Archivio | marzo, 2024

Spagnoletti: «scommettere sui ragazzi e sulla relazione con loro»

8 Mar

La giudice del tribunale per i minorenni di Roma è intervenuta on line per la Scuola di teologia per laici diocesana

La cronaca nel nostro Paese ci racconta sempre più di casi in cui i giovani sono protagonisti in negativo: baby gang, femminicidi, tragiche challenges. Un punto di vista alternativo sulla questione – oltre la demonizzazione di un’intera generazione e la sua assoluta giustificazione – l’ha portata lo scorso 29 febbraio Maria Teresa Spagnoletti, giudice del tribunale per i minorenni di Roma e Presidente del Collegio dibattimentale del Tribunale per i Minorenni di Roma, oltre che Capo Guida Scout d’Italia e autrice del libro “Il mio territorio finisce qui” (Futura ed.). L’occasione è stata la nona lezione dell’anno in corso della Scuola diocesana di teologia “Laura Vincenzi”.Spagnoletti ha riflettuto – in collegamento on line – su “Esperienze di custodia dell’umano”. Il prossimo incontro della Scuola è in programma giovedì 7 marzo, ore 18.30, con suor Veronica Donatello che rifletterà su “La grazia non conosce barriere architettoniche” (incontro solo on line).

NESSUN GIUDIZIO SULLA PERSONA. E NESSUN BUONISMO

Tante le storie e gli aneddoti raccontati  dalla relatrice, legati ai ragazzi e ragazze che ha incontrato nella sua lunga carriera. «Innanzitutto – ha detto -, come adulti dobbiamo essere percepiti come persone giuste: il complimento migliore ricevuto è stato quello di un ragazzo che era stato arrestato, ai tempi facevo il gip, e lui era contento: “la Spagnoletti è severa ma giusta”, disse. E poi è importante rispettare le regole anche minime, nella vita e creare un’intensa relazione con la ragazza o ragazzo imputato o detenuto: è decisivo – ha proseguito – che percepisca che il giudice è interessato a lui come persona, al di là del dover giudicare il reato commesso. Ogni persona è diversa e diverse sono quindi le motivazioni che stanno dietro a un reato». Dall’altra parte, però, nessuno spazio al buonismo: «con i ragazzi non bisogna sminuire la colpa, ma bilanciare tra loro giustizia e misericordia». Che significa innanzitutto «scommettere su di loro, senza aver fretta e accettando anche i loro fallimenti». A tal proposito, la Messa alla prova – per Spagnoletti – è «sicuramente l’istituto più importante per la riabilitazione di un giovane che ha commesso un reato. Il carcere spesso è necessario ma ad esso devono seguire misure alternative per reinserirlo nella società e perché non commetta più reati. Non bisogna mai buttare la chiave. È facile scommettere solo su chi è un “bravo ragazzo”…». In ogni caso, «prima di valutare un percorso alternativo per il ragazzo, bisogna cercare di conoscerlo: la relazione con lui è fondamentale: prima di giudicarlo, ho sempre cercato di capire cosa pensasse del proprio periodo trascorso in carcere, del proprio futuro, quali riflessioni aveva fatto». D’altra parte – ha aggiunto -, «non bisogna nemmeno avviare percorsi alternativi quando il ragazzo non è pronto a sostenerli: bisogna avere pazienza, non fretta, altrimenti si mette il ragazzo di fronte a impegni troppo gravosi da rispettare e quindi si aumenta il rischio di recidiva». Giustizia e misericordia – verità e carità, potremmo aggiungere -, si diceva prima: parole che richiamano anche l’educazione alle regole:«è importante far capire ai giovani che le regole esistono non per imporle ma perché sono necessarie per la convivenza comune. A volte i genitori non insegnano, o non testimoniano, questo rispetto ai loro figli». I casi di violenza fra i giovani, per Spagnoletti hanno fra le cause anche «la responsabilità degli adulti, spesso incapaci di educare realmente i ragazzi: non insegnano né testimoniano nemmeno il rispetto per l’opinione altrui, non sono in grado di dialogare. Mancano quindi esempi veri di cosa voglia dire una convivenza civile fra le persone, rispettosa degli altri».

