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«La fede è dei testimoni: ecco il mio don Milani». Intervista a Marina Salamon

24 Mar
Don Lorenzo Milani con alcuni dei suoi ragazzi di Barbiana

Sono gli incontri che cambiano la vita, che ci riaprono allo Spirito. Marina Salamon ci racconta della fede giovanile, e di quella ritrovata da adulta. Una fede più che mai incarnata

di Andrea Musacci

Per chi nutre ancora dubbi sulla possibilità, in una sola anima, di unire un forte senso del sacro con una mentalità imprenditoriale, uno slancio all’Assoluto con le ultime statistiche demografiche, si ricreda. 

Marina Salamon, nella sua personale esperienza incarna questa aspirazione. O almeno ci prova, data l’umiltà che dimostra pur avendo alle spalle una vita di successo nel mondo dell’impresa: nata nel 1958 a Tradate (Varese), è diventata imprenditrice quand’era ancora universitaria, fondando “Altana”, azienda leader nel settore di abbigliamento per bambini. Nei primi anni ’90 assume il controllo della società di ricerche di mercato “Doxa” mentre nel 2014 diventa azionista di maggioranza di “Save the Duck”, azienda che produce piumini senza fare uso di penne d’oca. Oggi tutte le sue attività fanno parte della holding “Alchimia”, impresa che opera nel settore della compravendita immobiliare. Nel ’94, per qualche mese, ha fatto anche parte della Giunta di Venezia guidata da Massimo Cacciari. Salamon ha quattro figli (da due padri diversi), una figlia in affido e attualmente assieme al marito Paolo Gradnik (col quale vive a Verona) ospita due famiglie ucraine. 

Giovedì 30 marzo alle ore 20.30 interverrà a Casa Cini a Ferrara (via Boccacanale di Santo Stefano, 24) per il terzo e ultimo incontro della “Cattedra dei credenti” coordinata da Piero Stefani con la Scuola di teologia per laici “Laura Vincenzi”. Tema dell’incontro, “Un’imprenditrice alla scuola di don Milani”.

L’abbiamo contattata per rivolgerle alcune domande.

Marina, com’è nata la sua fede cristiana, dove ha attinto? 

«Vengo da una famiglia non credente, ma grazie a mia nonna, che amavo molto, feci comunque i sacramenti. Quel che però ha fatto la differenza, è stata la mia esperienza negli scout, a partire dai 10 anni. Mio padre Ennio teneva ai valori dello scoutismo, perché anche lui era stato uno scout cattolico, anche se poi è diventato agnostico. È stata un’esperienza meravigliosa, fondante sia per la mia fede che per i miei valori: mi ha insegnato a riconoscere Dio nella creazione, mi ha tenuta attaccata a Dio attraverso San Francesco d’Assisi, anche negli anni in cui sono stata lontana dalla Chiesa. Poi, tra i 14 e i 16 anni, ho frequentato Gioventù Studentesca (movimento interno a CL, ndr), un’altra esperienza per me importante, grazie anche a molti amici di CL che mi sono rimasti amici dopo la mia uscita dal movimento. Le loro testimonianze di vita, legate alla missionarietà, mi hanno aiutato molto». 

Da adulta, invece, quali testimoni l’hanno accompagnata nella fede?

«Ne ho incontrati diversi, ma ne cito tre su tutti, in ordine cronologico: mons. Gianfranco Ravasi, che ho conosciuto grazie a mio padre, il quale non sempre ha condiviso le mie scelte di vita come imprenditrice. Parlò di me a mons. Ravasi, che iniziò a invitarmi a presentare i suoi libri. Un giorno mi disse: “penso che tu non sia così male…”».

Il secondo testimone?

«A un incontro del Forum Ambrosetti, nei primi anni del 2000, fu invitato l’allora card. Joseph Ratzinger. Ci arrivai carica di pregiudizi, ma con dentro una forte domanda sulla fede. Sono rimasta assolutamente affascinata dalla sua intelligenza – proprio nel senso di saper leggere oltre l’apparenza – e dalla sua umiltà. In vita mia non avevo mai visto una combinazione così dei due aspetti: da lui, il carisma usciva prepotentemente, smontando tutto quel che avevo dentro». 

Per quale motivo in particolare? 

«Nel mio mondo imprenditoriale, spesso ciò che conta è esibirsi ed esibire. Ratzinger, invece, era come un monaco eremita del Medioevo…». 

L’ultimo testimone che voleva citare?

«Salvatore Martinez (Presidente di Rinnovamento nello Spirito Santo, ndr), a capo di un movimento a cui non appartengo e non ho appartenuto, ma che in periodi di crisi della mia vita, ad esempio per la separazione col mio ex marito, mi ha preso per mano, invitandomi ad alcuni pellegrinaggi: io, “irregolare” in quanto divorziata, partii quindi con loro a Gerusalemme, poi a Lourdes. Insomma, nell’epoca delle beauty farm e della new age, tutti abbiamo bisogno di qualcuno che ci prenda per mano e ci accompagni. Senza rigide appartenenze ecclesiali». 

Marina Salamon

In una recente intervista, parla dei momenti di studio e preghiera che si ritaglia nella sua pur intensissima vita, per affrontare quelle «ardue domande che si fanno strada in ognuno di noi ed esigono risposta»: a cosa si riferiva?

«Le ardue domande non riguardano l’esistenza di Dio, su cui non ho dubbi, ma il come riuscire a tenere insieme l’insegnamento del Vangelo con le scelte di lavoro, con la famiglia e la vita in genere. Appena riesco, quindi, mi “prenoto situazioni” per poter meditare e studiare: pellegrinaggi, ritiri spirituali o periodi in conventi dove vado senza pc, solo con libri, quaderno e penna. Sono stata, ad esempio, a Bose e a Camaldoli. E sono iscritta, assieme a mio marito, all’Istituto di Scienze Religiose di Verona – dove sto lavorando a una tesi su don Milani -, oltre a frequentare un Master in dialogo interreligioso a Venezia».

Riguardo a don Lorenzo Milani, che cosa della sua testimonianza l’ha colpita e ancora considera importante?

«Avevo 10 anni quando trovai in casa la prima edizione di “Lettera a una professoressa”: già da giovane mi provocava in ciò che mi era più scomodo, è questo era per me commovente, sapeva davvero muovermi il cuore. Capii che non potevo accontentarmi dei miei privilegi, che erano stati soprattutto culturali, venendo da una famiglia colta e aperta al mondo. Don Milani sa invece essere duro come il Vangelo del giovane ricco». 

Come iniziò a concretizzarsi questo suo bisogno di cambiamento?

«Facendo caritativa con CL: andavamo a casa degli immigrati meridionali, case senza pavimento e coi bagni in bugigattoli esterni. Anni dopo conobbi Pietro Ichino (noto giuslavorista, ndr), citato da don Milani come “pierino”, perché i due si conobbero quando Pietro era piccolo. Anche lui mi raccontò come il sacerdote gli cambiò la vita».

“Un’imprenditrice alla scuola di don Milani”: che cos’ha imparato, e che cosa, ancora, impara da lui?

«L’amore per la vita e la valorizzazione di ogni persona. Nel mio caso, soprattutto nelle mie aziende. L’economia, però, si è pesantemente finanziarizzata, e questo ha avuto un impatto su tante scelte delle mie aziende, che a volte ho vissuto con grande angoscia, come una ferita». 

Non è possibile trovare un punto di equilibrio tra persona e finanza? 

«Lo sto cercando in ogni mia scelta. Mi son sempre sentita un genitore nei confronti di tutte le persone che lavorano con me: genitore nei termini di responsabilità nei loro confronti. Ma nei prossimi anni – ne sono convinta, basta leggere le statistiche – l’Italia andrà in crisi, con forti ripercussioni sociali. Il calo demografico è troppo forte, non c’è possibilità di invertire questa tendenza, se non in futuro».

A livello educativo, di trasmissione della fede e dei valori, qualcosa però si può sempre fare. Su questo, cosa può dirci don Milani oggi?

