Porta degli Angeli a Ferrara. Perché da molti è chiamata “Casa del boia”? Ecco alcune ipotesi
di Andrea Musacci
A volte le vicende della storia rendono l’identità di un luogo tormentata, complessa, imprevedibile. E capita anche che nessuna tragedia si tramuti in farsa ma che un’ironia diabolica trasformi spazi di lusso e potere in patiboli, veri o immaginari. È il caso della Porta degli Angeli, stupenda e travagliata (spesso abbandonata o sottoutilizzata) struttura alla fine di corso Ercole I d’Este, luogo di fascino e ristoro per “pellegrini” più o meno sportivi che amano solcare il lungo braccio murario di Ferrara. Soglia, anche, fendente la città all’altezza del Parco Urbano.
Da molti ancora denominata “Casa del boia” (“Ca’ dal boia”), ma a torto: questo inganno deriva dalla falsa convinzione che o la Porta stessa o l’edificio antistante, oggi sede del “Tiro a Segno Nazionale”, anticamente ospitasse la residenza del temuto carnefice. Di sicuro, diverse in passato furono le abitazioni cittadine del boia. Una, documentata, al civico 27 di via San Romano, di fianco al Museo della Cattedrale. Un’altra in quella che nel 1908 diventò via della Concia. Oppure, come scrive Francesco Scafuri, la denominazione “Casa del Boia” applicata alla Porta degli Angeli «è entrata da qualche tempo nell’uso comune di molti ferraresi forse perché la storica costruzione prima dei restauri appariva isolata, poco illuminata, assumendo così un aspetto quasi sinistro» (“Porta degli Angeli o Casa del boia?”, cronacacomune.it, 2002). O ancora, «forse alle “grida” dei maiali al macello, così simili a quelle umane, si deve il nome di casa del boia», ipotizza Silvana Onofri (“Archeologia urbana. La Porta degli Angeli e le mura rossettiane”, “Quaderni dell’Ariosto”, n. 62).
VARCO DEI POTENTI
Di certo, c’è che la Porta che prese il nome dalla vicina chiesa di Santa Maria degli Angeli (distrutta nel XIX secolo), era stata prevista alla fine del Quattrocento nel piano dell’Addizione Erculea in fondo alla via degli Angeli (oggi Corso Ercole I d’Este) in ricordo del duca che, insieme all’architetto Biagio Rossetti, realizzò a partire dal 1492 l’ampliamento della città a nord del Castello Estense. «Nel periodo estense – scrive ancora Scafuri – la Porta degli Angeli era considerata una delle strutture più prestigiose dell’intera cerchia muraria, perché di norma da qui entravano ed uscivano non solo i duchi quando si recavano a caccia nel Barco (oggi “Parco Urbano”), ma anche i personaggi importanti e gli ambasciatori; questi ultimi erano sottoposti in ogni caso ad un accurato controllo in prossimità ed in corrispondenza della Porta, difesa da un efficiente sistema militare. Tra i nobili che la attraversarono, ricordiamo il futuro re di Francia Enrico III, che nel 1574 fu accolto da un arco trionfale, allestito per l’occasione proprio nei pressi del “nobile accesso”». E come scrive ancora Onofri, «tradizione vuole che da questa porta sia uscito Cesare d’Este, l’ultimo duca di Ferrara quando, nel 1598, la città fu devoluta allo Stato Pontificio e che immediatamente dopo, in ricordo dell’evento, il fornice a nord sia stato murato. Si tratta solo di una leggenda, dato che nel XVIII secolo la porta era ancora aperta con funzione di dogana».
MATTATOIO E CASA DI FAMIGLIA
È documentato, invece, che dal 1820 divenne un macello – o mattatoio – per maiali e poi magazzino e polveriera. A proposito di questa ultima truce dimora dei suini, lo scavo effettuato nel 1986 nell’area immediatamente a Sud della Porta ha rivelato un piccolo pozzo a destra della porta e parte di muri perimetrali dei box, appartenenti alle strutture del macello. Inoltre, le Mura divennero terreno rustico prativo concesso in appalto per la falciatura e raccolta dei foraggi e il camerone della Porta usato come magazzino. E infine, fino al 1984, abitazione privata: «dal 1945 al 1984 (…) la struttura era diventata casa d’abitazione di una famiglia affittuaria del Comune: nonni, figlia, genero e due nipoti. Il genero era falegname e aveva il suo laboratorio sopra la torre, i suoi due figli vi erano nati e adolescenti scorrazzavano nel sottomura, dove era anche l’orto tenuto dai nonni» (articolo a cura di “Arch’è”, cronacacomune.it, 2012).
DALLE TORTURE AL TURISMO
Dopo anni di quasi totale inutilizzo, in futuro la Porta degli Angeli diverrà il punto di riferimento per promuovere la fruizione turistica e culturale del sito UNESCO “Ferrara città del Rinascimento e il suo Delta del Po”. «All’interno dell’edificio – è stato spiegato dal Comune – sarà allestito un percorso di visita, sviluppato sulle due sale al piano terra. (…) Il percorso guiderà i visitatori attraverso testi, immagini e video alla scoperta del patrimonio culturale e naturale identificativo dei riconoscimenti per l’inserimento di Ferrara e il suo Delta del Po nella lista del patrimonio mondiale».
(Oltre alla citata Onofri, grazie anche a Claudio Gualandi, Linda Mazzoni, Carlo Magri e Marialucia Menegatti per l’aiuto)
Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 20 dicembre 2024
“Ogni porta è sprangata” il titolo del romanzo d’esordio del giovane Antonio Susinna
di Andrea Musacci
Sta forse nella natura delle cose il fluire e inabissarsi all’orizzonte, lasciando al tempo l’incarico di sostituirle. Ma ogni flutto lascia un solco indelebile. Così è stato anche per la pandemia Covid scoppiata tra fine 2019 e inizio 2020. A 5 anni dal suo sorgere, quasi non se ne parla più ma nelle zone d’ombra delle nostre vite mai se ne andrà la traccia di quel dramma collettivo. Antonio Susinna, 27enne ferrarese, affronta proprio quei primi mesi del 2020 nel suo romanzo d’esordio, “Ogni porta è sprangata” (Affiori, Giulio Perrone ed., 2024, euro 20).
