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«Vi spiego come il nostro Duomo resistette al sisma nel 1570-1574»

22 Mar

Intervista a Marco Stefani, noto geologo e docente di UniFe: il racconto (anche inedito) dei danni

«Nonostante tutto, il Duomo ha retto bene sia agli eventi sismici del 1570 sia a quelli del 2012. Di certo, ci sarà bisogno di altri interventi per mettere maggiormente in sicurezza l’edificio». A dirlo alla “Voce” è Marco Stefani, geologo e Professore Associato del Dipartimento di Architettura di UniFe. Il 22 marzo alle 17 nella sede della CGIL Ferrara (piazza Verdi) interverrà sul tema “Il duomo di Ferrara e i terremoti del 1570 e 2012”, all’interno del ciclo “Riflessioni sull’ambiente” organizzato dall’Istituto Gramsci. Stefani in passato ha lavorato presso la Oxford University (GB), la Johns Hopkins University of Baltimore (USA), il Caribbean Marine Research Center (Bahamas), e l’I.F.P. di Parigi. 

«Quella di Ferrara – ci spiega – è una storia di terremoti, ne sono documentati una ventina che han prodotto danni agli edifici ma nessuno con conseguenze catastrofiche». Il primo risale al 1116-1117, in seguito al quale si decise di iniziare la costruzione dell’attuale Cattedrale. Gli eventi sismici registrati tra il 1570 e il 1574, in particolare tra il 1570 e il 1571, «sono quelli che han provocato più danni e più hanno influito sulla storia della nostra città». La stima è di alcune centinaia di morti, «ma poteva andare molto peggio». Si tratta anche, per Stefani, del «terremoto per l’epoca più e meglio documentato in Italia e nel mondo», grazie a diverse testimonianze, corrispondenze di ambasciatori, resoconti di sopralluoghi, richieste di restauri e successive visite pastorali. Quello che chiamiamo “terremoto del 1570” in realtà è «una lunga serie di fenomeni di debole o media intensità durati quattro anni». Il problema è che – a differenza del terremoto del 2012 – l’epicentro «era sotto la città di Ferrara e gli eventi sono stati tanti e ravvicinati tra loro», ma almeno «sono avvenuti a poche decine di km di profondità».

Per quanto riguarda il nostro Duomo, i danni – da quel che sappiamo – hanno riguardato, esternamente, sul lato settentrionale (via Gorgadello, attuale via Adelardi), un «timpano triangolare che è crollato negli edifici dal lato opposto della strada, per la precisione sopra il postribolo allora presente» (sede attuale della Pizzeria Osteria Adelardi), «provocando una decina di morti»; Mario Equicola negli “Annali della città di Ferrara” della seconda metà del XVI sec. scrive di questi danni «al frontespicio del Duomo verso Gorgadello, con ruina di una casa al’incontro di quello». Danni hanno registrato anche «alcune guglie, gli archi sul lato meridionale dell’edificio e la facciata, che è stata vicina al crollo». All’interno, invece, danneggiamenti si sono registrati nelle «due pareti del transetto», nella «parete dell’Altare del Crocifisso» e alle «torrette campanarie cilindriche» ai lati dell’abside, che sono crollate. Le conseguenze del sisma del 2012 le conosciamo bene. Ferrara non è dunque esente dal rischio sismico: non servono allarmismi ma una chiara consapevolezza di questa realtà.

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce” del 22 marzo 2024

La Voce di Ferrara-Comacchio

Vita di Nella Gandini, un sogno di canto libero interrotto troppo presto

27 Ott

La giovane ferrarese è tra i 191 morti dello spezzonamento americano del 10 giugno 1944. Vi raccontiamo la sua pur breve vita di promessa cantante lirica: un pezzo di storia della città

di Andrea Musacci

Aveva solo 24 anni Nella Gandini quando trovò la morte, assieme ad altre 190 persone, a causa dello spezzonamento delle forze armate americane sulla città di Ferrara. Una vita orribilmente stroncata assieme al suo sogno: diventare una grande cantante lirica, come il padre Napoleone e il cugino Angelo.

Vi raccontiamo questa storia inedita grazie soprattutto ai racconti di Savia Salmi, vedova di Giorgio Gandini, nipote di Nella. Una vicenda drammatica ma ricca di aneddoti ed episodi particolarmente interessanti, dove l’intimità delle persone e delle famiglie richiama fatti collettivi, e viceversa.

UNA FAMIGLIA FERRARESE

Nata il 21 gennaio 1920, era figlia di Napoleone e Maria Faccini.Suo padre, classe 1892, era cresciuto nel Borgo San Luca dove vivrà per alcuni anni (forse anche dopo sposato), prima di spostarsi con la famiglia in corso Porta Reno, 23, come risulta dalla carta d’identità di Nella del 1938 (dove si firma “Nella Maria Gandini”), e poi in via Ripagrande, 21 (dove oggi c’è l’hotel Maxxim), occupando qui un intero piano sopra i fratelli Cervi, storici “biciclai” ferraresi. Prima e durante la guerra, Napoleone gestiva una macelleria in via Gorgadello (l’attuale via Adelardi). Dai suoi documenti, risulta anche che Napoleone aveva vissuto in via della Luna, 23. La madre Maria, detta Edvige, amava invece ospitare nella sua casa per pranzo o cena, e a volte dando anche alloggio, giovani artisti e studenti universitari, anche amici dei figli, a cui a volte chiedeva di recitare alcuni versi.

Nello stesso documento di identità, di Nella si dice che fosse alta 1,69 m, «robusta» di corporatura, capelli e occhi «castani», fronte «media» e naso «concavo». Nelle foto dell’album di famiglia, spesso la giovane è assieme a una sua carissima amica, Wanda, riconoscibile per i folti capelli ricci.

Nella era la maggiore di quattro figli: gli altri erano Rino, padre di Giorgio (marito di Savia), più giovane di quattro anni; Giorgio, giornalista e storico; Giovanni, il più giovane. 

LA PASSIONE PER LA LIRICA

Il padre Napoleone, come detto, era baritono e usava il nome d’arte Nino Cavalieri. Cantò anche con Enrico Caruso. Anche suo nipote Angelo Mercuriali (1909-1999), figlio della sorella, era cantante d’opera (tenore, per la precisione) e veniva simpaticamente chiamato “voce d’Angelo”. Diceva sempre che doveva molto allo zio Napoleone, ed era sposato con il soprano Lina Paletti.

Nella, quindi, respirò fin da piccola quest’aria e volle seguire il padre e il cugino su questa strada: studiò a Padova e si esibì a Parma, Firenze, alla Scala a Milano, oltre che a Ferrara. Nel 1937, ad esempio, prese parte al “Lodovico…il Moro” con regia di Angelo Aguiari.

CLIENTE DEL “PICCOLO PARIGI”

Nella adorava collezionare piccole bambole che vestiva con abitini da lei stessa realizzati: acquistava dei “bustini” femminili di piccole dimensioni (parti di pompon per la cipria) che legava a coni di cartone usati come base e rivestiva con abitini che riproducevano gli abiti delle protagoniste degli spettacoli o forse di personaggi che lei stessa interpretava. Li usava come portafortuna e amava ammirarli poggiati sulla sua toeletta, chissà, forse anche fantasticando. 

I “bustini” (realizzati tra gli anni ’20 e ‘30) probabilmente li acquistava nel “Piccolo Parigi”, boutique in piazza Trento e Trieste vicina al Teatro Nuovo, per la precisione dove ora si trova l’entrata del negozio “Kasanova” (mentre le attuali altre due vetrine dello stesso, un tempo erano occupate dal negozio di abbigliamento per bambini “Cottica” e da un negozio di tessuti). Di proprietà di un certo Trevisani, il negozio (chiuso da una 30ina d’anni) prima si trovava in piazza Municipale, proprio sotto l’arco che divide questa da piazza Duomo e vendeva, fra l’altro, bigiotteria, pettini, profumeria, cerchietti per capelli per bambini, portachiavi e portasigarette. Il magazzino del “Piccolo Parigi” si trovava invece nella vicina via Contrari. L’illustratore Claudio Gualandi ci racconta come a metà anni ’70 lo visitò trovandoci, fra l’altro, gadget fascisti (spille, anelli) e un fez.

UNA VOCE SPEZZATA

I suoceri di Savia e altri parenti acquisiti han sempre parlato poco e malvolentieri della morte di Nella, per un pudore recondito o perché il dolore per il trauma vissuto minacciava sempre di riaffiorare.

Rino, fratello di Nella, è un partigiano o comunque collabora con i partigiani. Possiede un furgone con cui durante la guerra mette in salvo persone trasportandole fuori città. E forse trasporta anche partigiani, ricercati dai nazifascisti e armi. Forse per questo, per non esporla a rischi, il 10 giugno del 1944 non vuole caricare Nella in uno dei viaggi verso Porotto. Ma Rino – che è molto legato a lei – non può sapere che così la sta abbandonando a un’orrenda fine. Quando Rino torna da Porotto, lo spezzonamento in zona San Luca è già avvenuto: Nella viene colpita in via G. Fabbri presso il frutteto Tenani. Proprio il fratello Giorgio nel suo libro “Ferrara sotto le bombe” (Comune di Ferrara, 1999) racconta, forse riportando la testimonianza del fratello Rino: «Mia sorella aveva un grosso buco dietro l’orecchio, un largo squarcio sulla schiena, sul petto e sulla pancia, un piede amputato. Il suo impermeabile era intriso di sangue. Zeffira aveva la testa appoggiata su mia sorella e guardava il cielo, stringendo al petto il maglione di lana che stava sferruzzando, lordo di sangue. (…) Mia sorella Nella – continua il racconto – l’avevano distesa sul pavimento della cucina e noi la guardavamo con occhi impietriti. “Uomini, andate via! Dobbiamo lavarla e vestirla”, ci avevano intimato le donne del Borgo, spingendoci affettuosamente fuori (…).  Il giorno dopo il “Corriere Padano” (…) diede la notizia dell’inaudito massacro. “I gangsters nuovamente su Ferrara (occhiello) – Micidiale spezzonamento di inermi fuggiti nei campi (titolo)” (…). L’articolo scriveva: “(…) Il numero delle vittime sorprese all’aperto e senza possibilità di difesa è pertanto assai elevato. La pesante incursione ha avuto luogo nella mattinata” (alle ore 10.30, ndr)». Probabilmente quando muore, Nella è sola, anche se dall’elenco delle vittime risultano altre due donne (Nina Merli, 19 anni e Maria Grazia Schivalocchi), colpite anch’esse «nei pressi di via G. Fabbri». Nella forse si trovava in questa zona perché rifugiatasi da parenti di S. Luca dove il padre stesso era nato e cresciuto. 