Diverse le domande e le riflessioni provenienti tra le persone collegate on line per ascoltare la relazione di Spagnoletti. Un intervento non solo tecnico, ma innanzitutto umano: «nel mio lavoro – ha infatti spiegato -, c’è un forte coinvolgimento emotivo ma ho sempre cercato di tener fuori le mie convinzioni personali nel giudizio sui ragazzi». L’ultima riflessione l’ha dedicata al suo rapporto con la fede e a come questa influisce sulla propria vita: «amare il prossimo è più facile se davvero si ama Dio, e se davvero capiamo qual è il nostro modo di rispondere alla Sua chiamata. Nel mio lavoro, la mia fede, la mia appartenenza alla Chiesa e allo scoutismo hanno giocato un ruolo fondamentale: ho imparato l’importanza da dare al rispetto dell’altro e al non giudicare l’altro, ma solo il suo comportamento».

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce” dell’8 marzo 2024

La Voce di Ferrara-Comacchio

«Sentire il dolore dell’altro»: il card. Pizzaballa a Ferrara

6 Mar

L’intervento del Patriarca Latino di Gerusalemme nel Monastero del Corpus Domini: «a Gaza la situazione è indescrivibile e in Israele e Palestina servono nuove leadership. La Chiesa non si fa strumentalizzare da nessuno. Le mie comunità mi danno gioia» 

Un silenzio colmo di rispetto e attenzione ha dominato l’ora abbondante nella quale il card.Pierbattista Pizzaballa,Patriarca Latino di Gerusalemme, ha risposto alle domande di Cristiano Bendin (Caposervizio “Il Resto del Carlino” di Ferrara). L’occasione è stato il primo incontro dell’Ottavario di S.Caterina: la sera del 1° marzo oltre cento persone si sono ritrovate nel coro del Monastero del Corpus Domini di Ferrara, ospiti delle Sorelle Clarisse.

VIVERE NELLA MISERIA

Il card. Pizzaballa è punto di riferimento dei cattolici nei territori palestinesi:«circa un migliaio sono i cristiani, compresi gli ortodossi, nella striscia di Gaza, mentre alcuni abitano a Rafah», ha spiegato. La situazione a Gaza è «indescrivibile», ha aggiunto:«tutti i cristiani hanno perso la propria casa e ora la difficoltà principale è avere viveri e acqua. Come cristiani siamo fortunati perché abbiamo un pozzo, anche se scarseggia il gasolio per farlo funzionare, ma l’acqua inquinata sta iniziando a portare malattie». E non molto tempo fa «1 kg di pomodori era arrivato a costare l’equivalente di 150 euro, ora si fa fatica a trovare». E mancano medicinali. «Molte persone vivono nelle tende, ma tante altre vivono proprio per strada. E non esiste più un ordine pubblico». Questa la realtà nella Striscia di Gaza.

IL DOLORE DELL’ALTRO

Se il cristianesimo è «uno stile di vita prima che una religione», ha poi aggiunto, la fede cristiana deve «parlare alla vita, deve far comprendere come la pace non significa vittoria sull’altro, sconfiggerlo, farlo tacere o sparire», ma «inclusione dell’altro, suo coinvolgimento, sentirlo parte di sé, sentire anche il suo dolore. Come cristiani abbiamo nel cuore tanto gli israeliani quanto i palestinesi. L’altro, invece – sono ancora parole del cardinale -, qui è percepito come causa del proprio dolore:ciò rende impossibile ogni dialogo.Parlare con l’altro è interpretato come tradimento». Invece, a noi cristiani, la Croce «continua ad insegnarci che il male si vince amando gratuitamente: non è utopia, incontro persone che lo vivono». Qui, invece, «stiamo affogando nell’odio veicolato anche da un linguaggio che deumanizza l’altro».

QUALE FUTURO PER I DUE POPOLI?

Riguardo al futuro dei due popoli, in Israele – ha detto il card.Pizzaballa – «esiste una procedura democratica che porterà a nuove elezioni, mentre in Palestina non è così»: di certo, «Abu Mazen non è il futuro della Palestina, e dentro la stessa popolazione palestinese  c’è il desiderio di un forte cambiamento di leadership. L’ANP dev’essere ricostruita e di certo il Governo israeliano ha grosse responsabilità nel tenerla divisa». 

Non si può tornare alla situazione pre 7 ottobre, di questo il card.Pizzaballa ne è certo: «ciò che è accaduto non si può ripetere». 

Per quanto riguarda poi i possibili attori internazionali, gli Stati Uniti come i Paesi arabi «sicuramente avranno un ruolo importante, mentre l’Europa no. Molti palestinesi continuano a dirmi: “vogliamo ricostruire con chi si è dimostrato vicino a noi in questi tempi”. E una cosa simile la dicono anche gli israeliani».

