’Acqua (foto a sinistra). “Questo libro è anche una lettura cristiana del suo pensiero”, ha esordito il Direttore MEIS Simonetta Della Seta. “Dei ‘sommersi’ della Shoah ci sono poche voci. Etty è una di queste, che ci ha lasciato un messaggio di amore”. Barban, non potendo essere presente, ha lasciato un messaggio nel quale spiega come “leggere gli scritti di Etty è un cammino di crescita spirituale e di consapevolezza profonda. I suoi sono testi utili contro tutti i razzismi, e per i diritti dei più deboli della nostra società”. “Etty – ha spiegato invece Dall’Acqua – è morta 45 giorni prima di compiere 30 anni, e il suo diario l’ha iniziato a scrivere a 27 anni. Il tempo, perciò, non è qualcosa di fisso, ma di variabile: per questo possiamo dire che Etty ha vissuto veramente in pienezza tutta la vita, ma ha vissuto più gli ultimi tre anni della sua vita che i precedenti”. I genitori Levi e Rebecca si sposano nel 1912 e, oltre a Etty, hanno due figli maschi, Mischa e Jaap. Etty si laurea in giurisprudenza all’Università di Amsterdam, e si iscrisse anche alla facoltà di Lingue Slave, ma a causa della guerra deve interrompere i suoi studi. Conclude invece il percorso di Lingua e Letteratura russa, e negli anni successivi impartisce sia lezioni private sia lezioni di russo all’Università popolare di Amsterdam. All’inizio della guerra si interessa della psicologia analitica junghiana, grazie al lavoro dello psico-chirologo Julius Spier che conosce il 3 febbraio 1941 come paziente, divenendo in seguito la sua segretaria e una delle amiche più intime. Una conoscenza, ha spiegato Dall’Acqua, “che le ha permesso di maturare molto a livello spirituale”. La sua terra, l’Olanda, viene invasa e occupata dai nazisti nel ’41, le deportazioni inizieranno l’anno successivo. Ma come Etty scrive nel suo diario nel ’42, “ho un grande bisogno di lavorare profondamente, per diventare un essere adulto e completo”. “Continuo a lavorare e a vivere con la stessa convinzione e trovo la vita ugualmente ricca di significato, anche se non ho quasi più il coraggio di dirlo quando mi trovo in compagnia”. Nello stesso anno lavora come dattilografa presso una sezione del Consiglio Ebraico. Diverse volte Etty rifiuta di accettare l’aiuto di amici non ebrei che insistevano per ospitarla e nasconderla. In seguito, arrivò a pentirsi di aver accettato il lavoro al Consiglio ebraico, si sentiva in colpa. “Voglio condividere il destino del mio popolo”, scrisse. In seguito lavora nel campo di transito di Westerbork come assistente sociale. Qui riesce comunque anche a leggere delle poesie di Rilke, “per non perdere la propria umanità”, ha spiegato il relatore che si è poi soffermato su un episodio legato all’arrivo di un treno nel campo di Westerbork nel giugno ’43, di cui Etty, che ne è molto addolorata, ne parla in una sua lettera: nei vagoni bestiame vi erano “donne con bambini piccoli, 1600 in tutto (altri 1600 