Il “santino” funebre di Nella recita così: «Per te che hai spiccato il volo verso la più eccelsa e luminosa vetta, cantino gli angeli il cantico più bello, la melodia più dolce; perché tutto in te era arte, tutto era musica. L’Alma tua, aleggerà sempre sopra di noi indicandoci la via del bene. Tu pura, tu buona, come hai cantato fra gli uomini continuerai a cantare fra gli angeli».

Una Speranza infinita per questa ragazza strappata troppo presto al palcoscenico drammatico e sublime della vita.

Grazie a Claudio Gualandi e Linda Mazzoni per averci aiutato nella raccolta delle informazioni e delle immagini.

Pubblicato sulla “Voce” del 27 ottobre 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

Vittorio Cini fu un “figlio illegittimo”: ecco perché

8 Lug

Una vicenda quasi inedita: l’industriale, politico e mecenate ferrarese fu riconosciuto dalla madre solo a 13 anni, e dal padre a 18. La causa? Lei era già sposata. Indagine sull’infanzia di uno degli uomini più potenti del Novecento italiano

di Andrea Musacci

La vita di Vittorio Cini, si sa, è stata nelle grazie e nelle disgrazie una vita anomala…

Leggi l’articolo integrale qui: https://lavocediferrara.it/vittorio-cini-fu-un-figlio-illegittimo-ecco-perche0/

Diario di un prete di Comacchio nella tempesta di inizio ‘900

10 Giu

Le memorie di don Antonio Fogli sono state trascritte e pubblicate da Maurizio Marcialis in un libro: il sacerdote racconta la politica, la fame, la guerra e la fede di un popolo

di Andrea Musacci

Quel grande guazzabuglio che è stata l’Italia di inizio Novecento, con le sue passioni divoranti, la guerra che falciava vite, le epidemie, la sorda miseria, gli embrioni dei grandi partiti politici. E la fede in Cristo che non muore, pur iniziando a vivere come sotto assedio, odorando l’arrivo dell’ateismo diffuso.

A volte è più utile un diario personale che un pur più preciso e obiettivo manuale di storia, a descrivere tutto ciò. Per questo, i diari ritrovati del canonico comacchiese Antonio Fogli sono un documento alquanto prezioso, perché testimonianza non solo dei fatti storici, locali, nazionali e mondiali, ma anche un documento importante per capire la visione del mondo di un anziano prete a contatto con le miserie del suo tempo.

È grazie all’architetto Maurizio Marcialis, che questi diari sono stati editi nel volume “Diario di un curato di valle. Dal 1900 al 1921 del Canonico Antonio Fogli” (Gruppo Editoriale Lumi, 2020). L’autore ha presentato il libro lo scorso 29 maggio nella Biblioteca Ariostea di Ferrara assieme a Diego Cavallina e Alberto Lazzarini, quest’ultimo prefatore assieme ad Aniello Zamboni.

Marcialis ha ritrovato casualmente il manoscritto oltre 20 anni fa in un mercatino invernale a Cesena, trascrivendolo con minuzia durante il lockdown di tre anni fa. Nato nel 1842 a Comacchio, dove muore nel 1938, don Fogli – secondo di otto figli – viene ordinato sacerdote a Ravenna nel ’65. Nella sua città sarà canonico dopo esser stato arciprete a Mesola, Goro e Gorino, e poi a Codigoro.

Nel 1900 il sacerdote inizia il proprio diario già prevedendo i tumulti che investiranno anche la sua terra: «Dal 1899 al 1900 nella mezzanotte in tutte le cattedrali e chiese parrocchiali del mondo cattolico si cantò la messa e il Tedeum. Nei primi dell’anno fu innalberato su i principali monti il vessillo della Croce e in molti luoghi elevati la statua del Redentore. Ah! Si prevedeva che nella corrottissima società si sarebbero svolti fatti eccezionali: epperciò fin da allora si scongiurava la divina Misericordia a salvare religione e società dal massimo pericolo».

L’ODIO POLITICO: DALLE VIOLENZE SOCIALISTE ALL’ARRIVO DEL FASCISMO

Un umile, pur dotto, prete di provincia, non poteva non avere una visione del movimento socialista esclusivamente come ateista e dedito alla violenza contro l’ordine costituito. Sua fonte, dalla quale a volte ritagliava anche articoli che inseriva nel proprio diario, era il giornale cattolico locale “La Domenica dell’operaio”. Nel 1912 a Comacchio viene linciato Demetrio Faccani, guardia valliva proveniente da Alfonsine. Don Fogli ne parla così: «Lo sciopero indetto dalla brutta peste dei Socialisti, che raccogliendo il fango delle piazze si nutriva di passioni e di odi feroci, si convertì in atto sanguinesco di crudeltà». Nel 1919 scrive: «I socialisti fanno dovunque atti di violenza contro le persone dabbene, contro il Clero, contro le Chiese e seminano contro le più sacre funzioni lo scompiglio e perfino le morti. Quasi la nazione viveva meglio nel tempo della guerra, se la perdita di tanti carissimi giovani non l’avesse addolorata». 

Nel 1919 si affaccia la speranza grazie al neonato Partito Popolare Italiano: «Un partito però dell’ordine che richiamava i principi cristiani sorse per incanto e, sebben bambino, e contrastato con tutte le arti maligne prese un posto dignitoso sorpassando per numero gli altri partiti e mettendosi di fronte ai Socialisti». 

Ma nel febbraio del ’21, vede nel nascente squadrismo fascista una reazione giustificata alle violenze socialiste: «I grandi soprusi, le soverchierie, le barbarie commesse dai socialisti, che hanno innalzato il regno del terrore» nel nostro Paese, e che il governo «è impotente ormai a frenare: ha fatto sì che nei popoli è nata una reazione contro di loro e per bisogno di difendere la libertà sono sorti i fascisti». Ma poco dopo avrà modo, almeno in parte, di ricredersi: «Introdottisi nei fascisti degli elementi sovversivi, e può dirsi anche criminabili, non si fermò più il fascismo alla giusta difesa del popolo e de’ suoi diritti, ma a sfogare con violenza gli odi personali». Nell’agosto dello stesso anno scrive: gli uomini «non ascoltano sacerdoti, anzi li guardano come nemici: non vanno più in chiesa, epperciò il Signore li abbandona ai loro partiti diabolici».

LA CARNEFICINA DELLA GUERRA

Don Fogli vive la guerra innanzitutto come peste che distrugge le vite della povera gente, costretta a partecipare al massacro, o di cui ne subisce le conseguenze. Non manca però il sentimento nazionalista; l’Austria, scrive, «teneva la nostra penisola come una serva da strapazzo». 

Ma il 6 luglio 1915 accenna a un episodio che ben spiega il clima bellico: «Alle 15 vengono arrestati tutti i frati del Convento dei Cappuccini e scortati a Ferrara sotto l’iniqua imputazione di fare segnalazioni al nemico». Don Fogli incolpa di ciò «la camorra brutale della massoneria». I frati verranno liberati senza processo 24 giorni dopo.

Nelle sue memorie accenna anche ai bombardamenti nemici, come quello nel 1916 a Codogoro: «altra barbarie» commesse dagli austriaci «con l’intenzione malefica» di bombardare l’idrovora e il vicino zuccherificio. Morirono 5 persone fra cui una bambina, 2 i feriti. Nel giugno ’17 riporta di altre incursioni aeree sopra Codigoro e poi sopra Comacchio: gli aerei nemici «li abbiamo veduto girarci sopra: ma anche in tal occasione la Madonna ci ha salvato: e a quegli uccellacci, portatori di rovine e morte, ha intimato: vade retro satana». Il 4 novembre 1918, con l’armistizio di Villa Giusti che sancì la resa dell’Impero austro-ungarico all’Italia, finisce la guerra: «vittoria grande incredibile» dell’Italia sull’Austria, scrive il sacerdote. L’Austria «ha abbassato la sua testa grifagna» davanti al nostro Paese. 

LA MISERIA: «TUTTO È SECCO, TUTTO MUORE»

La tragedia del conflitto mondiale, unita all’inclemenza della terra, gettano il suo popolo nella povertà più assoluta. Nel luglio 1916 scrive della siccità: «Sono tre mesi dacché non piove (…). Tutto è secco, tutto muore. Frumentone è andato, faggioli sono perduti: muoiono disseccati perfin gli alberi, e alle viti crolla l’uva». Mentre a novembre dello stesso anno, è l’esatto contrario: «Rovesci di pioggia continua han fatto temere rotte ed ancora non siamo fuori di pericolo. Burrasche di mare prodotte da fortissimi scirocchi hanno portato le onde sopra le dune di Magnavacca». A gennaio ’17, una nuova inondazione: «Quasi tutti i piani terreni delle case hanno l’acqua dentro».

A ciò si aggiungerà l’epidemia di spagnola tra il ‘17 e il ’18, che «sempre più infierisce e miete giovani vittime (…). Si indicano preparativi, disinfettanti. (…) Conseguenza della guerra! (…)». Le precauzioni ricordano, pur con le dovute differenze, ciò che abbiamo vissuto col Covid: le limitazioni di movimento e di assembramento, il divieto di stringersi la mano, i consigli ad arieggiare frequentemente le abitazioni, a proteggere gli ammalati, a rimanere in casa per ogni minima indisposizione, a fare lunghi periodi di convalescenza.

La guerra farà il resto; a fine 1916 scrive: «Decreti sopra decreti limitano i generi più necessari. La carne, i salumi non si possono vendere che tre volte la settimana: le ova si vendono in Comune; il latte è requisito. Il pane non si può mangiare che vecchio. Vino non ce n’è più e solo un poco a £2 il boccale. L’acqua scende e minaccia innondazione (…). La caccia è proibita (…). La pesca di mare è proibita. Poi notizie sempre dolorose e mai un barlume che accenni la pace. O gran Dio salvaci da tante torture!». 

MARIA, MADRE NOSTRA, AIUTACI!