ANTISEMITISMO, DIALOGO ED EQUIDISTANZA

Alla domanda sull’aumento dell’antisemitismo, soprattutto in Europa, il cardinale l’ha definito «una forma di deumanizzazione, un problema serio. Non tutti gli ebrei sono responsabili delle scelte di Netanyahu». Per quanto riguarda, invece, i rapporti tra le confessioni cristiane, «sono ottimi, c’è più vicinanza rispetto al passato:è quindi uno stereotipo che in Terra Santa  le Chiese si facciano la guerra». E così, lo stesso dialogo interreligioso in questa zona, «deve partire dai rispettivi rappresentanti e dalla situazione concreta». Una situazione non sempre facile anche per chi, come il cardinale, si trova a svolgere un ruolo spesso di mediazione fra le parti.E non di rado viene strumentalizzato. Un recente episodio di questo tipo è stato lui stesso a raccontarlo: riguarda l’aver indossato la kefiah (simbolo del nazionalismo palestinese) in occasione della S.Messa di Natale a Betlemme lo scorso 25 dicembre: «me l’hanno fatta indossare i palestinesi per polemizzare contro la mia scelta di incontrare, il giorno precedente, il Presidente israeliano» Herzog. Un’immagine, quella di Pizzaballa con la kefiah, che a sua volta ha scatenato le critiche dell’Assemblea Rabbinica e di Noemi Di Segni, presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane (Ucei).

«La Chiesa, però, non può entrare dentro l’agone, non può sposare nessuna delle due parti: è solo sposa di Cristo. Rifiuto, quindi, letture parziali da una parte e dall’altra». Dopo gli oltre 100 morti a Gaza City nella calca durante l’assalto a camion con aiuti umanitari, di sicuro «il dialogo è venuto meno» ma, in generale – ha aggiunto -, «non credo si arriverà a uno scontro di civiltà. Le civiltà, invece, devono venir fuori in tutta la loro forza e bellezza». Sicuramente – ha proseguito -, «in Palestina c’è stato un aumento della radicalizzazione, Hamas viene vista come la miglior espressione di resistenza e del desiderio di autodeterminazione, ma ci vuole una leadership diversa in grado di neutralizzare queste derive radicali».

«LA MIA ESPERIENZA DI PASTORE»

Infine, le parole del card.Pizzaballa sul proprio servizio in Terra Santa, dove si trova da 34 anni:«nel tempo – ha spiegato – ho acquisito uno sguardo più carico di misericordia, più capace di perdono e di pazienza per gli errori degli altri, anche a causa degli errori che io stesso compio». I momenti più belli «del mio servizio sono le visite pastorali che svolgo tutti i fine settimana, a volte anche a metà settimana: è commovente vedere come la gente vive la propria fede e la vicinanza agli altri». Una nota di speranza nell’inferno.

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce” dell’8 marzo 2024

La Voce di Ferrara-Comacchio

“Casa dei Bambini”: alla Sacra Famiglia la «scuola della felicità»

2 Mar

Abbiamo visitato la Scuola d’infanzia “Casa dei Bambini” della parrocchia della Sacra Famiglia a Ferrara. Metodo Montessori per un ambiente di cura e gioia, improntato al senso di responsabilità. E ora anche attento ai bisogni di diversamente abili e anziani

di Andrea Musacci

Quello che può sembrare un piccolo progetto, dice invece molto del luogo che lo accoglie e delle persone che lo hanno voluto e sostenuto. 

Da quasi 70 anni in via Recchi, una traversa di via Bologna a Ferrara, dietro la chiesa (ora anche Santuario mariano) della Sacra Famiglia, c’è la Scuola d’infanzia “Casa dei Bambini”. Lo scorso 24 febbraio è stata presentata alla stampa la nuova piattaforma per disabili e anziani con difficoltà motorie, che rappresenta il primo passo di un progetto più ampio intitolato “Scuola accesso facile – Per la disabilità motoria”, per abbattere tutte le barriere architettoniche, interne ed esterne, dell’edificio. Per l’occasione, erano presenti il parroco don Marco Bezzi, il vicario don Thiago Camponogara, Alessandro Atti (Consiglio Affari economici parrocchiale), Marianna Pellegrini della Fondazione Estense (che ha dato un importante contributo per l’acquisto) e tre delle quattro insegnanti della scuola: Angela Artioli, Franca Parisotto (che ne è anche la Direttrice) e Lara Mazzetto (la quarta insegnante, da poco arrivata, è Antonella Bertolino).