Protagonista è una ragazza senza nome, studentessa fuori sede di Lettere all’Università di Ferrara, «esilissima», solitaria e antiretorica, sofferente di depressione e preda di ricorrenti attacchi di panico. E originaria di una piccola località (Codogno?) dove vive il “paziente 1”. Per la giovane, il mondo è «insipido», al massimo ne riceve il racconto da altri, di cui perlopiù subisce lo sguardo. «Si lasciò agire», scrive Susinna a un certo punto. Dal mondo là fuori, la divide sempre un «velo opaco», per lei è naturale «racchiudere» in una “campana di vetro” (come il libro di Sylvia Plath citato in uno dei flashback) la propria vita, appartarsi nello spazio domestico, non “abitarlo”. Delimitare il proprio mondo per illusoriamente custodirlo da quello assurdo, spesso insostenibile, all’esterno, rimanendo «vicina al bordo» di un confine innanzitutto interiore, esorcizzando con gli anonimi riti dell’usuale i non anonimi volti e corpi “minacciosi” oltre la soglia.
Inerte e intorpidita è dunque la protagonista, estranea anche al proprio corpo, refrattaria a ogni forma di vero radicamento. Il racconto gocciola con cadenza quasi impercettibile, rischiando di diventare straniante anche allo stesso lettore. Solo il livellamento emergenziale le permetterà di «amalgamarsi alla folla liquida». Ma rimane il rischio del perpetuo rimpianto, dell’«avrei potuto», come nel flashback del suo primo bacio – anch’esso subìto -, che a sua volta sembra richiamare il racconto “Un caso pietoso” di James Joyce.
Per contro, ricorre – e incombe – il sangue che è vita, «vita che non osai chiedere e fu» (M. Luzi), ineluttabile. Come la gatta che si affaccia al davanzale della finestra del suo monolocale ferrarese e che lei, gradualmente, accoglie nella propria vita. Gatta che è l’intruso, lo straniero: da una parte, proiezione del di lei desiderio; dall’altra, anticipatrice di altro, segno che rimanda a un infante, a un figlio. Figlio – non a caso di una donna di nome Miriam – che aprirà alla vita la protagonista, permettendole di potersi nominare, di trovare un’identità, di rinascere nel respiro che è spirito.
Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 20 dicembre 2024
Transumanesimo e postumano sono già realtà: ecco perché
Nello scorso numero della “Voce” abbiamo trattato il tema della disforia di genere nei giovani e giovanissimi, con tutte le nefaste conseguenze di un’ideologia che ne promuove una concezione distorta, antiscientifica e antiumana. Per riflettere, ci siamo basati sul contributo di Stefano Dal Maso e Fulvia Signani presente nel volume curato da quest’ultima, “Potenziare la Gender Medicine. I saperi necessari” (Mimesis ed., Collana UniFestum, n. XX, 2024). Ora, rifacendoci alle riflessioni della Signani nello stesso libro, cerchiamo di allargare ulteriormente lo sguardo inserendo la denuncia della manipolazione delle menti e dei corpi dei giovani e dei giovanissimi dentro il più ampio discorso sul transumanesimo e sul postumano teorizzato in Italia dalla filosofa Rosi Braidotti.
Gli obiettivi di questa ideologia sono chiari e si esprimono nelle teorie transfemministe e postgenderiste: «estendere la procreazione medicalmente assistita a tutte e tutti; legalizzare l’utero in affitto; gravidanze transumane e una piena accettazione degli uteri artificiali»; e ancora: «cancellare la funzione procreativa della donna, espropriarla dalla procreazione e occuparne gli spazi sociali e biologici, cancellare – anche mediaticamente – la figura della “madre” (si nasce disinvoltamente da due madri o da due padri), promuovere l’applicazione di miglioramenti genetici, in pratica, la tanto deprecata (in passato) eugenetica». Così, si auspica per la specie umana «l’eliminazione del genere biologico e psicologico involontario, attraverso l’applicazione di neurotecnologie, biotecnologie e tecnologie riproduttive. Entrando nel merito della riproduzione assistita – prosegue Signani -, i postgenderisti valutano che consentirà agli individui di qualsiasi sesso di riprodursi in tutte le combinazioni a loro scelta, con o senza “madri” e “padri”, e gli uteri biologici non saranno più necessari per la riproduzione». Già 30 anni fa Donna Haraway, femminista USA, proponeva il concetto di «simbionte», cioè di «un essere in cui le parti biologiche e artificiali convivono, interagendo tra loro e con l’ambiente».
Il noto sociologo e filosofo francese Edgar Morin ha espresso «profonde preoccupazioni riguardo al transumanesimo, che definisce promessa inquietante di superamento dell’umano attraverso la tecnologia, che rischia di disumanizzare la nostra essenza più profonda. Il transumanesimo perseguendo il potenziamento umano e la ricetta per l’immortalità, potrebbe farci perdere di vista ciò che significa essere veramente umani. La sfida del transumanesimo non è solo tecnologica, ma soprattutto etica: come potremo mantenere la nostra umanità in un mondo sempre più dominato dalle macchine?».
Silvia Guerini e Costantino Ragusa nel loro studio “I figli della macchina. Biotecnologie, riproduzione artificiale ed eugenetica” (Asterios, Trieste, 2023) dimostrano inoltre come «le aziende transnazionali e le élite finanziarie sono concentrate sulla Grande Trasformazione cibernetica e biotecnologica, riducendo il ruolo dell’etica. Questo si evidenzia nell’integrazione dell’ingegneria genetica e delle tecnologie di riproduzione artificiali in un unico progetto di riprogettazione e manipolazione del DNA degli esseri viventi», scrive Signani. «Si prefigura una società geneticamente programmata, caratterizzata da una selezione eugenetica e da una crescente artificializzazione della nascita umana. Le tecnoscienze mirano a sostituire la natura con un ecosistema sintetico gestibile e riprogettato dai tecnici attraverso terminali tecnologici, anticipando una società dove ogni aspetto della vita è gestito secondo dettami tecnici, dall’inizio alla fine. Gli Autori trattano quindi anche delle tecniche di fecondazione assistita che aumentano significativamente il rischio di numerose patologie, inclusi tumori, rispetto alla concezione naturale». Queste tecniche «non sono terapeutiche per l’infertilità (non solo, il tema dell’aiuto per l’infertilità è stato un “cavallo di troia”), ma sono state sviluppate – affermano – per progettare esseri umani con caratteristiche specifiche, attraverso diagnosi preimpianto e selezione embrionale. Le tecniche promuovono la completa separazione tra sessualità e procreazione».