Quella «divina Misericordia» implorata a inizio secolo, sarà sempre presente nel suo cuore, come in quello della sua gente. Nel maggio del ’17, di fronte a così tanti orrori e tragedie, racconta di come «nel popolo comacchiese sorse il desiderio ardente di muovere la vetustissima e sempre venerata immagine di Maria SS.ma in Aula Regia». Ma il Vescovo non poteva permetterlo dato il divieto, in tempo di guerra, di processioni pubbliche. Si decise, quindi, di portarla in Duomo a mezzanotte del 30, di nascosto, scortata dai carabinieri. «Nonostante però tali precauzioni molta parte della popolazione ne aspettò il trasporto che arrivato alle porte della cattedrale, eruppe da ogni petto il grido di “Evviva Maria”».

Un episodio che dice, a distanza di un secolo, di come la devozione popolare, la fede mai sradicata dall’anima del nostro popolo, in tempi bui possa essere, ancora, l’estremo rifugio, l’unica vera àncora di salvezza.

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 9 giugno 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

(Foto: bambini sul Ponte Pizzetti, posto di lato alla facciata della chiesa del Carmine, nel 1920. Grazie a Maurizio Marcialis)

L’ebraismo ferrarese tra memoria e futuro

23 Mag

Asti, 16 aprile 1938: al centro Ermanno Tedeschi con la moglie Magda Tedeschi. Al fianco di Ermanno la sorella Aurelia con il marito Guido Debenedetti.  Seduto, con le mani sulle ginocchia, Marcello Tedeschi con la cugina Alda Debenedetti Jesi

“Una racchetta da tennis racconta. Ricordi familiari della Ferrara ebraica” è il nuovo libro di Ermanno Tedeschi: aneddoti e riflessioni

di Andrea Musacci

Tutta la vita in una racchetta da tennis. È possibile? Forse sì. Ma, si badi bene, non si intende concentrare un’intera esistenza dentro un pur nobile gioco ma, in questo, vedere l’essenza della vita vincere sulla morte, la compagnia, la gioia e la condivisione trionfare sullo spirito demoniaco. Insomma, la fede e la speranza avere l’ultima parola nonostante l’immagine tragedia della Shoah.

Questo ha voluto trasmetterci Ermanno Tedeschi, curatore, critico d’arte e scrittore torinese di origini ferraresi, nel suo nuovo libro “Una racchetta da tennis racconta. Ricordi familiari della Ferrara ebraica” (Silvio Zamorani editore, Torino, 2023). 

Il libro è stato presentato il 22 maggio al MEIS con interventi di Umberto Caniato (Presidente del Circolo Marfisa), Luciano Meir Caro (Rabbino capo di Ferrara), Dario Franceschini (Presidente Giunta elezioni e  Immunità parlamentari), Marcello Sacerdoti, Amedeo Spagnoletto (Direttore MEIS) e Silvio Zamorani (editore).

LA MEMORIA

Le radici estensi di Tedeschi sono nel ramo paterno: il padre Marcello si era trasferita da giovane a Torino per esercitare la professione di medico. Nel capoluogo piemontese a fine anni ’50 ha conosciuto e poi sposato Elsa Momigliano: dal loro amore, oltre a Ermanno sono nati Lino e Arturo. «Le radici ferraresi ereditate da mio padre sono sempre state molto forti in me e in tutta la mia famiglia», spiega Ermanno Tedeschi. Così, il fine settimana era rituale trascorrerlo a Ferrara: «allora non esisteva il Freccia Rossa e il viaggio era lungo, ma la gioia di vederla e respirare l’aria della grande casa di via Bersaglieri del Po facevano dimenticare ogni fatica. Durante quelle visite, non mancavamo mai di entrare nel negozio di giochi, in sinagoga, di andare al ristorante, da Giovanni o alla Provvidenza, e, naturalmente, al cimitero ebraico per recitare una preghiera sulla tomba del nonno Ermanno».

Ma il racconto più affascinante nel libro è quello di Marcello Tedeschi, padre di Ermanno, morto nel 2020, figlio di Magda ed Ermanno.

Marcello raccolse le proprie memorie dieci anni fa: ricordi amari ma sempre innervati da una tenacia che lo ha portato a superare ogni sorta di difficoltà. A partire da quel maledetto anno 1938: «eravamo in vacanza a Rimini quando fu annunciata l’imminente promulgazione delle leggi razziali. Stupore, smarrimento, tristezza, previsioni fosche. Era un fulmine a ciel sereno. In quegli anni abitavamo a Venezia (…). Comunicarono a mio padre che era stato sollevato dal suo lavoro per telefono. Andò quindi nel suo ex ufficio alla stazione Santa Lucia per gli adempimenti del caso. Alcuni dei colleghi avevano gli occhi lucidi. Io ho frequentato il liceo fino al fatidico 1938. Un giorno ho trovato nel grembiule nero un biglietto con sopra scritto “S. P. Q. E.” (Sempre Porci Questi Ebrei)». Poi, «da Venezia ci trasferimmo a Ferrara nella vecchia residenza di via Bersaglieri del Po 31. Per anni, fino alla fine del 1943, abbiamo trascorso una vita grigia di apartheid». 

Tedeschi racconta di quando fortunosamente scampò al rastrellamento dei poliziotti italiani e dei militari tedeschi. E poi la famiglia che si rifugia nella cascina di Porotto, dove ascoltano Radio Londra, poi a Sabbioncello San Pietro grazie all’aiuto di un dirigente fascista locale, e poi a Loano nel savonese, a Demonte vicino Cuneo, in una drammatica e avventurosa fuga per raggiungere la Svizzera. E quel bigliettino gettato dal carro bestiame dal fratello di Marcello, Arrigo, che purtroppo non ce la farà e morirà ad Auschwitz nell’ottobre ‘43.

Marcello e la sua famiglia, invece, riuscirono a tornare in Italia, prima a Firenze in un campo per rifugiati, poi a Ferrara.

IL FUTURO

Sulla Comunità ebraica ferrarese nel libro emergono alcuni spunti interessanti. «Dopo la Liberazione – scrive l’autore -, la comunità ebraica ferrarese è decimata e in totale declino. Oltre a quelli uccisi barbaramente dai nazi-fascisti molti avevano lasciato la città prima del 1938 per trovare lavoro altrove o all’estero. Oggi la comunità ebraica di Ferrara conta circa ottanta iscritti tra cui alcuni che vivono a Cento, Forlì, Lugo e Ravenna o in altre città in Italia e all’estero. Il tempio viene regolarmente aperto per le funzioni di Shabbat e delle festività principali anche se si fatica a raggiungere il numero di dieci uomini necessario per la celebrazione delle preghiere». 

E l’avv. Marcello Sacerdoti, figlio dello storico Rabbino Simone, spiega: «il futuro purtroppo non è esaltante, i numeri diminuiscono, non ci sono giovani, e il destino pare segnato. Desidero però evidenziare che già in passato in piccole comunità si è assistito all’immigrazione di ebrei provenienti da Paesi dove venivano discriminati (per esempio Egitto, Libia). (…) Quando ho ricoperto la carica di consigliere mi sono “dannato” per far venire un paio di famiglie a ripopolare la comunità. Purtroppo non si è arrivati a niente. (…) Il MEIS, un paio di famiglie (anche all’estero, vedi Venezuela, Argentina, ex Jugoslavia, Ucraina) potrebbero dare nuova linfa ed entusiasmo». 

L’attuale Rabbino Capo Luciano Meir Caro, invece, riflette così: «C’è un futuro per le piccole comunità? La risposta non è facile. Ritengo che negli anni passati qui, analogamente a quanto accade in comunità grandi e piccole, il problema non è mai stato affrontato come esigenza prioritaria. Inoltre nel tempo sono venuti a diminuire drasticamente i numerosi studenti israeliani ed ebrei che frequentavano la nostra comunità. La partecipazione alla vita religiosa è scarsa ma in linea con quanto avviene altrove. (…) La speranza è che l’afflusso di qualche famiglia ebraica da altre comunità concorra a garantire un futuro a un’istituzione prestigiosa che ha dato importanti contributi alla cultura italiana».

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 26 maggio 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

San Benedetto, avanti coi lavori nell’antico convento

17 Gen

È una storia tormentata quella del recupero del complesso di corso Porta Po a Ferrara: ecco le vicende conclusesi (si spera) col cantiere avviato lo scorso maggio. Diventerà la nuova sede dell’Agenzia delle Entrate (ma il progetto era un altro)

di Andrea Musacci

La vicenda riguardante i lavori di restauro e risanamento conservativo del complesso “Ex Convento San Benedetto” è una di quelle che sembrano non aver fine. 

Siamo su corso Porta Po a Ferrara, alle spalle della chiesa e del complesso diretti dai salesiani. Qui dietro, fervono i lavori per ridare stabilità e bellezza a quest’enorme area – due chiostri, piano terra e due piani rialzati – fatta edificare nel XII secolo per volere di Matilde di Canossa. Il cantiere, avviato lo scorso maggio, vede l’impresa Lupo Rocco spa di Roma come aggiudicataria e il Provveditorato alle Opere Pubbliche per l’Emilia Romagna-Marche come stazione appaltante dei lavori. Parliamo di 7300 metri quadri destinati da quasi 10 anni a diventare la nuova sede degli uffici dell’Agenzia delle Entrate attualmente in affitto in via Maverna (zona Arginone) e in viale Cavour. La durata dei lavori prevista è di due anni e mezzo, quindi fino a fine 2024, per un importo di 7milioni e 966mila euro. Alla guida del cantiere, l’ing. Antonio Costigliola (Direttore Tecnico), il geom. Alberto Coianiz (Capocantiere) e l’arch. Maurizio Ciampa (Direttore dei lavori). 

Lavori tanto attesi non solo dai residenti del quartiere, ma dall’intera cittadinanza, vista l’importanza storica, artistica e strategica del complesso. Per anni, i chiostri e gli interni sono stati infestati da erba alta, cumuli di macerie, buchi, crolli di parte della copertura. Le colonne erano rovinate, i cotti d’ingresso alla Sala Capitolare deteriorati. Non sono mancate rimostranze da parte di cittadini e polemiche a carattere politico. Ma ripercorriamo brevemente l’ultimo secolo di vita. 