arrivano stanotte)”. “I vagoni merci erano completamente chiusi, ma qui e là mancavano delle assi e dalle aperture spuntavano mani a salutare, proprio come le mani di chi affoga”. “Etty mentre scrive – sono ancora parole di Dall’Acqua – naturalmente è cosciente che sarà deportata, anche se non subito. Ma nonostante questo, è serena”. Il 21 giugno ’43, però, da un treno che arriva nel campo, vede, attraverso alcuni assi mancanti, i genitori e il fratello Mischa. Scriverà: “questo è il giorno più triste della mia vita”. Il 7 settembre ’43 scrive a Christine van Nooten, e la lettera viene trovata perché è la stessa Etty a gettarla fuori dal treno prima della partenza, direzione Auschwitz: “Christien, apro a caso la Bibbia e trovo questo: «Il Signore è il mio alto ricetto». Sono seduta sul mio zaino nel mezzo di un affollato vagone merci. Papà, la mamma e Mischa sono alcuni vagoni più avanti. La partenza è giunta piuttosto inaspettata, malgrado tutto. Un ordine improvviso mandato appositamente per noi dall’Aia. Abbiamo lasciato il campo cantando, mamma e papà molto forti e calmi, e così Mischa. Viaggeremo per tre giorni. Grazie per tutte le vostre buone cure. Alcuni amici rimasti a Westerbork scriveranno ancora a Amsterdam, forse avrai notizie? Anche della mia ultima lunga lettera? Arrivederci da noi quattro. Etty”. E’ la sua ultima lettera. Mentre Etty, i genitori e il fratello Mischa mouoiono poco tempo dopo il loro arrivo ad Auschwitz, l’altro fratello, Jaap, perde invece la vita a Lubben, in Germania, dopo la liberazione, il 17 aprile 1945, durante il viaggio di ritorno nei Paesi Bassi. La data della morte di Etty è il 30 novembre 1943. Da Westerbork, in una delle ultime lettere, Etty scrive ad un amico queste parole “scandalose”: “la vita è una cosa splendida e grande, più tardi dovremo costruire un mondo completamente nuovo. A ogni nuovo crimine o orrore dovremo opporre un nuovo pezzetto di amore e di bontà che avremo conquistato in noi stessi. Possiamo soffrire ma non dobbiamo soccombere. E se sopravvivremo intatti a questo tempo, corpo e anima ma soprattutto anima, senza amarezza, senza odio, allora avremo anche il diritto di dire la nostra parola a guerra finita. Forse io sono una donna ambiziosa: vorrei dire anch’io una piccola parolina”. Per Dall’Acqua ciò significa “salvare la propria umanità: il suo, quindi, è un messaggio che non tramonta, un messaggio di pace e di amore, che ci dice che alla violenza si può reagire con l’amore”. “Amo così tanto gli altri perché amo in ognuno un pezzetto di te, mio Dio”, scrive lei stessa. “Ti cerco in tutti gli uomini e spesso trovo in loro qualcosa di te. E cerco di disseppellirti dal loro cuore, mio Dio”. A 27 anni ad Amsterdam scrive: “Un pozzo molto profondo è dentro di me. E Dio c’è in quel pozzo. Talvolta mi riesce di raggiungerlo, più spesso è coperto da sassi e sabbia: allora Dio è sepolto. Bisogna di nuovo che lo dissotterri”.