Di certo, la battaglia contro questi abomini è molto concreta e anche politica: il Parlamento Europeo il 12 settembre 2023 ha approvato in prima istanza una proposta di Regolamento sugli Standard di qualità e sicurezza delle sostanze di origine umana destinate all’applicazione sull’uomo (o Regolamento SoHO) «che equipara gli embrioni umani a cellule e tessuti, definendoli “sostanze di origine umana”, e apre le porte all’eugenetica e agli usi industriali, nonostante l’allarme lanciato da varie organizzazioni di esperti. Ufficialmente lo scopo delle nuove misure sarebbe di “tutelare maggiormente i cittadini che donano o vengono trattati con sangue, tessuti o cellule”. In realtà il regolamento autorizza il libero mercato di embrioni, feti e gameti umani, che, si noti bene, sono inclusi nelle categorie di tessuti e cellule».
È, questa, la sfida che ci troviamo davanti oggi. Non si tratta solo di deprecabili teorie ma di atti politici concreti. Con conseguenze inimmaginabili sul futuro dell’umanità.
Andrea Musacci
Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 20 dicembre 2024
La tradizionale fotografia socio-economica di fine anno, fra disuguaglianze e possibilità
I dati, si sa, sono sempre interpretabili, non sono mai dogmi assoluti. Forniscono, però, alcune chiare indicazioni sulla realtà. Realtà che spesso stentiamo a riconoscere, come nel caso della situazione socio-economica del territorio Ferrarese.Anche quest’anno, come negli ultimi 37, il CDS di Ferrara (Centro ricerca Documentazione e Studi economico sociali) ha presentato il proprio Annuario, il 13 dicembre nella Sala Convegni CNA di via Caldirolo, realizzato con il Patrocinio di ISCO, Provincia di Ferrara e ASviS-Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile. L’Annuario 2024 – che ha come sottotitolo “Osserva Ferrara”- è stato presentato da Annalisa Ferrari e Gianpiero Magnani (Direttivo CDS). Quest’ultimo ha spiegato come al suo interno vi siano i contributi di 50 autori che hanno utilizzato oltre 180 fonti per i dati e le informazioni necessarie. Il pomeriggio – molto partecipato – si è concluso con un ricordo di Paolo Micalizzi da parte di Sergio Foschi e la proiezione di “Lo sguardo e la memoria.Il sogno infinito di Paolo Micalizzi“, a cura di Roberto Fontanelli e Riccardo Modestino.
BRACCI: «SERVE CAMBIO DI PASSO»
Dopo i saluti di Anna Quarzi (Presidente ISCO) e Diletta D’Andrea (Consigliera Provincia di Ferrara) (assenti il Presidente provinciale Garuti e quello regionale De Pascale), ha relazionato la Presidente del CDS Cinzia Bracci. Che ha innanzitutto fatto un piccolo annuncio: «stiamo pensando di tornare a realizzare anche un Annuario ad hoc sulla città di Ferrara». L’analisi della situazione socio-economica della nostra Provincia è impietosa: innanzitutto, com’è noto, in Regione il Basso Ferrarese è una delle zone più povere assieme a quelle montane. La distanza dalla via Emilia, insomma, fa la differenza. A livello demografico, la nostra Provincia in 20 anni ha registrato un calo da 360mila a meno di 340mila abitanti e siamo la Provincia con l’indice di vecchiaia più alto in tutta l’Emilia-Romagna. «E fino al 2031 la popolazione calerà ancora e pesantemente». A Ferrara, poi, l’età media è di 49 anni, 2 sopra quella regionale. «Con questi dati – ha proseguito Bracci – vi sono seri problemi di sostenibilità: servirebbero, soprattutto a livello nazionale, incentivi alla natalità e che impediscano l’emigrazione dei nostri giovani, oltre a politiche per una vecchiaia più attiva». Al riguardo, la Presidente ha citato una proposta di Pino Foschi, fondatore del CDS, di lasciare i lavoratori in età di pensionamento per alcuni anni in tandem sul luogo di lavoro coi più giovani.
A fianco della crisi demografica, vi è quella sociale: la nostra Provincia, in Regione, è quella con meno stranieri e «ciò è segno di poca attrattività produttiva». Spesso, poi, i lavoratori stranieri presenti sono stagionali.Forti differenze vi sono anche all’interno del Ferrarese, ad esempio nella percentuale di laureati/e (ad es., l’8,3% a Goro e il 38% a Ferrara). In ogni caso, in questo ambito «siamo ben al di sotto sia della media regionale sia di quella nazionale, nonostante un Ateneo in crescita». AUniFe, secondo Bracci, manca ad esempio «un Dipartimento di Agraria», in un territorio come il nostro ancora fortemente agricolo. Ancora sui giovani: il 16,1% non studia né lavora, altro «dato pesante». La fragilità economica, di conseguenza, è inevitabile: siamo la penultima Provincia come reddito imponibile medio, e come livello occupazionale nell’industria e nel terziario siamo sotto la media nazionale. Inoltre, il 62,9% delle imprese ferraresi è piccola come dimensioni. «È necessario – ha aggiunto Bracci – un cambio di passo, con innovazione e politiche serie. Altrimenti per la nostra Provincia sarà un disastro». Gli aiuti, da alcuni anni, ci sono ma «dei Fondi di coesione, appena l’1% lo usiamo in innovazione, contro il 33% a livello regionale, e quelli del PNRR non sappiamo se le future generazioni saranno in grado di restituirli», dato che in parte sono prestiti.
Anche a livello morfologico, il nostro è un territorio fragile, che va conservato e protetto: «non possiamo pensare che ce la caveremo per sempre».
BIANCHI E CALAFÀ: «TUTELARE IL LAVORO»
«Quello sulla nostra Provincia è, naturalmente, uno sguardo limitato ma nel suo piccolo ci fa comunque comprendere alcune trasformazioni in corso a livello nazionale, europeo e mondiale», ha riflettuto poi Patrizio Bianchi (Cattedra UNESCO “Educazione, Crescita ed Eguaglianza”, UniFe). «Oggi nei Paesi avanzati sempre più assistiamo a un fenomeno per cui in aree sviluppate si creano aree povere, bolle di svuotamento». Bianchi si è quindi concentrato sul tema del lavoro, che sta cambiando, soprattutto «nella percezione dei giovani, i quali non concepiscono più di poter svolgere lo stesso impiego per tutta la vita». Questa flessibilità, però, «ha bisogno di essere tutelata». Ma servono anche «reti infrastrutturali e comunicative per attrarre le imprese». In ogni caso, ha ribadito Bianchi, attenzione perché la crescita economica spesso negli ultimi decenni ha portato a «un aumento delle disuguaglianze, come ad esempio in Cina». La «scarsa partecipazione» e quindi la «scarsa democrazia» sono un rischio nelle società avanzate e all’interno dei luoghi di lavoro. Sul tema del lavoro e dei suoi diritti si è concentrata anche Laura Calafà (Docente di diritto del lavoro, UniVr): «serve la tutela di un lavoro dignitoso» contro «le ricadute in basso della globalizzazione», contro i cosiddetti “contatti collettivi pirata“, quelli cioè sottoscritti non dalle grandi organizzazioni sindacali e quindi con una corsa al ribasso nei trattamenti economici e normativi del lavoro.
