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«Negli anziani incontro sempre il Signore»

24 Nov

Don Andrea Zerbini da una vita punto di riferimento per gli anziani e i malati

Era ancora bambino, don Andrea Zerbini, quando prese la buona abitudine di andare regolarmente a far visita agli anziani ospiti del “Betlem”. E questa «pastorale del quotidiano» la vive ancora oggi.

Don Zerbini quest’anno ha compiuto 70 anni e proprio 40 anni fa è diventato parroco di Santa Francesca Romana, da 5 anni parte dell’Unità Pastorale Borgovado da lui stesso guidata e che comprende anche Santa Maria in Vado, Madonnina e San Gregorio. Ordinato sacerdote nel 1977, don Andrea è stato prima cappellano a Santa Maria Nuova-San Biagio (per 1 anno), poi tre anni a Roma per concludere la Licenza e il Dottorato, quindi docente in Seminario fino a ottobre 1983. In passato è stato, fra l’altro, Direttore dell’Istituto di Scienze Religiose e dell’Ufficio Missionario e oggi è responsabile del Centro di Documentazione–CEDOC DI Santa Francesca Romana, di cui cura anche i Quaderni consultabili online.

VOCAZIONE DI UNA VITA

«Da bambino abitavo di fianco al Santuario del SS. Crocifisso di San Luca, quindi di fronte al Betlem, e andavo spesso a trovare gli anziani lì ospitati», ci racconta. A S. Francesca Romana, grazie allo storico parroco don Carlo Borgatti (1945-1989) i giovani, negli anni Settanta, iniziarono a interessarsi dei problemi degli anziani non solo in parrocchia ma nell’intera città. Questa loro ricerca confluì in un Bollettino, “L’anziano protagonista”, oggetto di attenzione da parte dell’Amministrazione comunale e di studio per il Consiglio pastorale diocesano. «Quando nel 1983 fui mandato a Santa Francesca come amministratore parrocchiale – prosegue don Andrea -, in aiuto a don Carlo, Giordano Banzi, un parrocchiano, mi portò subito a conoscere tutti i malati della parrocchia e, successivamente, mi accompagnò all’Ospedale Sant’Anna, dove andammo spesso insieme. Al sabato invece andavamo a celebrare la Messa nella cappella del Nosocomio di via Ghiara. Fu per me quell’inizio – sono ancora sue parole -, una benedizione e il dono di una bussola, per inserirmi in un cammino di pastorale e di evangelizzazione già tracciato da don Carlo».

Tracciato dall’ex parroco don Carlo e che ha due testimoni importanti fra i santi: la prima è proprio Santa Francesca Romana (1384-1440) – fondatrice della comunità delle Oblate di Tor de’ Specchi -, che i malati andava a cercare nei tuguri, negli ospedali, ovunque si trovassero, non solo per far loro visita, ma per fasciare le loro ferite, lavare, cucire e profumare i loro panni sudici. L’altro è San Camillo de Lellis (1550-1614), che due secoli dopo, sempre a Roma, replicò questo servizio integrale ai malati. Con la devoluzione di Ferrara al papato (1598-1796), la chiesa della Madonnina passò proprio ai religiosi dell’Ordine di San Camillo de Lellis, i Camilliani, detti Ministri degli Infermi, che da sempre si occupano dell’assistenza ai malati negli ospedali.

PROSSIMITÀ FISICA E SPIRITUALE

Oggi più che mai quella di S. Francesca Romana, e l’intera UP Borgovado, è come tante una parrocchia con sempre più anziani, per cui il bisogno di una presenza è sempre fondamentale. «Spesso – ci racconta ancora don Andrea – sono i famigliari a contattarmi se un anziano è ricoverato in ospedale o infermo in casa. Con il covid si erano dovute interrompere le mie visite a domicilio e nelle case di riposo: in quel periodo rimanevo in contatto con loro tramite telefonate e messaggi WhatsApp: ogni giorno inviavo loro il saluto mattutino, un saluto semplice accompagnato da un incoraggiamento, una foto e il commento al Vangelo del giorno. Poi le mie visite sono riprese, anche se più lentamente. Quando vado a trovarli, li ascolto, sto un po’ lì con loro, è importante anche solo che sentano la presenza di qualcuno. Dopo 40 anni che sono parroco di Santa Francesca Romana, li conosco tutti o quasi, a volte li visito anche solo per sapere come stanno».