“Il falsario di Schindler”

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Il giorno dopo, il 22 gennaio, il MEIS ha ospitato Daniel Vogelmann (foto a destra), che ha parlato di suo padre Schulim, “il falsario di Schindler”, introdotto dal Presidente del MEIS, Dario Disegni , che ha spiegato l’importanza di raccontare storie come questa in quanto “oggi corriamo tanti rischi, vi è un ritorno di fenomeni di razzismo, intolleranza, antisemitismo, vi è tanta indifferenza verso chi soffre e intolleranza verso tutti quelli considerati diversi”. “Mio padre Schulim – ha spiegato Daniel – mi ha sempre raccontato poco della sua vita, e non solo riguardo alla sua prigionia ad Auschwitz. Certe cose, poi, le ho sapute soltanto molti anni dopo la sua morte, come, per esempio, che c’era anche lui nella lista di Schindler. E io, purtroppo, non gli ho mai chiesto nulla, anche perché è morto quando avevo solo ventisei anni. Qualcosa, però, è giunto miracolosamente fino a me, e così ho scritto questa piccola autobiografia per le mie nipotine. Ma non solo per loro”. Schulim Vogelmann nasce in Ucraina ma a 15 anni si traferisce a Vienna e poi in Palestina, dove si arruola come caporale nell’esercito britannico, e nel ’22 a Firenze, dove già risiedeva il fratello Mordechai, e viene assunto alla Tipografia Giuntina, allora di proprietà dell’editore Leo Samuele Olschki. Schulim nel 1928 diviene direttore della tipografia. Nel ’33 si sposa con Annetta Disegni (insegnante di lettere, parente di Dario) e la coppia nel ’35 ha una bambina, Sissel (nella foto col padre). Dopo l’8 settembre 1943 la famiglia cerca di rifugiarsi in Svizzera, ma fermati dalla polizia a Sondrio vengono rinchiusi al carcere di San Vittore a Milano e di lì deportati ad Auschwitz il 30 gennaio 1944, dal famigerato binario 21 della Stazione di Milano. La moglie e la figlia vengono immediatamente uccise. Schulim si salva grazie alla sua abilità di tipografo che i tedeschi cercarono di sfruttare nei campi di lavoro per coniare sterline false. Unico italiano incluso nella lista di Oskar Schindler, Schulim rientra nel dopoguerra a Firenze dove riprende a lavorare alla Tipografia Giuntina. Risposatosi con Albana Mondolfi, la coppia ha un figlio Daniel, nato nel ’48, come ha spiegato lui stesso, “14 giorni dopo la nascita dello Stato di Israele”, sottolineando “l’importanza straordinaria di far nascere un bambino ebreo, quando, fino a pochi anni prima, i bimbi ebrei venivano sterminati (furono un milione e mezzo in totale)”. Schulim muore a Firenze nel 1974. “Poco prima di morire legge ’Se questo è un uomo’ di Primo Levi”. Quattro anni dopo, nel ’78 nasce il figlio di Daniel, Shulim Vogelmann. Daniel nel 1980 fonda la casa editrice La Giuntina. “Mio padre – ha spiegato Daniel al MEIS – aveva un forte senso della vita, ed era essenzialmente una persona ottimista e buona, e oggi, segno dei tempi, chi è buono viene definito con disprezzo ‘buonista’ ”. “Non gioire mentre il tuo nemico cade e quando egli inciampa il tuo cuore non si rallegri” (Proverbi 24, 17): “questo passo biblico me lo ripeteva spesso”. Una grande domanda ha lasciato Daniel ai tanti ferraresi accorsi per ascoltarlo: “chi decide il destino degli uomini? Questo ci ha insegnato la Shoah…”.

Andrea Musacci

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Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” il 1° febbraio 2019

“Una persecuzione durissima con la complicità di molti italiani”

28 Gen

In occasione del Giorno della Memoria, il 22 gennaio al MEIS Fabio Isman ha parlato delle leggi razziali nel nostro Paese e della complicità di molti italiani nel rendere la vita impossibile a migliaia di connazionali ebrei