«Don Milani era ed è un profeta e quindi va ascoltato: da giovanissima pensavo fosse troppo “di sinistra”, ma dopo capii che mi sbagliavo. Quando, ad esempio, ai sindacalisti diceva che, una volta conclusa la lotta al fianco dei lavoratori, sarebbe tornato nella sua chiesa, intendeva dire che i valori della fede vanno ben oltre quelli secolari, politici. Dovremmo quindi ripartire da valori forti e chiari, scomodi ma profetici: la Chiesa innanzitutto ha questo compito, questa grande responsabilità educativa».

La Chiesa, però, è sempre più minoranza…

«Non è un problema, anzi può essere positivo: il mondo viene cambiato dalle idee e dai testimoni che le incarnano».

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 24 marzo 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

Ferrarese, un territorio che si ritrae su se stesso

19 Dic

L’analisi delle disuguaglianze territoriali e sociali fatte dal Centro Documentazione Studi. Auto elettriche, Polo del riciclo della plastica, Delta del Po: alcune proposte per uscire da una crisi cronica

di Andrea Musacci

«Da un punto di vista socio-economico il territorio ferrarese è estremamente eterogeneo e frammentato, e questo è sempre stato un ostacolo alla sua crescita». Di questa e altre disuguaglianze si è parlato lo scorso 17 dicembre nella Sala Convegni di CNA Ferrara in occasione della presentazione di “Ferrara Diseguale”, l’Annuario Socio-Economico Ferrarese 2022 che CDS (Centro Documentazione Studi) Cultura OdV ha presentato.

Disuguaglianze territoriali

Le parole di Guglielmo Bernabei (Avvocato, docente Unife e socio Cds) che abbiamo citato all’inizio ben sintetizzano la riflessione da lui svolta sulla difficile e cronica situazione del Ferrarese e su alcune possibili soluzioni.

Innanzitutto un’analisi della realtà: Comuni come Riva del Po, Fiscaglia e Jolanda diSavoia hanno tassi di occupazione molto bassi, e negli ultimi tre anni il reddito medio pro capite nel Ferrarese è calato in maniera significativa. Nelle cosiddette Aree interne, in alcuni casi è la metà della media provinciale, quasi 1/3 rispetto a quello del Comune capoluogo. Cresce inoltre la disoccupazione giovanile (fascia d’età 15-24 anni), passata dal 16,8% al 24,5%, mentre il tasso di inattività è al 25,4%, con picchi nei tre piccoli Comuni sopraccitati, oltre che a Copparo. Interessante anche l’Indice di dotazione automobilistica, con il calo nelle vendite di auto con grande cilindrata e l’aumento dell’acquisto di auto in alcune zone, come Mesola, a causa degli scarsi servizi di trasporto pubblico. Spopolamento, calo demografico, invecchiamento, dunque, dominano nel nostro territorio, «un territorio che si ritrae su sé stesso», ha detto Bernabei. Negli ultimi anni anche il tasso di pendolarismo è aumentato, di due volte e mezzo rispetto alle altre Province in Emilia-Romagna.

Una «sofferenza economica», quindi, e un conseguente «sfilacciamento sociale», acuiti dalla pandemia e dalla crisi di quest’anno, ma creatasi nel tempo: «per evitare che si cristallizzi – ha riflettuto ancora Bernabei – ci vogliono maggiori aggregazioni industriali e con alta produttività (come sono il Petrolchimico e la VM di Cento), pensando ad esempio a sfruttare le grandi trasformazioni in termini di automazione che stanno avvenendo nel comparto automobilistico, in particolare riguardo alle auto elettriche». C’è bisogno, inoltre, di «una forte alleanza tra enti locali, terzo settore ed imprese», e di «incentivare le start up e l’economia della conoscenza». Il rischio è che l’intera nostra Provincia diventi «una grande Area interna», non riuscendo a stare al passo delle trasformazioni sempre più veloci. Il futuro, più in generale, sta in «un’Italia micropolitana, che sappia cioè valorizzare davvero nuove funzioni sociali nei piccoli contesti, implementando il sistema sociale, la banda larga, la capacità amministrativa». E, nel caso del nostro territorio, che venga tutto – non solo Ferrara – considerato «per le sue forti capacità di attrazione turistica e per l’importanza  dei Distretti rurali». C’è bisogno – ha concluso Bernabei – che il Ferrarese «venga davvero considerata come una “Zona Economica Speciale”, oggetto cioè di interventi mirati. La Zona Logistica Semplificata non è più sufficiente».

Altre due proposte per creare ricchezza nel nostro territorio, le ha date Giuseppe Ferrara (Cds): la prima e più importante sarebbe quella di dar vita a un Polo Tecnologico Nazionale per il riciclo integrale dei rifiuti plastici. «A Ferrara esistono tutte le competenze per farlo: la plastica è un materiale molto leggero e molto resistente e facilmente riciclabile facendo tornare virgin-nafta (il semilavorato dalla raffinazione del petrolio) i prodotti finiti e usati». La stima di 70 miliardi di mascherine chirurgiche prodotte solo nell’ultimo biennio a livello mondiale a causa della pandemia, dovrebbe davvero farci riflettere dell’importanza di riciclare non solo per la tutela dell’ambiente ma anche per non sprecare un prodotto così riutilizzabile.

La seconda proposta, legata a questa, riguarda la creazione di un Museo della Plastica a Ferrara, vista l’importanza che questa ha nella nostra economia locale.

Delta del Po come risorsa

Oltre 54mila ettari, di cui quasi la metà valli e lagune salmastre, oltre a paludi d’acqua dolci, boschi e spiagge:è questo il Parco del Delta del Po dell’Emilia-Romagna, presentato  da Aida Morelli, Presidente dell’Ente di gestione per i Parchi e la Biodiversità del Delta del Po. Nove Comuni in tutto, da Goro a Cervia, si tratta di una delle aree naturalistiche più importanti del mondo ed è «un esempio di una terra potenzialmente molto ricca ma che in molti casi, soprattutto nel Ferrarese, poco valorizzata».

Disuguaglianze sociali: il Centro di Ascolto dell’UP Borgovado

È stata Patrizia Di Mella a presentare il progetto nato dieci anni fa a Ferrara. Una dozzina di volontari (perlopiù insegnanti e medici, più o meno in pensione), senza alcuna “piramidalità” che aiuta un centinaio di persone le quali, una volta al mese, ogni mese, vengono a ritirare la spesa con i beni forniti dal Centro di Solidarietà e Carità. Lo Sportello di ascolto è aperto due ore il martedì mattina, «perché per noi – ha spiegato – centrale è arrivare alla persona, anche al di là del suo bisogno economico: cerchiamo di aiutarli anche nell’affrontare questioni come la ricerca del lavoro, della casa o il pagamento delle bollette. Anche così si può iniziare a dar vita a una vera integrazione, a una socializzazione. Stiamo – ha concluso – lavorando per unire tutti i Centri di ascolto presenti in città, perlopiù nelle parrocchie».

Storia e bellezza da valorizzare

Infine, Paolo Micalizzi ha presentato il cinema di don Massimo Manservigi, nostro Vicario Generale, ed è stato proiettato il suo documentario “Appunti e visioni per una Città e la sua Cattedrale”, visibile in Duomo in occasione della mostra sui restauri. Un esempio, questo, della bellezza di Ferrara e della sua ricchezza dal punto di vista storico-artistico, che andrebbe maggiormente valorizzato.

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 23 dicembre 2022

La Voce di Ferrara-Comacchio

Più vecchi, meno bimbi: a Ferrara e provincia il declino è costante

5 Dic

I dati riferiti al Ferrarese e alla nostra Regione: sempre meno nascite e giovani, sempre più anziani. Più immigrati, ma non sufficienti per riposizionare la “piramide ribaltata”

di Andrea Musacci

La stagione invernale è ormai alle porte. Ma un altro inverno, non ciclico e molto più pericoloso, da molti anni minaccia sempre più il nostro territorio: quello demografico. 

I dati che arrivano dall’Istat ed elaborati o rielaborati a livello regionale e provinciale, sono più che mai allarmanti. Da tempo si parla di “piramide ribaltata”: sono gli anziani a sostenere i giovani, e non viceversa. Ma non si può parlare di emergenza: la tendenza, infatti, è in atto da diversi anni, gli allarmi sono già stati ripetutamente lanciati. È bene, però, ricordarlo, tornarvi a riflettere, analizzando nello specifico i dati e le previsioni più recenti.