MORELLI: DONNE E DELTA
SCANDURRA: FORMAZIONE PARTECIPATIVA
«Nessuno si salva da solo, è fondamentale lavorare assieme», ha poi chiosato Aida Morelli (Presidente Parco Delta del Po Emilia-Romagna), che si è concentrata sul tema della parità di genere («è un fatto sostanziale, ne va della stessa democrazia») e sul Delta del Po, «che ha grandi potenzialità di crescita, con possibili ricadute positive indirette anche a livello occupazionale». L’ultimo intervento è poi spettato a Giuseppe Scandurra (Docente di Antropologia culturale, UniFe), il quale ha accennato alla collaborazione tra Dipartimento di Studi Umanistici (Laboratorio Studi Urbani) di UniFe e CDS. «Da anni – ha detto – i miei studenti e le mie studentesse li coinvolgo in progetti di ricerca sul nostro territorio»: un’esperienza importante soprattutto dopo 1 anno e mezzo di dad causa Covid e con «il crescere delle università telematiche», fondate proprio sulla dad e sulla privatizzazione e lo svilimento del sapere.
Andrea Musacci
Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 20 dicembre 2024
Il ferrarese Naldini sposò una zia materna del noto intellettuale. Ecco la storia di questa famiglia, le parole inedite di una cugina di Pasolini e altri aneddoti
di Andrea Musacci
Molto è stato scritto dei profondi legami tra Pier Paolo Pasolini (PPP) e l’Emilia-Romagna: le origini ravennate, gli anni a Bologna, quelli a Parma e a Scandiano. Ma poco o nulla si sa delle parentele ferraresi del grande intellettuale tragicamente scomparso nel 1975.
Enrichetta, una delle zie materne di Pasolini, infatti, sposò un ferrarese, Antonio Naldini. Pilota di auto da corsa (e nei registri di leva indicato come chauffeur), Antonio nasce a Ferrara il 26 maggio 1893, ed è figlio di Massimo Naldini, cuoco, che sposa Ernesta Chiozzi, possidente. Sarà la guerra a portare Antonio in Friuli – a Casarsa, terra di Pasolini -, assieme a Carlo Alberto Pasolini, padre di Pier Paolo.
L’ALBERO GENEALOGICO
Ma ricostruiamo la parte dell’albero genealogico che ci interessa.
I nonni materni di Pier Paolo Pasolini (PPP) sono Domenico Colussi e Giulia Zacco: i due hanno sei figli: Vincenzo (morto a 19 anni in USA in circostanze misteriose); Susanna (morta nell’81 a Udine), che nel dicembre ’21 sposa il ravennate Carlo Alberto Pasolini e i due avranno Pier Paolo e Guidalberto, quest’ultimo partigiano cattolico ucciso dai titini nel 1945 nell’eccidio di Porzûs; Chiarina; Giannina; Luigi (detto “Gino”); Enrichetta. Quest’ultima, sarta (aprì a Casarsa una sua bottega), è così descritta da Siciliano, biografo di PPP: «ha il sorriso dolcissimo: la testa bianca, il fisico abbandonato in una mollezza da buona madre di famiglia: una corporatura che addita una positiva sensibilità». Enrichetta sposa il ferrarese Antonio Naldini e i due hanno tre figli: Domenico (detto “Nico”, scrittore e poeta), Anna Maria (1918-2002, detta Annie) e Franca. Quest’ultime due sono nate a Ferrara. Anna Maria sposa Umberto Chiarcossi e i due hanno due figlie: Graziella e Giulietta (classe 1941). Franca, invece, sposa Giorgio Mazzon e anche loro hanno due figli, Guido e Margherita.
I PARENTI ESTENSI DI PASOLINI
Il nostro Antonio Naldini aveva un fratellastro «fornaio e comunista», Giuseppe Naldini (nato a Ferrara il 31 ottobre 1899 e morto il 9 febbraio ’51), che Carlo Alberto Pasolini, fascista, sembra volesse denunciare come “sovversivo”; Giuseppe ebbe una figlia, Ernesta (o Ernestina), nata nel 1921. Antonio aveva anche una sorellastra, Rosa Naldini, nata a Ferrara il 14 gennaio 1898 ed emigrata a Casarsa il 4 ottobre 1923, forse assieme ad Antonio.
Giuseppe e Rosa erano figli di Massimo Naldini ed Ernesta Chiozzi. Antonio Naldini è figlio di Massimo, e risulta come figlio di Ernesta Chiozzi solo nei registri di leva (non in quelli dell’Archivio Storico comunale di Ferrara): nato 5 mesi dopo il loro matrimonio, o è frutto di una relazione extraconiugale del padre (madre ignota), oppure la famiglia Naldini è una famiglia affidataria e Antonio era un bambino esposto.
Dall’Archivio Storico comunale di Ferrara risulta che dal 1901 la famiglia Naldini abita in via Borgo dei Leoni, 132.
I COLUSSI A FERRARA DAI NALDINI
Nel libro “Storia di una casa. Pier Paolo Pasolini a Casarsa” si racconta come “Casa Colussi” – la casa di Casarsa della famiglia Colussi (la madre, le zie e i nonni materni di Pier Paolo) – fu da loro abbandonata dopo Caporetto nell’ottobre 1917 e occupata dalle truppe austriache dilagate in Friuli. Scrive Enzo Siciliano nella “Vita di Pasolini”: «Al momento della ritirata di Caporetto, i Colussi sfollarono: si rifugiarono a Ferrara presso i Naldini, la famiglia del fidanzato di Enrichetta».
Al ritorno, le cose non andavano bene, ma anni dopo «Enrichetta aprì una cartoleria accanto al portoncino d’ingresso» di Casa Colussi.
Dopo la morte del vecchio Domenico – avvenuta nel 1928 -, al primo piano ci andarono ad abitare anche i coniugi Enrichetta e Antonio Naldini, e successivamente anche i loro figli Anna Maria, Franca e Nico.