«Per ora non abbiamo persone disabili» (che siano alunni, insegnanti o genitori) – ha spiegato don Bezzi -, «ma in futuro potrebbero esserci: vogliamo essere preparati». La piattaforma è stata installata (e collaudata lo scorso 13 dicembre) a fianco della scala nel cortile d’ingresso su via Recchi, quindi in funzione dal piano di calpestio al piano rialzato. «L’anno prossimo faremo montare un’altra piattaforma nella parte posteriore della struttura», prosegue il parroco, nel cortile dove i bambini giocano e dove le prime suore domenicane fecero costruire una cappella-grotta mariana. Questa ulteriore piattaforma permetterà di scendere alla mensa nel piano interrato e di salire al piano rialzato.

Come accennato, la piattaforma è stata realizzata da “Ferrara ascensori” con l’importante contributo di Fondazione Estense (13 mila euro su 18.500 totali), grazie all’Associazione tra Fondazioni di origine bancaria dell’Emilia-Romagna, per l’acquisto, la progettazione, l’installazione, il collaudo e la sicurezza. Viene aperta e attivata solo da un operatore incaricato, per impedire che i bambini, giocando nel cortile, possano essere “tentati” di manovrarla.

“CASA DEI BAMBINI”, UNA GRANDE FAMIGLIA

La Scuola Materna “Casa dei Bambini” della parrocchia della Sacra Famiglia è parte dell’Opera Nazionale Montessori ed è aggregata alla FISM (Federazione italiana Scuole materne) di Ferrara-Comacchio. Attualmente ospita 75 alunni fra i 3 e i 6 anni di età, di cui la metà straniera (originari di diversi paesi africani, profughi dall’Ucraina, provenienti da Albania, Romania, Moldavia, Iran, Pakistan e Cina) e alcuni di loro musulmani. La Casa dei Bambini è sorta nel 1952 per volontà dell’allora parroco don Adriano Benvenuti e avviata nel ’56 con l’arrivo delle Suore Domenicane della Beata Imelda. Suore che, fin da subito, hanno improntato il loro servizio educativo sulla metodologia didattica di Maria Montessori ideata da lei stessa all’inizio del secolo. Una delle prime suore domenicane alla Sacra Famiglia, suor Fernanda Bersani, fu proprio un’allieva di Maria Montessori.

Attualmente l’edificio è progettato per contenere fino a 150 bambini, e per il pranzo accoglie anche una 60ina di piccoli del doposcuola. Al piano interrato ci sono la sala mensa e la cucina attrezzata, al pian terreno il salone con altre sale e al primo piano, la palestra, il dormitorio (entrambe con le pareti disegnate nel 2017 da suor Alma) e una cappella usata dalle suore, per la Messa mattutina del sabato e per le preghiere con i bambini. Il menù è sempre appeso sulla porta d’ingresso della scuola, affinché i genitori possano sapere cosa i figli mangiano.

Quattro le sezioni – l’ultima aperta nel 2022 – e diverse le donne impegnate nel servizio di pulizia e in mensa, oltre alle tre suore domenicane tuttofare: le filippine suor Marilla, suor Cristina e suor Helen della Congregazione Domenican Daughters of the Immaculate Mother, impegnate nella portineria, nell’accoglienza, nell’insegnamento della lingua inglese, nell’aiuto per il pranzo, nell’accompagnamento dei bimbi per il riposino pomeridiano.

Una scuola montessoriana, quindi, con un’identità ben precisa e con un metodo – ci spiega don Bezzi, «che sempre più scuole stanno adottando, anche nel nostro territorio». Grazie al metodo Montessori, infatti, «il bambino è incentivato a scoprire affiancato dalle maestre, pensata come una sorella maggiore. Qui non esistono cattedre e tutto l’arredamento è ad altezza bambino». A 4 anni iniziano a prendere confidenza con la scrittura, i numeri pari e dispari fino al 10 e la geografia, anche attraverso strumenti come le lettere sensoriali, giochi sonori o colorati. Sono attrezzature costose, molte delle quali presenti – e ancora in perfetto stato – dal ’56. «Il gioco lo scelgono loro, non gli viene imposto», proseguono le maestre. «Questo non significa che c’è anarchia, ma silenzio e rispetto». Ed educazione alla responsabilità: è frequente vedere i bimbi più grandi aiutare i più piccoli, insegnare loro piccole cose, o alcuni di loro, bardati col grembiule bianco, servire ai tavoli durante il pranzo. “Una mano attaccata alla ringhiera e una dietro alla schiena quando si sale le scale”: anche questo viene insegnato alla Casa dei Bambini. Piccoli gesti che fanno crescere donne e uomini grandi, educati e attenti agli altri. «Il bambino non è una scatola vuota da riempire ma una mente pensante, che fa domande», ci spiega ancora don Bezzi. «Qui le maestre devono parlare sottovoce, stare con loro, non dire al bambino “hai sbagliato” ma provare assieme per far crescere la fiducia in sé stesso». 