In questo ci aiuta il convegno “Lo squilibrio demografico tra denatalità e senilità” svoltosi lo scorso 30 novembre e organizzato dal CDS (Centro Documentazione Studi) Cultura nella sede del CNA Ferrara. 

Dopo l’apertura di Cinzia Bracci (Presidente CDS) e Paola Poggipollini (Direttivo CDS), sono intervenuti Franco Chiarini e Gianluigi Bovini (demografi e statistici), Cecilia Tassinari, Fabjola Kodra (Ricercatrice IRES) e Chiara Sapigni (Responsabile Ufficio Statistica della Provincia di Ferrara).

I diversi dati delineano grosso modo lo stesso quadro d’insieme: la nostra Regione, e in particolare Ferrara e provincia, ha sempre meno giovani e sempre più anziani (gli over 65 hanno superato gli under 25), e un numero buono ma non sufficiente di immigrati.

Nemmeno i migranti possono fare miracoli

Chiarini e Bovini hanno presentato la loro ricerca compiuta a livello regionale su dati Istat. Nel 2020-2022 l’Emilia-Romagna ha visto calare la propria popolazione (pur nelle forti differenze, ad esempio, tra la zona della via Emilia, e quella meridionale della montagna), che prima del 2020 invece era in aumento grazie agli immigrati stranieri. Nel 2020 in Regione vi sono stati 59mila decessi e meno di 30mila nati. Nel 2021 è andata un po’ meglio, ma nel 2022 vi sono 13mila morti in più rispetto al 2015-2019. Per Bovini, questo dipende in particolare dalla crisi climatica, in quanto «si registra un numero alto di decessi fra gli anziani nel periodo estivo». 

Più nel dettaglio, nell’ultimo biennio la nostra provincia ha registrato un calo dell’1,4% di popolazione, e ne è previsto uno ulteriore del 5% fino al 2030. Secondo i dati raccolti dall’Ufficio Statistica della nostra Provincia, e riportati da Chiara Sapigni, da 350mila abitanti nel 2000 nel Ferrarese, oggi (al 1° gennaio 2022) siamo a circa 340mila, quindi vi è stato un calo, ma non così rilevante. Nello specifico, continuano a diminuire i giovani e ad aumentare gli stranieri, anche se nel Ferrarese di quest’ultimi abbiamo la percentuale più bassa (10,4%, dati IRES-CGIL). 

Tornando al livello regionale, per Chiarini e Bovini «siamo già molto in ritardo nell’affrontare questi problemi. E i movimenti migratori riescono a compensare il deficit tra nati e morti solo quando questo è limitato. Quando, invece, è più forte, nemmeno l’immigrazione può risolvere più di tanto». Inoltre, per continuare a essere “attrattivi” nei confronti degli immigrati (sia dall’estero sia da altre regioni d’Italia) bisognerebbe essere in grado di conservare livelli alti per i servizi fondamentali.

Essere giovani nel Ferrarese

Siamo la provincia con meno giovani, e con record non invidiabili. Il focus sulle nuove generazioni lo presenta Fabjola Kodra, giovane ricercatrice IRES-CGIL. 

I giovani nella fascia d’età 15-34 anni nel ferrarese sono il 15,7%, numero più basso della Regione, con la percentuale più alta a Cento, e tra le inferiori a Copparo e Jolanda. Negli ultimi 20 anni Goro ha perso il 12,7% di giovani. Un dato importante è che nella nostra Provincia quasi 1 straniero su 3 è giovane (il 30%).

Venendo all’ambito lavorativo e di studio, anche nel Ferrarese aumentano i lavori più precari, stagionali, rispetto agli over 35; e nello specifico, le donne sono le più precarie in assoluto. Poi ci sono i Neet, quei giovani che non studiano né lavorano: anche fra questi, la maggioranza sono donne. Ultimo, il tema della dispersione scolastica: nonostante il PE.CO. (progetto regionale), i giovanissimi 15-18 anni che abbandonano precocemente gli studi sono l’11,3% a livello regionale, mentre nel Ferrarese sono il 21%, con picco del 30% a Goro.

Previsioni plumbee

È chiaro, quindi, ha riflettuto Bovini, che «questi problemi non vanno affrontati giorno per giorno ma con uno sguardo sul lungo periodo». Le previsioni stesse non possono che essere negative, anche se fino al 2030 la nostra Regione sarà l’unica in Italia insieme al Trentino a conoscere un aumento, pur lieve, della popolazione. Numeri drammatici riguardano, invece, il Meridione.

Oggi nella nostra Regione l’età media è di 85 anni per le donne, 80 per gli uomini, ma la speranza di vita potrebbe aumentare rispettivamente a 86,4 e 82,7. Dall’altra parte, fra 15 anni ci saranno meno giovani 15-29 anni e quindi anche un ricambio lavorativo fortemente deficitario. «È giusto incentivare la natalità – ha proseguito Bovini -, ma in ogni caso le future possibili mamme saranno comunque un numero ridotto. Bisogna – secondo lui – quindi ragionare seriamente sui flussi migratori per avere nuova forza lavoro». Anche qui: l’unico vero aumento dei giovani in futuro sarà dato dalla natalità maggiore, oggi, degli stranieri. 

E poi c’è la sfida della longevità: con l’aumento dell’aspettativa di vita, aumentano gli anziani. Da anni, Ferrara e provincia stanno anticipando ciò che accadrà anche nel resto dell’Emilia-Romagna: nel 2030 l’indice di vecchiaia in tutta Regione sarà ben più alto rispetto a oggi. Le previsioni Istat dicono che dal 2030 al 2070 in Regione 1 persona su 3 avrà più di 64 anni.

Aumenteranno, di conseguenza, anche le persone o coppie anziane sole. Già oggi nella nostra Provincia 1 over 65 su 3 vive da solo, secondo la ricerca di Luca Paganelli (laureando in Scienze Politiche a UniBo) riportata da Cecilia Tassinari. 

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 9 dicembre 2022

La Voce di Ferrara-Comacchio

«Il lavoro è il motore della società»: la voce dei sindacati verso il 1° maggio

26 Apr

La parola ai Sindacati confederali: dignità, persona e comunità sono i termini più ricorrenti. Abbiamo interpellato i tre Segretari provinciali per ragionare sui fronti aperti, sul senso del 1° maggio e sul ruolo del sindacato

a cura di Andrea Musacci
“L’Italia Si Cura con il lavoro” è il tema scelto a livello nazionale da CGIL, CISL e UIL per il 1° maggio di quest’anno. Per l’occasione ci siamo rivolti ai Segretari ferraresi delle tre sigle per fare il punto sulla situazione nel nostro territorio e ragionare su che senso ha una Festa come quella del 1° maggio in un’epoca dove il lavoro è spesso precario, sommerso e “disperso”.
Agricoltura, sanità, scuola, chimica sono solo alcune delle categorie storicamente tutelate ma nelle quali l’azione sindacale è sempre necessaria. E poi ci sono i nuovi fronti, come quello dei riders e del cosiddetto smart working.Insomma, dove il lavoro manca o è sfruttato o precario, è la democrazia stessa a venir meno o a essere indebolita. Con conseguenze nella vita di tutti.