Da centro di tante attività a luogo abbandonato

Nel 1912 il Demanio tratta la cessione della proprietà con il Seminario Arcivescovile e il Convento è concesso in uso gratuito per 29 anni ai Salesiani. Durante la seconda guerra mondiale la chiesa viene quasi completamente distrutta e il primo chiostro subisce danni talmente gravi da essere in seguito demolito. Dopo i lavori, il 21 marzo 1954 il tempio di S. Benedetto viene riconsacrato da mons. Bovelli e dal Card. Schuster. 

Nel dopoguerra la corte del convento diventa anche la casa della storica coppa di calcio “Don Bosco”. Nel 1965 lo Stato autorizza la vendita di una parte del convento a favore dell’Istituto Salesiani della Beata Vergine di S. Luca. Nel ’74 viene ristrutturato ad uso scolastico mentre la casa dell’ortolano ospita l’ostello della Gioventù. Nel ‘78 torna al Demanio e nell’84 il Comune chiede al Demanio il trasferimento patrimoniale dell’ex‑collegio e contemporaneamente l’uso immediato per installare al piano terra la scuola alberghiera e ai piani superiori ricavare delle aule per gli istituti scolastici. Ma non se ne farà niente. 

Fino al 2002, lì avrà la sua sede la Contrada di San Benedetto e fino al 2015 il SAV – Servizio Accoglienza alla Vita. È del ’91, invece, il progetto di riconversione a studentato, che poi però l’università ricaverà lì vicino, in via Ariosto. Nel frattempo, tra autunno ’98 e fine 2000 si concludono il ripristino del sagrato della chiesa, la sistemazione dei campi sportivi dell’oratorio e la ricostruzione ex novo di un nuovo oratorio.

Pochi anni dopo, nel 2002, l’Università degli studi di Ferrara – attraverso il DIAPReM – Centro Dipartimentale per il Restauro dei Monumenti, Dipartimento di Architettura – compie un rilievo dettagliato della struttura, in vista del progetto di restauro e di riqualificazione. Lo stato di abbandono dà, giustamente, scandalo: nel 2003 Maria Chiara Lega (volontaria del SAV) crea un Comitato spontaneo di cittadini per la salvaguardia dei chiostri e dell’intero ex convento. Fra gli aderenti, Giorgio Franceschini e Giuseppe Gorini. Diverse sono le diatribe tra Comune e Demanio sull’appartenenza dei vari spazi attigui alla canonica e alla chiesa. Nel 2006 si parla anche di un interessamento del Conservatorio per trasferirvi lì la propria sede. Ma l’allora Sindaco Gaetano Sateriale ha già un accordo con l’Agenzia delle Entrate, che nel 2008 riceve dal Demanio l’ex Convento per la realizzazione del Centro di Formazione Nazionale dell’Agenzia, con aule studio, una sala convegni, aule di formazione, una biblioteca, un ristorante, camere per gli ospiti. A bando nel 2013 ci sono ben 13milioni e 600mila euro di lavori. Ma la spending review bloccherà tutto. Inutile il tentativo fatto dall’allora Amministrazione comunale con il governo Renzi di inserire il progetto nello “Sblocca Italia”. 

Arriviamo agli ultimi anni: nell’aprile 2019 esce un nuovo bando di gara per la “Verifica della progettazione esecutiva dei lavori di restauro Ex Convento San Benedetto”. L’anno successivo viene assegnata la gara d’appalto. Ma è dovuto passare un altro biennio per vedere l’apertura del tanto agognato cantiere. 

La struttura e i lavori da svolgere

L’accesso principale al convento di San Benedetto avviene da corso Porta Po, 81. Il primo chiostro –  detto “delle colonne quadrate” –  è collocato lungo il fianco della chiesa e si presenta a pianta quasi quadrata con porticato e un pozzo al centro. Il secondo chiostro, invece – detto “della grande cisterna” per la presenza di un pozzo con cisterna al centro della corte – è rettangolare e più grande rispetto al primo. Scavi archeologici hanno portato alla luce l’antica pavimentazione del chiostro in mattoni. I due chiostri sono uniti da un doppio porticato, demolito e ricostruito negli anni ’50 del secolo scorso dopo i bombardamenti.

Per quanto riguarda gli interni, al piano terra, in alcuni punti rimane qualche lacerto di decorazione a calce e a tempera. Nella parte orientale (antirefettorio) spicca la Sala Pomposia con affreschi cinquecenteschi, attribuiti forse in modo non corretto a Dosso Dossi: in particolare, il soffitto affrescato nel 1578 con la “Gloria del paradiso” (dov’è ritratto anche l’Arisoto), è stato “incerottato” nel 2004 per evitarne la rovina. Altre tracce di decorazioni originali si notano nella “Sala Verdi” al secondo piano.

Perché il restauro è necessario

Al piano terra sono state rilevate gravi patologie di degrado – anche degli elementi decorativi in cotto, degli elementi lapidei, delle superfici intonacate – connesse con fenomeni di risalita capillare di umidità dal terreno (la cosiddetta “umidità di risalita”), con conseguente insorgenza di fenomeni di disgregazione delle superfici, esfoliazione e parziali distacchi. 

Ancor più rilevanti sono le problematiche relative ai dissesti strutturali, derivanti sia Dall’azione antropica e dagli interventi di trasformazione succedutisi, sia dallo stato di degrado dovuto all’abbandono e all’incuria, sia dagli eventi sismici recenti.

Tutte le coperture antiche sono gravemente danneggiate ed esercitano importanti carichi sulle colonne del chiostro, mentre quelle di recente fattura non rispondono comunque alle attuali normative antisismiche. Gli orizzontamenti in legno sono ammalorati e per la maggior parte interessati da crolli diffusi.

Il Recupero avrà quindi lo scopo di tutelare il complesso monumentale nel suo insieme e consentirne la leggibilità storica, con riguardo alla complessità delle sue fasi cronologiche. L’intervento conservativo servirà a preservare i caratteri architettonici e decorativi del monumento per il loro corretto mantenimento e trasmissione al futuro.

I primi 4 secoli Da Ercole I a Napoleone

Nel 1457 il duca Ercole I d’Este concede il complesso ai benedettini della Congregazione Cassinese di S. Giustina che venne poi unita a quella di Pomposa.

La costruzione del tempio di San Benedetto inizia nel 1496 in un’area donata dal duca Ercole I d’Este ai Benedettini. I primi capimastri chiamati a lavorare alla costruzione sono Girolamo da Brescia e Leonardo da Brescia, anche se lo schema generale e i muri perimetrali vengono attribuiti a Biagio Rossetti. Nel 1501 il primo chiostro “dell’Abate”, al quale si accede direttamente dal sagrato della chiesa, è concluso. L’anno successivo viene iniziato il secondo chiostro, detto delle “Colonne Quadrate”. I lavori sul convento riprendono nel 1517, con l’ultimazione dei chiostri e dei dormitori necessari per ospitare i monaci dell’Abbazia di Pomposa. Nel 1551 viene realizzato il terzo chiostro, più monumentale, denominato “della cisterna grande”.

Nel 1553 i Benedettini si trasferiscono nel nuovo convento, quasi completamente ultimato e dieci anni più tardi viene consacrata la chiesa. Nel 1797 i frati vengono cacciati dalle truppe napoleoniche, che trasformano il complesso in caserma e ospedale militare con il conseguente degrado di opere d’arte e arredi. Nel 1801 la tomba di Ludovico Ariosto viene solennemente traslata da S. Benedetto a Palazzo Paradiso, per ordine del comandante delle truppe francesi generale Mirollis.

Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del secolo successivo il complesso viene utilizzato sempre meno, sino a versare in completo stato di degrado.

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 20 gennaio 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

Vittorio Cini «proteso verso la luce di Dio»: Ferrara e la fede ritrovata

11 Gen

Il conte che si riscoprì cattolico. Imprenditore, politico e mecenate ferrarese, negli anni ’40 ritrovò la sua fede cristiana. Un aspetto della sua vita ancora poco indagato

di Andrea Musacci

Vittorio Cini (1885-1977), politico, imprenditore e mecenate nasce proprio in quella che poi diventò Casa Cini in via Boccacanale di Santo Stefano, 24 a Ferrara. La sua, è stata una vita grandiosa e tragica, che ha segnato la storia della nostra città e dell’Italia per buona parte del Novecento. Massone, poi cattolico “rinato”, ministro fascista e poi sostenitore della Resistenza, uomo d’affari e amante del bello, Cini non perse mai il suo profondo legame con la città natale. 

Casa Cini e i dialoghi coi gesuiti

Dopo la seconda guerra mondiale, la deportazione a Dachau e, soprattutto, la morte del figlio Giorgio, fanno maturare in Vittorio Cini una non scontata rinascita del sentimento religioso. Una “nuova conversione” che lo porta ad abbandonare la Massoneria – a cui fu legato per molti anni nella nostra città -, a creare la Fondazione Giorgio Cini nell’isola di San Marco a Venezia e, a Ferrara, nel ‘50 a donare il palazzo di Renata di Francia all’Università e la casa di famiglia di via S. Stefano alla Provincia Romana della Compagnia di Gesù in onore del figlio scomparso. Con una clausola: di farne un centro culturale e di formazione educativa e morale dei giovani.

La donazione della casa paterna («la mia casa», continuò poi a chiamarla) ai Gesuiti avviene per esplicito interessamento dell’Arcivescovo Bovelli. Presenza, quella dei Gesuiti, che si concluderà nel 1984 con la donazione dell’immobile, degli arredi e della biblioteca all’Opera Archidiocesana della Preservazione della Fede e della Religione, che ancora l’amministra. Due lettere presenti nell’Archivio storico della nostra Diocesi attestano del rapporto tra Cini e l’allora Vescovo Bovelli. Quest’ultimo il 13 febbraio 1950 gli scrive a tal proposito: «Ferrara ha bisogno, estremo bisogno di queste opere: la Provvidenza si è servita di Lei ed io ne gioisco e ringrazio dal profondo del cuore. Però la gioia del dono è diminuita al pensiero che ella voglia rompere completamente i legami con la città natale: ciò sarebbe per me veramente doloroso. Penso però che se anche lontano colla persona, ella sarà con noi col cuore. Vicino all’amato figliuolo che ancora ricordiamo e raccomandiamo al Signore». Il 29 dicembre dello stesso anno, il conte scrive al Vescovo: «Sono sicuro che l’opera affidata al fervido zelo dei benemeriti Padri della Compagnia di Gesù darà frutti sempre più fecondi di bene, tali da confortare la Ecc. Vostra nel Suo apostolato».