Le insegnanti della vicina scuola primaria “Mosti” su via Bologna – ci spiega il parroco – «non a caso ci dicono sempre che i bimbi provenienti dalla nostra scuola quando arrivano da loro sono già scolarizzati». Questa è la «scuola della felicità», dice spesso don Marco ai piccoli della scuola. E loro annuiscono, perché questa gioia la vivono, la sentono. Non è qualcosa che viene loro insegnato, ma semplicemente testimoniato.

Pubblicato sulla “Voce” del 1° marzo 2024

La Voce di Ferrara-Comacchio

Apocalisse è consolazione (e verità sul male e la sofferenza)

2 Mar

La lezione di don Paolo Bovina sul testo di Giovanni per l’8^ lezione della Scuola di teologia

Nell’immaginario comune, il termine “apocalisse” è sinonimo di distruzione totale. Non è così: deriva, infatti, dal latino apocalypsis e dal greco apokálypsisοcioè “rivelazione, svelamento, manifestazione”. Ce lo ha ricordato il biblista e sacerdote dell’UP Borgovado don Paolo Bovina in occasione della lezione della Scuola diocesana di teologia “Laura Vincenzi”, che ha ripreso lo scorso 22 febbraio a Casa Cini, Ferrara. “Le sette chiese, una lettura pastorale di Apocalisse” il titolo dell’intervento, cui seguirà, allo stesso orario, giovedì 29 febbraio, la lezione “Esperienze di custodia dell’umano” con relatrice sarà Maria Teresa Spagnoletti (l’incontro si svolgerà esclusivamente on line).

«Apocalisse è un libro estremamente simbolico, dove ricorre spesso il numero 7, numero della completezza», ha detto don Bovina. Di conseguenza, le sette lettere alle Chiese vanno interpretare come «lettera alla Chiesa nella sua totalità». «Io, Giovanni, vostro fratello e vostro compagno nella tribolazione, nel regno e nella perseveranza in Gesù» (Ap 1,9):già dall’inizio si comprende l’approccio del libro. In Giovanni, «non vi è solo la sofferenza, c’è anche una risposta positiva a questa. Il cristiano si distingue per come affronta una situazione di sofferenza.Seguire Cristo non significa non avere difficoltà nella vita, ma cambiare atteggiamento davanti a queste».La perseveranza, infatti, è «conseguenza della speranza:cristiano è chi custodisce nel proprio cuore la speranza di Gesù, senza lasciarsi andare alla disperazione, non abbandonando la gioia». Il fine di Apocalisse è quindi quello di «consolare, di ricordare che andiamo verso la Gloria». Di conseguenza, ha proseguito don Bovina, «la tribolazione non può essere motivo per non testimoniare la propria fede».Anzi, inApocalisse la tribolazione «è la situazione migliore per evangelizzare». Il periodo di Apocalisse, lo ricordiamo, è quello dell’Impero romano, in Asia Minore: qui, il culto a Dio non era vietato ma si doveva sottometterlo a quello dell’imperatore.«Oggi – secondo don Bovina – non siamo molto distanti da una situazione del genere: ad esempio, se domani verrà meno l’obiezione di coscienza come possibilità in casi quali l’aborto, un medico sceglierà l’ingiusta legge dello Stato o la legge di Dio («non uccidere»)?». 