leggi-razziali-fasciste-1030x615-2Quando si parla del periodo delle leggi razziali, è importante parlare delle sofferenze patite da ciascuno dei 50mila ebrei in Italia, dei rischi che correvano, da ciò che gli è stato portato via (tutto), da ciò che gli è stato restituito dopo (poco), e del fatto che il Parlamento non ha mai chiesto loro scusa”. Non ha usato giri di parole Fabio Isman, giornalista e saggista (che in passato si è occupato tanto anche di terrorismo), lo scorso 22 gennaio al MEIS di Ferrara in occasione della presentazione del suo libro “1938. L’Italia razzista” (Il Mulino, 2018). Le leggi razziali in Italia, precedute da un censimento – una vera e propria schedatura “essenziale per chi dopo andrà a prelevarli per deportarli nei campi di concentramento” -, e anticipate da una violenta campagna antisemita, esclusero gli ebrei dalla scuola, dal lavoro, dalla vita civile e sociale. Isman ha compiuto una capillare ricerca in diversi archivi sul territorio nazionale (ma “il lavoro sarebbe infinito…”, ha spiegato lui stesso) per portare a galla informazioni, aneddoti, storie di persone in carne e ossa sentitesi all’improvviso stranieri indesiderati nel luogo dove vivevano, tranquillamente, da cittadini. “La persecuzione contro di loro – ha spiegato Isman – in Italia non è stata, come dicono alcuni, ‘all’acqua di rose’, ma durissima, ed è iniziata non nel ’43, ma nel ’38”. E’ infatti, pubblicato il 14 luglio del ’38, col titolo “Il fascismo e i problemi della razza”, su “Il Giornale d’Italia”, il Manifesto degli scienziati razzisti o Manifesto della razza. Firmato da alcuni dei principali scienziati italiani, il Manifesto diviene la base ideologica e pseudo-scientifica della politica razzista dell’Italia fascista. Tra i firmatari vi è il medico Nicola Pende (al quale è ancora intitolato un Istituto Comprensivo, il Gramsci-Pende, a Bari). Pend nel ’38 sostenne pubblicamente “la necessità di evitare il matrimonio con individui di stirpe semitica, come sono gli ebrei, i quali non appartengono alla progenie romano-italica, e soprattutto dal lato spirituale, differiscono profondamente dalla forma mentis della nostra razza”. E’ di pochi mesi successivo – del 17 novembre – la promulgazione del decreto governativo n. 1728, “Provvedimenti per la difesa della razza italiana” – anche se sono 420 in totale, fino al 1945, le norme e i decreti razzisti emanati in Italia, “che il re sottoscrisse senza vergogna. Queste norme razziste – ha proseguito lo scrittore – sono state l’anticamera della Shoah”. Insomma, “molti italiani non erano affatto ‘brava gente’ ”, e lo dimostrano, ad esempio “le istanze ai prefetti, dove nostri connazionali chiedevano, per citarne una, se potevano occupare appartamenti requisiti dopo il ’38 a ebrei”, senza nessun scrupolo al riguardo. Nel ’39 nasce l’Ente di Gestione e Liquidazione Immobiliare (Egeli), con sede a Roma e guidato da un presidente e da un consiglio d’amministrazione nominati direttamente da Mussolini, chiuso definitivamente solo nel 1997. “Agli ebrei presero tutto – sono ancora parole di Isman -, non si contano le ruberie e le razzie ai loro danni, con schedatura dei loro beni di una minuzia straordinaria. Dopo il censimento, gli ebrei dovevano autodenunciarsi alle autorità, dichiarando di appartenere alla ‘razza ebraica’ ”. “Papa Pio XI fu uno dei pochi oppositori alle leggi razziali, ma molti dei parroci erano assolutamente favorevoli”, ha proseguito. “Pio XI scrisse un’enciclica contro fascismo e nazismo, mai pubblicata dal suo successore, la trovarono sul suo comodino quando morì”. Si tratta di Humani generis unitas (Sull’unità del genere umano), che conteneva una condanna categorica dell’antisemitismo, del razzismo e della persecuzione degli ebrei. Fu invece pubblicata l’enciclica di Pio Xi del ’31, “Non abbiamo bisogno”, a difesa dell’Azione Cattolica, dove il Pontefice scrive: “[il fascismo è] una vera e propria statolatria pagana, non meno in contrasto con i diritti naturali della famiglia che con i diritti soprannaturali della Chiesa”. Isman ha poi proseguito sottolineando ad esempio come le discriminazioni antiebraiche iniziarono dalle scuole: “prima vennero espulsi infatti insegnanti e studenti, alcuni di loro finirono ad Auschwitz, come Enrico e Luciana Finzi”, iscritti al Liceo classico “Giulio Cesare” di Roma, deportati ad Auschwitz il 16 ottobre 1943, e mai tornati. “Espulsi dalle scuole furono anche i libri di testo di 114 autori ebrei. Grazie alle norme razziali – proseguendo -, gli ebrei venivano ad esempio anche tolti dagli elenchi telefonici, non potevano più praticare più l’arte fotografica…”. “Oltre 40 ebre italiani” non resistettero a questo clima d’odio assurdo, e si suicidarono. Tra questi, Giuseppe Jona, medico veneziano, dal giugno 1940, anche se non ebreo praticante, alla guida della comunità israelitica locale. Dopo l’8 settembre 1943 scelse di rimanere a Venezia come riferimento per chi non voleva o non poteva fuggire. Di fronte alla richiesta delle autorità tedesche di consegnare una lista aggiornata degli ebrei rimasti in città, Jona il 14 settembre redasse il proprio testamento, lasciando gran parte dei suoi beni ad opere sociali e caritatevoli, e tre giorni dopo si tolse la vita, dopo aver distrutto ogni documento in suo possesso che potesse rivelare l’identità e il domicilio degli ebrei veneziani. Fra alcune altre storie da non dimenticare, citate da Isman, vi è quella del primo deportato italiano, Renzo Carpi, mantovano residente a Bolzano, e quella di Renato Terracina, fra i 4.450 ebrei che si sono salvati garzie all’accoglienza trovata in 180 strutture ecclesiali cattoliche.