La prossimità spirituale di don Andrea agli anziani e ai malati non si interrompe mai: «Nelle mie preghiere quotidiane prego sempre per coloro che sono ricoverati in ospedale, nelle case di riposo e nei centri ADO della città e della provincia. E ogni giovedì celebriamo la S. Messa per i malati. Per me andare a trovarli è come incontrare il Signore», scandisce don Andrea. «Loro, senza dirlo, ti comunicano il senso del vivere, del vivere la malattia, la sofferenza e la loro fede. Non incontro, quindi, solo la persona anziana ma in quella persona incontro anche il Signore».

ANZIANI IN PRIMA LINEA

Nella parrocchia di Santa Francesca Romana, però, alcuni anziani sono ancora fondamentali per la vita della comunità: alcuni di loro sono attivi nel Centro di Ascolto dell’Unità Pastorale, altri nel doposcuola, nella scuola di taglio e cucito, altri sono Ministri Straordinari dell’Eucarestia. E assieme ad altri parrocchiani organizzano varie iniziative, fra cui il pranzo comunitario dell’UP una domenica al mese, partecipano ai concerti di musica sacra, spendendosi anche nell’organizzazione di incontri. Un esempio, unico ma emblematico, è quello di Raffaele Lucci, 101 anni, che regolarmente tiene incontri di storia dell’arte.

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce” del 24 novembre 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

Vivere nel dolore degli altri ascoltandone le voci

2 Set

Si può comunicare l’Alzheimer? L’ASP di Ferrara ha ospitato il progetto “Dieback*/Fioriture” dell’artista riminese Isabella Bordoni, che ha abitato per due settimane nella Casa Residenza di via Ripagrande: “tanta la tenerezza e l’empatia provate nel vivere con i malati. Rendendo pubbliche le loro voci spero di aver fatto emergere nei visitatori una commozione profonda”

alzheimerStorie di vita, sofferenze passate e presenti, paure senza volto, solitudini sommerse nel silenzio. Fantasmi della mente che nidificano corpi ed esistenze rischiando di inghiottirle, disancorandole dalla realtà.

Sono oltre 600mila nel nostro Paese i malati di Alzheimer, persone impossibilitate a tenere il filo dei propri giorni, per il graduale logoramento della memoria, soprattutto e innanzitutto di quella a breve termine. Esistenze quasi mai prese in considerazione, se non nella nicchia privata, satura di scoramento e solitudine, nella quale spesso i famigliari sono costretti a vivere.

Isabella Bordoni, artista visiva e sonora riminese, che nella sua trentennale attività ha spesso affrontato i temi dell’ “abitare”, si è a lungo interrogata se e come sia possibile comunicare la sfuggente sofferenza di questi malati. Per questo ha deciso di vivere, giorno e notte, nelle prime due settimane di giugno 2018, a contatto con quelli ospitati nella Casa Residenza del Nucleo Speciale Temporaneo Demenza dell’ASP in via Ripagrande a Ferrara, periodo nel quale ha registrato suoni, voci, rumori. Da qui è nato il progetto denominato “Dieback*/Fioriture. Archivio sonoro delle voci, per ricucire il rapporto tra linguaggio, demenza e poesia”, voluto e promosso da ASP – Centro Servizi alla Persona di Ferrara, con il patrocinio del Comune. Nel settembre 2018 si è svolta la prima parte, attraverso varie iniziative (alle quali hanno partecipato una 60ina di persone), fra cui un’installazione sonora per restituire alla comunità questo “Archivio di Voci e Suoni”. Nella settimana del Buskers Festival, per la precisione dal 24 agosto al 1° settembre scorsi, è stato allestito invece il secondo percorso sonoro (foto in basso di Greta Fuzzi), nel giardino interno della sede ASP di via Ripagrande, attraverso la possibilità di ascoltare con le cuffie, tramite due tablet, le voci dei malati e degli OSS che li assistono.

Un approccio difficile, indiretto, che denota dunque coraggio da parte dell’artista, e che, a nostro parere, “obbliga” il visitatore a prendersi del tempo per ascoltare, per concentrarsi pazientemente su dialoghi, esternazioni, suoni vivi. Insomma, una maniera per approcciarsi non distrattamente ma con cura a queste persone sofferenti, ascoltandole, venendo a conoscenza delle loro storie, penetrando quei muri che spesso sembrano – o per colpe nostre, diventano – invalicabili. Così da lasciar fiorire, come recita il nome del progetto, corpi nascosti nella città, parole seppellite negli antri della mente, dell’anima, dietro quel deperimento, quella marcescenza (questo significa l’altra parola del titolo, “dieback”) così sorda e inarrestabile.