Giovanni in Apocalisse «parla alla luce di un’esperienza contemplativa dello Spirito, della preghiera, non da una sua opinione, da un suo prurito.Parte dall’ascolto dello Spirito». La preghiera non è, dunque, «una fuga dal reale» ma, al contrario, «ciò che ci permette di scavare in profondità nella vita quotidiana, nel reale, per capire anche il domani». Il Signore si rivolge a Giovanni «nell’intimità più profonda», così come conosce la Chiesa nel suo profondo. «La Parola ci è vicina, ma la sente solo chi, col cuore, vuole ascoltarla. E ascoltare porta con sé una fiducia in una promessa, in qualcosa che hai udito e non vedi». Non bisogna, perciò, fare come la Chiesa di Sardi che «dorme, non vigila», non è cioè «cosciente di ciò che gli accade attorno». Da questa «purificazione tramite la Parola di Dio», poi, in Apocalisse si arriverà all’apertura del cielo e della liturgia. Insomma, questo libro ci dice che «il male non ha l’ultima parola. Il male va riconosciuto e combattuto ma nella speranza che non trionferà». Apocalisse è un libro sulla consolazione più grande.

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce” del 1° marzo 2024

La Voce di Ferrara-Comacchio

Mitezza e profondità: ricordo di Giuliano Sansonetti

1 Mar

Oltre 80 i presenti lo scorso 24 febbraio a Casa Cini per il pomeriggio in memoria del prof. Giuliano Sansonetti: diversi gli interventi di colleghi, amici, allievi: «traduttore e “introduttore”, figura fondamentale»

Circa 80 i presenti lo scorso 24 febbraio a Casa Cini, Ferrara, per il pomeriggio dedicato a Giuliano Sansonetti, docente, saggista, traduttore e sindacalista venuto a mancare il 6 febbraio 2023. L’evento è stato organizzato innanzitutto dalla vedova Anna Lodi e dalla figlia Silvia, assieme all’Istituto di Cultura “Casa Cini” e all’Istituto Gramsci di Ferrara. Nel suo intervento introduttivo, Piero Stefani ha ragionato proprio sui vari ambiti di impegno di Sansonetti e dell’importanza, nella sua vita, «della parola da ricercare, sempre da scegliere». Un’arte sopraffina, dedicata in particolare a quattro autori: Gadamer, Levinas, Henry e infine Tilliette, di cui era anche amico.

Come amico gli era anche Silvano Zucal, docente di Filosofia Teoretica e di Filosofia della Religione all’Università di  Trento, che lo ha ricordato anche come intellettuale «attento e raffinato» e ha parlato degli studi di Sansonetti sulla cosiddetta “Cristologia filosofica”, ad esempio sulla diatriba fra Tilliette e Fabro del ’76. Risale, invece, al 1988 l’inizio della collaborazione di Sansonetti con l’editrice Morcelliana, rappresentata a Casa Cini dal Direttore Editoriale Ilario Bertoletti che – oltre a sottolineare il suo «tratto garbato dell’amicizia» – si è concentrato sulla sua ricerca teoretica fra ermeneutica, fenomenologia ed etica. «Sansonetti – ha proseguito – ha tradotto testi filosofici importanti del dibattito contemporaneo». E proprio tra «filosofia dell’interpretazione» e «filosofia della traduzione» si è mosso l’ultimo relatore, Francesco Ghia, professore di Filosofia morale all’Università di Trento (assente Piergiorgio Grassi per un grave lutto familiare). Ghia ha riflettuto sull’arte della traduzione come arte ermeneutica simile alla scultura, nella quale fondamentale è l’aspetto del «togliere», per far emergere il più possibile l’essenza del testo originario.

L’essenza e l’essenziale rappresentati nella vita di Sansonetti, dunque. Cuore e semplicità emersi anche dagli interventi successivi, come quello di Roberto Formisano, docente di UniFe, che definito Sansonetti non solo, non tanto un traduttore ma un «introduttore» per aver portato in Italia filosofi del Novecento prima sconosciuti o poco conosciuti. Del suo carattere «solo apparentemente burbero ma in realtà pacato ed equilibrato» ha parlato poi Mirella Tuffanelli, ricordando anche il loro comune impegno nella CISL, mentre il collega di UniFe e conterraneo (marchigiano) Marco Bertozzi ha ricordato il loro percorso simile e il comune maestro Italo Mancini.

Spazio poi ad alcuni suoi ex allievi: Caterina  Simoncello, che lo ha definito come «presenza potente ma sempre delicata e discreta» e capace di «fare filosofia gettando sempre un ponte sulla vita»; Antonio Moschi, che lo ha definito una figura «distinta e accogliente», e Giovanni Albani: «ci chiedeva di interrogare alla pari gli autori e di rendere la filosofia sempre viva, contemporanea», ha detto quest’ultimo.