IL RACCONTO DI NICO NALDINI
Domenico “Nico” Naldini – morto nel 2020 a 91 anni nella sua casa di Treviso – in un’intervista al Corriere della Sera nel 2011 racconta così del padre Antonio: «Mio padre, che era un pilota di automobili da corsa, dopo il matrimonio, a 21 anni, ebbe il morbo di Parkinson. Venne ricoverato in cliniche di lusso con medici che promettevano la guarigione in cambio di quote mensili tremende: in realtà per calmarlo un po’ allora c’era solo l’estratto di belladonna. Mia mamma spese così anche i soldi che non aveva e l’infanzia mia e delle mie due sorelle fu di totale povertà». Suo padre sarebbe morto nel ’50 corroso dalle medicine: «Non ho avuto rapporti con lui, se non nell’aiutarlo a vestirsi o a scendere le scale. Mia mamma l’ha difeso anche contro di noi: era dedita completamente a lui e si inventò diversi mestieri, per colmare i debiti».
Nel 2014, il Palazzo delle Esposizioni a Roma ospita la mostra “Pasolini Roma”. In un incontro legato alla mostra, Nico Naldini parla così di Enrichetta: «mia madre era segretaria del fascio femminile e quindi [in occasione delle adunate fasciste] si portava 2-300 contadine e le raccomandava di battere le mani (…)». Un lato oscuro della zia di Pasolini, ma che purtroppo accomunò tanti in quel periodo.
GRAZIELLA CHIARCOSSI: «QUEL MIO NONNO MALATO»
Abbiamo contattato Graziella Chiarcossi per farci raccontare quel che ricorda di suo nonno Antonio Naldini. Graziella, nata a Casarsa nel ’43, vedova del noto scrittore e sceneggiatore Vincenzo Cerami (dal quale ha avuto un figlio, Matteo), visse insieme a PPP e a sua mamma Susanna a Roma dai primi anni ’60 (dove quest’ultimi due si erano trasferiti nel ’50, con l’aiuto di Gino, fratello di Susanna, antiquario, che viveva già nella Capitale). A Roma si iscrive e laurea alla Facoltà di Lettere, poi nella stessa Università diventa contrattista. Tornando ad Antonio Naldini, Graziella racconta alla “Voce”: «Il mio unico ricordo diretto è legato al giorno della sua morte a Casarsa della Delizia, nella vecchia casa di famiglia. Mio zio, Nico Naldini, non ha voluto che mia sorella e io entrassimo in camera perché eravamo bimbe». Siamo nel ’50, Graziella ha 7 anni. «Nei miei ricordi – prosegue -, nonno Antonio è solo una persona malata. E per lungo tempo dopo la sua morte ho fatto compagnia a nonna Enrichetta dormendo nel lettone insieme a lei».
PPP A COMACCHIO CON BASSANI
Dalle “Lettere 1940-1954” di PPP e dal libro “Pasolini Requiem” ricostruiamo almeno in parte i giorni in cui PPP venne nelle Valli comacchiesi. Ai primi di marzo del 1954 Pasolini e Bassani, ormai amici, partono insieme in macchina da Roma «alla volta di Ferrara, per compiere sopralluoghi nelle paludi di Comacchio» per la sceneggiatura del film “La donna del fiume” assieme al regista Mario Soldati. Il 14 marzo ’54 da Roma PPP scrive a Biagio Marin che è a Trieste: «Caro Marin, sono secoli che devo scriverti, ma: prima ho dovuto fare un viaggetto a Ferrara e Comacchio, e son tornato a Roma con un’angina e il connesso febbrone […]». Disguido di cui parlerà anche in un’altra lettera del 29 marzo 1954 da Roma a Leonardo Sciascia. Oltre a Bassani, Pasolini ebbe anche un’altra amicizia ferrarese: quella con la poetessa e traduttrice Giovanna Bemporad (Ferrara, 1923 – Roma, 2013), anch’essa studentessa al Liceo “Galvani” di Bologna e che con PPP trascorse il periodo della guerra vicino Casarsa.
FRAMMENTI DALLE LETTERE
Dei legami fra PPP e Ferrara esistono anche tracce frammentarie ma che dicono di una relazione del poeta con la nostra città, indebolitasi sempre più dagli anni ’60. L’11 febbraio 1950, PPP è da poco arrivato a Roma con la madre. Scrive all’amica Silvana Mauri: «Mia madre, forse, si sistemerà presso una signora di Ferrara, molto simpatica: la sistemazione sarebbe ottima: ma se la cosa non dovesse andar bene, allora mi rivolgerei senz’altro a quella tua amica». Chi è questa signora di Ferrara? Mancando altri riferimenti, vien comunque da pensare la madre non sia mai stata sua ospite. Il padre Carlo Alberto, poi, li raggiungerà a Roma. Il 10 luglio 1955 PPP da Bolzano invia questa lettera ai genitori: «Miei carissimi, sono stato due giorni a Ferrara. Adesso sono di nuovo a Bolzano, ma solo per questa sera: domani mattina partiamo per Ortisei dove ci fisseremo definitivamente a lavorare per 20 giorni». A Ortisei, PPP avrebbe realizzato con Giorgio Bassani e col regista Luis Trenker la sceneggiatura del film “Il prigioniero della montagna”. Ma non spiega perché si è fermato due giorni a Ferrara: forse con Bassani, suo ospite? Non vi è traccia sul “Carlino” locale dell’epoca. Un altro mistero estense è nella lettera del novembre 1956 che da Roma scrive a Nico Naldini a Casarsa, dove PPP cita un misterioso «vitellone ferrarese»…
In un’altra lettera da Roma del 4 dicembre 1958 ai redattori di “Officina” a Bologna, PPP scrive: «[…] A Milano non potrò esserci il tredici, perché devo lavorare alle mie quattrocento pagine. Però è quasi sicuro che verremo a passare il natale e il capodanno in Emilia (Parma, Ferrara, Ravenna e Bologna) con Moravia e la Morante: così ci vedremo mentre “Officina” è nel forno […]». Il 19 dicembre 1958 a Roma, però, muore suo padre, e quindi forse PPP rimanderà queste vacanze per stare con la madre. Un altro legame di PPP col nostro territorio riguarda il suo periodo come studente al Liceo Galvani di Bologna: qui, tra i professori ebbe il centese Mario Borgatti, esperto di dialetto e cultura tradizionale. Infine, nel luglio 1959 PPP è a Siracusa e nel suo diario scrive: «Avevo sempre pensato e detto che la città dove preferisco vivere è Roma, seguita da Ferrara e Livorno. Ma non avevo visto ancora, e conosciuto bene, Reggio, Catania, Siracusa». Un “declassamento” che non intacca l’amore di Pasolini per la nostra città.