Andrea Musacci

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Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 1° febbraio 2019

“Che cosa avevo fatto di male? Ebrea, la mia sola colpa era di essere nata”

14 Gen

“Ho fatto ‘la scelta’, mentre molti rimasero indifferenti”. La straziante storia nel lager di Auschwitz che la senatrice a vita Liliana Segre l’11 gennaio a Ferrara ha raccontato a più di 700 studenti della nostra provincia

[Qui e qui le pagine con gli articoli]

1“Ho fatto la scelta dolorosa di raccontare, finché ne avrò la possibilità, l’orrore che ho vissuto e visto”. Rammentare, raccontare, rielaborare, per anni, giorni infiniti, sempre con la stessa domanda, “perché?”, scandita come una nenia, un mistero, un grido eterno a Dio. Così ha fatto e sempre farà Liliana Segre, 88 anni, senatrice a vita, che ha avuto, com’è lei stessa a dire, “una sola colpa, quella di essere nata”. Lei, in quanto ebrea, non avrebbe dovuto nascere, come tutti gli ebrei e le ebree al mondo, secondo il principio malefico dal quale partiva tutta la macchina di terrore, sterminio e desolazione messa in piedi dal regime nazista, con la complicità – mai denunciata abbastanza – degli alleati (o meglio: servi), tra cui l’Italia. Quello strazio la Segre ha chiesto di poterlo raccontare, come fa ormai da diversi anni, anche agli studenti di Ferrara e provincia, presenti in 718 al Teatro Nuovo in piazza Trento e Trieste a Ferrara la mattina dell’11 gennaio scorso. L’incontro, organizzato dal Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah – MEIS, con il supporto dell’Istituto di Storia Contemporanea, è il primo pensato in vista del Giorno della Memoria 2019. All’arrivo in sala, tutti in piedi ad applaudirla, e lei, anche se di sfuggita, si è fermata a tratti per stringere la mano di alcuni ragazzini chiedendo i loro nomi. “Siete i miei nipoti ideali, ascoltatemi come se fossi una nonna”, ha esordito la Segre, una delle poche persone ancora vive a portare marchiato sull’avambraccio sinistro il numero assegnatole ad Auschwitz, il 75190. Nata a Milano il 10 settembre 1930, la Segre ha perso la madre, Lucia Foligno, quando non aveva nemmeno un anno. “Ero una bambina qualunque, felice, figlia unica in una famiglia italiana da 500 anni e profondamente inserita nel tessuto di Milano. Un giorno a tavola – era l’anno in cui avrei dovuto iniziare la terza elementare – mi dicono che sono stata espulsa da scuola. Penso di aver fatto qualcosa di molto grave. Dico: ‘perché?’, un ‘perché?’grave, che ripetevo con gli occhi pieni di lacrime. Ma anche i miei famigliari non riuscivano a trovare una risposta. Che cosa avevo fatto di male? Sono qui perché ancora non ho trovato una risposta. Da allora la vita diventa diversa, in casa mia vengono i poliziotti, ci perquisiscono, trattandoci come nemici della patria. Mia nonna mostrava loro le foto dei suoi figli soldati nella prima guerra mondiale”, per impietosirli. “Cambio dunque scuola, mi iscrivono a una privata. I parenti che ci fanno visita cercano di convincerci a fuggire in America con loro, ma i miei non vogliono, pensano che le cose si sarebbero aggiustate. Non vogliono lasciare la loro Italia. Per i bombardamenti, poi, anche noi nel ’42 ci spostiamo nelle campagne fuori Milano, ma non posso andare alla scuola pubblica. I miei coetanei mi chiedevano il perché. Io, che ho imparato a mentire, rispondo loro: ‘devo curare mio nonno’ ”. La dignità della senatrice Segre si è manifestata anche così: raccontando come si impara il male, lo si assorbe, prima incominciando a mentire, poi a diffidare, poi, come dirà, a non provare compassione per gli altri. E’ stato quindi, il suo, anche un forte mea culpa. Il suo insegnamento sta anche, però, nel far capire che si può scegliere la pietà e la vita. “Mio nonno – ha proseguito – era molto malato: io ero per lui, e lui per me. L’anno dopo lui e mia nonna vengono deportati, gasati e bruciati, per la sola colpa di essere nati”. Dopo l’8 settembre del ’43 “inizia la caccia a ogni uomo, donna, bambino o neonato ebreo. I tedeschi iniziano prelevando gli anziani dalle case di riposo. Vorrei ricordare però di quei giorni anche i ‘giusti’, anche se furono pochi, coloro che, rischiando di essere fucilati, salvarono molti ebrei: fecero la scelta”, dice proprio così la Segre. “La scelta è ciò che distingue l’uomo dall’indifferente, che è come una pecora che si fa guidare da un pastore”. Tra questi giusti, vi sono anche le due famiglie cattoliche che mi nascondono nella loro casa, e io, ingenua, e capricciosa, non voglio, però, lasciare la mia famiglia. Successivamente con mio padre tentiamo di scappare in Svizzera, ma dopo il confine ci accolgono uomini senza scrupoli, che fanno mercato delle persone, come gli scafisti di oggi. Appena arrivati, ci portano al Comando, dove il Comandante ci guarda con enorme disprezzo, come vigliacchi traditori della nostra patria. Ci rimanda allora indietro, veniamo arrestati e portati in carcere. Qui non faccio che piangere e chiedere ancora ‘perché?’. Il carcere può essere duro per un criminale adulto, provate a immaginare per una 13enne innocente. La mia sola colpa era quella di essere nata. Violetta Silvera, altra ebrea nella mia cella, mi consola. Ci portano poi prima nel carcere di Como e poi in quello di San Vittore a Milano. Ero con mio padre, nella cella 202 del 5° raggio: è l’ultima ‘casina’ che condivido con lui, che subirà, come gli altri, percosse e torture. Quando tornava in cella, ci abbracciavamo: ormai, per lui, ero come una madre, una sorella, cercava consolazione in me, non il contrario”. Qui inizia il viaggio all’inferno. “Un giorno ci dicono che dobbiamo partire per ‘ignota destinazione’: siamo in 605, ne torneranno appena 22. Ci portano nella stazione dei treni di Milano dove scopriamo che ci sono binari sotterranei, segreti, fatti apposta per la deportazione. Ci fanno salire su un carro bestiame, senza luce né acqua, solo con un secchio per i bisogni – eravamo una 50ina di persone -, un po’ di paglia. Si sente un forte odore di urina, di paura, di morte. Dopo una settimana arriviamo al campo di Auschwitz. Il viaggio – di solito si raccontano troppo poco i viaggi verso i campi di concentramento – si può dividere in tre fasi: all’inizio tutti piangono disperati. Poi c’è la fase in cui gli uomini religiosi in certi momenti si riuniscono per lodare Dio, con canti lenti, melodiosi, stupendi. Io che non ero e non sono religiosa, li guardavo con invidia perché li consideravo molto fortunati ad avere almeno il sostegno della fede. Nella terza fase, negli ultimi due giorni, non vi erano né pianti né preghiere, ma il silenzio, essenziale per chi sta per morire, unica cosa possibile, un silenzio potente, indimenticabile. Al nostro arrivo ad Auschwitz, però, viene sostituito dai rumori osceni, i fischi, latrati, comandi dei soldati nazisti. Uomini che facevano parte di quell’immenso sterminio preparato da anni, a tavolino, e del quale tutti furono responsabili, politici, imprenditori, artigiani…tanti ‘uomini di buona volontà’ che hanno messo su un ‘teatro dell’orrore’. Ma io ricordo tutto, l’odore della carne umana bruciata, le persone che ho visto morire, i mucchi di cadaveri ischeletriti fuori dal crematorio, le esecuzioni. Non posso tacere, anche se a volte sul web mi scrivono cose del tipo: ‘Vecchia schifosa, perché non muori?’