Sempre viva è rimasta, in Sansonetti, anche la fede in Cristo. Per questo, al convegno è seguita una S. Messa in sua memoria nella vicina chiesa di S.Stefano, presieduta da mons.Massimo Manservigi e accompagnata dall’Accademia Corale “Vittore Veneziani” (di cui era Presidente), che ha eseguito la Messa di Roveredo dello stesso maestro Veneziani.

«Mite nei modi, profondo nel pensiero e fermo nella parola» lo ha definito mons. Manservigi nell’omelia, ricordando il suo intervento a Casa Cini nel marzo 2022 sul tema della “giustizia”, per la “Cattedra dei credenti”. Per Sansonetti, ha detto, «giusto è colui che fa dono di sé, agendo per il bene degli altri. Ora Giuliano può godere del “faccia a faccia” con il Giusto, con l’Altro, cioè Dio».

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce” del 1° marzo 2024

La Voce di Ferrara-Comacchio

Aprire le porte all’altro: partecipazione è relazione

1 Mar

La Prolusione di padre Giuseppe Riggio SJ per la Scuola di politica diocesana: «”compromesso” è una bella parola. Senso di appartenenza contro l’istantaneità del mondo contemporaneo»

Spesso ci lamentiamo dello scollamento tra politica e società: la prima, sempre più percepita come “casta”, la seconda come luogo della “vita reale”. Una semplificazione non solo retorica ma anche pericolosa, causa, negli ultimi 30 anni, di un’ondata di antipolitica della quale non solo non si vede la fine ma che, anzi, permea sempre più idee, prassi e linguaggi.

Partire da questa constatazione è necessario, pur col dovere di non abdicare a uno sterile pessimismo. È l’approccio che ha scelto – nella sua missione di giornalista, oltre che di religioso – anche padre Giuseppe Riggio SJ, Direttore Responsabile di “Aggiornamenti Sociali”, intervenuto lo scorso 19 febbraio a Casa Cini a Ferrara per il primo incontro della Scuola di politica diocesana. “La partecipazione alla vita politica come segno di una cittadinanza autentica”, il titolo scelto per la sua Prolusione. Partecipazione: una parola pesante, carica di significati, che richiama l’impegno, la costanza, il sacrificio, la condivisione, la responsabilità. Un tema critico, più che mai attuale, che a Ferrara ha richiamato 80 persone (45 in presenza, 35 collegate on line), con una dozzina di interventi dal pubblico.

SE LA PORTA RESTA CHIUSA

«Noi cittadini ci sentiamo esclusi dalle stanze della politica, di cui spesso non conosciamo le “forze cieche” che la governano», ha esordito p. Riggio. «Per i più, la politica non è attraente, anzi è il luogo dove ci si sporca le mani, il luogo dei compromessi», in senso negativo. «Ciò porta al rischio di una sempre maggiore separazione tra i due mondi, che rischiano di correre paralleli». La “casta” contro il “popolo”, come dicevamo. Una separazione, questa, «che impoverisce tutti, cittadini e politica, perché impedisce la circolazione di idee, di domande e l’espressione di emozioni e bisogni».

LE CAUSE DELLA CRISI

È importante, però, andare alle radici di questa disaffezione nei confronti della politica, non limitandosi a una lamentela populista contro il “potere”: «viviamo sempre più in una cultura centrata sull’individuo e sui suoi bisogni, una cultura contrapposta all’idea di comunità», ha riflettuto p. Riggio. «Ciò finisce per frammentare e spezzare i legami». Le cosiddette «piazze virtuali», cioè la “partecipazione digitale” non fanno che acuire questa dinamica: «il rischio è di non uscire da questa bolla. Gli stessi algoritmi ci lasciano nel brodo culturale nel quale già ci troviamo, nei nostri piccoli circoli. Così non si crea vera partecipazione, non si aiuta la democrazia». E terzo, ma non meno importante, il «fattore tempo»: la partecipazione politica è anche disincentivata «dalla rapidità, dall’istantaneità dei tempi della vita di oggi. Siamo nel tempo del “tutto subito”». Da qui, la «politica pop», fatta di spot, di annunci, che parla alla pancia. L’esatto opposto della partecipazione, «che ha bisogno di tempo, anche di tempi lunghi». L’opposto di una «politica di visione». «C’è bisogno di tempo», ha aggiunto p. Riggio: «tempo per incontrarsi, per ragionare, per discutere». 

Anche nel mondo del volontariato, spesso (e a ragione) lodato perché centrato sulla gratuità, si nota come buona parte delle persone attive siano ormai i cosiddetti «volontari senza divisa», cioè che si impegnano solo per un singolo evento o progetto.