Alcune sue visite dal 1953 al ’70
Il 21 settembre 1953 PPP visita Casa Ariosto a Ferrara, come risulta dal registro delle firme. Sul “Giornale dell’Emilia” dell’epoca non vi è, però, traccia. Era, forse, in visita privata con Bassani? Tornerà a Ferrara il 26 febbraio 1962 per intervenire a Casa di Stella dell’Assassino in un incontro organizzato dal Comitato Cittadino Manifestazioni Culturali. Infine, Vittorio Sgarbi nel catalogo “Arte e letteratura nel nome di Roberto Longhi. Bassani, Pasolini, Testori” racconta di aver incontrato Pasolini nel 1970 a Casa Ariosto.
FONTI BIBLIOGRAFICHE
P. P. Pasolini, “Lettere 1940-1954”, 1986. P. P. Pasolini, “Lettere 1955-1975”, 1986. Angela Felice (a cura di), “Storia di una casa. Pier Paolo Pasolini a Casarsa”, 2015. Barth David Schwartz, “Pasolini Requiem”, 1992. Enzo Siciliano, “Vita di Pasolini”, 1978. Nico Naldini, “Mio cugino Pasolini”, 2000. Davide Ferrari, Gianni Scalia (a cura di), “Pasolini e Bologna”, 1998. Alessandro Gnocchi, “PPP. Le piccole patrie di Pasolini”, 2022. Simonetta Savino, Alda Lucci (a cura di), “Bassani, Pasolini, Trenker: una singolare collaborazione”, 2010.
Grazie a Riccardo Piffanelli (Archivio Storico Arcidiocesi Ferrara-Comacchio), all’Archivio Storico comunale di Ferrara e all’Archivio di Stato di Ferrara.
Fulvia Signani (UniFe) nel suo ultimo libro dedica una parte ai danni provocati da un’ideologia malata che ha fatto credere a tanti bambini e adolescenti che cambiare sesso fosse la soluzione al loro malessere e la risposta alle loro domande. Con l’aiuto di media, social e adulti
di Andrea Musacci
Un tema sempre poco affrontato nel dibattito pubblico ma che definisce – in negativo – il nostro tempo, è quello riguardante l’identità di genere e in particolare la disforia di genere soprattutto nei bambini e negli adolescenti. Ne parla Fulvia Signani, psicologa e sociologa, Docente UniFe incaricata di Sociologia di genere a Studi Umanistici e Medicina, nella sua nuova pubblicazione “Potenziare la Gender Medicine. I saperi necessari” (Mimesis ed., Collana UniFestum, n. XX, 2024).
Nella parte riservata al tema della disforia di genere nei minori, redatta assieme a Stefano Dal Maso (Ricercatore indipendente), scrive: «in assenza di sintomi fisici tangibili, l’anamnesi clinica si basa su ciò che la persona intende o non intende riferire di sé e quindi sull’auto-narrazione di chi si rivolge a un/a professionista sanitario/a per ricevere un parere». È questo l’approccio che tanti danni ha provocato nella vita di giovani e delle loro famiglie in tutto il mondo cosiddetto “avanzato”. Una scelta puramente ideologica ispirata dagli studi che si rifanno al Protocollo Olandese “Gender Affirmative Model of Treatment” (GAMT), sviluppato inizialmente in Olanda negli anni ’90 dalla psicologa Peggy Cohen-Kettenis.
L’IPOCRISIA DELL’APPROCCIO AFFERMATIVO
Questo approccio – scrivono i due studiosi – «persegue la convinzione che per alleviare la condizione di malessere psicologico, che spesso accompagna i bambini e i giovani con incongruenza o GD (nei primi anni diagnosticati come transessuali o affetti da disturbo dell’identità di genere) (…), sia opportuno affermarli nella loro richiesta di una nuova identità (che, per la specificità dell’approccio, non viene messa in discussione o relativizzata) tramite interventi farmacologici e chirurgici, non riconoscendo la fondamentale importanza di un sostegno psicologico di accompagnamento». Ciò che è incredibile è che questa posizione sia stata «validata anche in alcuni ambiti scientifici nonostante l’assoluta assenza di riscontri clinici». Una volta accettata come vera l’identità di genere dichiarata dal soggetto, vengono adottate quattro fasi: «l’assistenza psicologica nel percorso di affermazione di genere, la somministrazione dei “bloccanti della pubertà” ai bambini», «la somministrazione di ormoni cross-sex agli adolescenti» (farmaci per lo sviluppo e il mantenimento a lungo termine delle caratteristiche sessuali opposte rispetto a quelle del proprio sesso natale), «gli interventi chirurgici». In particolare, «la somministrazione dei bloccanti della pubertà viene raccomandata nell’applicazione dell’approccio affermativo, con il riferito intento di ridurre l’angoscia del bambino collegata allo sviluppo di caratteri sessuali opposti al proprio sentire interiore e di concedergli il tempo necessario per esplorare la propria identità di genere, al termine del quale, se persiste nella sua incongruenza, sottoporlo a ormoni cross-sex per tutta la vita». Dopo la pubblicazione nel 2006 sulla rivista “European Journal of Endocrinology” di uno studio di Delemarre-van de Waal e Cohen-Kettenis, «l’approccio affermativo si diffonde molto rapidamente, per effetto di un’imponente copertura mediatica anche al di fuori degli ambiti professionali clinici e grazie a una crescente spinta sociale», anche se le stesse Delemarre-van de Waal e Cohen-Kettenis abbiano dichiarato che «non è ancora chiaro come la soppressione puberale influenzerà lo sviluppo del cervello». Non certo un aspetto irrilevante. Viene invece diffusa «una narrativa parallela riferita al supposto aumento del rischio suicidario, qualora ai “giovani disforici” venga negato l’uso dei bloccanti».