Ma il legame di Cini con Ferrara non si interrompe con la donazione della casa di famiglia. Racconta Alessandro Meccoli su “Ferrara. Voci di una città” (n. 7/1997): «Vi si recava, puntualissimo com’era in tutto, ogni primo venerdì del mese. Qualche volta l’ho accompagnato: si andava al cimitero, dove oggi anch’egli riposa accanto ai suoi cari; poi a gustare la salama da sugo dal notaio Brighenti; quindi nella sua casa natia, da lui donata alla Curia e trasformata in centro culturale». Il gesuita p. Vincenzo D’Ascenzi scrive sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 25 novembre 1978: «veniva a Ferrara puntualmente ogni mese, ogni primo del mese, con qualunque stagione entrava di mattina presto in Certosa, ascoltava la Messa in suffragio dei suoi cari Giorgio padre, Giorgio figlio e Lyda Borrelli consorte, la nota attrice (…). In questa occasione veniva spessissimo a rivedere la sua casa paterna che amava come la “sua casa”, ne conosceva la storia mattone per mattone. Si intratteneva volentieri in conversazione con i padri di Casa Cini scherzando amabilmente e argutamente». Sembra che dormisse nel suo vecchio “appartamento”, dove ora ha sede la Cattolica assicurazioni. Ma in questa testimonianza, più unica che rara, emerge la fede del conte Cini: «Mai che avesse parlato di problemi economici e amministrativi», continua D’Ascenzi; «amava parlare piuttosto dell’uomo, del futuro del mondo, della necessità di portare gli uomini ad incontrarsi al livello mondiale; della funzione della cultura per l’unificazione e la pace dei popoli. Ma spesso parlava di temi religiosi: della fede, dei valori, e della sua fede inquieta». 

Molto più riservato, su questo tema, era con altre persone, come ci testimonia Maurizio Villani, storico frequentatore di Casa Cini, dove ha anche insegnato nell’Istituto di Scienze Religiose: «da giovane lo conobbi personalmente ed ebbi con lui diversi incontri, tutti di argomento storico, economico o artistico. Sulla sua “conversione” ha sempre mantenuto assoluto riserbo». Coi padri di Casa Cini, invece, l’approccio era diverso: «Specialmente quando ci si trovava in conversazione intima era capace di affrontare il discorso della fede in termini del tutto personali e inediti», scrive ancora p. D’Ascenzi nel sopracitato articolo. «Cini, dietro quel sorriso aperto e accogliente, era un uomo inquieto e l’inquietudine più profonda era forse quella della fede; voleva credere come un bisogno istintivo che non riusciva a giustificare razionalmente. Un animo profondamente pascaliano; a Pascal infatti si riferiva spessissimo. Era anche innamorato di Teilhard de Chardin (…). Non potrò dimenticare l’intensità e la profondità di questo animo – prosegue – capace di entrare spietatamente entro sé stesso giudicandosi con estrema severità; capace di guardare il mondo e la storia (…) oltre la contingenza; capace soprattutto di guardare oltre la storia, verso la Trascendenza, proteso chiaramente verso la luce di Dio». 

Prosegue poi D’Ascenzi: «Si occupava del resto, del mondo finanziario, sì; ma quel mondo era fuori della dimensione del suo spirito; anzi oso dire che guardava quel mondo con un certo occhio di disgusto e di disprezzo, come la zavorra che ci portiamo dietro nella vita come terreno del peccato». 

Donazioni per la nostra Diocesi

Il sostegno economico di Cini per la Chiesa di Ferrara non si concluse con la donazione della Casa di S. Stefano. Lo attestano alcune lettere che abbiamo ritrovato nel nostro Archivio diocesano. Partiamo dagli aiuti economici che Cini fece nel 1942 a favore degli Olivetani di San Giorgio e delle Benedettine di Sant’Antonio in Polesine. In una missiva a Cini del 25 agosto 1942, l’allora Vescovo  Bovelli scriveva: «Le buone Monache Benedettine, come pure i Monaci Olivetani a S. Giorgio mi hanno messo al corrente dei progetti magnanimi che V. E. ha ideato per venire incontro alla indigenza di quei poveri locali da essi abitati. Sento quindi il dovere di rivolgermi (…) a V. E. e dopo aver ringraziato Iddio che ha saputo ispirare a sì munifico benefattore tale urgente indispensabile necessità, ringraziarvi dal più profondo del cuore».

Undici anni dopo, sarà una delle figlie di Cini, Yana, a offrire donazioni alla nostra Chiesa locale. Da tramite farà il padre, che il 12 febbraio 1953 scrive a mons. Bovelli: «in occasione delle sue nozze mia figlia Yana desidera fare alcune elargizioni benefiche: e non può, naturalmente, dimenticare Ferrara. Le invia, mio tramite, l’accluso assegno di E. 2.000.000, che La prega distribuire come Ella meglio crederà, avendo presenti anche la Parrocchia di S. Stefano e la “Casa Giorgio Cini”».

Una settimana dopo, il Vescovo gli risponde che oltre a S. Stefano e a Casa Cini («una fucina di bene intelligente e fattiva e sta imponendosi alla Città»), hanno beneficiato dell’elargizione di Yana le Benedettine, il «povero» Monastero delle Carmelitane di Borgo Vado, «le quali versano in miseria e sono tutte malate», il Seminario «ed alcuni chierici poveri che sono a carico della Diocesi». Le Monache di entrambi gli ordini scriveranno al Conte per ringraziarlo dell’aiuto.

Progetto mancato a San Giorgio?

Un aneddoto molto interessante riguarda anche il Monastero di San Giorgio a Ferrara. In un’intervista al nostro Settimanale del 28 maggio 2021, padre Roberto Nardin, olivetano, ci spiegò perché, probabilmente, il conte alla fine scelse Venezia e non Ferrara per il suo progetto del polo culturale e della Fondazione: «Dalla testimonianza di alcuni monaci che hanno vissuto nel monastero di S. Giorgio di Ferrara durante la seconda guerra mondiale e nell’immediato dopoguerra, si può affermare che Vittorio Cini avesse intenzione di ricostruire completamente il monastero olivetano quasi totalmente distrutto a seguito delle soppressioni di fine ’700, per riportarlo allo stato originario, con l’intento, probabilmente, di costituirvi una fondazione, come poi avvenne a Venezia, dedicandola al figlio di nome Giorgio, prematuramente scomparso in un incidente aereo nel 1949. È doveroso precisare – prosegue – che la testimonianza dei monaci, che io stesso ho sentito, riferiva dell’intenzione del Cini di ricostruire il monastero, non della Fondazione. Tuttavia è molto verosimile che l’intento ultimo fosse proprio la costituzione della Fondazione, perché essa divenne realtà a Venezia dopo pochi anni, nel 1951, e in un monastero ancora dedicato a S. Giorgio, lo stesso nome del figlio, dopo ampi lavori di ristrutturazione. Il progetto che Cini intendeva realizzare con il monastero di S. Giorgio di Ferrara lo possiamo concretamente vedere, quindi, in ciò che è stato realizzato nel monastero di S. Giorgio a Venezia».

Albino Luciani amico fraterno e quel sogno dell’isola

Accennavamo prima al rapporto di Vittorio Cini con Venezia, sua patria d’adozione, e luogo dove si spense nel ‘77.

Per onorare la memoria del figlio Giorgio – morto il 31 agosto 1949 nel rogo del suo aereo all’aeroporto di Cannes, sotto gli occhi della fidanzata Merle Oberon – Vittorio riscatta dal degrado la famosa isola di San Giorgio, dove dà subito inizio a imponenti lavori di restauro del vecchio convento dei Benedettini, riuscendo, inoltre, a rintracciare e recuperare, con una spesa enorme, le antiche biblioteche e rarissimi mobili sparsi in tutta Europa. Qui nasce la Fondazione Giorgio Cini che, come accennato, avrebbe forse dovuto nascere nel Monastero olivetano di S. Giorgio a Ferrara. Così, nel ’57, i Benedettini fanno ritorno a S. Giorgio a Venezia, dopo esservi stati sfrattati da Napoleone. Cini viene, inoltre, nominato Primo Procuratore di S. Marco tra il 1955 e il 1967 (la più prestigiosa carica vitalizia della Repubblica di Venezia, subito dopo il Doge), durante la quale appoggia importanti restauri nella Basilica di S. Marco. In questi anni instaura anche un intenso rapporto con i pontefici Giovanni XXIII e Paolo VI. Cini, inoltre, fu per oltre mezzo secolo parrocchiano della chiesa dei Gesuati alle Zattere.

L’amicizia con Albino Luciani

Albino Luciani, poi divenuto papa Giovanni Paolo I, dal ’69 al ’73 è Patriarca di Venezia. In quanto tale, era membro d’ufficio del Consiglio Generale della Fondazione Cini. Come citato da Stefania Falasca (articolo pubblicato nella rivista “Lettera da San Giorgio”, Fondazione Giorgio Cini, Anno XI, n. 21, settembre 2009 – gennaio 2010), il 27 aprile 1970, partecipando per la prima volta alla riunione del Consiglio Generale, così si espresse: «L’altro giorno il conte Cini ha avuto la bontà di accompagnarmi a visitare il complesso intero di San Giorgio in Isola. Non c’ero mai stato. Ne sono tornato via con un’idea veramente grandiosa di quello che è stato fatto qui». «Le affinità elettive che lo legarono ad essa – scrive Falasca – s’intrecciano indissolubilmente con quelle del suo primo ispiratore, con l’uomo Vittorio Cini, che dei tempi aveva saputo capire, interpretare e far vivere ciò che ha una validità profonda e duratura. Non bisogna dimenticare che negli ultimi anni del patriarcato di Luciani venne sancito, per volere di Cini, di trasmettere al patriarca protempore di Venezia i compiti che egli aveva riservato a sé stesso come fondatore». Inoltre, «il 5 aprile 1971 Albino Luciani, Vittorio Cini e Vittore Branca, ricevuti da Paolo VI, fecero omaggio al Papa del prestigioso volume sui tesori di San Marco, in occasione dei venti anni della Fondazione». 