Cristiano Zagatti (CGIL): «anche nel ferrarese tanti lavoratori non sono tutelati. Diamo voce a loro, agli sfruttati e ai precari di ogni categoria»

«La ricchezza prodotta concentrata in sempre meno “tasche”, il profitto come unico fine, lo sfruttamento della forza lavoro, la violenta e sleale competizione tra aziende contrapposta alla cooperazione e al rispetto della legalità, la politica dello scarto applicata alla persona sono alcune scelte politiche nate ben prima della pandemia». Una lucida analisi sul perché è importante il 1° maggio e il sindacato ce la propone Cristiano Zagatti, Segretario Generale CGIL Ferrara.
Lo schema dell’attuale sistema economico «è sempre quello: rendere meno tutelate le persone per sfruttarle e metterle in contrapposizione tra loro. Quando riusciremo a comprendere che non è un problema solo degli ultimi, allora potremo sperare in qualche miglioramento per tutte/i». In questi anni, «come CGIL abbiamo difeso il valore dei Contratti Collettivi Nazionali, con la contrattazione nelle aziende organizzate, sottoscritto importanti contratti provinciali sottoscritti, oltre al patronato e alla tutela fiscale, ma non è sufficiente». Infatti, per Zagatti, «la maggior parte del lavoro in provincia di Ferrara è fuori dalle grande aziende e dalla tutela sindacale. Decisamente meno efficace, quindi, è stata la nostra azione di contrasto al processo di frammentazione del mondo del lavoro e alla tutela di chi l’ha subito». A chi parla, quindi, nel 2021 la Festa del 1° maggio? «Questo 1° Maggio deve dar voce al lavoro a rischio, maltrattato, sfruttato, precario, insicuro e perso. Non sarà l’egemonia del capitale economico e finanziario ad offrire ai più nuova ricchezza. La Festa ha senso per far rientrare di nuovo il lavoro al centro della percezione e dell’immaginario collettivo. Il lavoro come motore della società e non solo visto come produttore di ricchezza. Il lavoro di chi non può fermarsi per garantire prodotti, servizi, cura ed assistenza primari e, allo stesso tempo, il lavoro di chi è obbligato ad attendere o a rallentare e oggi è disperato».


Bruna Barberis (CISL): «costruiamo insieme una società solidale dove nessuno resti indietro»

«Siamo in una fase storica in cui c’è bisogno di costruire un modello di società responsabile, coesa e solidale. Una società oltre confine, dove nessuno resta indietro e dove il lavoro da sempre è emblema di dignità, realizzazione, crescita per la persona e per la comunità». Così riflette a “La Voce” Bruna Barberis, Segretaria Generale CISL Ferrara.«A livello locale – prosegue -, la CISL assieme a CGIL, UIL e alle Federazioni di categoria, affronta tutti i temi che coinvolgono la centralità della persona. Il confronto, spesso difficile e a volte impedito dalla non volontà di riconoscere il ruolo delle Organizzazioni Sindacali, rimane comunque lo strumento principe della nostra azione». «La pandemia ha messo in evidenza i limiti strutturali dell’economia della nostra provincia. Abbiamo davanti a noi una straordinaria occasione legata alle risorse economiche previste dal PNRR (Piano nazionale di ripresa e resilienza, ndr), ma solo se sapremo cogliere l’opportunità per costruire un progetto condiviso che affronta i temi della salute, delle donne, dei giovani, degli anziani, se sapremo indirizzare l’economia e il tessuto produttivo nel rispetto della sicurezza, della legalità e dell’ambiente, se agiremo come una sola intelligenza collettiva». Per questo, «la CISL, assieme a CGIL e UIL – conclude -, è impegnata a dare il proprio contributo alla discussione iniziata al Tavolo provinciale dell’Economia e del Lavoro, confronto che abbiamo subito richiesto come Organizzazioni Sindacali».


Massimo Zanirato (UIL): «siamo dove c’è un sopruso. Dai riders al Petrolchimico: ecco i fronti»

«I compiti della UIL – ragiona con noi Massimo Zanirato, Segretario Generale UIL Ferrara – sono tanti e si concentrano in particolare dove viene meno un diritto, dove c’è un sopruso, un’ingiustizia o una discriminazione (come nel caso dei migranti). I tempi sono cambiati ma la necessità di rivendicare nuovi diritti è attualissima: penso al diritto di disconnettersi per il lavoratore in smart working o il diritto alle ferie e alla malattia dei riders».  Tanti i fronti aperti: «a livello nazionale cito ad esempio la campagna “Zero morti sul lavoro” a tutela delle troppe vittime e sul mantenimento del blocco dei licenziamenti e degli ammortizzatori sociali per tutto il periodo pandemico». Nel ferrarese, invece, «le nostre categorie hanno fatto intese per il distanziamento sociale nei luoghi di lavoro, per la Cassa integrazione per il Covid, fornito assistenza nei licenziamenti individuali. Ci siamo occupati di vertenze aziendali come ad esempio Berco, ma anche di tutelare i lavoratori agricoli discontinui che nella nostra provincia sono tanti. La categoria dei chimici, poi, è impegnata nella vertenza che vede il Petrolchimico rischiare il proprio futuro a causa della chiusura del cracking di Porto Marghera che alimenta le produzioni ferraresi. Bisogna evitare – conclude – che i tempi della giusta conversione “green” del Petrochimico veneziano penalizzi le nostre produzioni tradizionali mettendo a repentaglio non solo i 1600 dipendenti del Petrolchimico estense, ma anche le diverse migliaia di addetti delle imprese della logistica, dei servizi e delle manutenzioni che al Petrolchimico lavorano e delle aziende della trasformazione della plastica delle nostra regione».

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 30 aprile 2021

https://www.lavocediferrara.it/

Storia degli Hirsch, storia di Ferrara

4 Gen
Immagine fornita da Paola Perelli

Il progetto di ricerca de “Ilturco” sul Lanificio Hirsch: lavoro, diritti delle donne e antifascismo

Una famiglia di imprenditori di origine ebraica all’avanguardia nella lavorazione della lana e pesantemente osteggiata dal regime fascista.
È su questo spaccato del Ventennio, e più in generale della prima metà del Novecento, che l’associazione ferrarese “Ilturco” guidata da Licia Vignotto sta lavorando per riportare alla luce la storia di un pezzo della storia della nostra città e non solo.
Il progetto “C’era una volta il Lanificio Hirsch” – sostenuto e promosso dalla Regione Emilia-Romagna, realizzato in collaborazione con l’Istituto di Storia Contemporanea, il Museo del Risorgimento e della Resistenza, Anpi Ferrara, con il supporto del Servizio Biblioteche e Archivi del Comune di Ferrara – intende raccontare la storia della famiglia Hirsch, che dal 1885 al 1939 gestì a Ferrara uno dei primi e più importanti maglifici italiani. La ditta, insediata nel 1885 in via Fondobanchetto, poi trasferita nel 1909 in via Aldighieri, con ulteriori laboratori in città e in provincia (in corso Porta Reno, a Comacchio, Copparo e Bondeno), impiegava oltre 400 addetti, soprattutto giovani e giovanissime donne, dai 12 anni d’età in su. All’avanguardia a livello imprenditoriale e tecnologico, anticipò certe forme di welfare aziendale. La storia è stata ricostruita grazie a una ricerca che ha compreso – oltre allo studio delle fonti archivistiche e bibliografiche – diverse e inedite testimonianze raccolte in un mese e mezzo grazie a tanti figli o nipoti di ex dipendenti Hirsch. Fra le testimonianze raccolte, quella di un allora 16enne, attivo nell’UNPA, che nel ’44 insieme a Renato Hirsch spense le fiamme divampate nel Lanificio in via Aldighieri a causa dei bombardamenti. La ricerca si concluderà nel 2021 con la realizzazione di un documentario diretto da Andrea Bighi contenente interviste, fra gli altri, ad Anna Quarzi dell’ISCO Ferrara, agli storici Andrea Baravelli e Michele Nani e a Gian Paolo Bertelli, amico degli Hirsch.
Il primo Hirsch ad arrivare a Ferrara si chiama Seligman, un ebreo tedesco originario del Würtemberg, commerciante di lana che si trasferisce qui all’inizio dell’’800, per scappare da vessazioni antisemite. Il Lanificio Hirsch apre grazie all’operosità di Carlo, nipote di Seligman, che inizialmente gestisce una 40ina di donne nella produzione di berretti in un laboratorio di via Contrari. Grazie all’acquisto delle macchine tedesche Rachel (omaggio a Elisabet Rachel Felix, cantante e attrice ebrea di fama europea) – Carlo Hirsch è il primo in Italia ad acquistarle – l’azienda compie il salto di qualità, arrivando a produrre anche calze, sciarpe, maglie da ciclismo, costumi da bagno, vestiti per bambini e i celebri scialli ricamati “uso Berlino”.
Ma accanto all’aspetto tecnologico, l’innovazione riguarda anche la tutela dei diritti delle giovani dipendenti, tante di loro alla prima esperienza lavorativa e quindi di emancipazione: hanno, infatti, la possibilità di trascorrere molto tempo fuori casa, di attraversare la città da sole, di fare amicizia con tante coetanee. Alcune signore della buona società creano per loro anche dei Ricreatori festivi, dove si organizzano incontri e corsi «allo scopo di proteggere le giovani operaie e preservarle dai pericoli in cui possono incorrere nei periodi di inattività». Gli Hirsch adottano politiche di welfare aziendale innovative per quei tempi, come la Cassa infortuni e la Cassa malattie, gite aziendali, colonie per i figli delle dipendenti, prestiti a tasso zero per acquistare la casa, e l’asilo nido (0-3 anni) inaugurato nel 1925 in via Cittadella, in corrispondenza dell’attuale palazzo dell’Inps, per accudire i figli delle dipendenti. Le operaie potevano addirittura assentarsi dal lavoro per allattare i loro bambini.
Ma il clima in città in pieno Ventennio è particolarmente pesante per gli ebrei e per chi non voglia sottostare alle angherie fasciste. Renato Hirsch, che nel 1923 eredita la ditta dal padre Carlo, rifiuta qualsiasi rapporto con i locali esponenti del regime: non espone il tricolore fuori dallo stabilimento nell’anniversario della marcia su Roma, non assume operai raccomandati, non si presta a favori. Per questo già nel 1925 viene pesantemente minacciato dalle pagine del Corriere Padano. Come risposta a tutto ciò, inizia ogni sera a passeggiare sul Listone con una rivoltella infilata nella cintura, per vedere se qualcuno davvero ha il coraggio di sfidarlo. Il fascio locale intendeva anche incendiare la fabbrica ma sarà il Prefetto a fermare all’ultimo momento il criminoso progetto. Nel 1939, un anno dopo l’inizio delle leggi razziali, l’attività del Lanificio Hirsch si conclude con la requisizione della fabbrica da parte dei fascisti. Dopo la guerra passerà a un’altra società che la guiderà fino agli anni ’80.
Testimonianze e foto sul Lanificio Hirsch si possono inviare a info@ilturco.it o chiamando il numero 339-1524410.
Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” dell’8 gennaio 2021