CRITICHE E RIPENSAMENTI
Ma tra il 2011 e il 20214 nel Regno Unito, i risultati dello studio “Early intervention study” «dopo la somministrazione dei bloccanti della pubertà, non hanno dimostrato un miglioramento del benessere psicologico, bensì un peggioramento dei problemi “internalizzati” come depressione e ansia e un aumento di ideazioni suicidarie». Nel marzo 2022 il gruppo di lavoro incaricato dal Servizio sanitario inglese e guidato dalla pediatra Hilary Cass, ex presidente del Royal College of Pediatrics and Child Health, pubblica un Rapporto intermedio «nel quale vengono già esposti i primi risultati che evidenziano le numerose preoccupanti criticità dell’approccio affermativo». Nella cosiddetta “Cass Review” è scritto: «Non sono stati identificati studi di alta qualità, che utilizzassero un disegno di ricerca appropriato per valutare gli esiti della soppressione della pubertà negli adolescenti che soffrivano di disforia o incongruenza di genere. Esistono prove insufficienti e/o incoerenti sugli effetti della soppressione della pubertà sulla GD, sulla salute mentale e psicosociale, sullo sviluppo cognitivo, sul rischio cardiometabolico e sulla fertilità. Esistono prove coerenti di qualità moderata, anche se provenienti principalmente da studi pre-post, che la densità ossea e l’altezza possono essere compromesse durante il trattamento». A seguito di tale pubblicazione, il Governo britannico annuncia la chiusura del reparto GIDS (Gender Identity Development Service) della clinica Tavistock.
Di conseguenza, ripensamenti radicali da parte di esperti e istituzioni negli anni si sono riscontrati in vari Paesi e lo scorso aprile la Società Europea di Psichiatria del bambino e dell’adolescente (ESCAP) ha licenziato un documento in cui sottolinea che «le ricerche hanno rilevato alcune gravi conseguenze per la salute dei bloccanti della pubertà e degli ormoni cross-sex, in particolare quando i trattamenti vengono iniziati nei minori” e solleva “preoccupazioni sulla possibile natura irreversibile del processo decisionale nella prescrizione dei bloccanti della pubertà».
COME I SOCIAL E IL CONTESTO INFLUENZANO I GIOVANI
In tutto ciò, un ruolo decisivo lo svolgono i mass media e i social media: «L’adolescenza – scrivono Signani e Dal Maso – può essere un periodo in cui il disagio mentale si manifesta attraverso problemi fisici come i disturbi alimentari o i disturbi legati alla percezione del proprio corpo. Per alcuni giovani, questo può esprimersi come disagio legato all’identità di genere». Studi come quello di Ahmed, Granberg e Khanna (Gender discrimination in hiring: An experimental reexamination of the Swedish case, 2021), rilevano come «ragazzi e ragazze, a seguito della consultazione dei social, hanno adottato comportamenti o identità basati su ciò che avevano osservato, deducendo che i social sono in grado di plasmare le identità e i comportamenti individuali». I/le ragazzi/e «frequentano i social media e gli influencer hanno un grande impatto sui giovani, li convincono che diventare trans possa risolvere i loro problemi adolescenziali e suggeriscono loro strategie per convincere gli adulti e i professionisti, della loro identità, addirittura fornendo i testi da leggere a questi loro interlocutori». Web significa anche pornografia – «di cui è testimoniato un uso massiccio nei Paesi Occidentali» – che «crea aspettative irrealistiche sulla sessualità, che spesso danneggiano lo sviluppo sessuale. Messaggi confusi e contraddittori, insieme alle influenze dei media, possono generare paura nell’affrontare il proprio genere e possono spingere i giovani a pensare che sia meglio non identificarsi con il proprio sesso di nascita».
Oltre all’influenza dei social media – continuano gli studiosi -, «l’influenza dei pari durante questa fase della vita è molto potente» e anche «gli insegnanti e altri adulti di riferimento giocano un ruolo importante nel promuovere le identità trans. In molte scuole americane, bandiere rainbow e messaggi di supporto per gli studenti LGBT+, sono molto comuni. Alcune scuole arrivano a rassicurare gli studenti dicendo “Se i tuoi genitori non accettano la tua identità, io sono tua madre ora” e offrono riferimenti di supporto. Alcune scuole hanno gruppi segreti LGBT+ e consulenti che supportano i giovani nella loro identità trans, anche senza il consenso dei genitori».
Temi, dunque, che toccano le esistenze di milioni di giovani nel mondo, anche nel nostro Paese. Continueremo la riflessione nel prossimo numero indagando il transumanesimo, ideologia alla base dell’approccio affermativo.
Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 13 dicembre 2024
Il nuovo libro di Simonetta Sandra Maestri (con prefazione di don Andrea Zerbini) indaga, tra il 1609 e il 1768, l’opera educativa e spirituale in Sud America
Si intitola “Gesuiti e missioni in Paraguay (1609-1768). Evangelizzazione ed educazione dei guaraní” il nuovo libro di Simonetta Sandra Maestri, con prefazione di don Andrea Zerbini, Moderatore dell’Unità Pastorale Borgovado ed ex Direttore del nostro Centro Missionario diocesano. Il libro è stato presentato lo scorso 21 novembre in Biblioteca Ariostea a Ferrara e Maestri ne ha inviato copia al Santo Padre Francesco il quale, tramite la Segreteria di Stato, le ha risposto in tempi brevi con un ringraziamento e la Benedizione Apostolica.
L’autrice è stata Cultrice della materia a UniFe, docente alle Superiori e oggi fa parte della Redazione della rivista letteraria “L’Ippogrifo”, del Direttivo del Gruppo Scrittori Ferraresi, ed è Presidente dell’Associazione di promozione sociale “Baffo John Potter”.
AUTONOMIA E OBBEDIENZA
L’elezione a Pontefice del gesuita Jorge Mario Bergoglio – scrive nel libro – ha «incentivato ancor più il mio desiderio di rivedere e pubblicare uno studio affrontato negli anni ‘93/’94 in occasione della mia tesi di laurea in Pedagogia», relatore il prof. Carlo Pancera. Ricca la bibliografia utilizzata, con testi conservati in archivi, biblioteche e presso la Casa Madre dei Gesuiti per consultare la Litterae Annuae, lettere che i missionari da oltreoceano inviavano a Roma per la rendicontazione ai loro superiori. Di particolare importanza e utilità nel suo studio, un manoscritto spagnolo del XVIII secolo custodito presso la Biblioteca Ariostea di Ferrara, l’Exacta relación de las missiones del Paraguay, «scritta da chi ha vissuto direttamente l’esperienza e, una volta espulso dal Paraguay, è stato mandato nello Stato pontificio». Da questo studio – spiega – «è emersa una pedagogia gesuitica nella quale convivono il rigore delle regole e dell’obbedienza, l’autonomia e la flessibilità degli esercizi spirituali, voluti dal fondatore della Compagnia di Gesù Sant’Ignazio di Loyola nel 1534. Un umanesimo ignaziano in cui il missionario sa aprirsi alla popolazione indigena guaranì».