Il giorno del funerale del conte nel settembre del 1977, Luciani lo ricorda con queste parole: «A me Vittorio Cini guardava più come a un figlio. Mi minacciava, scherzando, col dito, mi rimproverava: “lei non mi chiede mai nulla”; “lei non sa quanto bene le voglia”; “lei lavora troppo”. Devo confessare che mi piaceva riscontrare in lui un caso in cui l’intelligenza e la cultura aiutavano la fede, invece che ostacolarla. Vedere come alla raffinatezza sorridente e garbatamente ironica del gentiluomo, soggiacesse una vera e profonda umiltà. Quando ieri appresi la sua morte mi sono sentito un po’ orfano, non mi vergogno a dirlo. Ed è con cuore di figlio che prego il Signore affinché lo riceva presto nel suo Paradiso». 

E come ricorda p. Vincenzo D’Ascenzi in un articolo sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 25 novembre 1978, «il rito religioso (nel ’78, primo anniversario della morte, ndr) l’avrebbe dovuto celebrare il Card. Patriarca Albino Luciani; ma la sua imprevista elezione al Pontificato lo ha costretto a malincuore a delegare Mons. Loris Capovilla, già Segretario particolare di Papa Roncalli a cui Cini del resto era affezionatissimo». 

Il rapporto con La Pira

Nel libro “Lo specchio del gusto. Vittorio Cini e il collezionismo d’arte antica nel Novecento” (a cura di Luca Massimo Barbero, Marsilio, 2021) si narra anche del particolare incontro di Cini col Servo di Dio Giorgio La Pira, Sindaco di Firenze dal ’51 al ’57 e dal ’61 al ‘65. A metà degli anni ’50, in occasione della crisi delle Officine Galileo di Firenze, la cui proprietà era detenuta dalla SADE, (Società elettrica di cui Cini era presidente), «si intrecciò un rapporto particolare con il sindaco di Firenze, Giorgio La Pira, che coinvolse il comune sentire spirituale delle due personalità individuali e collettive in economia. La Pira, convinto e accorato sostenitore che “una fabbrica è sacra, come è sacra la Cattedrale”, supplicava Cini: “Non licenziare, ne avrai benedizione dal Cielo e dalla terra”; Cini rispondeva fermamente ricordando la distinzione del piano spirituale da quello laico: “Sensibile ai richiami del Vangelo, io credo di essere tra coloro che maggiormente avvertono le esigenze sociali ed umane; ma penso che in una società bene ordinata è funzione dello Stato creare le condizioni necessarie perché il diritto al lavoro possa essere esercitato, o di provvedere alle conseguenze di una eventuale disoccupazione”». Una divergenza che rispecchiava però reciproca stima, «testimoniata anche dagli incontri avuti in occasione dell’avvio e delle prime iniziative della Fondazione Giorgio Cini».

Cini in fuga dai nazifascisti fu accolto a Padova dai francescani?

Una tappa importante della rinascita religiosa del Conte Cini, sulla quale vogliamo soffermarci in conclusione di questa nostra ricerca, è quella che va dal 1943 al 1947 e che riguarda Padova e Monselice.

Da Dachau alla Svizzera

Dopo il discorso del 19 giugno 1943, nel quale Cini esterna l’impossibilità di continuare la guerra con la Germania, seguito dalle proprie dimissioni – richieste il 24 giugno e accettate da Mussolini solo un mese dopo, il giorno prima del Gran Consiglio – Mussolini intende vendicarsi dell’ex Ministro, come avvertimento per gli altri Ministri che avrebbero voluto schierarsi contro il Duce. Lo fa quindi arrestare a Roma, nell’Hotel Excelsior dove il senatore risiede, il 24 settembre dello stesso anno. Cini viene inviato nella prigione del campo di concentramento di Dachau, in Germania, con altri sei italiani. Grazie al figlio Giorgio, dopo sei mesi viene trasferito nella clinica del dottor Bieling, un sanatorio a Friedrichroda, in Turingia. Il figlio gli fa visita, corrompe le guardie tedesche e il medico, e scappa col padre. «Oggi sappiamo che Giorgio dovette corrompere il colonnello delle SS di Roma, Eugen Dollmann, per salvare il padre», scrive Anna Guglielmi Avati, nipote di Vittorio Cini (Dal libro “Vittorio Cini. L’ultimo Doge”, “Il Cigno GG Edizioni”, 2022). Dollman non volle soldi ma chiese i favolosi smeraldi di Lyda Borelli, moglie di Vittorio Cini. Fabrizio Sarazani su “Il Borghese” del 9 ottobre 1977 propone una versione diversa sulle donazioni: «A Kappler regalarono un sarcofago etrusco e questi concesse il “visto” per il viaggio di Giorgio, il quale riuscì a salvare il padre conducendolo in Svizzera. Non era facile, nell’inverno 1943-1944, anche possedendo lingotti d’oro, giade, sarcofaghi etruschi, aver coraggio con tipi come Kappler! Giorgio, partendo, sapeva di poter finire in un forno crematorio».

Vittorio e Giorgio raggiungono quindi l’Italia: dopo un mese di clandestinità (in una casa di cura presso Padova, scrive la Treccani, ma vedremo come forse non è del tutto esatto), nel settembre 1944 vanno in Svizzera per raggiungere il resto della famiglia. Rimangono lì in esilio fino al 3 luglio 1946 (secondo la Treccani, fino al dicembre ’46). Nella cittadina svizzera di Tour-de-Peilz, vicino Vevey, dove vivono, Vittorio Cini – scrive ancora Avati – «incontrò colui che divenne per sempre suo consigliere e confessore, suo amico spirituale: il padre gesuita don Mario Slongo, all’epoca cappellano militare della Svizzera romanda». Durante il soggiorno svizzero, don Slongo celebra sempre la Messa per la famiglia Cini. «La spiritualità del senatore, uomo di mondo, poco religioso, era accresciuta durante la prigionia a Dachau. Qui, un prete cattolico, prigioniero anch’egli, gli aveva regalato un libretto di preghiere e gli distribuiva regolarmente la comunione (con del pane all’interno del quale erano nascoste delle ostie). Tutto questo era stato per Cini di grande conforto. Più tardi, padre Slongo confessò Cini perfino a Roma tutte le volte che questi glielo chiese: del resto, il senatore aveva l’abitudine di chiedergli consiglio per ogni cosa che faceva».

Don Slongo svolge un ruolo importante anche nella vita sentimentale di Cini. Una giovane, Maria Cristina Dal Pozzo D’Annone, conosce il senatore nel 1932 e si infatua di lui, ma solo il 16 febbraio 1967 don Slongo li unisce in matrimonio nella Cappella della Missione cattolica italiana a Muttenz, vicino a Basilea. «Da quel giorno in poi – scrive ancora Avati -, ad ogni anniversario del loro matrimonio, Cini e la nuova moglie si recarono a Muttenz, a casa della sorella di don Mario per pranzare, partecipare alla Messa e ricevere la comunione dalle mani del loro fidato amico».

Ma un mistero, legato al periodo tra il ’44 e il ’46, riguarda il conte Cini e i Frati Minori di Padova.

Cini ospite dei francescani a Padova?

Fra’ Graziano Marostegan, vicentino d’origine, da una decina di anni si trova nella Basilica di San Francesco a Ferrara, guidata dai Frati Minori, proveniente dalla Comunità religiosa di Sanzeno, nella Val di Non. È lui a raccontarci un aneddoto difficilmente verificabile in maniera integrale ma di particolare interesse, riguardante il periodo di clandestinità di Vittorio Cini tra il 1944 e il 1946: «il Conte Cini è stato ospitato clandestinamente al Convento del Santo a Padova, ai tempi guidato dal suo amico, il Padre Provinciale Andrea Eccher. Me lo raccontarono alcuni frati ora deceduti». Il periodo potrebbe essere tra il ’45 e il ’46, ma è forse più probabile nell’estate del ’44 prima della fuga in Svizzera. «In quel periodo – prosegue fra’ Graziano – alcuni giovani frati erano malati di tubercolosi, allora padre Eccher chiese aiuto a Cini, il quale diede loro in comodato d’uso il suo castello di Monte Ricco, vicino Monselice». Un luogo salubre dove poter curare i giovani infermi. Nel corso della Prima guerra mondiale il castello venne requisito per scopi militari dal Regio Esercito, che lo lascerà, completamente devastato, nel 1919. Vittorio Cini, entratone in possesso per asse ereditario (dalla nonna paterna Domenica Giraldi, che sposò il ferrarese Paolo Cini, e che ereditò anche delle cave nel monselicense), lo fa interamente restaurare, divenendo così una delle residenze di famiglia. Lì nascono anche le sue figlie. E Cini vuole che la chiesetta venga dedicata alla memoria di nonna Domenica, che di fatto lo allevò. Come detto, nel ’47 Cini lo dona ai Francescani di Padova, che lo trasformano in una casa di ritiro spirituale, l’eremo di Santa Domenica (in memoria della nonna di Cini), con possibilità di ospitare 60 persone. Nel 1981 passa di proprietà alla Regione Veneto e nel 2003 i frati lo trasformano in comunità terapeutica per il recupero di tossicodipendenti e alcolisti e per l’accoglienza di alcune famiglie in difficoltà. I frati si sono trasferiti nella sede principale della comunità a Monselice (fra’ Graziano è stato l’ultimo a lasciare l’eremo), ma la comunità va avanti sotto altra gestione. 

Abbiamo contattato i frati minori di Padova per cercare ulteriori conferme sul periodo di clandestinità di Cini a Padova ospite degli stessi frati. «Non ho mai trovato conferme di una sua ospitalità qui al Santo in qualche documento scritto», ci spiega padre Alberto Fanton, archivista della Provincia Italiana di Sant’Antonio. «Non nego che sia successo, ma erano sempre atti che “si-facevano-ma-non-si-documentavano”, non si lasciava, cioè, traccia formale in documenti, cronache, atti, verbali di capitoli conventuali. Ed è anche facile capirne il perché…».

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 13 gennaio 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

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Biografia: la carriera, il fascismo, Dachau, la morte del figlio Giorgio

Nato a Ferrara il 20 febbraio 1885, in quella che oggi è Casa Cini, figlio di Giorgio Cini, farmacista ferrarese, e di Eugenia Berti, eredita dalpadre alcune cave di trachite nel Veneto e alcuni terreni nel Ferrarese. 