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Un’eco-politica per non sprofondare nell’Inferno 2.0

26 Ott

Intervista ad Andrea Gandini (Cds) in occasione della presentazione dell’Annuario Socio-Economico: critica del neocapitalismo e proposte a partire da donne e giovani

La 33esima edizione dell’Annuario Socio-Economico Ferrarese – dedicata ai temi dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile dell’Onu – sarebbe dovuta uscire la scorsa primavera 2020, ma il Covid ha bloccato tutto.
L’Annuario 2020 è quindi stato pubblicato a marzo sul sito del Centro ricerche Documentazione e Studi (Cds) di Ferrara (https://www.cdscultura.com), Associazione presieduta da Cinzia Bracci. Successivamente, appena possibile, è stato anche stampato: un’edizione, quella cartacea, che raccoglie anche ulteriori contributi di alcuni degli autori presenti nella versione online e di nuovi, alla luce della sopravvenuta emergenza sanitaria ed economica. Cds Cultura ha presentato il volume il 9 e 10 ottobre scorso nella sede del Consorzio Grisù in via Poledrelli a Ferrara all’interno del Festival dello Sviluppo Sostenibile di ASviS (Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile). Una terza sessione di presentazione dell’Annuario si terrà il 13 novembre (Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne), interamente dedicata all’Obiettivo 5 – Parità di Genere.
Come accennato, l’Annuario 2020 è stato organizzato secondo i principi di Agenda 2030, come primo esperimento in Italia di rapporto elaborato a livello locale con il contributo di una molteplicità di autori provenienti da quella rete articolata che ASviS e la stessa Agenda 2030 auspicano: docenti, ricercatori, imprese, associazioni di categoria e sindacati, professionisti, rappresentanti delle categorie economiche, sindacali, dell’associazionismo e del volontariato. Ogni capitolo dell’Annuario corrisponde a un obiettivo di sviluppo sostenibile.
Se guardiamo all’imperversare di nazionalismi, all’acuirsi delle contraddizioni del neocapitalismo, alla crisi ecologica, aveva ragione Antonio Gramsci quando scriveva: «Il vecchio mondo sta morendo. Quello nuovo tarda a comparire. E in questo chiaroscuro nascono i mostri». Abbiamo interpellato Andrea Gandini, Direttore dell’Annuario e membro del Comitato direttivo del Cds, per analizzare questa grave situazione a livello globale e delineare alcune direttive per immaginare un sistema socio-economico differente.
«Con la fine del comunismo reale si è pensato che il capitalismo liberista e uno stile di vita consumista e individualista fosse l’unico “modello” positivo che avrebbe aumentato la ricchezza, una sua migliore distribuzione, la qualità della vita», riflette con noi Gandini. «Dopo 30 anni sappiamo che le cose sono andate molto diversamente. In alcuni Paesi poveri, in Cina, India almeno un miliardo di persone sono uscite dalla povertà e oggi hanno buoni salari, così come vantaggi enormi sono andati a tutti i ricchi del mondo (circa 50 milioni), ma i salari di operai, commercianti, artigiani e dei ceti medi europei e americani non sono cresciuti (circa 700 milioni). E sono soprattutto aumentate le minacce ambientali al pianeta al punto tale che, se dovesse proseguire questo tipo di produzione e consumo, porterebbe nell’ipotesi peggiore all’estinzione della specie umana e, in quella migliore, a un Inferno 2.0 che consegnerebbe ai nostri figli un mondo inospitale tra riscaldamento globale, crescenti alluvioni, siccità, tornado e pandemie prodotte dalla deforestazione e crescente urbanizzazione. In sostanza la qualità della vita di quasi tutti sta peggiorando».
Ma la gravità della situazione e il pessimismo a cui sembra portare riguardano anche altri ambiti. «Le grandi multinazionali del web e farmaceutiche – prosegue Gandini – “spingono” per portarci in un mondo dove domini il digitale (web, tv, virtuale) e tendono a farci credere che le cure debbano avvenire soprattutto attraverso farmaci e vaccini, anziché pensare innanzitutto a come migliorare la qualità della vita. Un mondo, insomma, che gradualmente distrugge la vita di relazione, le comunità locali, le famiglie e dove tutti saremo più soli e dipendenti».
Gli chiediamo allora se è ancora possibile – con la fine delle grandi utopie e un presente malato come quello che ci tocca vivere – immaginare un sistema più fraterno, e in che cosa sostanzialmente si distinguerebbe dall’attuale. Un sistema dove, come scrive il Papa in “Fratelli tutti”, «il diritto di alcuni alla libertà d’impresa o di mercato non può stare al di sopra dei diritti dei popoli e della dignità dei poveri; e neppure al di sopra del rispetto dell’ambiente» (FT 123). Un pianeta, quindi, quello dove abitare, «che assicuri terra, casa e lavoro a tutti», come «vera via della pace» (FT 127).
«Bisogna cambiare strada – riflette con noi Gandini -, come dice il Papa e come recita il titolo dell’ultimo libro di un grande vecchio, Edgard Morin. Un’economia basata sull’uso indiscriminato delle materie prime e dei rifiuti deve lasciare posto a un’economia circolare che produca pochissimi rifiuti. I ricchi devono tornare a pagare le tasse, almeno più di oggi se non proprio come una volta, l’iva deve alzarsi sui consumi che inquinano, i poveri devono essere aiutati localmente da chi – Comuni e associazioni di volontariato – li conosce e non dall’Inps e non solo con soldi ma con servizi personalizzati. Con il crollo della natalità – prosegue nell’analisi – dobbiamo programmare flussi di immigrazione legale in modo che, come avviene negli altri Paesi europei, gli immigrati lavorino, siano integrati nella nostra cultura e portino benessere a tutti. Le aziende devono tornare ad aiutare i propri dipendenti e la comunità locale. La politica deve investire nella sanità territoriale, nei medici di famiglia, nella scuola, il cui modello di apprendimento va cambiato integrandolo con laboratori manuali, artistici, con uscite all’aperto, rafforzando l’alternanza scuola-lavoro, pagando di più i maestri, facendo seri concorsi».
Infine, ma non certo meno importante, «gli anziani possono rimanere più anni al lavoro con un part-time in modo da aiutare i colleghi e i giovani, mentre le donne devono essere assunte – insieme agli stessi giovani – in maggior numero perché da loro dipende il futuro del Paese. Politiche che i Governi devono fare se non vogliamo continuare a declinare».
E della concretezza il Cds fa la propria ragione d’essere, senza mai fermarsi ad analisi pur precise e profonde. Di riforme praticabili, frutto di concrete sperimentazioni e ampiamente trattate nell’Annuario 2020, Gandini ha accennato anche intervenendo nel sopracitato incontro del 9 ottobre scorso a Grisù.
Oltre a quelle condivise con noi, citiamo «l’allargamento dell’ascolto e della partecipazione alle istanze della società civile organizzata che hanno esperienze consolidate e l’apprendere dalle buone pratiche», oltre a «un nuovo Piano del lavoro sostenibile nazionale, regionale e comunale – anche come leva per rinnovare le stesse burocrazie -, che porti all’inserimento di giovani con contratti di Prima Esperienza, all’implementazione della transizione dagli studi al lavoro (partendo da Istituti Tecnici e Professionali), al potenziamento dell’alternanza scuola-lavoro».
«Non ci salverà la crescita di un capitalismo tecno-economico – conclude Gandini – ma solo i cambiamenti negli stili di vita personali uniti a un’eco-politica basata sul lavoro e la creatività dei nostri giovani e delle donne».
Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 30 ottobre 2020