MISSIONARI, UNO STILE DIVERSO
Tra la fine del XV e la metà del XVI secolo la Spagna e il Portogallo dettero avvio alla conquista e alla colonizzazione del continente americano recentemente scoperto: «da un lato – scrive Maestri – l’Europa esporta in Sud America i propri strumenti e modelli culturali, mentre dall’altro lato il contatto con il nuovo continente si traduce in occasione di sperimentazione di nuove forme di governo e di rinnovamento dell’Europa stessa». Questo processo riguarda soprattutto il Paraguay. «Alla conquista delle armi succede la conquista spirituale che, oltre al ruolo evangelizzatore, assume il compito di formulare nuovi strumenti di comunicazione e di omogeneizzazione della società indigena». I gesuiti avranno il monopolio sul Paraguay, dove daranno vita a collegi urbani, riduzioni (i nuovi villaggi creati dai missionari in cui gli indigeni vivevano in pace assieme ad altri gruppi), Università e centri di cultura, «assumendosi la tutela e la difesa degli indios dagli effetti devastanti della colonizzazione». Nelle riduzioni paraguiane «è certamente la Compagnia di Gesù che conduce il dialogo, ma il modello che esporta si coniuga con una pluralità di modelli (…). In pratica, accanto al disegno progettuale dirigisticamente perseguito, si instaura anche una sorta di processo osmotico, una dialettica tra le due culture». «Le riduzioni gesuitiche si proponevano per la trasformazione della società indigena e lavoravano per dare stabilità e continuità a questo processo», commenta don Zerbini nella Prefazione. «L’ambizione era di ricondurre un popolo bambino e indigente a una collettività urbana, strutturata come città educante capace di generare una cittadinanza laboriosa. Un nuovo modello sociale aperto all’autonomia e fondato sui diritti dell’altro (…). Ne risultò un modello poliedrico i cui elementi costitutivi erano radicati nell’umanesimo cristiano e recepivano, integrandoli, gli aspetti comunitari-collettivi mutuati dalla cultura incaica dei nativi».
Andrea Musacci
Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 6 dicembre 2024
L’intervento a Casa Cini di suor Elena Massimi: «la liturgia come memoria di Eterno»
Il tempo della liturgia e quello della festa come tempo di rottura, di apertura all’Altro, “inutile”. Sono state tante, e affascinanti, le suggestioni proposte lo scorso 27 novembre a Casa Cini da suor Elena Massimi, intervenuta per una lezione della Scuola diocesana di teologia per laici. “La speranza nel tempo della liturgia”, il titolo della religiosa delle Figlie di Maria Ausiliatrice, Docente di Teologia Sacramentaria alla Pontificia Università Salesiana e all’Istituto di Liturgia Pastorale Santa Giustina in Padova, oltre che Presidente dell’Associazione Professori di Liturgia (APL) e Coordinatrice della sezione Musica per la Liturgia dell’Ufficio Liturgico Nazionale CEI.
Oggi – per la relatrice – viviamo nel tempo della «perdita della memoria», quindi «del legame del presente col passato». Tutto ciò è difficilmente conciliabile con la liturgia, che è «tempo lento». Ma la liturgia è «una grande risorsa: la liturgia, e così il concetto autentico di festa, interrompe infatti il ciclo feriale». Come ha ben analizzato il filosofo tedesco-coreano Byung-Chul Han, il cosiddetto “tempo libero” serve ormai come «mera pausa per tornare poi a essere ancora più prestanti lavorativamente». Il tempo libero, invece, dovrebbe essere «tempo di rottura dall’ordinario, tempo differente, tempo dell’esperienza di senso, tempo comunitario». La festa è «qualcosa di originario sia rispetto al tempo libero sia rispetto al tempo di lavoro», è «memoria di un tempo fondamentale per la comunità», memoria dell’origine e della meta (individuale e collettiva), «memoria della nostra identità originaria». Questo discorso a maggior ragione vale per la festa religiosa, nella quale «si fa memoria del tempo della salvezza». La festa è “a perdere”, «non segue una dinamica economica, eccede il quotidiano» e, come diceva Guardini, è di per sé «gioco: dà, cioè, senso e gratuità alla vita». E così, la liturgia «dà senso, ci fa vivere in un tempo sacro, nel tempo di Dio». L’aver tolto la festa – quindi – «ci fa vivere l’ansia di prestazione e ci fa essere succubi di tutto quel che bruciamo, cioè produciamo e consumiamo. Viviamo nel culto dell’attivismo, forma di idolatria in quanto pensiamo che tutto dipenda da noi e non da Dio», ha proseguito suor Massimi.
Nella liturgia legata al giorno di festa, «camminiamo, cantiamo e leggiamo in modo diverso». La liturgia, ricordandoci che esiste «un Ulteriore», è essa stessa «anticipazione dell’eternità, rallentamento del tempo e apertura a una dimensione altra». Nella liturgia, tutto – anche il tempo – diventa «simbolico». E tutto ci fa capire che «siamo fatti per la relazione con gli altri e con Dio. È un tempo santificato, quindi, il suo».
Così, anche la liturgia quotidiana, la Liturgia delle ore, possiamo viverla dalla lode mattina alla sera come cammino da una sempre rinnovata speranza, da un «sempre nuovo inizio», a un ritorno in sé per abituarci a prepararci alla morte. Un tempo di silenzio e di ascolto, come potrà essere l’Anno Santo alle porte: «tempo di speranza, di lode, di grazia, di letizia, di rinascita». Tempo santo e di pellegrinaggio, quindi – come detto prima riguardo la festa – tempo rallentato, di rottura, tempo condiviso coi fratelli e le sorelle, in una osmosi unica di «intensità vitale e contemplazione».
Andrea Musacci
Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 6 dicembre 2024
Mi chiamo Andrea Musacci.
Da aprile 2014 sono Giornalista Pubblicista, iscritto all’Ordine dei Giornalisti dell’Emilia-Romagna.
Sono redattore e inviato del settimanale "la Voce di Ferrara-Comacchio" (con cui collaboro dal 2014: http://lavoce.e-dicola.net/it/news - www.lavocediferrara.it), e collaboro con Filo Magazine, Periscopio e Avvenire.
In passato ho collaborato con La Nuova Ferrara, Listone mag e Caritas Ferrara-Comacchio.
-------------
"L'unica cosa che conta è l'inquietudine divina delle anime inappagate."
(Emmanuel Mounier)