Studia economia e commercio in Svizzera, e in Italia è il primo a intraprendere importanti opere di bonifica. Compie lavori di canalizzazione e progetta una rete per la navigazione interna della Valle Padana. Trasferitosi a Venezia, dove acquista il palazzo sul Canal Grande a San Vio, intreccia un saldo legame soprattutto con Giuseppe Volpi, sviluppando interessi in imprese elettriche (SADE), del turismo d’élite (CIGA), di costruzioni, comunicazioni e trasporti. 

Il 19 giugno 1918 sposa l’attrice Lyda Borelli (dalla quale avrà quattro figli: Giorgio nato nel 1918, Mynna nel 1920, le gemelle Yana e Ylda nel 1924). Tra le numerose cariche, è stato Presidente dell’ILVA (dal 1921 al 1939), “fiduciario del governo” per il riassetto della struttura agraria del ferrarese (1927), senatore del Regno dal 1934 e, dal 1936, commissario generale dell’Ente esposizione universale di Roma. 

Si dissocia dal regime fascista nel giugno 1943, dopo essere stato per circa quattro mesi Ministro delle comunicazioni, anticipando il pronunciamento del Gran Consiglio del 25 luglio e per questo viene catturato dopo l’8 settembre dai tedeschi e internato nel campo di concentramento di Dachau, da dove viene liberato grazie al figlio. Vittorio si ritrova, quindi, con Volpi in Svizzera e nel loro esilio stringono amicizia con personaggi della futura DC. Vittorio poi sostiene, anche con consistenti contributi finanziari, il movimento della Resistenza. 

Sul suo legame col fascismo, Alessandro Meccoli scrive (su “Ferrara. Voci di una città – n. 7 / 1997”): «Mi narrava (…) di Italo Balbo, che nel 1926 gli aveva portato la tessera del Fascio a casa, per essere sicuro che l’accettasse (attenzione dunque: di chiare origini liberal-giolittiane, Vittorio Cini, al pari del suo fraterno amico e socio Giuseppe Volpi a Venezia, aderì formalmente al fascismo soltanto nel Ventisei, a cose fatte)». 

Il 5 marzo 1946, il Consiglio dei ministri, per impulso di Alcide De Gasperi e di Carlo Sforza, restituisce a Cini la legittimità del titolo di senatore, per aver egli preso «netta posizione contro le direttive del regime» e aver dimostrato «vivo patriottismo e violenta avversione al fascismo e al tedesco invasore».  

Il 31 agosto 1949, a soli 30 anni, il figlio Giorgio muore in un incidente di volo presso Cannes: il padre in sua memoria istituisce il 20 aprile 1951 la Fondazione che ne porta il nome, a Venezia, e Casa Cini a Ferrara. Vittorio Cini muore a Venezia il 18 settembre 1977 ed è sepolto alla Certosa di Ferrara insieme alla moglie Lyda Borelli, deceduta il 2 giugno 1959 a Roma.

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5 Dic

Fra i capitelli e i fregi medievali scoperti, ecco quali ammireremo in futuro. A Natale 2023 possibile riapertura

di Andrea Musacci

Riguardo al futuro del nostro Duomo, due sono i quesiti che continuano a porre in molti: quando l’edificio riaprirà integralmente; quali delle meraviglie scoperte sotto i pilastri settecenteschi rimarranno visibili. Al primo, si è già data una cauta, ma speranzosa risposta, indicando il Natale 2023 come possibile data di smontaggio dei ponteggi e quindi di “liberazione” totale dell’interno. Al secondo, hanno risposto le ricerche e le riflessioni contenute nel volume “I pilastri medievali della Cattedrale di Ferrara” (ed. Grafiche Turato, Padova), curato dall’architetto Valeria Virgili (con presentazione di don Stefano Zanella) e presentato lo scorso 3 dicembre in Biblioteca Ariostea dalla Ferrariae Decus, promotrice del libro uscito assieme a “La Piazza di Ferrara e gli Statuti Comunali del 1173. Ferrariae Decus Studi – Ricerche n. 35”, curato da Angela Ghinato e Marialucia Menegatti. Entrambi i volumi sono in vendita presso la libreria “Sognalibro” in via Saraceno, 43.

Oltre alle due curatrici e a Michele Pastore, Presidente di Ferrariae Decus, è intervenuta Valeria Virgili, alla quale è stato affidato il progetto architettonico e la Direzione Lavori del Duomo, mentre il progetto strutturale e la Direzione Operativa è a cura degli ingg. Chiara Foresti e Francesco Pirani.

Ecco quali dei gioielli medievali rimarranno visibili

«Le scoperte avvenute durante i lavori ci hanno fornito informazioni molto importanti, permettendoci di conoscere molto meglio sia il Duomo medievale (edificato tra il XII e i lXIV secolo) sia quello settecentesco», ha spiegato Virgili. «Grande merito va all’ing. Giuliano Mezzadri, che, dopo aver studiato come potessero essere i pilastri medievali, ha nutrito forti dubbi sulla reale capacità portante dei pilastri dell’edificio. Abbiamo, innanzitutto, compreso – ha proseguito – come ogni pilastro medievale – in genere di ottima fattura e molto ben conservati, anche con le loro dorature e coloriture rosse, blu, verdi – fosse diverso dagli altri» (a seconda delle maestranze, delle differenti vicende storiche specifiche, dei diversi periodi di costruzione) e «posizionato differentemente, e come nel Settecento tutto ciò che dava “fastidio” al nuovo progetto secondo i canoni classici dell’epoca, venisse eliminato». 

Venendo al presente, e alle previsioni future, di sicuro «il cantiere si concluderà prima delle ricerche su queste colonne: speriamo, e contiamo, di togliere i ponteggi interni entro Natale 2023». I pilastri medievali rimarranno scoperti per continuare lo studio su di essi, ma, come scrive nel volume Giovanni Carbonara, architetto e docente di Restauro alla Sapienza di Roma, «si suggerisce di lasciare significative porzioni di superfici medievali in vista non in corrispondenza di chi entri dalle porte della facciata, dal cui atrio la Cattedrale si deve presentare in tutta l’imponenza “barocca” della sua navata principale, ma di chi guardi come entrando di traverso, oggi, dall’antica Porta dei Mesi». 

Saranno, quindi, sei (su dieci scoperte) le opere medievali che rimarranno visibili. Come spiega Virgili nel libro, nei pilastri A3 e A4 (entrando dall’ingresso principale, il 3° e il 4° sulla destra) verranno lasciati in vista gli archi gotici e le porzioni dei capitelli bassi (testa di leone, e giovane che porta un peso) visibili dal lato meridionale (p.zza Trento e Trieste). In questo modo si ripropone, pur parzialmente, la visuale che poteva avere un fedele che entrava dalla Porta dei Mesi. Nei pilastri A4 e B4 (dall’ingresso principale, il terzo a sinistra) verranno lasciati in vista i capitelli policromi (visibili rispettivamente tra i pilastri A4 e A5, e tra quelli B4 e B5); infine, nel pilastro A4 rimarrà visibile anche la porzione di capitello rivolta verso il presbiterio e raffigurante un uomo adulto che regge un peso. Gli altri capitelli si è ritenuto necessario coprirli con elementi rimovibili (pannelli).

«Alcuni di essi – ha aggiunto Virgili, incalzata dalle domande dei presenti in Ariostea – sono colorati, e anche questo ci fa dire con certezza che il Duomo originariamente era policromo, altri invece sono monocromi, al massimo hanno qualche ombreggiatura».

Le differenze tra la pianta medievale e quella settecentesca

Particolarmente impegnativo è stato e continua ad essere il lavoro finalizzato a comprendere la posizione dell’antica struttura medievale rispetto a quella settecentesca. «Nel ‘700 – ha spiegato ancora Virgili – si sono aggiunte murature, incorporando le colonne medievali e conservandole in gran parte, ma con un debole sistema di connessione delle due diverse compagini murarie, quasi mai ammorsate (“legate”) fra loro». Questo, dava una fragilità strutturale (pur a seconda dei diversi pilastri settecenteschi), ma dall’altra parte «ci ha permesso di scoprire le colonne medievali».

Come spiega Carbonara nel volume, Virgili ha scoperto che «gli interassi dei pilastri moderni e medievali non coincidono perfettamente per cui alcuni pilastri antichi, con i relativi abachi e i sottostanti capitelli, sono risultati più centrati rispetto ai nuovi pilastri e quindi sono stati risparmiati, mentre altri si sono ritrovati in posizione più marginale e sono stati tagliati per adattarli alle nuove geometrie».

Come scrive la stessa Virgili su Rec Magazine del gennaio/febbraio 2021, «le fonti storiche, in particolare quelle della prima metà del Novecento (periodo in cui si rendono necessari urgenti lavori di consolidamento dei pilastri), menzionano spesso l’esistenza dei pilastri medievali, all’interno di quelli attuali». In particolare, in un documento (da una ricerca di Carbonara) si riporta: “…Scrostato l’intonaco sono venute in vista due lunghe fenditure interessanti il rivestimento di muratura fatto al pilone originale nella trasformazione ‘settecentesca…’ ”. «Questa disomogeneità della sezione resistente dei pilastri e la mancanza di collegamento tra la parte medievale e quella settecentesca – prosegue nel testo – costituirebbe la principale causa dei problemi strutturali emersi negli ultimi due secoli, fino a rendere necessari complessi interventi negli anni Trenta. Sui rimanenti pilastri le testimonianze storiche rinvenute sono scarse e assai meno precise».

Ma com’è avvenuto il confronto? 