A “la Voce” Bordoni spiega come “mostrando la dimensione ‘poetica’ che vi è nella vita, dunque anche nella malattia, ho provato a ‘stanare’ in chiunque si approcci a quelle voci una commozione profonda. Non ho avuto esperienze dirette di famigliari con l’Alzheimer – prosegue –, ma l’idea è nata nel tempo, in me è aumentata la sensibilità nei confronti delle questioni legate agli anziani e alla malattia. Questo spazio altro della demenza l’ho trovato estremamente interessante, anche se di solito molto ignorato, perché se è vero che tutte le malattie fanno paura, questa forse ne fa di più”. In un’artista, l’empatia sfocia inevitabilmente nella ricerca di mezzi espressivi creativi e originali: “esplorare questo mondo attraverso una chiave artistica mi sembrava un impegno che ero in grado di prendermi”, sono ancora parole della Bordoni. La malattia, dunque, può essere approcciata e comunicata, “senza dover essere eroi. Prima di vivere nella Casa – ci spiega ancora – mi sono preparata molto, immaginando come potesse essere”. La paura non mancava, “ci ho lavorato un anno. Ma una volta dentro non era affatto difficile, gli ostacoli previsti non li ho trovati, ma ho provato solo tanta empatia nei confronti di queste persone malate, e scoperto spazi in realtà meno inabitabili di quel che si può pensare. Alla fine, per me – ci confessa – è stato difficile andare via, perché in luoghi come questo riconosci profondamente qualcosa di te”. Che cosa ha riconosciuto?, le chiediamo. “Semplicemente che il corso umano prevede anche questa resa del controllo sulla vita, cioè che con il corpo e la mente non si controlla più il proprio destino”, anche se spesso è facile dimenticarsene. Una casa di cura come quella abitata dalla Bordoni, “contiene un potenziale così alto di umanità, per cui mi interessava starci dentro”, cercando di comprenderne anche “il rapporto delle persone con l’architettura, con gli spazi, come cioè si possa vivere comunitariamente in uno spazio chiuso come quello”. E a proposito di spazi, l’artista di notte riposava in un letto allestito in una grande stanza, isolata da un semplice pannello, normalmente adibita per la cosiddetta “Terapia della bambola”, importante alternativa farmacologica, nata per risvegliare nei malati le reazioni e promuovere il contatto, oltre che utilizzata per i bambini.

A proposito di infanzia, e riprendendo uno dei tre concetti fondamentali del progetto – quello della parola, del linguaggio -, Bordoni ci spiega come nella casa di cura “c’è molto dell’infanzia”, in quanto il linguaggio, se all’inizio della vita non è ancora appreso, in casi come questi, nella fase conclusiva, è dimenticato: “una balbuzie comune vi è – prosegue – tra infanzia e vecchiaia, e ciò mi pare, in un certo senso, sinonimo di ‘saggezza’, in quanto cadono certe strutture predeterminate dell’interpretazione, facendo così riaffiorare l’essenza delle cose, facendo tornare essenziali affetti elementari, non costruiti”, non codificati.

Un’indagine, quella messa in atto quindi da Isabella Bordoni, estremamente realistica, minuziosa, sfociata in una sorta di “catalogazione” di voci e suoni spontanei; indagine che però – caso rarissimo – non ha i tratti della fredda analisi laboratoriale ma fa dell’ascolto il suo punto di forza. Significa farsi prossimi all’altro – innanzitutto a chi più soffre – ascoltandone patemi e ricordi, assaporandone asprezze e dolcezze, senza intenti giudicanti, ma anzi dando voce a queste persone, restituendo loro soggettività, dando nome e carne ai loro dolori, ai loro rimpianti, ai tarli di una vita. Scrive lei stessa in uno dei pannelli del progetto: “VITA è la parola alla quale non sottrarsi, qui. Stanare tra le pieghe della malattia e del dolore, la vita che spinge e preme e che chiede, nel morire delle proprie forme, la possibilità di fiorire in altre”. Una proposta di verità che non possiamo non fare nostra.

Andrea Musacci

Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 6 settembre 2019

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