. Ho fatto la scelta dolorosa, il sacrificio di raccontare finché ne avrò la possibilità. Gli uomini vengono divisi dalle donne, lascio la mano di mio padre – non ci saremmo più rivisti. Allontanandoci, mi raccomanda di stare vicino a una donna, la signora Morais, che però non rientrava nel gruppo di 31 donne (tra cui io) e di una 70ina di uomini momentaneamente ‘graziati’ dai nazisti: la sera stessa era cenere nel vento. Rimango sola, non conosco nessuno, vedo una ciminiera – non so ancora che è il crematorio -, file interminabili di baracche, fucili, filo spinato, migliaia di donne ischeletrite e rasate, che trasportano pietre. ‘Dove sono – penso – è un incubo, ora mi sveglio! Perché? Perché? Perché?’. Vediamo qualcosa di impossibile, il nostro era lo ‘stupore per il male altrui’ ”, per usare le parole di Primo Levi ne ‘La tregua’. “Non ti capaciti che hai davanti centinaia di uomini, i soldati nazisti, che non hanno fatto la scelta (di essere umani, ndr), ma che sono persone orribili. Un giorno vengo scelta come schiava in una fabbrica di munizioni Union, della Siemens, all’interno del campo. Divento uno scheletro vestito di stracci. Per tre volte in un anno passo la selezione (che i soldati nazisti compivano per scartare quelle secondo loro da uccidere perché non più in grado di lavorare, ndr). Ci denudavano e mettevano in fila, ispeziondandoci davanti e dietro, ci controllavano i denti come fossimo bestie. E io ero ‘grata’ se facevano ancora il segno ‘sì’, a significare che non mi avrebbero ucciso: ero stata orribile, vigliacca, spaventosa perché l’operaia francese, Jeanine, per la quale facevo l’inserviente portandole i canestri di acciaio grezzo, era stata scartata, dunque gasata – aveva 21 anni -, in quanto il giorno prima in un incidente si era tranciata due falangi. Io, troppo contenta del fatto che mi permettevano ancora di vivere, non avevo nemmeno considerato il fatto che lei invece veniva esclusa. Per il senso di colpa, il suo nome è quello che più volte ho ripetuto nel corso della mia vita. I nazisti erano riusciti, allora, nell’intento di farmi diventare una persona orribile, una lupa”, senza umanità. “A inizio ’45 iniziamo la ‘marcia della morte’, in seguito all’avvicinamento dell’Armata Rossa. Durante il tragitto, chi cadeva, veniva fucilato all’istante con un colpo alla testa. Io non sono mai caduta, ce l’ho messa davvero tutta, una gamba davanti all’altra. Non dite mai ‘non ce la faccio più’ – scandisce rivolta agli studenti -, se vogliamo siamo fortissimi, dovete trasformare la marcia della morte in marcia della vita, della vita che vi aspetta. E abbiate coraggio, orgoglio, non seguite i bulli: chi fa il bullo da grande può diventare un kapò. Lungo la strada – ha poi ripreso il racconto -, nemmeno un tedesco si era impietosito. A volte succhiavamo gli ossi da loro spolpati. Arrivati nel campo di Ravensbruck, eravamo amebe, ectoplasmi, senza più forme femminili, non sentivamo più niente. Il 1° maggio 1945 vengo liberata”. E’ stata una dei 25 italiani di età inferiore ai 14 anni deportati nei lager nazisti a sopravvivere, su un totale di 776. “Di colpo sentiamo un accenno di primavera, e immaginate dopo un anno di campo e quella marcia, che impressione può fare, come un miracolo, avevamo voglia pure di sentire il sapore dell’erba. Arriviamo poi in Francia dove un gruppo di abitanti, vedendoci, prova pietà per noi: è la prima volta dopo anni… Eravamo talmente ridotte male, che non capivano che eravamo giovani. Un giorno vedo passare un comandante delle SS, una persona terribile, che per camuffarsi si veste in borghese e butta le proprie armi per terra. Io, nutrita di odio e di vendetta, penso: ‘adesso mi chino, prendo la sua pistola e gli sparo’. In quel momento sono molto tentata dal farlo. Ma in un attimo capisco che non sono come lui, che ho scelto la vita. Da quel momento sono stata, e sono ancora, una donna libera e di pace”.

Andrea Musacci

Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 18 gennaio 2019

(foto Francesca Brancaleoni)