«Il punto di partenza è stato la sovrapposizione “su carta” dei rilievi geometrici (effettuati con laserscanner3D) – scrive ancora Virgili – alle due principali riproduzioni storiche in pianta e alzato: quella seicentesca dell’Aleotti [1628] e quella settecentesca del Mazzarelli. In entrambe le tavole storiche troviamo pilastri maggiori polilobati alternati a colonne minori a sezione circolare». Ma si notavano anche differenze importanti, come la posizione dei pilastri medievali indicati dal Mazzarelli rispetto al rilievo attuale, mentre i pilastri dell’Aleotti coincidono con il rilievo attuale. Ciò significa, quindi, che durante i rifacimenti settecenteschi non si è mantenuta la maglia strutturale medievale (cioè non si è rispettata la posizione medievale dei pilastri), ma si è realizzato un nuovo impianto, secondo i canoni architettonici “classici” dell’epoca, con una griglia che ricalca quella medievale solo “di massima”. Tutte le altre parti medievali (molte) sono state rimosse. Le asportazioni dell’edificio medievale sono state così violente da rendere spesso necessarie “aggiunte” di muratura o altri accorgimenti per rettificare le superfici. Inoltre, partendo dal presbiterio si nota come man mano che ci si sposta verso l’ingresso, il pilastro medievale sia sempre più sfasato rispetto alla sagoma settecentesca, “esca” cioè sempre più dai pilastri settecenteschi: ad esempio, il pilastro B1 (uno dei due più vicini al presbiterio) ha “potenzialmente” al proprio interno quasi tutto il pilastro medievale, mentre nel pilastro A6 (uno dei due più vicini all’ingresso) il pilastro medievale fuoriesce in buona parte dalla sagoma settecentesca.

Sovrapponendo la pianta dell’Aleotti e quella attuale, secondo Virgili, si possono dunque notare «la soppressione dei pilastri minori in corrispondenza dei transetti e l’allungamento della sezione dei pilastri della navata principale verso le navate laterali, presumibilmente per far fronte ai maggiori carichi verticali e alle spinte orizzontali trasferite dalle cupole e dalle volte. In corrispondenza dei pilastri, si rivela l’ampliamento delle lesene sul lato interno dei muri longitudinali».

Le ricerche continuano, per ridare un volto sempre più definito al Duomo “medievale”.

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 9 dicembre 2022

La Voce di Ferrara-Comacchio

Nuovo Santuario mariano, festa a Ferrara

28 Nov

Sacra Famiglia: il 29 novembre la Messa con mons. Perego e mons. Turazzi per il Cuore Immacolato di Maria e i 70 anni della parrocchia. La storia della comunità, la cronaca del tempo e i restauri eseguiti

di Andrea Musacci

Era nel destino della Sacra Famiglia di diventare Santuario del Cuore Immacolato di Maria. La speranza – poi frustrata – nacque già alla nascita, 70 anni fa, ma poi, per motivi burocratici e finanziari non se ne fece più niente. Ora il grande momento è arrivato: il 29 novembre è avvenuta l’erezione ufficiale della chiesa di via Bologna a Santuario mariano (rimane, però, la parrocchia), con la S. Messa presieduta da mons. Gian Carlo Perego e dall’ex parroco (dal 2005 al 2014) mons. Andrea Turazzi, Vescovo di San Marino-Montefeltro. Prima dell’inizio della liturgia, è stato benedetto il quadro a olio “Maria col Bambino Gesù e i Santi Margherita, Girolamo e Petronio” e letto il decreto di erezione a Santuario.

La sera del 4 maggio ’49 mons. Bovelli benedisse e pose la prima pietra della chiesa, che   fu dedicata  il 29 novembre 1952 dall’allora Vescovo assieme al parroco mons. Adriano Benvenuti, dopo poco più di un anno di lavori. Si ipotizza che venne scelta quella data in quanto primo giorno della Novena dell’Immacolata. Mons. Benvenuti era, infatti, particolarmente devoto alla Madonna di Fatima. Quest’ultimo divenne ufficialmente parroco della Sacra Famiglia nel ’56 (vi rimase fino al ’70), ma fino a quell’anno aveva guidato la vicina S. Luca. Le cronache del tempo (“Il resto del Carlino” del 30 novembre ’52) raccontano: «Alla cerimonia della consacrazione erano presenti molti fedeli e i bambini delle scuole elementari del rione Mosti. I riti, in mancanza ancora delle campane, sono stati trasmessi con altoparlanti a Borgo San Luca, Argine Ducale e dintorni. Tutta via Bologna per l’occasione era addobbata di festoni e di bandiere tricolori». Da alcuni documenti presenti nel nostro Archivio diocesano, si evince come la nuova chiesa di via Bologna fu progettata, costruita ed inaugurata come Santuario del Cuore Immacolato di Maria «a ricordo dell’Anno Mariano» (celebrato dal maggio 1948 al maggio 1949 in preparazione al centenario della proclamazione della Madonna delle Grazie a patrona della città e della Diocesi, atto compiuto da Pio IX nel 1849) e rimase tale fino al 1956 quando per vari motivi non si poté costruire una specifica chiesa per il “nuovo” beneficio parrocchiale della S. Famiglia.

«Nel 2020 – racconta il parroco don Marco Bezzi – mons. Perego era venuto qui alla Sacra Famiglia a celebrare a porte chiuse nel periodo del lockdown. A fine Messa siamo saliti sulla loggetta nell’abside dove si trova l’effigie del Cuore Immacolato di Maria (foto) e, leggendo la preghiera di consacrazione della Diocesi, ha definito la chiesa “Santuario”. Una volta usciti, gli ho fatto notare che la nostra non era Santuario, e lui mi ha risposto: “se non lo è, lo diventerà”. È stato di parola».

Per la duplice, storica, occasione, la parrocchia ha commissionato e portato a termine alcuni importanti lavori: la ridoratura del tabernacolo del presbiterio, che aveva perso lo smalto; il restauro e la tinteggiatura del campanile con la sostituzione della sfera di calcestruzzo sulla cuspide con una di polistirolo alta densità rivestita di resina al quarzo e tinteggiata, e la posa di una croce e di una banderuola col Cuore Immacolato di Maria. La vecchia sfera verrà posta in un angolo del piazzale.

Inoltre, è stato restaurato il sopracitato quadro, uno sposalizio mistico di Santa Margherita, con la Madonna che gli porge Gesù Bambino, copia realizzata a inizio del XVII secolo forse dal ferrarese Francesco Naselli, di un’opera su tavola del Parmigianino del 1529 conservata nella Pinacoteca Nazionale di Bologna. «A breve – ci spiega don Bezzi – commissioneremo una ricerca storica adeguata per l’attribuzione e la datazione». L’opera – donata a suo tempo da un parrocchiano, l’ing. Masotti – è esposta nel lato sud della chiesa. Il suo restauro, come di quello dell’immagine del Cuore Immacolato di Maria nell’abside, è stato realizzato da Natascha Poli con il contributo degli “Amici dei Musei e Monumenti Ferraresi”, in particolare del parrocchiano Maurizio Villani. 

A proposito dell’immagine mariana nell’abside, di cui è stata restaurata anche la suggestiva cornice e ripulito il diadema, si tratta di un’opera donata da due coniugi molto facoltosi residenti in zona (forse Boldrini), fatta benedire da papa Pio XII nel ’52 e posta nella chiesa di via Bologna il giorno della dedicazione. Il sopracitato articolo del “Carlino” riporta: «Un lungo corteo di automobili si recherà a Gallo per ricevere l’immagine della Madonna del Sacro Cuore proveniente da Roma, dove è stata benedetta dal Santo Padre. L’immagine sarà portata in processione fino alla nuova chiesa». Un dipinto molto simile, inoltre, è conservato nella cappelletta della parrocchia, realizzato da un artista anonimo. Per l’occasione, l’immagine nell’abside splenderà di nuova luce grazie anche al nuovo impianto di illuminazione.

Il 29 novembre è stata anche inaugurata la mostra “Ti racconto i 70 anni della Sacra Famiglia”, esposta nella Cappella Revedin e affidata a un gruppo di giovanissimi della parrocchia che hanno selezionato una 40ina di foto fra le oltre 200 conservate nell’archivio parrocchiale per essere esposte insieme a un video nel quale scorrono altre immagini prestate per l’occasione da diversi parrocchiani. Una proposta espositiva, questa, per ripercorrere la storia della comunità e della chiesa, con anche immagini del vecchio presbiterio prima della riforma liturgica, della scuola materna e dei diversi parroci che si sono succeduti. La mostra è aperta nelle domeniche prima di Natale o su richiesta (segreteria parrocchia: tel. 0532 767748 – mail: segreteria@sacrafamiglia.fe.it).

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 2 dicembre 2022

La Voce di Ferrara-Comacchio

I fiumi nella bassa Pianura Padana: il libro di Pocaterra

21 Nov

Si intitola “Le strade mutevoli. Appunti per una storia di Ferrara e della bassa Pianura Padana attraverso le vie d’acqua” (400 pagine, Festina Lente Edizioni, euro 24,00) il nuovo libro di Corrado Pocaterra, un saggio che è la sintesi di anni di studi e di ricerche appassionate e che cerca di ricostruire con un taglio divulgativo la storia di Ferrara e della bassa Pianura Padana in relazione al corso dei fiumi presenti sul territorio. «Ricordare il periodo delle “strade mutevoli” è il tentativo di prolungare la persistenza della memoria per aiutare a meritarci quello che abbiamo strappato alla natura», scrive l’autore nel volume.

I fiumi, e in particolare il Po, nel corso dei secoli sono stati, e continuano a esserlo tuttora, l’elemento determinante e unificatore delle sorti delle genti padane, ed è dunque nei fiumi, vie d’acqua dai percorsi mutevoli ma fortemente condizionanti, che l’autore cerca di individuare la chiave di lettura di molte delle vicende storiche, economiche e sociali proprie di queste terre. «Fino all’invenzione del motore, prima a vapore poi a scoppio – è scritto ancora nel libro -, l’essere umano si è confrontato con un ambiente idraulicamente mutevole, in cui le forze motrici da utilizzare per la propria mobilità e per la propria sicurezza idraulica erano semplicemente le proprie gambe e braccia, gli animali e il vento».

Risorsa idrica ed economica, fonte di sussistenza e di reddito, indispensabile ai lavori di tutti i giorni, necessaria alla difesa, grande via di comunicazione, l’acqua è un elemento in grado di caratterizzare e condizionare fortemente i territori che attraversa e la vita delle genti che in essi vi abitano. «La bassa Pianura Padana – scrive ancora Pocaterra – si è formata con i materiali portati dal Po e da alcuni fiumi appenninici, ma sotto la superficie attualmente pianeggiante c’è un sistema collinare roccioso, la così detta dorsale ferrarese (…), e la presenza di questi rilievi sotterranei ha influito sull’idrografia di superficie».

Studiarne i percorsi, l’evoluzione nel tempo, consente di dare un senso a mestieri, tradizioni, toponimi e di capire la fortuna o il declino di città e paesi.

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 25 novembre 2022

La Voce di Ferrara-Comacchio