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Duomo, riparte il cantiere interno

8 Giu

Don Zanella (Ufficio Tecnico diocesano): “non sappiamo ancora quando riaprirà”. In autunno i lavori nel Palazzo Arcivescovile

a cura di Andrea Musacci

F 2 - crocifisso rotot nel sisma 2012È ufficiale: l’8 giugno, dopo quasi un anno di sospensione, ripartono i lavori all’interno della Cattedrale di Ferrara. In questo periodo di emergenza legato al Coronavirus, tutti i cantieri hanno dovuto fermarsi. Solo un mese fa, dal 27 aprile, e molto gradualmente, sono stati un po’ alla volta riaperti. Ora tocca anche ai lunghi e complessi lavori riguardanti il nostro Duomo, chiuso al pubblico, lo ricordiamo, da marzo 2019. È una notizia tanto attesa e che non può che ridare speranza. L’incertezza del periodo non può però che riguardare anche le prossime tappe degli interventi. In ogni caso, come ci spiega don Stefano Zanella, Direttore dell’Ufficio Tecnico Amministrativo diocesano, “gli Uffici della Regione Emilia-Romagna e della Soprintendenza hanno continuato a lavorare autorizzando così il progetto presentato dall’Arcidiocesi e che riguarda i primi due pilastri della Cattedrale”. Gli interventi consistono nella “spicconatura, bendaggio e pulitura dei due soggetti ad oggi indagati e nel rafforzamento – tramite barre filettate iniettate all’interno – del pilastro che è stato identificato come pilota. Si proseguirà anche con l’indagine nei restanti di questi elementi architettonici per perfezionare questo tipo di lavoro su ogni parte dell’edificio. Indagando sui primi due pilastri – sono ancora parole di don Zanella -, agli antipodi della Cattedrale uno rispetto all’altro, si è potuto valutare un comportamento differente e proprio per questo si è adattato l’intervento unitario alle due specificità”. Dalla prima indagine era infatti emerso come i pilastri vennero costruiti attorno alle antiche colonne medievali (foto in basso a destra). Pilastri che, però, essendo tutti differenti fra di loro, richiedono di essere analizzati singolarmente. Per questo motivo, “i lavori che verranno successivamente realizzati sono conservativi e di rafforzamento locale per riuscire a restituire alla mole della basilica la solidità necessaria per poterla riaprire al culto. “Non siamo ancora in grado di stabilire date certe per la ripresa della normale vita liturgica e delle visite all’interno del massimo tempio cittadino – prosegue -, ma come accaduto già all’inizio di questo lungo percorso di recupero, continuiamo a cercare soluzioni fattibili e di sicurezza per venire incontro alle esigenze di tutti: sacerdoti, fedeli e turisti. Ringraziamo oggi – come otto anni fa – la competenza e l’attenzione da parte dei tecnici dell’Agenzia per la Ricostruzione e il Servizio Geologico, Sismico e dei Suoli della Regione Emilia-Romagna. Non manchiamo di sottolineare anche la presenza competente e collaborativa dei tecnici della Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Bologna oltre che del Segretariato Regionale per i Beni Culturali”. In questi giorni ricorre il doloroso anniversario del sisma che nel 2012 colpì anche le nostre terre. “Da quei fatidici 20 e 29 maggio di otto anni fa – riflette don Zanella -, anche se con rammarico non sempre siamo stati in grado di restare al passo con i tempi burocratici, comunque come Ufficio Tecnico Amministrativo siamo riusciti a seguire le procedure di gare d’appalto e rendicontazione richieste dalla legislazione vigente”. Riguardo ai lavori sul campanile della Cattedrale, “richiamati” dall’impalcatura ancora presente sui vari lati, essendo, come per la facciata del Duomo, Stazione appaltante il Comune di Ferrara, la tempistica è differente. Per quanto riguarda, invece, gli interventi all’interno del Palazzo Arcivescovile, ci spiega don Zanella, “si sta completando la gara d’appalto. Molto probabilmente i lavori inizieranno il prossimo autunno”. Il pensiero, infine, va anche ai tanti altri progetti in Diocesi: “c’è ancora molto da realizzare, penso ad esempio alle parrocchie di Porotto o di Vigarano Mainarda che sono ferme in fase di progettazione e di autorizzazione. L’Ufficio Tecnico Amministrativo diocesano con impegno, perseveranza e professionalità, continua a sollecitare i tecnici incaricati ed i funzionari affinché quanto prima si possano vedere realizzati i cantieri e i lavori per restituire anche questa preziosa parte di patrimonio ecclesiastico alla comunità”.

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Cronistoria dei “tormentati” lavori sui pilastri

È ormai passato un anno e mezzo da quando è stata aggiudicata la gara d’appalto (vinta dallo Studio Leonardo s.r.l. di Bologna) e sono iniziati i lavori sugli otto pilastri del Duomo ferrarese. Tra novembre e dicembre 2018, interrotte le operazioni sulla facciata, partì il cantiere interno all’edificio, che rimase aperto al pubblico fino al marzo successivo. Si è iniziato dal cosiddetto “pilone prova”, che, come toccherà agli altri, ha subito un intervento invasivo, una “svestizione” totale da intonaco, affreschi, fregi e statue, per riuscire a vedere e a rafforzare il pilastro originario, com’era cioè nella costruzione o almeno nell’ultimo secolo e mezzo. I lavori sono durati alcuni mesi e a fine luglio scorso è stato presentato il progetto – poi approvato – per il restauro alla Commissione congiunta, con i risultati sui primi pilastri. Ricordiamo anche come lo scorso ottobre, dopo tre anni e mezzo, buona parte dell’impalcatura della facciata (ad eccezione del protiro) venne rimossa insieme al telone artistico realizzato da Lorenzo Cutùli, non sapendo quando potranno essere ripresi i lavori. Infine, lo scorso dicembre un’altra speranza, pur con tutte le cautele del caso, era stata data da don Zanella nel corso della conferenza stampa di fine anno: quella di poter riaprire (in alcuni giorni, in alcuni orari) nei primi mesi del 2020 la parte del transetto dell’Altare della Madonna delle Grazie. Il lockdown ha tolto ogni dubbio.

Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 5 giugno 2020

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“Smart working? Nell’Università di Ferrara già da anni è realtà”

11 Mag

Intervista al prof. Enrico Deidda Gagliardo: “nel nostro Ateneo abbiamo iniziato nel 2012 col telelavoro. Lo smart working non dev’essere uno strumento solo emergenziale ma può diventare un’opportunità strutturata”. Le proposte per affrontarne le criticità, fra cui il diritto alla disconnessione e quelle legate ai rischi per la salute, soprattutto in un periodo come questo

a cura di Andrea Musacci

smart 2Questa lunga fase emergenziale, di cui conosciamo l’inizio ma non ancora la fine, come tutte le crisi sta mostrando in maniera forte virtù e contraddizioni del nostro sistema sociale, produttivo e comunicativo. Al tempo stesso, sta accelerando la conoscenza e l’utilizzo di strumenti e pratiche, come ad esempio lo smart working, o lavoro agile, erede del telelavoro. Padre Francesco Occhetta su “Civiltà Cattolica” del febbraio 2017 spiegava: “Il lavoro agile non è semplicemente lavorare a casa, ma consiste nell’orientare la prestazione al risultato e non ‘al tempo’, garantire che il lavoratore cresca nella conoscenza, proteggere il professionista indipendente”. L’intento sarebbe dunque quello di “restituire al lavoratore autonomia, flessibilità e responsabilità sui risultati, mentre al datore di lavoro è richiesto di dare fiducia e ripensare le modalità del controllo”. Lo smart working in Italia è stato introdotto proprio tre anni fa, grazie alla Legge 81. La Direttiva 2/2020 della Funzione Pubblica, nata durante l’attuale emergenza, ha innovato profondamente il quadro, definendo il lavoro agile come “modalità ordinaria di svolgimento della prestazione lavorativa”. In questo contesto eccezionale e in un certo senso obbligato, lo smart working ha raggiunto picchi elevati.

Per capire meglio di cosa si tratta e, nello specifico, come già da tempo viene utilizzato nell’Università degli Studi di Ferrara, abbiamo rivolto alcune domande al prof. Enrico Deidda Gagliardo, ordinario del Dipartimento di Economia e Management del nostro Ateneo, oltre che Prorettore Vicario e Prorettore delegato al bilancio, semplificazione organizzativa e valorizzazione delle risorse umane.

Professore, ci spieghi innanzitutto quali sono secondo lei i vantaggi dello smart working.

Lo smart working è una modalità agile, intelligente e innovativa di organizzazione del lavoro, volta ad ottenere vantaggi reciproci del tipo win-win: da un lato, il lavoratore ha l’opportunità di conciliare i tempi di vita e lavoro, dall’altro l’amministrazione ha l’opportunità di veder crescere produttività e risultati. Natiuralmente, lo smart working funziona solo se agisce sulla motivazione, se viene percepito e vissuto come una spinta gentile al miglioramento (c.d. nudge); la crescita della motivazione lavorativa porta al miglioramento della salute organizzativa che, a sua volta, costituisce il presupposto per il miglioramento delle performance di una Pubblica Amministrazione (PA) e, attraverso tale via, per la generazione di Valore Pubblico. Il Valore Pubblico è, infatti, il miglioramento del benessere (economico-sociale-sanitario) degli utenti esterni e del contesto in cui vivono (ambiente) poggiante sul miglioramento della salute interna dell’ente.

A Unife era già attivo prima dell’emergenza…

In effetti è così, il nostro Ateneo ha precorso i tempi: già nel 2012 avevamo avviato le prime attività per l’applicazione del telelavoro, grazie all’intuizione e all’impulso del Comitato Unico di Garanzia e del Consiglio di Parità di Unife. Lo stesso anno ci siamo dotati di un apposito regolamento, nell’ottica di migliorare la salute organizzativa e lavorativa della nostra Università. Siamo stati tra i primi firmatari dell’accordo che inserisce l’Università di Ferrara nel network del Progetto VeLA (VEloce, Leggero, Agile: Smart Working per la PA) e facciamo parte del tavolo di coprogettazione della Regione Emilia-Romagna, pioniera e leader in tema di smart working, per la condivisione di buone prassi.

Nell’emergenza in corso, quindi, non vi siete trovati impreparati…

Fin dai primi giorni dell’emergenza, l’Università di Ferrara è stata in grado di mettere in sicurezza il proprio personale concedendo, tra le prime in assoluto, la modalità di lavoro agile a gran parte del personale tecnico-amministrativo (oltre l’80%), precedendo i provvedimenti governativi che, successivamente, ne hanno incentivato l’applicazione nelle PA. Inoltre, Unife si è dotata a titolo volontario di un “Piano di semplificazione & digitalizzazione” che già dal 2016 ci ha consentito di rendere più veloci alcuni nostri processi e più efficaci diversi dei nostri servizi. In questi mesi, lo smart working è stata una necessità, ma ci siamo resi conto che esistono modi alternativi al lavoro in presenza, ci siamo accorti che la digitalizzazione della PA, ancora perfettibile, già oggi consente di lavorare a distanza.

Come, nel futuro più o meno prossimo, lo smart working cambierà l’Ateneo?

Nello spirito del pay off Unife (“nel futuro da sempre”), volgiamo lo sguardo verso l’orizzonte e, lavorando ad un nuovo Regolamento sullo smart working, intendiamo trasformare quest’ultimo da necessità a opportunità strutturata di miglioramento per chiunque, in Unife, la voglia cogliere. Per tutto questo mi fa piacere ringraziare, per il prezioso lavoro, l’Ufficio “formazione e benessere”, l’ “Ufficio personale amministrativo” la Dirigente del Personale e il CUG, nelle persone che con cuore e coraggio ci stanno aiutando ad affrontare questa sfida di civiltà e innovazione. E non dimentico il dialogo costruttivo con le Rappresentanze sindacali.

Cerchiamo, più nel dettaglio, di analizzare possibili rischi e criticità legate allo smart working. Innanzitutto, riguardo al fatto che in molti si sono trovati impreparati, non essendo per nulla o sufficientemente formati.

In Unife, già da tempo, diverse lavoratrici e lavoratori avevano scelto di svolgere il telelavoro per vari motivi: figli piccoli, genitori anziani che avevano bisogno di cure quotidiane, distanze importanti dal luogo di lavoro. Con questa pandemia si è innescata una sorta di autoformazione sul campo, anche per chi non aveva mai sperimentato questa modalità di lavoro. E il grande lavoro di semplificazione e digitalizzazione dei processi svolto in questi anni ha consentito di mantenere operativi molti dipendenti che, diversamente, non sarebbero stati in grado di lavorare in remoto. Stiamo costruendo, poi, percorsi formativi mirati per innovare le competenze dei nostri smart workers.

Ancora: non tutti dispongono di un’ottima connessione internet o di dispositivi efficienti.

La volontà dell’Ateneo di portare avanti il “Piano di semplificazione & digitalizzazione” ci ha consentito di affrontare questa sfida con diversi strumenti già pronti. Il resto lo ha fatto il nostro staff informatico, nelle sue diverse anime, che ha fornito un grande supporto operativo ed è riuscito anche a rendere disponibili strumenti hardware, software e dispositivi di connessione. Abbiamo cercato di non lasciare solo nessuno, trovando un grande aiuto nella risposta solidale da parte di molti colleghi.

Un’altra questione di cui si discute molto è quella legata al fatto che per molti, lavorando da casa, sembrano non esistere più orari fissi, rischiando così di lavorare molto di più rispetto a prima. Non dovrebbe esistere per tutti il diritto alla disconnessione?

In Unife la forma di telelavoro attivata in fase emergenziale ha previsto una fascia di contattabilità ampia e sappiamo che molti collaboratori stanno dimostrando un impegno che va oltre le ore previste dall’accordo di telelavoro. L’attento monitoraggio dei responsabili e forme di “galateo istituzionale” tra colleghi ci aiutano a garantire il diritto alla disconnessione che è un principio cardine del lavoro agile e che l’Ateneo ha inserito nei propri regolamenti in materia.

Infine, a livello di salute – soprattutto psicologica – vi possono essere conseguenze sul lavoratore, nei termini di stress e alienazione?

Misure di lavoro agile in frangenti emergenziali possono enfatizzare alcune difficoltà. Da noi il gap iniziale del personale è stato colmato dal supporto fornito dagli uffici, dalla formazione in itinere e dai momenti di incontro “virtuale” organizzati tra colleghi. Inoltre, abbiamo realizzato una specifica area sul sito di Ateneo con link utili per affrontare questo periodo. Ma la vera forza, in questo momento, è il senso di comunità.

Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 15 maggio 2020. Leggi e scarica gratuitamente l’intera edizione su http://www.lavocediferrara.it .