POSSIBILI RISPOSTE

Fare leva sulla responsabilità nei confronti degli altri: questa potrebbe essere una prima necessaria risposta alla crisi della partecipazione. «Ma in una società dominata dalla cultura dei diritti, quasi sempre individuali – ha riflettuto il relatore -, è molto difficile fare appello al senso del dovere». E appassionarsi a qualcosa, in questo caso alla politica, vuol dire non solo, non tanto usare «la testa», ma anche e soprattutto «il cuore». Un’altra possibile risposta, per padre Riggio, consiste nel «portare fuori dal mondo virtuale quel che c’è di positivo dell’approccio degli influencer». Questi, hanno un grande seguito perché nel proprio ramo «sono considerati credibili: essi, pur dando risposte parziali, rispondono a bisogni sociali e fan credere ai propri follower che la porta del “potere” e del “successo” è aperta anche per loro: “se ce l’ho fatta io, ce la puoi fare anche tu”». Certo, attorno a loro si crea una «community, cosa ben diversa da una vera comunità in quanto formata da fan, da seguaci, da meri ripetitori. Ma rimane che al fondo di ciò vi sia un bisogno di aggregarsi intorno a qualcosa o a qualcuno». 

“APPARTENERE A” 

Insomma, il senso di appartenenza – quello vero, reale, di carne – è fondamentale: «senza di esso non può esserci partecipazione», ha aggiunto p. Riggio. Senso di appartenenza significa «riconoscere che nella propria storia c’è un’origine», delle radici, «ci sono legami». Legami che «proiettano nel futuro» e che ci fanno percepire come «parte di qualcosa di più grande di noi», soprattutto «quando ci sentiamo ascoltati e quando si condividono obiettivi concreti». Oggi, però – è il parere di chi scrive – mancano fedi, visioni grandi, grandi passioni, che danno un senso alla vita, che alimentano a fondo, alla radice la partecipazione, senza ridurla a mero – pur necessario – “atto amministrativo”. 

CERCARE L’ALTRO

Partecipare ha alla propria radice il relazionarsi con l’altro. Significa «aprire delle porte che sembrano invalicabili»: spesso noi, invece, «restiamo chiusi nelle nostre case e negli ambienti in cui ci rifugiamo perché la pensiamo tutti allo stesso modo». Dovremmo, invece, «cercare il dialogo con chi è portatore di un’altra visione, di una rappresentazione dello stare assieme, metterci davvero in gioco». Un gesto politico lo compiamo innanzitutto «quando creiamo spazi di dialogo» e «ogni volta che “saliamo a compromessi”». “Saliamo”, non “scendiamo”, perché il compromesso con l’altro è il raggiungimento di qualcosa di importante, di alto, di nobile. Così, ad esempio, è stato per la nostra Carta costituzionale. Compromesso significa «riconoscere dignità all’altro da me, riconoscergli il diritto alla parola. Per questo ci vuole empatia, compassione, sentire che l’altro non mi è indifferente». Dobbiamo dunque «accettare che dentro la città – e la Chiesa – ci possano essere idee diverse, conflitti» tra chi viene da visioni, partiti diversi. A tal proposito, per padre Riggio è anche ormai tempo di iniziare a superare la falsa e ideologica contrapposizione fra i cosiddetti “cattolici della morale” e i “cattolici sociali”: «sempre di vita si parla»: si tratta quindi, fra cattolici, di «ragionare sul come dare alla vita una priorità», sempre.

MA CHI È L’ALTRO? 

Un tema spinoso, questo, ma mai veramente affrontato fra gli stessi laici cattolici, per i quali la legittima visione politica spesso viene prima della comune appartenenza alla Chiesa, della comune fede in Cristo risorto.

Senza nessun intento generalizzante, spesso può essere più “facile” parlare dell’altro inteso come “il povero”, “il migrante”, compiendo un’“apertura all’altro” comoda, a costo zero. Più difficile, invece, può risultare confrontarsi col fratello o la sorella in Cristo che compie scelte politiche differenti dalle nostre. Partire dalla comune fede, e da una comune dottrina, anche sociale, quindi. Per ricordarci che l’essere cristiani cattolici non è un’etichetta come tante, un abito fra i tanti che compongono il mosaico fluido della nostra personalità:è, invece, ciò che più nel profondo definisce l’identità di ognuno di noi.

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce” del 1° marzo 2024

La Voce di Ferrara-Comacchio