“Vi racconto le atroci condizioni di lavoro di chi produce i vostri capi di abbigliamento”

15 Apr

Il 12 aprile a Ferrara è intervenuta la sindacalista del Bangladesh Kalpona Akter e, a seguire, lo scrittore Giuseppe Iorio, per svelare il sistema di sfruttamento perpretato dai grandi colossi della moda

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“Ogni volta che acquistate un capo di abbigliamento, cercate di chiedetevi: ’che impatto ha il mio acquisto sui lavoratori e sul sistema ecologico?’”. E’ stato questo il monito rivolto ai circa 70 presenti da Kalpona Akter, sindacalista alla guida del Bangladesh Centre for Worker Solidarity, organizzazione a difesa dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori. Una vita, la sua, spesa in questa missione fin dall’età di 14 anni. Ora ne ha 43 e gira il mondo per denunciare le pessime condizioni di lavoro nel suo Paese e in altre zone del mondo, e le forti responsabilità delle grandi multinazionali occidentali della moda. Il pomeriggio di venerdì 12 aprile è intervenuta a Ferrara (Consorzio Factory Grisù in via Poledrelli) per l’incontro “Il lato oscuro della moda”, organizzato da AltraQualità, cooperativa ferrarese di professionisti del commercio equo e solidale, in occasione del Fashion Revolution day, movimento nato per ricordare le vittime del disastro del Rana Plaza di Dacca (Bangladesh), dove morirono 1133 lavoratori a causa del crollo della fabbrica di abbigliamento, e per promuovere una moda etica e sostenibile. Un’alternativa concreta, ha cercato di spiegare David Cambioli di AltraQualità, a “un sistema economico insensato che, in nome del profitto, non tiene mai in conto i diritti dei lavoratori, negando la loro dignità e il futuro stesso”. “Ho iniziato a lavorare nell’industria tessile del mio Paese insieme a mio fratello, quando di anni ne avevo 12 e lui 10. Ora lotto per cambiare il mondo”. Così ha esordito Akter. “Il Bangladesh è il secondo esportatore al mondo di abbigliamento, dà lavoro a 4 milioni di persone, delle quali l’80% sono donne. Sono persone, però, che lavorano 11-12 ore al giorno per 84 dollari al mese”. Una miseria. “Persone che – ha proseguito – vivono e lavorano in condizioni pessime a livello igienico e di sicurezza, per non parlare degli abusi psicologici, fisici (anche sessuali) molto frequenti. Ma tutti accettavamo queste condizioni perché non conoscevamo i nostri diritti, e nessuno ce ne parlava”. Fino al giorno in cui Kalpona ha deciso che era ora di cercare di capire e di alzare la voce. “Ho iniziato a studiare la legislazione e ho scelto di iniziare a organizzare altre lavoratrici e altri lavoratori per reclamare i nostri diritti. Avevo 15 anni quando sono entrata nel sindacato, che però non era riconosciuto da Governo e imprenditori, e perciò sono stata licenziata. Ma ho continuato a lottare”. Uno delle più terribili stragi sul lavoro al mondo, perlomeno in epoca moderna, è quella sopracitata di Rana Plaza, avvenuta il 24 aprile 2013. “Dopo questo evento – ha proseguito Akter – si è arrivati all’approvazione di un Accordo sulla sicurezza delle fabbriche e delle costruzioni in Bangladesh”, non firmato però da alcuni colossi come Walmart. “Anche ora l’Accordo è in pericolo, perchè ostacolato da diverse industrie e con i grandi brand che minacciano di ritirare i propri investimenti nel Paese. Inoltre, diversi parlamentari del Bangladesh sono strettamente legati o fan parte dell’industria tessile. Ciò che non è proprio cambiato – sono ancora sue parole – è la libertà di organizzarsi in sindacati, perché chi vi aderisce, viene prima invitato a lasciare l’organizzazione, poi minacciato e infine licenziato. Ciò che vi chiedo – ha concluso – è di fare il più possibile pressione sui brand della moda affinché accettino condizioni dignitose per le lavoratrici e i lavoratori delle loro aziende in Bangladesh e nel resto del mondo. Chi per 30 anni ha lavorato dall’altra parte della barricata è Giuseppe Iorio, impegnato per grandi marchi – tra cui Moncler, Vuitton, Versace, Dolce & Gabbana – proprio nell’organizzazione delle fabbriche delocalizzate in Europa dell’Est e Africa, prima di decidere di denunciare questo iniquo sistema. Iorio ha presentato il suo libro “Made in Italy – Il lato oscuro della moda” (uscito circa un anno fa per Castelvecchi). “Spesso un capo di abbigliamento – ha spiegato – può riportare la dicitura ’made in Italy’, in realtà però non è stato realizzato in Italia ma in un paese dell’est Europa o del terzo mondo, dove la tassazione per le imprese sono molto più basse, e molto più deboli le tutele per le lavoratrici e i lavoratori, oltre a scarsi o inesistenti i vincoli a tutela dell’ambiente. Non esiste però ancora una legge che obblighi le imprese a indicare il luogo reale dove i prodotti vengono fabbricati”. Riguardo agli stessi salari, ad esempio in Romania o Bulgaria (Paesi dell’Unione Europea…) “sono in continuo ribasso da dieci anni”, a causa di questa competizione sfrenata per cui gli Stati, pur di attirare le grandi imprese convincendole a delocalizzare, abbassano appunto costo del lavoro, tasse e vincoli ambientali. Questo naturalmente non solo rende questi Paesi terre di conquista e di sfruttamento da parte dei grandi marchi, ma impoverisce gli stessi Paesi d’origine, come appunto l’Italia, che si vede portare via di continuo imprese, lasciando per strada migliaia di lavoratrici e di lavoratori.

Andrea Musacci

Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 19 aprile 2019

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Felisi, creazioni di grande qualità: «così l’azienda è cresciuta»

26 Apr

imagesNonostante la propensione globale, cuore e testa di Felisi rimangono saldamente a Ferrara. In via Giovanni Calvino, infatti, vi è la sede principale, con il laboratorio, gli uffici commerciali, la progettazione e lo show room. A poche centinaia di metri si trova un altro capannone dove avviene principalmente il taglio delle pelli. Ma come nasce Felisi? «Nel 1973 – ci spiega Anna Lisa Felloni – il mio ex marito ed io decidemmo di intraprendere quest’avventura. A quei tempi era più facile aprire questo tipo di attività, vi era molto fermento. Abbiamo iniziato in casa producendo cinture, per poi passare alle borse, rivolgendoci soprattutto a una clientela giovanile. La prima prodotta è stata una borsa porta campionario per un nostro amico rappresentante di maglieria: è un modello che produciamo ancora». Negli anni l’azienda è cresciuta, sempre più vi è stato bisogno di dipendenti, oltre che di laboratori, e sempre più grandi. «Quando siamo arrivati nell’attuale sede in via Calvino, ci sembrava così grande che ci chiedevamo come saremmo riusciti a riempirla: poi, negli anni abbiamo addirittura avuto bisogno di altri immobili…». Un periodo di crisi l’azienda l’ha vissuto nel ’93, quando le strade della Felloni e dell’allora marito si sono separate, ma da allora Felisi è ripartito ancora più forte, anche grazie ai fedeli clienti giapponesi.

Oltre alle due sedi nella zona della piccola media industria di Ferrara, dove avviene la lavorazione dei portafogli e di piccole quantità di borse, «abbiamo altri sei laboratori in provincia che lavorano solo per noi. In tutto abbiamo una settantina di dipendenti, quasi tutte donne a parte tre uomini: lo stilista Domenico Bertolani, il Direttore di Produzione e un tagliatore. Le pelli che lavoriamo – prosegue la Felloni – provengono tutte dalla Toscana, per la precisione da Santa Croce sull’Arno, e sono tutte conciate al vegetale». Infine, l’anno prossimo, per i 45 anni dalla nascita, vi è il progetto di una borsa speciale che verrà realizzata in collaborazione con Claudio Gualandi, dove verrà rappresentata “Casa Felisi”.

Andrea Musacci

Pubblicato su la Nuova Ferrara il 26 aprile 2017